5 | The Darkness Before Dawn;
«Fortunati coloro che
conoscono il nome del proprio cuore. Sono coloro il cui cuore non si perde mai
veramente. Possono sempre richiamarlo e farlo tornare a casa.»
Mark Blackthorn – Le Cronache
dell’Accademia. Cassandra Clare
La
brughiera che avevano incominciato ad attraversare quel mattino era piatta e
desolata, affatto adatta a nascondersi.
Per
questo Jace non si stupì, quando due paia di mani lo
sollevarono con violenza, rivelando la sua presenza dietro l’unico ammasso
roccioso nel raggio di un chilometro.
Un
sorriso obliquo gli accarezzò le labbra; non oppose resistenza, mentre i due
membri della Caccia lo trascinavano verso la grotta in cui riposava il resto
dell’esercito. Gli era stato alle calcagna per due giorni senza che nessuno se
ne fosse accorto: niente male.
Uno
dei due cavalieri – una fata dalle braccia massicce e lunghi capelli viola –
gli tirò indietro la testa per osservarlo.
“Nephilim” osservò con disgusto, mentre i suoi occhi
passavano in rassegna le rune lungo il suo corpo.
Il
sorriso di Jace si allargò.
“Fata”
lo schernì, imitando il suo tono nauseato.
Il
cavaliere sollevò una mano artigliata. Il compagno gli trattenne il braccio.
“Non
lasciarti provocare, Saiin” gli intimò, spingendo Jace in avanti. “Sai che a Gwyn
non piace quando giochiamo con gli intrusi prima che li abbia visti.”
Saiin assentì con un grugnito. Si consolò
mollando una ginocchiata al ragazzo, per farlo procedere.
Giunti
nella grotta i due cacciatori gettarono Jace a terra,
ai piedi di quello che doveva essere il loro capo.
Un
miscuglio di voci rozze e profonde si sollevò, mentre gli sguardi dei presenti
si concentravano su di lui.
Jace si alzò in piedi con calma, senza tradire il nervosismo che
gli pulsava nel petto.
Il suo
sguardo incrociò quello del colosso di fronte a lui, che lo fissava con sguardo
rapace: aveva gli occhi di due colori diversi – uno nero e l’altro di un
azzurro pallido – le orecchie a punta tipiche della sua specie e un elmo
decorato con corna di cervo. Una lunga spada di metallo, annerita e contorta,
era appesa alla sua cintura.
Jace lo riconobbe subito: prima di partire
aveva letto parecchi libri sulla Caccia e in ognuno di essi si parlava di Gwyn ap Nudd,
il suo condottiero.
“Chi sei,
Shadowhunter?” domandò il cacciatore, una mano
sull’elsa della spada: la sua voce ricordava il frusciare degli alberi al
vento. Non aveva parlato con il disgusto di Saiin, né
la sua espressione aveva lasciato trapelare alcun tipo di emozione.
“Mi chiamo Jace Herondale” rispose il
ragazzo, senza distogliere il contatto visivo. “Sì, sono un Nephilim, ma non vi stavo
seguendo per conto del Conclave. Sono qui di mia iniziativa.”
Qualcuno
alla sua sinistra incominciò a lamentarsi in una lingua sconosciuta – il suono
ricordava lo schioccare di rami morti.
“Scuoiamolo
vivo” sbottò in inglese un altro cacciatore, facendosi strada fra i compagni
per raggiungere la prima fila. “Strappiamogli quella corazza di disegnini.”
Gwyn alzò una mano per zittirli.
“Spiegati”
ordinò poi, rivolto a Jace.
Il
ragazzo allargò le braccia, come a voler dimostrare di non essere armato.
“Voglio
unirmi alla Caccia Selvaggia” rivelò, guardando Gwyn
dritto negli occhi. “Voglio diventare un Segugio di Gabriel.”
Un boato
di proteste si sollevò fra i presenti: qualcuno sputò verso Jace,
altri sembravano sul punto di aggredirlo.
Ancora
una volta, Gwyn li fece tacere con un cenno della
mano.
“I Nephilim
non sono i benvenuti, fra noi” replicò con freddezza, tornando a sfiorare
l’elsa. “Specialmente dopo la Pace Fredda. ”
“La
Pace Fredda vincola i rapporti con le Corti Terrene” l’informò Jace con un sorriso obliquo. “Voi le disdegnate e non avete
preso parte agli Accordi: ergo, nulla ci vieta di diventare migliori amici.”
Gwyn lo freddò con lo sguardo – nero e azzurro a graffiargli il
volto.
“Ci
hai seguito per giorni” osservò, esaminandolo: sembrava alla ricerca di
qualcosa. Un’arma nascosta, forse? “Se avessi davvero avuto intenzione di
unirti alla Caccia ti saresti mostrato subito.”
“Volevo
essere sicuro che mi avreste accettato” spiegò Jace.
“So che reclutate i mortali solo una notte all’anno: temevo di essermela
persa.”
“Non
possiamo fidarci di un Nephilim” intervenne Saiin,
spingendo un compagno da parte per avanzare: stava facendo dondolare il machete
in maniera preoccupante. “Specialmente questo qui: l’ho riconosciuto, è
amichetto stretto dell’Inquisitore.”
“Quello
a cui sono morti tutti i figli maschi?” ribatté un altro, sorridendo maligno.
Jace lo squadrò con disgusto; le parole del Nascosto lo
graffiarono più di quanto avrebbero potuto fare i suoi artigli.
“Non
tutti” ribatté glaciale, la tensione trasformata in un nugolo di scintille
sottopelle. “Ci sono ancora io. E il prossimo che oserà pronunciare anche solo
una parola sui Lightwood rimpiangerà di non essere
protetto dalla Pace Fredda.”
Il
ragazzo non ottenne risposta, perché nessuno dei presenti lo stava più
ascoltando: le sue minacce avevano eliminato anche i rimasugli di autocontrollo
rimasti in Saiin, che si era lanciato contro di lui,
brandendo il machete.
Un
paio di cacciatori lo imitarono, accerchiandolo. Jace
non poté fare altro che schivarli, frugandosi nei pantaloni alla ricerca dello
stilo.
La
rabbia gli arrovellò gli organi interni, e poi la pelle, diventando
incandescente.
Una
fata dai capelli color corteccia affondò con la spada, mentre due compagni lo
trattenevano per le braccia.
Un
grido di dolore penetrò l’aria: nugoli di scintille schizzarono verso l’alto e
le fiamme disegnarono un cerchio protettivo intorno a Jace,
aderendo alla sua pelle.
La
spada che l’aveva colpito cadde a terra, completamente annerita. Il suo
proprietario si stava reggendo la mano ustionata con quella sana, una smorfia
di dolore a deformargli il viso.
Finalmente,
i membri della Caccia si costrinsero ad arretrare.
Jace studiò i loro volti con aria imperscrutabile, leggendoci
dentro – per la prima volta – un principio di paura, oltre alla diffidenza.
Avvertì qualche sussurro indistinto – la parola mostro, rimbalzata qua e
là – ma il primo a parlare ad alta voce fu un ragazzo che fino a quel momento
era rimasto in disparte.
Stava
vicino a Gwyn – che era ancora immobile, quasi
incuriosito dalla maniera in cui gli eventi erano precipitati – e sembrava
piuttosto giovane. Era di bell’aspetto – zigomi alti, lineamenti principeschi,
un corpo snello e aggraziato. Aveva i capelli scuri, con uno strano riflesso
blu, e l’eterocromia tipica dei membri della Caccia: un occhio nero e l’altro
grigio scuro.
“Non
è un semplice Nephilim” osservò, studiandolo attento:
non sembrava spaventato quanto gli altri. Il suo sguardo era per lo più
incuriosito. “Quello è il fuoco degli Angeli: gli scorre dentro come sangue.”
Si
voltò verso Gwyn ap Nudd, che aveva ancora la mano avvolta intorno all’elsa
della spada.
Il
condottiero si avvicinò a Jace, ignorando la reazione
apprensiva degli altri cacciatori.
“Perché
sei qui, mezz’angelo?” chiese, la voce distante e controllata. “Perché vuoi
unirti alla Caccia?”
Jace strinse i pugni fino ad affondare le unghie nella carne.
“Sei
mesi fa ho perso il mio parabatai in
battaglia” rivelò, tornando a ricambiare il suo sguardo. “Affidarmi alle leggi
del Conclave e rischiare la vita nel nome di Raziel
non m’interessa più, non senza di lui. Intendo servire una causa che meglio si
adatti al mio spirito” mentì, sforzandosi di modellare al meglio le sue parole:
le fate andavano matte per i discorsi poetici. “Nei giorni scorsi ho cavalcato
con voi, vi ho seguiti e ho imparato a nutrirmi di libertà, a vivere del vento,
e del mare, e delle montagne. È a questo che ambisco” concluse, allargando le
braccia. “Non potrei chiedere di meglio.”
Gwyn lo fissò ancora per qualche istante, prima di annuire brevemente.
Quel
piccolo gesto, in apparenza da niente, seminò lo sconcerto nei volti dei
presenti. Tuttavia, nessuno fiatò.
“Molto
bene” acconsentì infine Gwyn, levando la spada. I
presenti arretrarono. “Se è questa la tua scelta, inginocchiati.”
Jace eseguì, la tensione che gli martellava nel petto. Sapeva di
trovarsi a un punto di non ritorno: se avesse accettato di unirsi a loro,
sarebbe appartenuto per sempre alla Caccia.
Non
c’erano vie d’uscita, ma Jace non si sforzò di
trovarne: la decisione era presa.
“Ricorda,
ragazzo” lo ammonì improvvisamente Gwyn con sguardo
severo. “Ti sto accettando solo perché la tua natura potrebbe rivelarsi utile:
non sono in molti a potersi vantare di avere dentro il fuoco degli angeli.”
Jace rimase in silenzio, mentre il cacciatore si incideva il
palmo della mano. Gwyn piegò il polso per far colare
il sangue e il ragazzo si sporse in avanti per berlo, raccogliendolo sulla
lingua: sapeva di foglie e metallo.
“Jace Herondale” annunciò a quel
punto il Cacciatore, rifoderando la spada. Un bruciore improvviso impregnò
l’occhio destro di Jace, facendolo lacrimare: stava
cambiando colore, come a simboleggiare una frattura nella sua anima. Parte di
sé aveva smesso di appartenergli. “Adesso fai parte della Caccia. Alzati e
unisciti a noi.”
*
I
giorni si rincorrevano inarrestabili, a volte in fretta, altri con la lentezza
dei fiocchi di neve.
Jace non aveva idea di quante notti avesse
trascorso a cavalcare: forse dei mesi, forse appena un paio di giorni. Il tempo
scorreva in maniera diversa quando si stava con la Caccia.
La sua
unica certezza era che quelle cavalcate lo stavano cambiando: i suoi sensi si
erano acuiti e il suo fisico si stava abituando a resistere alla fame e alla
stanchezza, per via di tutte le nottate trascorse a digiuno, senza mai
riposare. Jace non aveva uno specchio in cui
guardarsi, ma era certo che anche il suo aspetto fosse diverso. I mutamenti
principali che sentiva, tuttavia, non erano fisici. Incominciava ad esserci
qualcosa di selvaggio nel modo in cui si comportava, si muoveva, rifletteva.
Perfino il suo modo di parlare stava incominciando a ricordare i toni fiabeschi
delle fate.
Si era
adattato alla Caccia al punto tale da ospitarne una parte dentro di sé.
Il
pensiero di Clary e quello della sua famiglia
diventavano ogni giorno più offuscati: la sua vita di prima era sul fondale di
un fiume e lui continuava a immergervi la mano per afferrarla, ma l’acqua era
troppa e qualche volta gli sfuggiva.
Tuttavia,
non aveva dimenticato: ogni mattina, quando riposava da solo sulla terra
fredda, stringeva il suo anello fino a far impallidire le nocche e ripeteva fra
sé i nomi delle persone che aveva amato.
“Mi
chiamo Jace Herondale” ricordava in un sussurro,
rannicchiandosi per proteggersi dall’aria gelida. “Ero uno Shadowhunter… Sono ancora uno Shadowhunter.
Il mio cuore appartiene a Clary Fairchild.
E ai Lightwood, la mia famiglia adottiva: Robert, Maryse, Isabelle, Max… E Alec.”
Ogni notte,
le sue labbra tornavano a chiudersi al suono delle stesse parole.
“Salverò
il mio parabatai: mi riprenderò mio fratello.”
Per
giorni Jace continuò a cavalcare in solitudine, in
groppa a un destriero dal manto dorato. Fra gli altri cacciatori non era il
benvenuto: era stato chiaro fin da subito e il disprezzo dei suoi compagni non
scemò con il trascorrere dei giorni.
Per
assurdo, tuttavia, il loro condottiero sembrava intrigato da lui. Era stato Gwyn a offrirgli la cavalla dorata e a insegnargli i
rudimenti della Caccia: l’aveva addestrato a usare le stelle come una bussola e
a individuare i segnali di una battaglia sul punto di scoppiare. Gli aveva
perfino dato un’ arma: Jace non aveva più uno stilo –
gliel’avevano spezzato subito dopo il rituale – ma Gwyn
gli aveva donato uno dei suoi archi. A Jace non
dispiaceva usarlo: era il promemoria costante della sua missione. Gli ricordava
il motivo per cui cavalcava con la Caccia, la persona per cui ne aveva preso
parte.
Oltre a Gwyn ap Nudd
c’era un'altra fata che non sembrava disgustata da lui quanto gli altri: era il
ragazzo dai capelli blu.
Jace aveva sentito dire che era un principe
della Corte Unseelie; si chiamava Kieran
ed era stato consegnato alla Caccia poco prima che arrivasse lui.
Anche
il principe, come Jace, se ne stava spesso per conto
suo. Cavalcava in silenzio, montando un destriero nero e scheletrico con una
regalità e un’eleganza che nessuno dei membri più anziani era in grado di
eguagliare. Parlava poco e il suo sguardo era sempre fisso di fronte a sé, ma
qualche volta Jace l’aveva sorpreso a fissarlo.
Sembrava tenerlo d’occhio, specialmente nei momenti in cui gli altri si
divertivano a tormentarlo. Un paio di volte, vedendolo in difficoltà durante le
battute di caccia, si era offerto di aiutarlo, ma Jace
aveva sempre rifiutato.
Fino
a quel momento avevano avuto un solo scambio di battute abbastanza lungo da
poter essere considerato tale. Non doveva essere trascorso molto tempo dal
rituale del sangue e Jace stava cercando il suo riflesso
in una pozzanghera, con scarso successo.
Kieran gli si era avvicinato con passo
silenzioso, spuntando alle sue spalle.
“È
azzurro” l’aveva informato, mentre Jace si voltava di
scatto, colto di sorpresa. “Il tuo occhio destro” aveva precisato Kieran, indicando l’occhio che gli bruciava. “È una bella
tonalità.”
Jace l’aveva fissato con fare cauto, prima di tendere una mano.
“Potresti
prestarmi la spada?” aveva chiesto, notando l’impugnatura d’avorio intarsiato
che pendeva dalla sua cintola. “Vorrei guardarmi.”
Il
riflesso della lama avrebbe funzionato meglio della fanghiglia.
Le
labbra del giovane si erano incurvate appena verso l’alto.
“Non
abbiamo specchi, noi della Caccia” aveva risposto, mostrandogli la spada. “Le
nostre lame non riflettono immagini, ma se guardi attentamente nei miei occhi
non avrai bisogno di farlo. Le iridi, a volte, sono uno specchio migliore
dell’acqua.”
Jace l’aveva scrutato con diffidenza per qualche istante, ma
alla fine si era lasciato convincere.
Gli
occhi di Kieran erano grandi e ben distanziati, fissi
come quelli di un rapace notturno. L’iride destra era talmente scura che si
confondeva con la pupilla, ma l’argento di quella sinistra era chiaro a
sufficienza da permettere a Jace di poterci scorgere
dentro qualcosa.
Era
un’immagine appena accennata, una bozza a colori del ritratto che Clary gli aveva regalato una volta. Aveva colto qualche
ciocca di capelli spettinata e un paio di sopracciglia aggrottate per la
concentrazione sopra un paio d’occhi bicolore.
Quello
sinistro era dorato come sempre, ma il destro spiccava per l’azzurro intenso
dell’iride.
Jace aveva sorriso, sfiorandosi la parte alta dello zigomo: non
era un azzurro qualsiasi, quello. Non per lui.
“Lo
vedi?”
Kieran l’aveva studiato con fare attento,
specchiandosi a sua volta negli occhi di Jace.
Il
ragazzo aveva annuito. Ricordava cosa gli aveva detto Gwyn
subito dopo il rituale: nel momento in cui aveva bevuto il suo sangue, parte
della sua anima era diventata leale alla Caccia e l’eterocromia era il simbolo
di quella frattura.
Per
lui, tuttavia, quell’occhio azzurro rappresentava la sua fedeltà ad Alec:
presto o tardi, se lo sentiva, l’avrebbe condotto da lui.
*
Quella
sera il brusio concitato delle fate era più insistente del solito.
Jace si rannicchiò su un fianco e cercò di riposare, ignorando
l’aria pungente e i fiocchi di neve che si insinuavano dentro i vestiti.
Tentò
di bloccare fuori anche le voci dei compagni, ma c’era qualcosa nel loro
atteggiamento – nel modo in cui lo fissavano – che lo rendeva circospetto.
Sapeva
di cosa stessero parlando: quel pomeriggio si era sparsa la notizia che il
Conclave avesse fatto giustiziare un gruppo di fate. Le cause erano incerte, ma
molti credevano che i Nephilim
avessero piegato gli eventi a loro favore per giustificare quel bagno di
sangue. Meditavano vendetta e Jace, ai loro occhi,
era il mezzo migliore che avevano per farsi giustizia.
Per
questo il ragazzo non si sorprese quando un gruppo di cacciatori lo attorniò,
bloccandogli ogni via di uscita. Scattò a sedere, allungando le mani nella
penombra per prendere l’arco.
“Capisco
che non siate abituati a tutta questa bellezza…”
commentò, sorridendo affabile. “… Ma ho solo due occhi: non riesco a ricambiare
lo sguardo di tutti.”
Uno
scricchiolio sinistro echeggiò alle sue spalle: Saiin
aveva trovato l’arco – o, meglio, l’avevano trovato i suoi stivali.
Jace era disarmato.
Cercò
di alzarsi, ma i calci dei compagni glielo impedirono.
“Inginocchiati”
ordinò una delle fate, pungolandolo con il coltello.
Jace cercò di scansarsi, ma altri due lo sollevarono per le
braccia.
“Ho
detto inginocchiati!” tuonò ancora la prima fata, colpendolo in fronte con
l’impugnatura del coltello. Jace si divincolò dalla
presa dei compagni e cercò di sferrargli un calcio; il fuoco celeste
scalpitava, scaldandogli la pelle. Cercò di sfruttarlo, si concentrò per farlo
emergere, ma le fate erano troppe e il suo corpo doveva occuparsi di attutire
colpi e di scansarne altri.
“Adesso…” riprese la fata a capo del gruppo, appoggiandogli
la lama sotto il mento. “… Voglio che tu dica di non essere uno Shadowhunter. Voglio sentirtelo urlare e voglio avvertire
il tuo disprezzo ad ogni sillaba.”
Jace non riuscì a reprimere un ghigno.
“Ma
io sono uno Shadowhunter” replicò.
Uno
del gruppo – un elfo – piegò il polso con un movimento agile. L’attimo dopo,
aveva calato la frusta su Jace, colpendolo alla
schiena.
Il
ragazzo si piegò in avanti, boccheggiando per il dolore e la sorpresa.
“Dillo,
mezz’angelo” lo imbeccò ancora la prima fata, premendogli il coltello contro la
pelle. “Io non sono uno Shadowhunter.”
“No.”
Jace rise, il respiro frammentato per via del calore e della
foga con cui stava cercando di liberarsi.
Continuò
a opporsi anche quando i due che lo tenevano gli strapparono la maglietta,
arrotolandola per usarla come frusta. I colpi gli aprirono la pelle come vetro,
ma l’atrocità di quel dolore piovve sulla rabbia, facendo germogliare il fuoco.
Le
fiamme celesti irradiarono la pelle di Jace e
lambirono le mani delle due fate che lo stavano trattenendo.
Incendi
di urla vennero appiccati in vari punti del capannello di aggressori, mentre il
fuoco si propagava, ustionando chiunque si avvicinasse.
Alcune
fate, oltraggiate dal quell’impedimento, incominciarono a servirsi delle
pietre.
Le
scagliarono contro Jace fino a quando non lo videro
accasciarsi – la schiena un mosaico di sangue e cenere. A quel punto gli
sputarono addosso, ridendo dei suoi maldestri tentativi di rialzarsi in piedi.
Distrutto,
lo abbandonarono sotto un albero in mezzo a un campo innevato, dove il suo
sangue tinse di rosso i fiocchi bianchi.
Finalmente
il gruppo di fate si ritirò per riposare, i volti affilati adornati da un
sorriso maligno.
Isolato
dai compagni, solo e senza nemmeno una coperta, Jace
si raggomitolò sul terreno gelido, dolore e umiliazione a pulsargli contro la
pelle lacerata.
Si
sentiva vuoto; un guscio rovinato, in balia del freddo che gli premeva contro.
La
sicurezza cieca che gli aveva lottato dentro per mesi, guidandolo lungo il
percorso accidentato che si era scelto, si stava affievolendo.
Cercò
di riaccenderla, di riscuotersi facendo perno sui ricordi, ma stavano
incominciando a sbiadire. Il suo passato da Shadowhunter
era frammentato, a volte confuso, e i nomi delle persone che aveva amato si
sovrapponevano gli uni agli altri senza criterio.
Ne
pescò uno a fatica, strappandolo via dagli altri. Se lo appoggiò sulle labbra e
lo sussurrò nella neve, deciso a non dimenticarlo.
“Alec…”
I
fiocchi di neve ripresero a scendere, dondolandogli attorno come ricordi. Erano
vicini, ma quando finalmente lo sfioravano, adagiandosi contro la sua pelle, si
scioglievano. Il pensiero di Clary e quello della sua
famiglia si affievolirono, allontanandosi dalla sua presa.
“Lo
faccio per Alec.”
Le
sue ultime parole suonarono più decise, anche se appena mormorate.
Chiuse
gli occhi, stravolto dal dolore e dalla stanchezza; cercò con la mano il punto
della clavicola in cui s’intravedeva la runa parabatai
e lo coprì con le dita, come a volerlo riparare dal freddo.
Per
Alec questo ed altro.
*
La
luce della luna rischiarava l’interno della serra, evidenziando le sagome dei
due fratelli sdraiati sul pavimento.
Alec
fece scorrere il dito lungo le vignette del manga che stavano sfogliando,
mentre Max sbirciava da sopra la sua spalla.
“Pensa
che io, che sono senza corpo, non posso nemmeno provare la sensazione dell'acqua
che colpisce la mia pelle” lesse, indicando un bambino dalle sembianze di
robot. Passò alla vignetta successiva, dove a parlare era il fratello maggiore
del ragazzino. “Questo mi rattrista molto. È dura” recitò.
Sorrise
a Max, che si sporse per proseguire con la lettura.
“Fratellone,
io di una cosa sono sicuro” pronunciò il bambino, prestando la voce al
piccolo robot. “Voglio tornare come prima! Anche se questo significasse
andare nella direzione opposta allo scorrere del mondo.”
Il
sorriso di Alec si spense appena, mentre ascoltava il fratello leggere.
Gli
era mancata la sua voce. Gli erano mancati l’entusiasmo e la curiosità che
catturavano così spesso i suoi occhi, la semplicità con cui riusciva a farlo
ridere.
La
compagnia di Max lo stava aiutando ad abbandonare l’attaccamento per le
emozioni umane. Ormai sentiva sempre meno: il dolore era una puntura leggera e
la paura un respiro di troppo. Aveva dimenticato la vergogna e il senso d’inadeguatezza,
ma ricordava l’amore. Riusciva a percepirlo solo a volte, ma gli era rimasto e
lo custodiva con cura.
Spesso,
lui e Max giocavano a descrivere i volti dei loro familiari: li aiutava a
trattenerne il ricordo, a rimandare il giorno in cui avrebbero smesso di
sentire la loro mancanza.
Ogni
tanto, c’erano anche dei momenti di buio improvviso. Istanti di consapevolezza
che duravano pochi secondi, ma che facevano ugualmente male.
In
quei brevi attimi, Alec ricordava che Max aveva solo nove anni e che non ne
avrebbe mai compiuti dieci. Realizzava che era morto – che lo erano entrambi –
e che non c’era modo di assicurare a Izzy e ai loro
genitori che stessero bene, che fossero insieme.
Nel
corso dell’ultimo periodo, Alec aveva vissuto quei momenti di consapevolezza
più spesso del solito.
Era
come se la sua coscienza stesse cercando di suggerirgli qualcosa, come se
qualcuno lo stesse tirando verso il suo passato, i suoi ricordi, la sua vita di
un tempo.
“Alec?”
Max
gli picchiettò sulla spalla, fissandolo incuriosito.
Alec
sbatté le palpebre un paio di volte.
“Cosa?”
Max
si strinse nelle spalle.
“Sembravi
incantato” spiegò, voltando pagina al fumetto.
Alec
scosse la testa. D’istinto, si coprì l’avambraccio destro con una mano: aveva ripreso
a fargli male.
“C’è
qualcosa che non va” ammise, facendo scorrere il pollice lungo il punto che un
tempo ospitava la runa parabatai. “Non so in
che modo, né perché, ma sento che c’è qualcosa di diverso.”
Max
gli rivolse un’occhiata confusa attraverso le lenti tonde degli occhiali.
“Magari
stai cambiando Dimensione Celeste” ipotizzò, tirandosi a sedere. “Forse stai
entrando nella mia.”
“A
me sembra più il contrario” rivelò Alec, facendo più pressione con la mano. “È
come se avessi una corda intorno al braccio e qualcuno stesse tirando l’altro
capo: qualcuno di vivo.”
“Jace?” azzardò Max, una punta di speranza a ravvivargli lo
sguardo.
In
quel momento accadde qualcosa: la pelle dell’avambraccio di Alex prese a
formicolare, come toccata da uno stilo invisibile.
Alec.
Il
suo nome gli risuonò nelle orecchie: fu un mormorio sottile, simile al vento
che s’intrufolava fra le foglie.
La
corda invisibile diede un altro strattone, ma questa volta fece meno male:
sembrava si stesse allentando, come se chiunque fosse legato all’altro capo si
stesse avvicinando.
Alec!
Il
ragazzo scattò in piedi, manovrato da un’energia improvvisa. Per un attimo si
sentì come se avesse di nuovo un cuore: lo sentiva battere rapido, a grancassa,
sollevato e irrequieto al tempo stesso.
“Jace!” chiamò, stringendosi il braccio al petto. “Jace!”
“Riesci
a sentirlo?” l’interrogò Max, balzando a sua volta in piedi.
Alec
annuì.
“Ho
sentito la sua voce” rivelò, passandosi una mano fra i capelli. “Nella mia
testa, ma era come se fosse… Si sta avvicinando,
credo.”
Tornò
a toccarsi l’avambraccio: la pelle formicolava ancora.
Max
lo sfiorò con l’indice, lo sguardo tutto a un tratto preoccupato.
“Non
è morto, vero?” sussurrò, cercando conforto negli occhi del fratello.
Alec
scosse la testa.
“È
vivo – vicino a questa dimensione, ma vivo. Però non sta bene” ammise,
mordendosi un labbro; la corda invisibile gli aveva rovesciato addosso del
dolore nuovo, che non gli apparteneva. Concentrandosi, riusciva a percepire lo
sconforto e l’umiliazione di Jace, la sua stanchezza.
Perfino il freddo che gli vorticava intorno.
Inspirò
con forza, la mano a proteggere il fantasma di quella runa che lo teneva
ancorato a lui.
“Sono
qui” mormorò nella speranza che Jace riuscisse a
sentirlo. “Non ti lascio.”
Chiuse
gli occhi, ogni brandello di concentrazione impegnato a mantenere quel
contatto. Le dita di Max gli sfiorarono l’avambraccio, mentre la sua voce
sottile affiancava quella di Alec.
“Resisti,
Jace!” mormorò il bambino, serrando le palpebre.
“Jace” lo chiamò ancora Alec, sollevando la testa: il cielo
era limpido e trapuntato di stelle e là da qualche parte, in mezzo a tutto quel
buio e a qualche spiraglio di luce, c’era suo fratello.
Continuò
a chiamarlo, il suo nome ridotto a un mormorio fiducioso intrappolato nella sua
testa. Non disse altro: sapeva che quello sarebbe bastato.
Jace!
*
C’era un momento, poco prima dell’arrivo
dell’alba, in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani
smettevano di funzionare e l’oscurità si anneriva fino a inghiottire ogni cosa:
le stelle, la luna, le ombre proiettate sul terreno.
Faceva così buio che era difficile anche
solo realizzare di esserci, di esistere ancora: il nero graffiava via i
contorni fino a quando non arrivava l’alba a ridisegnarli e, solo allora, chi
era sveglio poteva tirare un sospiro di sollievo.
Quando Jace
aprì gli occhi, tremante e indolenzito per via del freddo, si trovava proprio
in quel momento della notte.
Era troppo buio perché potesse mettere a
fuoco qualcosa, ma non gli importava: non era stata la notte a svegliarlo, ma
una voce.
Si alzò a sedere a fatica, il cuore che
gli recalcitrava nel petto come una preda che tenta di sfuggire al cacciatore.
Jace.
Il suo nome gli risuonò dentro ancora una
volta, rischiando di confondersi con il turbinio del vento.
“Alec!”
La sua mano corse istintivamente verso la
clavicola, a tastare l’unico punto in cui la sua pelle era rimasta calda; la
presenza di Alec gli vibrò dentro come una nota del suo pianoforte,
propagandosi fino a fargli da scudo contro il freddo.
Era la prima volta, da quando era morto,
che lo sentiva così vicino; la prima volta che sentiva la sua voce.
Sono qui. Non ti lascio.
Qualcosa dentro di lui sembrò contrarsi,
come se qualcuno lo stesse tirando: non era una brutta sensazione. Era come se,
dopo aver precipitato nel vuoto per mesi, avesse finalmente trovato un
appiglio.
“Sei vicino…”
mormorò fra sé, guardandosi intorno. I contorni incominciavano ad apparire più
precisi. Si accorse di avere qualcuno seduto a pochi passi di distanza da lui,
qualcuno che lo fissava, ma era troppo stanco per indagare.
L’unica cosa davvero importante era la
voce di suo fratello.
“Sto arrivando, Alec” mormorò, tornando a
raggomitolarsi sulla terra fredda. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra
screpolate, resistendo ai denti che battevano. “Ci sono quasi.”
Sono qui, Jace.
Jace!
*
C’era un momento, poco prima dell’alba,
in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani smettevano
di funzionare e l’oscurità s’anneriva fino a inghiottire ogni cosa.
Faceva così buio che era difficile anche
solo realizzare di esserci, di esistere ancora.
Quando Jace
guardò in alto, alla ricerca di stelle che non c’erano, quel momento era ormai
superato: la notte aveva incominciato a schiarirsi, diluita dai primi raggi di
sole.
Ai suoi occhi, tuttavia, il buio se n’era
già andato da un pezzo: l’aveva scacciato il bagliore che si era intrufolato
dentro di lui al suo risveglio, scuotendolo fino al midollo. Quella stessa luce
che gli aveva scrollato l’incertezza di dosso, rimettendolo in piedi e
indirizzandolo sul suo cammino.
E quella luce era suo fratello.
Even
when it's dark before the dawn
I will
feel your grace and carry on
And
with every breath of me
You'll
be the only light I see
Every Breath. Boyce
Avenue
Note
finali.
Buongiorno! Dopo un mese e
mezzo circa di assenza, mi sono decisa ad aggiornare questa storia; vedermi
accumulare settimane e settimane di ritardo mi irritava, ma sto passando un
periodo di grande blocco e sconforto con la scrittura e lo stimolo a pubblicare
è svanito assieme all’ispirazione. Spero che con l’arrivo della pausa universitaria
riesca a mostrarmi un po’ più costante.
Questo capitolo è forse quello
a cui tengo di più, come credo di aver accennato alla fine dello scorso. Ci
sono tantissimi riferimenti a Lady Midnight, avendo
parlato di Caccia Selvaggia e chi l’ha letto avrà sicuramente notato qualcosa
che si ripete, ma in maniera diversa. In questo universo alternativo, infatti,
Mark Blackthorn non è mai diventato un cacciatore.
Sebastian è morto prima, in confronto a ciò che accade nei libri, e per questo
non ha mai attaccato l’Istituto di New York e Mark non è mai stato reclamato
dalle fate. Jace va un po’ a sostituire il ruolo che
ha avuto lui fra i cacciatori, anche se vedremo che la sua permanenza con le
fate sarà più breve. Nel prossimo capitolo, tra l’altro, lo vedremo conversare
un po’ più a lungo con Kieran - un personaggio, tra
l’altro, che mi affascina moltissimo. Sono un po’ esaltata all’idea di un Jace membro della Caccia – ammetto che fantasticavo su una
cosa simile da quando ho notato l’eterocromia di Dom
Sherwood.
In questo capitolo fa una breve
comparsa anche Max – che è riuscito a procurarsi dei manga anche in paradiso - e
che rivedremo brevemente anche nel prossimo. In quel passaggio scopriamo anche
che Jace è in qualche modo sempre più vicino a
raggiungere Alec.
Spero di riuscire ad aggiornare
in tempi un po’ meno biblici, la prossima volta.
Grazie, come sempre, a mafiaromano, e alla sua gentilezza nel lasciarmi
sempre un commento! Visti i brutti rapporti che sto vivendo con la scrittura in
questo periodo ti assicuro che significa molto per me!
A presto.