Mentre
l'esercito proseguiva la sua marcia verso Uppsala, il tempo
cominciò
a peggiorare. Dapprima fu una pioggia leggera, che cadeva con ancora
il cielo limpido sullo sfondo. Dagli alberi e dal terreno si levava
un buon profumo di terra umida e di aghi di pino. Poi divenne
più
insistente e fastidiosa: grandi gocce di acqua tiepida che
inzuppavano il terreno e gli abiti dei soldati.
“Credi
che continuerà ancora a lungo?” aveva chiesto
Arianrhod a Östen.
“Temo
di sì, in questa stagione i temporali sono normali. Dovresti
essere
contenta che non sia una fredda pioggia invernale. In quel caso le
gocce d'acqua sembrerebbero aghi gelati. Questa è calda, non
ti
sembra?”
Arianrhod
aveva teso il palmo aperto a catturare qualche goccia e aveva dovuto
dare ragione a Östen.
L'acqua che pioveva dal cielo era tiepida e veniva giù in
grandi
scrosci che non duravano più di una manciata di minuti. Una
pausa, e
poi il ciclo ricominciava.
“Speriamo
solo che il morale dei soldati resti alto”, aveva concluso,
alzando
le spalle.
Le
speranze di trovare Hogne e i suoi ribelli si affievolivano sempre
più. Tutti avevano questa sensazione, ma nessuno aveva il
coraggio
di dirlo ad alta voce.
Durante
il sesto giorno di marcia, durante una pausa dalla pioggia, il duca
Fjölnir
che era in testa al
corteo alzò una mano per arrestare la colonna. Tutti
frenarono i
propri cavalli e Ragnhild chiese: “Cosa succede?”
“Shhh”,
la zittì Fjölnir,
portandosi l'indice alle labbra. Poi fece un cenno ai cavalieri che
gli erano più vicini.
“C'è
qualcuno”, disse indicando gli alberi alla propria sinistra.
“Non
siamo soli.”
Ragnhild
afferrò il braccio di Arianrhod, sporgendosi sul cavallo,
spaventata. Gareth e alcuni altri cavalieri e soldati si avvicinarono
al punto indicato dal duca. Östen
dovette rimanere indietro suo malgrado, a causa della ferita al
braccio.
I
cavalieri si aspettavano di vedere uomini in divisa, soldati armati
fino ai denti, forse perfino cavalli, ma quando gridarono:
“Chi è
là?”, dal folto del bosco cominciarono ad uscire
uomini a piedi.
Non erano soldati, questo era chiaro. Alcuni portavano lunghe barbe
bionde e rossicce, quasi tutti possedevano armi e armature
rudimentali. Casacche di cuoio cucite alla meglio, bastoni appuntiti,
archi ricavati da rami ricurvi, rozze spade di pietra.
I
cavalieri tennero pronte le armi, ma i nuovi arrivati abbassarono le
loro, mostrando di non avere intenzioni ostili.
Uno
degli uomini si fece avanti e si arrestò davanti ai cavalli
dei
comandanti. Doveva essere sulla mezza età e portava
un'ispida barba
bionda. Nel silenzio generale si inchinò poggiando un
ginocchio a
terra e si rivolse ad Arianrhod.
Percependo
la solennità del momento, e rassicurata dalla piega che gli
eventi
stavano prendendo, Ragnhild lasciò il braccio dell'amica.
“Mia
regina...”, disse l'uomo con il capo chino e lo sguardo fisso
a
terra.
“Chi
siete?” chiese Arianrhod con voce decisa.
“Il
mio nome è Hogne, mia signora. E questi sono i miei uomini.
Abbiamo
saputo del vostro arrivo in Svezia ed è da molto che vi
aspettiamo.”
“Siete
davvero voi!” esclamò la principessa, scoccando
un'occhiata
sollevata al duca, il quale la ricambiò. “Vi
abbiamo cercato in
lungo e in largo.”
“Mi
dispiace, ma non possiamo mai allontanarci troppo dalla nostra base.
È molto pericoloso.”
“Chiedi
ai tuoi uomini di deporre le armi”, ordinò lei.
“Già una volta
siamo stati ingannati da un uomo che si spacciava per uno di
voi.”
Hogne
si alzò in piedi e ordinò ai suoi di lasciar
cadere le armi a
terra, cosa che tutti fecero prontamente. Un centinaio di bastoni,
spade e archi caddero producendo una catena di rumori sordi.
“Vi
unirete a noi?” chiese Fjölnir
sforzandosi di non parlare troppo velocemente. Si era accorto che
Arianrhod, non ancora padrona della lingua, aveva dovuto sforzarsi
per comprendere tutto ciò che Hogne aveva detto. Ma aveva
fatto
enormi progressi durante il viaggio, grazie alle lezioni che le erano
state impartite. La memoria della lingua natia stava rapidamente
tornando in superficie.
L'uomo
si batté al petto e gridò il suo assenso, imitato
dai suoi uomini
all'unisono.
“Non
abbiamo atteso altro per quattordici anni, altezza. Dateci solo la
possibilità di aiutarvi a riprendere ciò che
è vostro e scacciare
l'usurpatore.”
***
Era
il pomeriggio dell'ottavo giorno di marcia, quando i comandanti
decisero di appostare il campo base sul fianco di una collina,
riparati dalla strada principale che le truppe nemiche avrebbero
probabilmente percorso. Furono allestite poche tende, perché
la
rapidità era essenziale. Gli esploratori erano tornati il
giorno
prima, riferendo che l'esercito di Ale si trovava a una giornata di
marcia da loro.
Arianrhod
e i suoi comandanti erano rimasti in piedi fino a notte tarda per
discutere la strategia della battaglia.
“Dovremmo
affrontarli frontalmente, mandando avanti la cavalleria”,
propose
Östen.
“Non
avremo vantaggi in questo modo”, ribatté Vanlande.
“Meglio
tenere la cavalleria di riserva o non avremo appigli se le cose
dovessero andare male.”
“Il
problema è che restiamo comunque numericamente molto
inferiori ad
Ale”, disse Hrolf. Un momento di sconfortante silenzio cadde
sull'assemblea dopo questa affermazione.
Arianrhod
si alzò per osservare più da vicino la cartina
stesa sul tavolo.
“Questo
cos'è?” chiese indicando il lato della strada.
Gli
altri comandanti non lo sapevano, ma si fece avanti Hogne.
“Noi
conosciamo molto bene questo territorio”, disse,
“mentre Ale no.
Raramente si è allontanato da Uppsala. Noi invece dobbiamo
conoscerlo a menadito se vogliamo sopravvivere nei boschi. Quella
è
una gola che divide la collina in due.”
“E
dove porta?”
“Sbocca
nella vallata alle nostre spalle.”
“Potremmo
usarla a nostro vantaggio, se loro non la conoscono”,
intervenne
Morcant, rimasto silenzioso fino a quel momento. Hogne, che non aveva
conosciuto lo strano uomo che per pochi giorni, lo guardò
con la
diffidenza del forestiero.
“No,
se la battaglia verrà combattuta nella valle”, gli
fece notare il
duca.
“E
se non fosse così?” propose Arianrhod.
“Cosa
intendi dire?” chiese Gareth.
“Loro
sono più numerosi, giusto? Ma non gli sarà utile
se li bloccheremo
in un luogo più stretto. Come la strada che passa tra le due
colline. È abbastanza ampia per una battaglia, ma non
abbastanza per
consentire grandi manovre.”
“Così
resteremo bloccati anche noi” disse Domaldr.
“Sarà una
carneficina!”
“Ma
noi conosciamo l'esistenza di questa gola. Potremmo dividere
l'esercito in modo che una parte li attacchi dal fianco. Non se lo
aspetteranno...”
“E
se lo prevedessero? Se se ne accorgessero per tempo? A quel punto
avremmo diviso l'esercito per niente e saremo ancora più
indeboliti”, obiettò Vanlande, sentendosi
più competente di
Arianrhod sulle questioni militari.
Lo
sguardo del duca cominciò a illuminarsi mentre rifletteva su
quella
proposta. “Può funzionare...” disse
lentamente. “E' azzardato,
ma credo che non abbiamo molta scelta.”
“Io
e i miei uomini potremmo attendere nascosti oltre il fianco della
collina”, propose Morcant. “La valicheremo solo
quando saranno
presi tra le due forze e li attaccheremo con le frecce, restando
sulla cresta.”
Arianrhod
emise un sospiro tremolante. “Che sia
così”, decise.
“Ma,
mia signora...” tentò di protestare Vanlande.
Arianrhod lo
interruppe.
“Comprendo
le tue obiezioni, ma abbiamo la possibilità di un vantaggio
a fronte
di un rischio. E ho deciso di coglierlo. Non avrebbe senso avere
Hogne e Morcant con noi se non ne facessimo il miglior uso che
possiamo.”
La
riunione si sciolse e tutti raggiunsero i loro giacigli per cercare
di dormire qualche ora prima della battaglia.
“Arianrhod”,
la chiamò Gareth mentre camminava accanto a Ragnhild diretta
alla
loro tenda. Entrambe si voltarono.
Arianrhod
gli sorrise debolmente. “Suppongo che ci siamo. Il momento
è
giunto.”
“Non
sei obbligata a combattere, lo sai. Potresti rimanere qui con
Ragnhild e Gerda... ”
Nel
sentirsi nominare Ragnhild scoccò un'occhiata fugace e
speranzosa ad
Arianrhod. Era chiaro che era d'accordo con Gareth.
“Come
puoi chiedermi questo?” disse Arianrhod, notando a malapena
che
Ragnhild si allontanava con discrezione, lasciandoli soli.
“Non
sono ferita, come Östen
che
è costretto qui anche se vorrebbe con tutte le sue forze
essere sul
campo di battaglia, domani.”
“Perdonami,
non intendevo insinuare che tu non sia pronta per questo. Lo sei,
è
hai tutto il diritto di volerlo. Sono solo preoccupato per te. Se ti
accadesse qualcosa… non potrei vivere senza di te.”
Arianrhod
gli sorrise dolcemente. “Anch’io non resisterei in
questo mondo
senza di te. E proprio per questo, pensi che potrei lasciarti andare
a combattere senza fare anch’io la mia parte? E lo devo anche
ai
miei uomini. Io sono la loro regina e non li
abbandonerò.”
***
“Vedo
qualcosa in lontananza!”, annunciò Domaldr,
indicando l’orizzonte,
dove una nube di polvere si sollevava al passaggio di quello che,
evidentemente, era un grosso esercito.
Arianrhod
alzò una mano verso i suoi uomini, per fargli cenno di
fermarsi. I
fanti si arrestarono subito dopo di lei, e i cavalieri che li
seguivano fecero altrettanto.
“Ci
siamo”, disse il Duca Fjölnir con calma.
“Erano giorni che
aspettavamo che Ale facesse la sua mossa, ed eccolo lì.
E’ uscito
allo scoperto finalmente… evidentemente rappresentiamo una
certa
preoccupazione per lui.”
Il
duca tirò le redini del suo bel cavallo, per accostarsi a
quello
bianco di Arianrhod. Gli altri comandanti stavano al suo fianco,
ognuno saldamente ritto sulla propria cavalcatura.
Fjölnir
spostò lo sguardo paternamente benevolo da suo figlio alla
sua
regina. Non poteva negare di avere provato rabbia e delusione quando
aveva scoperto cosa c'era tra di loro, ma le parole che Gareth gli
aveva lanciato addosso lo avevano fatto vergognare di se stesso, di
come lo aveva trattato. Certo ciò che aveva fatto Gareth era
sbagliato sotto molti aspetti, ma chi era lui per giudicare quando
aveva commesso gli stessi errori e non lo aveva fatto neppure per
amore? Erano giorni che cercava le parole, e soprattutto il coraggio,
di parlare a suo figlio, ma ancora non ci era riuscito. Gareth
sembrava davvero ferito, distante, e Fjölnir
temeva davvero di averlo perso.
L’avvicinarsi
di due cavalieri al galoppo lo riportò alla
realtà, distogliendolo
dalle sue considerazioni. C'erano cose più urgenti a cui
pensare. A
riparare ciò che aveva danneggiato avrebbe pensato quando
tutto
fosse finito.
“Veniamo
da parte di re Ale”, disse uno dei due, fermatosi di fronte
ad
Arianrhod.
“Re?”,
commentò lei in tono sarcastico. “Non sapevo che
bastasse auto
proclamarsi re per esserlo a tutti gli effetti. Di questo passo i
contadini affermeranno di essere duchi e non si potrà far
nulla per
smentirli…”
Gareth,
Domaldr,
Fjölnir e gli altri
ufficiali dovettero reprimere a stento una risata.
I
due messaggeri invece si fecero rossi in volto, umiliati per la
prontezza con cui erano stati zittiti da una donna.
“Volete
ascoltare il messaggio che vi porto, signora?”, chiese
irritato il
cavaliere, fingendo di ignorare le occhiatine di scherno che gli
venivano lanciate dai presenti.
“Dite
pure. Non sia mai detto che la regina non ascolti un suddito che ha
qualcosa da comunicargli.”
“Il
mio signore Ale vi manda a dire che non muoverà guerra
contro di voi
e i vostri uomini, nemmeno contro i traditori che hanno disertato il
suo esercito, se lascerete immediatamente la Svezia per non farvi
più
ritorno.”
Il
sorriso di scherno sul viso di Arianrhod si spense di colpo,
sostituito da un’espressione gelida. Sembrava mandare lampi
dai
profondi occhi azzurri quando, con un piccolo incitamento al cavallo,
si portò più vicino al messaggero.
Lo
guardò negli occhi, mentre involontariamente il cavaliere
indietreggiava di un passo.
Quando
parlò la sua voce era un sussurro minaccioso.
“Vorrei
che fosse chiara una cosa, cavaliere. Questi uomini non facevano
parte del suo esercito, ma del mio. A dire la verità quel
porco del
tuo padrone non può reclamare neppure la
proprietà di un singolo
filo d’erba sul suolo di questo paese… e
pagherà per ogni
singola goccia di sangue dei miei sudditi che ha versato in questi
anni, mentre li terrorizzava con la violenza, la repressione e la
miseria. Quindi riferisci pure al “re” - o con
qualsiasi titolo
fasullo voglia farsi chiamare - che noi siamo pronti e che non ha che
da aspettarci. Hai capito bene?”
Il
cavaliere serrò le labbra, cercando di non dare a vedere
come quella
ragazzina lo avesse impaurito.
“Bene”,
disse con tutta la dignità che riuscì a
racimolare. “Riferirò il
vostro messaggio.”
E
i due uomini si allontanarono al galoppo in una nuvola di polvere.
Gareth
osservava Arianrhod con espressione fiera e ammirata, imitato dagli
altri ufficiali.
Poi
lei si voltò verso il suo esercito, schierato per la
battaglia, e
fece un respiro profondo prima di iniziare a parlare a voce alta, in
modo che tutti potessero sentirla.
“Uomini!
So che probabilmente è la prima volta che obbedite agli
ordini di
una donna, ma io vi prego oggi di non considerarmi tale. Oggi io sono
una di voi e combatterò al vostro fianco!”
Dalle
truppe si levò un grido di approvazione, mentre migliaia di
mani
sollevavano le spade e le lance verso il cielo.
“Ricordate
il nemico che avete di fronte”, continuò
Arianrhod, spronando il
cavallo a muoversi al trotto lungo tutta la prima linea
dell’esercito. “Ricordate che quest’uomo
ha oppresso la Svezia
per anni, affamando le vostre famiglie e ammazzando i vostri cari. Se
volete che la giustizia e la pace tornino a regnare nella nostra
amata terra natia, oggi non abbiate nessuna pietà per quel
nemico!
Combattete al mio fianco!”
I
soldati lanciarono grida ancora più assordanti, mentre
Arianrhod
sguainava la spada del drago e la teneva in alto in modo che tutti
potessero vederla rilucere nel sole accecante. La terra
sembrò
tremare del boato che si levò dall’esercito.
Poi,
guidati dalla Regina e dai comandanti, i soldati cominciarono ad
avanzare verso l’esercito nemico.
Il
Duca Ale si vide arrivare contro le truppe avversarie, e
aspettò il
massiccio scontro frontale a cui il suo esercito era già
stato
preparato.
La
battaglia ebbe inizio con la collisione delle due forze di fanteria.
L'esercito di Arianrhod, inferiore di numero, non poteva avere la
meglio, e infatti cominciò presto a perdere terreno. Ale,
nelle
retrovie, si chiese come quella ragazzina avesse potuto essere
così
sprovveduta. Ghignò, pregustando già la facile
vittoria. Quella
donna gli era costata notti intere di sonno, anni di ricerche e mesi
di intrighi: ora finalmente l'avrebbe fatta finita per sempre con lei
e avrebbe governato la Svezia indisturbato.
“E'
il momento?” gridò Arianrhod al duca, per farsi
sentire al di
sopra del fragore. Lui annuì e fece cenno a Vanlande di dare
il
segnale. Il comandante sventolò una bandiera dal colore
rosso
acceso, e proprio quando l'esercito nemico si sentiva sicuro della
vittoria, grida selvagge si levarono dal fianco della collina, e
dalla gola comparvero migliaia di altri cavalieri e fanti che si
schiantarono contro il fianco dell'esercito di Ale. Poi
indietreggiarono senza preavviso e, ad un altro segnale, una pioggia
di frecce cadde sui nemici, seguita immediatamente da altre raffiche.
Il Piccolo Popolo tirava con una precisione letale, e dalla loro
posizione di vantaggio aveva la totalità dei loro nemici a
portata
di freccia.
Arianrhod
e il duca, che si trovavano l'uno accanto all'altra, si scambiarono
uno sguardo di sollievo nello scorgere lo sbalordimento sul volto dei
nemici, che non si aspettavano una simile mossa. Ora erano attaccati
da due forze separate, una di fronte e una sul lato sinistro, e
sottoposti a un fuoco di frecce. Con una buona dose di fortuna la
loro tattica aveva funzionato.
L’esercito
di Ale subì molte perdite senza riuscire a riportare la
battaglia
nelle proprie mani.
A
quel punto i fanti con le picche, spingendoli ancor più
verso il
centro ristretto del campo di battaglia, riuscirono a circondarli
completamente.
Arianrhod,
che era rimasta indietro insieme al resto della cavalleria, diede
l’ordine e i fanti cominciarono a ritirarsi. Ma
all’esercito
nemico non fu concesso nemmeno un momento per riprendere fiato,
perché subito dopo dovette affrontare lo scontro diretto con
la
cavalleria pesante, guidata dalla regina e dai suoi comandanti, che
si lanciò su di loro falciando uomini e cavalli al suo
passaggio.
Arianrhod
brandiva la Spada del Drago con maestria letale, abbattendo un nemico
dopo l’altro. Anche Hrolf, che si trovava a combattere
accanto a
lei, si stava comportando con coraggio, nonostante fosse la sua prima
vera battaglia, e Arianrhod avrebbe voluto che suo padre e suo
fratello avessero potuto vederlo in quel momento.
Improvvisamente
la giovane si trovò faccia a faccia con un grosso cavaliere
con il
capo celato dall’elmo. Stava per alzare la spada su di lui,
quando
l’uomo la sorprese usando la sua di piatto per disarcionarla.
Arianrhod sentì il duro impatto con il terreno, mentre il
suo
cavallo continuava la sua corsa attraverso il campo di battaglia
senza di lei. Rotolò su se stessa e si rimise faticosamente
in
piedi, constatando che, a parte qualche ammaccatura, non aveva niente
di rotto.
Il
cavaliere nemico si avvicinò rapidamente a lei, brandendo la
spada.
Quella di Arianrhod era rotolata a poca distanza, e lei fece appena
in tempo ad afferrarla e ad alzarla a protezione del viso, mentre
l’arma nemica si abbatteva su di lei.
Ma
l'uomo era molto più grosso di lei e non sarebbe riuscita a
bloccarlo ancora a lungo. Improvvisamente il cavaliere fece un
sussulto e il sangue cominciò a macchiargli le labbra. La
punta di
una spada gli spuntava dal petto, e l'uomo riuscì a
guardarla per un
attimo, prima di accasciarsi a terra. Dietro di lui comparve Domaldr
con la spada ancora sguainata in pugno e l'espressione quasi
sbalordita per ciò che era appena riuscito a compiere.
Arianrhod gli
fece un cenno di ringraziamento, poi si rimise in piedi.
L’esercito
nemico era ormai quasi completamente sconfitto, e il clangore delle
spade e le urla del combattimento si andavano affievolendo. Tuttavia
qualche sacca di resistenza ancora sopravviveva, e fu lì che
Arianrhod si diresse. Attraversò il campo di battaglia,
assestando
qualche rapido fendente ai pochi che cercavano di fermarla.
Dov’era
Ale? Che fosse già scappato?
Arianrhod
pregò vivamente che non fosse così. Doveva
ucciderlo, ad ogni
costo, o non sarebbe mai finita.
Improvvisamente
un urlo si levò alle sue spalle, e lei si voltò
appena in tempo per
vedere un uomo avventarsi contro di lei, brandendo una spada. Colta
di sorpresa, Arianrhod si preparò all’impatto
della lama su di
lei.
“Arianrhod!”,
le parve di sentire la voce di Gareth che la chiamava.
Con
uno slancio disperato, il giovane cavaliere si gettò fra lei
e la
spada nemica. L’arma gli aprì un profondo squarcio
lungo tutto il
fianco, lasciandolo a terra agonizzante, mentre il cavaliere,
rendendosi conto di aver mancato il bersaglio designato, fuggiva via
con le ali ai piedi.
“No!”,
urlò Arianrhod gettandosi in ginocchio accanto a lui. Gareth
le
stava dicendo qualcosa e lei dovette chinarsi per riuscire a
sentirlo.
“Quello
è Ale… inseguilo! Devi ucciderlo!”
“Io
non ti lascio!”
“Va',
ho detto!”
Arianrhod
obbedì, troppo sconvolta per protestare. Si
lanciò all’inseguimento
di Ale, ma quando si accorse che il suo nemico era troppo lontano per
raggiungerlo a breve, ricorse a una mossa disperata.
Sollevando
la spada del drago con entrambe le mani, la lanciò verso
l’uomo
che gli dava le spalle poco avanti a lei, ormai solo e abbandonato
dal suo esercito.
Arianrhod
lanciò la spada con tutta la forza che fu capace di
racimolare,
appellandosi alla sua abilità di arciere per centrare il
bersaglio.
Era un tentativo disperato, perché l'arma era pesante, ma in
quel
momento non aveva altra scelta. Il pugnale di pietra non era
abbastanza affilato per poter penetrare la carne a quella distanza.
La
spada roteò nell’aria e, come se fosse pervasa
dallo spirito dei
re della stirpe del drago che l’avevano brandita in passato e
a cui
Ale aveva fatto torto, lo colpì alla schiena.
Ale
lanciò un grido e si accasciò a terra. Arianrhod
si avvicinò a lui
e, poggiandogli un piede sulla schiena, sfilò
l’arma dalla
ferita., per poi piantargliela nel corpo, ancora e ancora. Non
provò
la pietà che aveva provato per Owainn e non si
fermò finché
l'usurpatore non smise di muoversi.
Quando
tornò di corsa da Gareth, Fjölnir e Domaldr erano
accanto a lui e
il duca gli sorreggeva la testa.
Altri
cavalieri erano andati ad approntare una barella per poterlo
trasportare via dal campo di battaglia.
Il
terreno era coperto dei cadaveri degli uomini uccisi, e
l’aria
pervasa dall’odore della morte e del sangue. Qualche ferito
ancora
si lamentava, sotto la pioggia che aveva cominciato a cadere e i
corvi che volavano in cerchi sempre più bassi nel cielo.
Arianrhod
diede ordine a un ufficiale di provvedere a che tutti i feriti
ricevessero le cure esperte del Piccolo Popolo, poi si chinò
su
Gareth.
Il
duca si fece da parte, cercando di nascondere le lacrime che gli
riempivano gli occhi e che minacciavano di sopraffarlo. Vedere il
figlio giacere al suolo in fin di vita, con il sangue che sgorgava
dalla profonda ferita al fianco, era talmente doloroso da fargli
perdere il suo abituale autocontrollo. Anche Domaldr era preoccupato
e angosciato, ma rimase in silenzio.
Arianrhod
invece aveva il viso inondato di lacrime e non si preoccupava di
nasconderle. Teneva la testa del suo amato in grembo e gli
accarezzava i capelli con infinita tenerezza.
“Amore
mio…”, mormorò. “Amore mio,
perdonami. E’ stata tutta colpa
mia. Ma perché lo hai fatto? Perché ti sei messo
in mezzo?”
Gareth
riuscì a sfoderare un sorriso. “Ti avevo promesso
che ti avrei
sempre protetta, no?”
“Tieni
duro, sta arrivando la barella. Ti prego, resisti!”
Arianrhod
evitava di guardare la profonda ferita che gli deturpava il fianco.
Il cuore le batteva nel petto come una carica di cavalleria, mentre
pregava con tutte le sue forze che i soccorsi arrivassero in tempo.
Gareth teneva gli occhi chiusi, ma lei poteva vedere il suo petto
alzarsi e abbassarsi nel respiro.
Improvvisamente
le tornò in mente la profezia di Viviana. Una parte di essa
si era
già avverata: la scelta difficile che aveva dovuto compiere
in
Danimarca, il tradimento di Owainn... ma la terza parte era quella
che in quel momento suonava più minacciosa. La dea l'avrebbe
visitata nell'aspetto della morte. Il gracchiare di un corvo le
giunse all'orecchio proprio in quel momento, facendola rabbrividire.
Morcant corse di persona da lei, accompagnando la barella.
“Puoi
aiutarlo, Morcant? Ti prego, aiutalo!” gridò
Arianrhod.
L'uomo
esaminò brevemente la ferita di Gareth.
“Proverò
aman madhad. Farò
tutto il
possibile, ma non ti nascondo che è grave.”
“Arianrhod…”,
la chiamò d’improvviso Gareth con voce flebile,
aprendo gli occhi.
Lei
si chinò prontamente su di lui. “Sono qui, Gareth.
Sono qui, non
avere paura… non ti lascio solo.”
“Gli
occhi… non riesco a tenerli aperti.”
Arianrhod
gli prese la mano e gliela strinse convulsamente.
“Credo
che non ce la farò…”,
continuò Gareth.
“No!”,
gridò Arianrhod, con le lacrime che le scendevano lungo le
guance.
“Non farlo! Non lasciarmi sola, resta con me!”
Gareth
la fissò per un momento negli occhi azzurri e disse:
“Ti amo…”
Poi
chiuse gli occhi e tutto divenne buio, e non udì
più Arianrhod
piangere e chiamare il suo nome.
Angolo
autrice: Ciao
a tutti! Lo so mi odierete per aver lasciato un momento drammatico
così in sospeso, ma spero di pubblicare il prossimo
aggiornamento
già settimana prossima, quindi ci sarà da
aspettare meno del
solito... non odiatemi, plz!^^ Avrete notato anche che il capitolo
è
il più lungo fin'ora, ed il motivo è che non
volevo lasciare la
battaglia a metà, mi sembrava di distruggere il climax.
Domaldr
si è rivelato utile alla fine... un po' si sta redimendo,
che dite?
E Hrolf? Meglio di come era sembrato all'inizio? Forse aveva solo
bisogno di un'occasione^^
Vi
annuncio anche che manca poco alla fine della storia. Un capitolo, al
massimo due e sarà conclusa.
E
niente, aspetto di sentire i vostri pareri!
Alla
prossima
Eilan
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