Tenni gli occhi fissi sul pavimento per un tempo che mi parve infinito
e li ricondussi alla giusta altezza solo quando il fluire d'un suono
liquido attirò la mia attenzione e, nel seguirne la melodia,
incrociai nuovamente quello sguardo che speravo essere ormai perduto.
Sostenni la sua vista fingendo indifferenza, come un perfetto soldato
dinnanzi al proprio nemico, osservandolo riboccarsi l'ennesimo
bicchiere di vino.
“Quindi, vivi qui ora?”
ostinata come solo io riuscivo ad essere, pretendevo una nuova risposta
quando l'ultima stoccata di André ancora mi risuonava nelle
orecchie, come un rumore fastidioso.
“Di tanto in tanto.”
fu la sua risposta, vaga come tutte le parole che gli avevo sentito
pronunciare dall'inizio della nostra fuga.
“Capisco.”
ribattei distrattamente, allontanandomi dalla credenza per versarmi
dell'altro vino, che bevvi tutto d'un fiato, ed ancora una volta copiai
la medesima azione, ed una seconda, vi fu perfino una terza. La
brodaglia era pessima, ma faceva il suo dovere. La fermezza dell'alcol
prese a mescolarsi col sangue, al di sotto delle vene, rendendo
cedevole ogni singolo muscolo del mio corpo.
Un calore improvviso mi si avvinghiò alle viscere,
stordendomi. Mai bere a stomaco vuoto, sussurrai appena, ma non permisi
al malessere di sopraffarmi e caparbiamente intentai una lotta contro i
bottoni della giubba, nel tentativo di liberarli dalla costrizione
delle asole. L'impresa si rivelò alquanto ardua, ma riuscii
a portarla a termine, togliendomi di dosso l'indumento umido di pioggia
e gettandolo poi a terra con noncuranza. Riservai lo stesso trattamento
alla mia fedele spada, che ritrovai come sempre sul fianco sinistro.
Slegai la cintura con un veloce gesto della mano e l'adagiai sul tavolo.
“Credi che la Regina...”
domandai lasciando incompiuta una frase che non aveva bisogno d'essere
conclusa, poiché quel timore, che era stato lo stesso di mio
padre, aveva quasi ucciso entrambi. Avrei dovuto preoccuparmi del mio
destino, ma riuscivo a pensare soltanto a ciò che avevo
udito un attimo prima. André aveva dimorato li, pagando del
denaro ad un affittacamere come un qualsiasi soldato senza casa. Avevo
affermato di capire, ma era stata solo una bieca menzogna per ignorare
la verità. Non lo accettavo, perché riconoscerlo
avrebbe significato affrontare quella parte di colpa che mi spettava di
diritto. E, allora, non era mia intenzione farlo.
“Che differenza vuoi che faccia ora. Ti rendi conto di quello
che abbiamo fatto?”
il pragmatismo di André mi colse inaspettatamente, come un
manrovescio ben assestato, chiarendo che, quella scelta che per me
aveva ancora l'aspetto dell'errore, era stata compiuta da entrambi. E
che recriminare non ci avrebbe portato da nessuna parte.
Ero pienamente cosciente di ciò che avevamo fatto, ma in
quel luogo, nella desolazione del centro di Parigi, tutto mi parve
improvvisamente lontano. Perfino la sofferenza divenne quasi dolce,
quasi, perché mi bastò udire un tuono solitario
per ricadere nell'inquietudine di quella giornata.
“Vuoi dire che non si potrà più tornare
indietro? È questo che mi stai dicendo?”
quasi mi stupii nell'udire la mia voce proferir tali parole. Dopotutto
desideravo tornare a palazzo Jarjayes? Davvero ero disposta a chinare
il capo dinnanzi a mio padre, dopo averlo oltraggiato? Era
così forte la paura dell'ignoto, di tutto ciò che
per me era sconosciuto, da superare perfino la dignità?
Non seppi, o non volli colmare quell'interrogativo e André
non mi venne in aiuto. Se ne stava immobile al capo del tavolo, con la
bottiglia di rosso stretta nella mano, meditabondo sul da fare, cedere
all'oblio della sbronza o difendere la ragione?
Io optai per l'oscurità della mente. Tracannai l'ennesimo
bicchiere di vino, tralasciando quel garbo che era stato l'orgoglio dei
miei modi e per il quale avevo ricevuto complimenti e ammirazione, per
abbracciare un lato decisamente più ruvido del mio essere.
Una goccia di liquido scarlatto sfuggì alla lingua, la
sentii rovesciarsi all'angolo della bocca e scivolare oltre le labbra,
in una corsa che avrebbe visto la propria conclusione alla fine del
volto, ma ch'io bloccai con il dorso della mano.
“Dovresti darci un taglio, Oscar.”
mormorò appena André, e quel suo riguardo mi
risultò stomachevole, più del beverone che mi
stava riempendo lo stomaco.
Determinata ad avere un confronto diretto con lui, compii qualche passo
per raggiungere quel lato della tavolata che mi avrebbe dato modo di
fronteggiarlo. Posai le mani sul pianale e mi impossessai del suo
calice, dissetandomi con quel liquido che a lui non interessava
più, ed una volta svuotato lo rimisi al proprio posto.
Lui non reagì in alcun modo, non tentò neppure di
fermarmi, rimase seduto con lo sguardo fisso su di me. Quella sua
compostezza, che rasentava la perfezione, mi irritò
oltremodo e, riacquistata una posizione eretta, gli strappai la
bottiglia dalla mano e mi ci attaccai.
Ingollai quel che rimaneva del contenuto e poi la lasciai cadere a
terra, con aria di sfida. Ero in attesa d'una sua reazione e quando fui
certa che non ci sarebbe stata alcuna replica, mi arresi, vinta
dall'impossibilità di sfogare il tumulto che m'agitava i
nervi.
L'ebrezza alcolica mi stava dando alla testa quasi quanto il terrore
per le naturali conseguenze che, la mia scelta, avrebbe portato con
sé. Potevo salvare i miei soldati, ma cosa ne sarebbe stato
di me stessa? Vivevo in un mondo fatuo, nel quale ero stata privata
d'ogni genere d'orpello: il nome, il rango, il titolo, una carriera,
divenendo soltanto un mucchio d'ossa e di carne.
Il cuore mancò un battito a quella visione, concepita dalla
sbronza ormai alle porte della lucidità, eppure, al di
là dell'allucinazione, mi sentivo realmente in trappola.
Come un animale selvatico imprigionata in un posto forestiero, senza
via d'uscita, con un uomo che non potevo guardare, perché la
sua sola presenza risvegliava quella parte di me che avevo impiegato
anni a soffocare.
Presi una decisione, se dovevo fare qualcosa l'avrei fatta bene: mi
diressi verso la panca che conteneva la riserva d'alcol ed agguantai
una fiaschetta di quello che riconobbi essere del liquore, d'una certa
qualità a dir il vero. Tolsi il tappo e ne assaporai un paio
di sorsi, beandomi d'un gusto invitante e piacevolmente violento, che
mi fece quasi cedere le gambe.
Sentii di aver bisogno di camminare per far defluire il sangue, girai
su me stessa e mi imbattei nella figura di André, ad un
palmo dalla mia.
“Hai bevuto abbastanza, dai qui!”
gli sentii dire nel momento in cui si portò via il liquore e
l'ultimo velo della mia pazienza. Non persi tempo con inutili proteste
verbali, mi ripresi la bottiglia con una rapida mossa e, dopo aver
incollato le labbra al bordo, ne succhiai il contenuto
finché mi riuscì. Fino a quando le budella non mi
si contorsero.
“Tu, hai bevuto abbastanza!”
sibilai quasi a ridosso della sua bocca con lo sguardo rimpicciolito
dall'ira e lo lasciai li dov'era, sorpassandolo senza più
curarmene.
Ero impazzita, irrimediabilmente persa nel fumo che preannunciava il
divampare di un incendio, che ne fui sicura fin dal principio, mi
avrebbe trascinata in mezzo alla sventura.
Mi aggiravo nell'ambiente circostante con passo malfermo, con il collo
della bottiglia stretto nella mano sinistra, impegnata ad osservare gli
elementi più insignificanti che mi stavano attorno,
immaginando quanti e quali individui avessero calpestato quello stesso
suolo.
Qualcuno dei miei soldati? Alain? E magari delle donzelle compiacenti
che...
Stroncai qualsiasi supposizione riempendomi la gola con dell'altro
medicamento e ricominciai la singolare ronda.
La stanza principale era fornita di un piccolo camino, ricavato con del
grezzo mattone rossastro e, sulla mensola di pietra grossolana, vi
erano adagiate dei mocci di candela consumati ed un libro. Sfiorai con
la punta delle dita la copertina, il bordo, l'angolo esterno, fino ad
aprirlo. Ne sfogliai le prime pagine lanciando occhiate superficiali
tra le scritte fitte ed ordinate, finché una leggera
sottolineatura non attirò la mia curiosità.
“Trovare una forma di
associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la
persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno,
unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga
libero come prima.” (1)
Conoscevo quel testo, così come il proprietario del volume,
ma ne ebbi la conferma quando ne ispezionai il frontespizio;
André Grandier,
Versailles 22 aprile 1786
Quello di apporre la firma e la data su ogni libro letto era uno dei
pochi vezzi che si potevano attribuire ad André, una
bizzarria che poco si confaceva con il suo stato di servo, prima, e di
attendente in seguito. Per quel che mi riguardava non vi era nulla di
strano, al contrario, quella premura così sentimentale lo
aveva reso, da subito, affine al mio modo d'essere.
Da che ne avevo memoria era rassicurante, per me, ritrovarlo tra le
facciate dei libri che tanto avevo amato.
Conforto che non provai quella notte.
Richiusi il tomo lasciandomi alle spalle il salotto, o in qualsiasi
altro modo si sarebbe potuta descrivere la stanza, e mi affrettai ad
irrompere nella camera da letto. Subito mi balzò agli occhi
il grande talamo, con le lenzuola disordinate, i guanciali abbandonati
sul fondo del materasso, e, tra una piega e l'altra d'una coperta due
scatoline di latta. La prima, aperta, conteneva quello che mi parve del
fattibello (2), lo identificai facilmente poiché era stato
oggetto di una furiosa discussione la sera del mio ballo a Versailles,
in abiti femminili. La vecchia governante scomodò tutti i
santi del paradiso, e il diavolo in persona, per persuadermi a farne
uso, ma fui irremovibile nel mio diniego, impedendole di usarlo.
La seconda era decisamente più consunta, ne forzai il
coperchio trovando al suo interno una finissima polvere trasparente e
un lembo di carta piegato, lo svolsi; Cantaridina (3), riportava la
scritta, insieme alle dosi di somministrazione. La mente mi si
colmò di vergognosi scenari, che mi stupii d'essere capace
anche solo d'immaginare, ed un sorriso mi dischiuse le labbra. Gettai
il capo all'indietro e presi a ridere come non ricordavo d'aver fatto
da secoli.
Proseguii nella mia esplorazione e mi trovai dinnanzi ad un
comò di poco valore, sul quale la mancanza d'una specchiera
era più che evidente, al suo posto era stato poggiato un
pezzo di vetro, della dimensione sufficiente a catturare uno scorcio di
viso.
Il mio.
Osservai la metà del volto visibile nel sudicio specchio e
nell'effige che rimandava scorsi tutti i miei dubbi.
Chi dovevo essere? Il soldato del quale era rimasta solo l'ombra o la
donna dall'altra parte del cristallo?
Aprii la mano destra dentro cui vi avevo trattenuto la latta di
belletto e, nella macchia colore vermiglio, vi immersi il dito,
avvertendo una consistenza insolita, paragonabile alla morbidezza del
velluto. Col polpastrello imbrattato disegnai il contorno delle labbra,
rendendole rosse, piene.
Guardai la mia bocca riflessa nel coccio di vetro assumere
un'espressione impertinente, e mi domandai se una semplice chiazza di
colore potesse rendere una persona dissimile, nel fondo dell'anima, da
ciò che era sempre stata.
Rispondevo ancora al nome di Oscar Francois ma qualcosa dentro di me
era stato liberato, forse la colpa era da attribuire a tutto l'alcol
bevuto, perché in nessun altro modo avrei potuto spiegare
l'audacia che mi stava scivolando sulla pelle.
All'erede dei Jarjayes era stata concessa un'esistenza pregna di
libertà, un'istruzione elevata e innumerevoli benefici, ma
per quel che riguardava il cuore la prigionia era stata delle
più crudeli. Come ultima figlia femmina della famiglia
Jarjayes, invece, mi sarebbe stata consentita qualsiasi debolezza e
persino la più odiosa delle frivolezze.
Una vertigine mi colse d'improvviso confondendomi maggiormente la
mente.
Avevo bisogno di bere.
Girai i tacchi, misi un piede davanti all'altro per compiere quei passi
che mi sarebbero serviti per lasciare la camera e raggiungere la
cucina, ma quando arrivai all'uscita vi trovai André a
bloccarne il passaggio.
“Che cosa mi nascondi?”(4)
l'inaspettato mi colse di sorpresa, come colpì anche lui.
Non mi sfuggì il suo stupore quando abbassò lo
sguardo sulle mie labbra.
Cosa vuoi che ti risponda André? Cosa vuoi sentirmi
confessare?
Che devo convivere ogni maledetto giorno con la consapevolezza d'essere
la causa di dolori, e dispiaceri, per le persone che stanno al mio
fianco? Tu hai perduto un occhio, mio padre la ragione.
Cosa debbo essere, per spazzar via tutto questo strazio?
“Niente, Andrè. Ora se vuoi scusarmi,
vorrei...”
non mi diede il tempo di terminare, inchiodò le mani allo
stipite del varco e concluse la frase al mio posto.
“...andare a bere? Ora basta, Oscar. Credi davvero che tutta
questa situazione sia complicata solo per te? Ti sei fermata a pensare,
anche solo per un istante, che anch'io ho messo in gioco la mia
vita?”
non vi era amarezza nella voce, delusione forse, stanchezza senza ombra
di dubbio.
“Avresti dovuto lasciare che mi uccidesse.”
gli gettai addosso quel fardello con una severità che non
seppi spiegarmi.
“Taci...”
sussurrò appena, mutando la sfumatura della propria
tonalità. Un avvertimento a non osare oltre.
“Cosa dovrei fare ora, essere la donna che tu vuoi che
sia?”
fissai i miei occhi al suo sguardo, lasciando discorrere finalmente il
cuore.
“Semplicemente dire, grazie André, ti è
troppo difficile?”
eluse la mia domanda offrendomene una nuova. Un gioco che mi ricordava
i nostri duelli, ma dove le armi erano più letali della lama
d'una spada.
“E in che modo dovrei ringraziarti André? Com
è che dovrebbe ringraziare... una moglie?”
mi feci così vicina da percepire il profumo alcolico del suo
respiro. Innalzai il mento per mostrare tutta la mia risolutezza.
“Ti stai comportando in modo ridicolo, Oscar.”
anche lui, se possibile, cancellò la poca distanza che vi
era tra noi. Scandì quasi ogni singola parola, marcando con
la promessa della furia il mio nome.
“Avresti dovuto lasciare che...”
lo sfidai, incollerita. O quantomeno ci provai, la mia mossa venne
intercettata e fu lui ad attaccare me.
“Taci... taci...”
il palmo della sua mano mi sigillò le labbra, piantandomisi
addosso con una tale veemenza da farmi indietreggiare, quasi perdendo
l'equilibrio. Ma non successe, il suo braccio mi cinse la vita e la
mano libera si puntò al centro della mia schiena, tenendomi
salda e legata a lui.
Lo sentivo ringhiare contro il dorso della propria mano, ordinarmi di
tacere.
Ubbidii, la mia gola divenne muta e gli arti, abbandonati mollemente
lungo i fianchi, non opposero resistenza.
Poi d'improvviso mi lasciò andare, il nostro abbraccio si
allentò e la mano che mi era stata premuta sul viso divenne
leggera. Le dita mi percorsero la bocca e con una prepotenza inattesa
si portarono via il belletto.
“Non voglio che tu sia diversa da come sei. Non mi aspetto
alcun ringraziamento. Ma non provocarmi con queste sciocchezze,
Oscar.”
parlò guardandomi dall'alto della sua statura, nettandosi la
mano macchiata di rosso sulle braghe della divisa. E nel non detto
rimasto a mezz'aria odorai l'ennesimo ammonimento.
“Cosa succederebbe se invece lo facessi...?”
bacco annunciò quella follia, ma fui io, in piena coscienza,
a trasformare in gesti le parole appena pronunziate.
Sollevai la mano verso la sua fronte sfiorandola appena, infilai le
dita tra le ciocche di capelli che nascondevano l'occhio ferito e li
scostai. Arrestai il palmo sul capo, giusto il tempo d'un sospiro, e
subito dopo lo lasciai scorrere verso il basso, dove le dita gli
carezzarono con pesantezza la guancia, ed il pollice
osò inseguire le labbra, precipitando infine oltre il mento.
Dove vi era stata il tocco andò il mio volto, ricalcandone
la scia, e fu così che ci ritrovammo fronte contro fronte,
così vicini da poter respirare l'alito dell'altro.
“Grazie...”
sussurrai appena, ai margini della sua bocca.
(1) Il contratto sociale – Jean-Jacques Rousseau - 1762
(2) L'antenato del rossetto, una sostanza di allume, gomma arabica e
insetti schiacciati.
(3) La polvere o la tintura di cantaride usata come afrodisiaco e
abortivo; se assunta in forti dosi può essere letale. La sua
azione vescicante e fortemente irritante dell'apparato urinario poteva
provocare sicuramente un'erezione che però veniva pagata
dall'utilizzatore con danni renali e purtroppo a volte anche con la
morte per insufficienza renale acuta.
(4) Domanda che André rivolge ad Oscar nell'episodio 36
dell'anime.
Un ringraziamento speciale a Crissi, per avermi imboccata sulla retta via (o era la giusta...), durante una delle nostre folli conversazioni. Grazie!
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