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Autore: baby80    23/04/2017    11 recensioni
Ho voluto immaginare un epilogo differente della puntata "accusa di tradimento". Cosa sarebbe successo se...
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tenni gli occhi fissi sul pavimento per un tempo che mi parve infinito e li ricondussi alla giusta altezza solo quando il fluire d'un suono liquido attirò la mia attenzione e, nel seguirne la melodia, incrociai nuovamente quello sguardo che speravo essere ormai perduto.
Sostenni la sua vista fingendo indifferenza, come un perfetto soldato dinnanzi al proprio nemico, osservandolo riboccarsi l'ennesimo bicchiere di vino.

“Quindi, vivi qui ora?”
ostinata come solo io riuscivo ad essere, pretendevo una nuova risposta quando l'ultima stoccata di André ancora mi risuonava nelle orecchie, come un rumore fastidioso.

“Di tanto in tanto.”
fu la sua risposta, vaga come tutte le parole che gli avevo sentito pronunciare dall'inizio della nostra fuga.

“Capisco.”
ribattei distrattamente, allontanandomi dalla credenza per versarmi dell'altro vino, che bevvi tutto d'un fiato, ed ancora una volta copiai la medesima azione, ed una seconda, vi fu perfino una terza. La brodaglia era pessima, ma faceva il suo dovere. La fermezza dell'alcol prese a mescolarsi col sangue, al di sotto delle vene, rendendo cedevole ogni singolo muscolo del mio corpo.
Un calore improvviso mi si avvinghiò alle viscere, stordendomi. Mai bere a stomaco vuoto, sussurrai appena, ma non permisi al malessere di sopraffarmi e caparbiamente intentai una lotta contro i bottoni della giubba, nel tentativo di liberarli dalla costrizione delle asole. L'impresa si rivelò alquanto ardua, ma riuscii a portarla a termine, togliendomi di dosso l'indumento umido di pioggia e gettandolo poi a terra con noncuranza. Riservai lo stesso trattamento alla mia fedele spada, che ritrovai come sempre sul fianco sinistro. Slegai la cintura con un veloce gesto della mano e l'adagiai sul tavolo.

“Credi che la Regina...”
domandai lasciando incompiuta una frase che non aveva bisogno d'essere conclusa, poiché quel timore, che era stato lo stesso di mio padre, aveva quasi ucciso entrambi. Avrei dovuto preoccuparmi del mio destino, ma riuscivo a pensare soltanto a ciò che avevo udito un attimo prima. André aveva dimorato li, pagando del denaro ad un affittacamere come un qualsiasi soldato senza casa. Avevo affermato di capire, ma era stata solo una bieca menzogna per ignorare la verità. Non lo accettavo, perché riconoscerlo avrebbe significato affrontare quella parte di colpa che mi spettava di diritto. E, allora, non era mia intenzione farlo.

“Che differenza vuoi che faccia ora. Ti rendi conto di quello che abbiamo fatto?”
il pragmatismo di André mi colse inaspettatamente, come un manrovescio ben assestato, chiarendo che, quella scelta che per me aveva ancora l'aspetto dell'errore, era stata compiuta da entrambi. E che recriminare non ci avrebbe portato da nessuna parte.
Ero pienamente cosciente di ciò che avevamo fatto, ma in quel luogo, nella desolazione del centro di Parigi, tutto mi parve improvvisamente lontano. Perfino la sofferenza divenne quasi dolce, quasi, perché mi bastò udire un tuono solitario per ricadere nell'inquietudine di quella giornata.

“Vuoi dire che non si potrà più tornare indietro? È questo che mi stai dicendo?”
quasi mi stupii nell'udire la mia voce proferir tali parole. Dopotutto desideravo tornare a palazzo Jarjayes? Davvero ero disposta a chinare il capo dinnanzi a mio padre, dopo averlo oltraggiato? Era così forte la paura dell'ignoto, di tutto ciò che per me era sconosciuto, da superare perfino la dignità?
Non seppi, o non volli colmare quell'interrogativo e André non mi venne in aiuto. Se ne stava immobile al capo del tavolo, con la bottiglia di rosso stretta nella mano, meditabondo sul da fare, cedere all'oblio della sbronza o difendere la ragione?
Io optai per l'oscurità della mente. Tracannai l'ennesimo bicchiere di vino, tralasciando quel garbo che era stato l'orgoglio dei miei modi e per il quale avevo ricevuto complimenti e ammirazione, per abbracciare un lato decisamente più ruvido del mio essere.
Una goccia di liquido scarlatto sfuggì alla lingua, la sentii rovesciarsi all'angolo della bocca e scivolare oltre le labbra, in una corsa che avrebbe visto la propria conclusione alla fine del volto, ma ch'io bloccai con il dorso della mano.

“Dovresti darci un taglio, Oscar.”
mormorò appena André, e quel suo riguardo mi risultò stomachevole, più del beverone che mi stava riempendo lo stomaco.
Determinata ad avere un confronto diretto con lui, compii qualche passo per raggiungere quel lato della tavolata che mi avrebbe dato modo di fronteggiarlo. Posai le mani sul pianale e mi impossessai del suo calice, dissetandomi con quel liquido che a lui non interessava più, ed una volta svuotato lo rimisi al proprio posto.
Lui non reagì in alcun modo, non tentò neppure di fermarmi, rimase seduto con lo sguardo fisso su di me. Quella sua compostezza, che rasentava la perfezione, mi irritò oltremodo e, riacquistata una posizione eretta, gli strappai la bottiglia dalla mano e mi ci attaccai.
Ingollai quel che rimaneva del contenuto e poi la lasciai cadere a terra, con aria di sfida. Ero in attesa d'una sua reazione e quando fui certa che non ci sarebbe stata alcuna replica, mi arresi, vinta dall'impossibilità di sfogare il tumulto che m'agitava i nervi.
L'ebrezza alcolica mi stava dando alla testa quasi quanto il terrore per le naturali conseguenze che, la mia scelta, avrebbe portato con sé. Potevo salvare i miei soldati, ma cosa ne sarebbe stato di me stessa? Vivevo in un mondo fatuo, nel quale ero stata privata d'ogni genere d'orpello: il nome, il rango, il titolo, una carriera, divenendo soltanto un mucchio d'ossa e di carne.
Il cuore mancò un battito a quella visione, concepita dalla sbronza ormai alle porte della lucidità, eppure, al di là dell'allucinazione, mi sentivo realmente in trappola. Come un animale selvatico imprigionata in un posto forestiero, senza via d'uscita, con un uomo che non potevo guardare, perché la sua sola presenza risvegliava quella parte di me che avevo impiegato anni a soffocare.
Presi una decisione, se dovevo fare qualcosa l'avrei fatta bene: mi diressi verso la panca che conteneva la riserva d'alcol ed agguantai una fiaschetta di quello che riconobbi essere del liquore, d'una certa qualità a dir il vero. Tolsi il tappo e ne assaporai un paio di sorsi, beandomi d'un gusto invitante e piacevolmente violento, che mi fece quasi cedere le gambe.
Sentii di aver bisogno di camminare per far defluire il sangue, girai su me stessa e mi imbattei nella figura di André, ad un palmo dalla mia.

“Hai bevuto abbastanza, dai qui!”
gli sentii dire nel momento in cui si portò via il liquore e l'ultimo velo della mia pazienza. Non persi tempo con inutili proteste verbali, mi ripresi la bottiglia con una rapida mossa e, dopo aver incollato le labbra al bordo, ne succhiai il contenuto finché mi riuscì. Fino a quando le budella non mi si contorsero.

“Tu, hai bevuto abbastanza!”
sibilai quasi a ridosso della sua bocca con lo sguardo rimpicciolito dall'ira e lo lasciai li dov'era, sorpassandolo senza più curarmene.
Ero impazzita, irrimediabilmente persa nel fumo che preannunciava il divampare di un incendio, che ne fui sicura fin dal principio, mi avrebbe trascinata in mezzo alla sventura.
Mi aggiravo nell'ambiente circostante con passo malfermo, con il collo della bottiglia stretto nella mano sinistra, impegnata ad osservare gli elementi più insignificanti che mi stavano attorno, immaginando quanti e quali individui avessero calpestato quello stesso suolo.
Qualcuno dei miei soldati? Alain? E magari delle donzelle compiacenti che...
Stroncai qualsiasi supposizione riempendomi la gola con dell'altro medicamento e ricominciai la singolare ronda.
La stanza principale era fornita di un piccolo camino, ricavato con del grezzo mattone rossastro e, sulla mensola di pietra grossolana, vi erano adagiate dei mocci di candela consumati ed un libro. Sfiorai con la punta delle dita la copertina, il bordo, l'angolo esterno, fino ad aprirlo. Ne sfogliai le prime pagine lanciando occhiate superficiali tra le scritte fitte ed ordinate, finché una leggera sottolineatura non attirò la mia curiosità.

“Trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima.” (1)

Conoscevo quel testo, così come il proprietario del volume, ma ne ebbi la conferma quando ne ispezionai il frontespizio;

André Grandier, Versailles 22 aprile 1786

Quello di apporre la firma e la data su ogni libro letto era uno dei pochi vezzi che si potevano attribuire ad André, una bizzarria che poco si confaceva con il suo stato di servo, prima, e di attendente in seguito. Per quel che mi riguardava non vi era nulla di strano, al contrario, quella premura così sentimentale lo aveva reso, da subito, affine al mio modo d'essere.
Da che ne avevo memoria era rassicurante, per me, ritrovarlo tra le facciate dei libri che tanto avevo amato.
Conforto che non provai quella notte.
Richiusi il tomo lasciandomi alle spalle il salotto, o in qualsiasi altro modo si sarebbe potuta descrivere la stanza, e mi affrettai ad irrompere nella camera da letto. Subito mi balzò agli occhi il grande talamo, con le lenzuola disordinate, i guanciali abbandonati sul fondo del materasso, e, tra una piega e l'altra d'una coperta due scatoline di latta. La prima, aperta, conteneva quello che mi parve del fattibello (2), lo identificai facilmente poiché era stato oggetto di una furiosa discussione la sera del mio ballo a Versailles, in abiti femminili. La vecchia governante scomodò tutti i santi del paradiso, e il diavolo in persona, per persuadermi a farne uso, ma fui irremovibile nel mio diniego, impedendole di usarlo.
La seconda era decisamente più consunta, ne forzai il coperchio trovando al suo interno una finissima polvere trasparente e un lembo di carta piegato, lo svolsi; Cantaridina (3), riportava la scritta, insieme alle dosi di somministrazione. La mente mi si colmò di vergognosi scenari, che mi stupii d'essere capace anche solo d'immaginare, ed un sorriso mi dischiuse le labbra. Gettai il capo all'indietro e presi a ridere come non ricordavo d'aver fatto da secoli.
Proseguii nella mia esplorazione e mi trovai dinnanzi ad un comò di poco valore, sul quale la mancanza d'una specchiera era più che evidente, al suo posto era stato poggiato un pezzo di vetro, della dimensione sufficiente a catturare uno scorcio di viso.
Il mio.
Osservai la metà del volto visibile nel sudicio specchio e nell'effige che rimandava scorsi tutti i miei dubbi.
Chi dovevo essere? Il soldato del quale era rimasta solo l'ombra o la donna dall'altra parte del cristallo?
Aprii la mano destra dentro cui vi avevo trattenuto la latta di belletto e, nella macchia colore vermiglio, vi immersi il dito, avvertendo una consistenza insolita, paragonabile alla morbidezza del velluto. Col polpastrello imbrattato disegnai il contorno delle labbra, rendendole rosse, piene.
Guardai la mia bocca riflessa nel coccio di vetro assumere un'espressione impertinente, e mi domandai se una semplice chiazza di colore potesse rendere una persona dissimile, nel fondo dell'anima, da ciò che era sempre stata.
Rispondevo ancora al nome di Oscar Francois ma qualcosa dentro di me era stato liberato, forse la colpa era da attribuire a tutto l'alcol bevuto, perché in nessun altro modo avrei potuto spiegare l'audacia che mi stava scivolando sulla pelle.
All'erede dei Jarjayes era stata concessa un'esistenza pregna di libertà, un'istruzione elevata e innumerevoli benefici, ma per quel che riguardava il cuore la prigionia era stata delle più crudeli. Come ultima figlia femmina della famiglia Jarjayes, invece, mi sarebbe stata consentita qualsiasi debolezza e persino la più odiosa delle frivolezze.
Una vertigine mi colse d'improvviso confondendomi maggiormente la mente.
Avevo bisogno di bere.
Girai i tacchi, misi un piede davanti all'altro per compiere quei passi che mi sarebbero serviti per lasciare la camera e raggiungere la cucina, ma quando arrivai all'uscita vi trovai André a bloccarne il passaggio.

“Che cosa mi nascondi?”(4)
l'inaspettato mi colse di sorpresa, come colpì anche lui. Non mi sfuggì il suo stupore quando abbassò lo sguardo sulle mie labbra.
Cosa vuoi che ti risponda André? Cosa vuoi sentirmi confessare?
Che devo convivere ogni maledetto giorno con la consapevolezza d'essere la causa di dolori, e dispiaceri, per le persone che stanno al mio fianco? Tu hai perduto un occhio, mio padre la ragione.
Cosa debbo essere, per spazzar via tutto questo strazio?

“Niente, Andrè. Ora se vuoi scusarmi, vorrei...”
non mi diede il tempo di terminare, inchiodò le mani allo stipite del varco e concluse la frase al mio posto.

“...andare a bere? Ora basta, Oscar. Credi davvero che tutta questa situazione sia complicata solo per te? Ti sei fermata a pensare, anche solo per un istante, che anch'io ho messo in gioco la mia vita?”
non vi era amarezza nella voce, delusione forse, stanchezza senza ombra di dubbio.

“Avresti dovuto lasciare che mi uccidesse.”
gli gettai addosso quel fardello con una severità che non seppi spiegarmi.

“Taci...”
sussurrò appena, mutando la sfumatura della propria tonalità. Un avvertimento a non osare oltre.

“Cosa dovrei fare ora, essere la donna che tu vuoi che sia?”
fissai i miei occhi al suo sguardo, lasciando discorrere finalmente il cuore.

“Semplicemente dire, grazie André, ti è troppo difficile?”
eluse la mia domanda offrendomene una nuova. Un gioco che mi ricordava i nostri duelli, ma dove le armi erano più letali della lama d'una spada.

“E in che modo dovrei ringraziarti André? Com è che dovrebbe ringraziare... una moglie?”
mi feci così vicina da percepire il profumo alcolico del suo respiro. Innalzai il mento per mostrare tutta la mia risolutezza.

“Ti stai comportando in modo ridicolo, Oscar.”
anche lui, se possibile, cancellò la poca distanza che vi era tra noi. Scandì quasi ogni singola parola, marcando con la promessa della furia il mio nome.

“Avresti dovuto lasciare che...”
lo sfidai, incollerita. O quantomeno ci provai, la mia mossa venne intercettata e fu lui ad attaccare me.

“Taci... taci...”
il palmo della sua mano mi sigillò le labbra, piantandomisi addosso con una tale veemenza da farmi indietreggiare, quasi perdendo l'equilibrio. Ma non successe, il suo braccio mi cinse la vita e la mano libera si puntò al centro della mia schiena, tenendomi salda e legata a lui.
Lo sentivo ringhiare contro il dorso della propria mano, ordinarmi di tacere.
Ubbidii, la mia gola divenne muta e gli arti, abbandonati mollemente lungo i fianchi, non opposero resistenza.
Poi d'improvviso mi lasciò andare, il nostro abbraccio si allentò e la mano che mi era stata premuta sul viso divenne leggera. Le dita mi percorsero la bocca e con una prepotenza inattesa si portarono via il belletto.

“Non voglio che tu sia diversa da come sei. Non mi aspetto alcun ringraziamento. Ma non provocarmi con queste sciocchezze, Oscar.”
parlò guardandomi dall'alto della sua statura, nettandosi la mano macchiata di rosso sulle braghe della divisa. E nel non detto rimasto a mezz'aria odorai l'ennesimo ammonimento.

“Cosa succederebbe se invece lo facessi...?”
bacco annunciò quella follia, ma fui io, in piena coscienza, a trasformare in gesti le parole appena pronunziate.
Sollevai la mano verso la sua fronte sfiorandola appena, infilai le dita tra le ciocche di capelli che nascondevano l'occhio ferito e li scostai. Arrestai il palmo sul capo, giusto il tempo d'un sospiro, e subito dopo lo lasciai scorrere verso il basso, dove le dita gli carezzarono con pesantezza la guancia,  ed il pollice osò inseguire le labbra, precipitando infine oltre il mento.
Dove vi era stata il tocco andò il mio volto, ricalcandone la scia, e fu così che ci ritrovammo fronte contro fronte, così vicini da poter respirare l'alito dell'altro.

“Grazie...”
sussurrai appena, ai margini della sua bocca.









(1) Il contratto sociale – Jean-Jacques Rousseau - 1762
(2) L'antenato del rossetto, una sostanza di allume, gomma arabica e insetti schiacciati.
(3) La polvere o la tintura di cantaride usata come afrodisiaco e abortivo; se assunta in forti dosi può essere letale. La sua azione vescicante e fortemente irritante dell'apparato urinario poteva provocare sicuramente un'erezione che però veniva pagata dall'utilizzatore con danni renali e purtroppo a volte anche con la morte per insufficienza renale acuta.
(4) Domanda che André rivolge ad Oscar nell'episodio 36 dell'anime.
Un ringraziamento speciale a Crissi, per avermi imboccata sulla retta via (o era la giusta...), durante una delle nostre folli conversazioni. Grazie!
  
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