#06
– AFTERMATH ;
Passato
e Presente.
“C'è
una storia dietro ogni persona. C'è una ragione per cui loro
sono
quel che sono. Loro non sono così perché lo
vogliono.
Qualcosa
nel passato li ha resi tali e, alcune volte, è impossibile
cambiarli."
—Sigmund
Freud
La
suoneria di un cellulare si introdusse nel suo sonno agitato
facendole spalancare gli occhi di colpo. Si srotolò dalle
coperte
per sporgersi dal bordo del letto frugando nel mucchio di vestiti ai
suoi piedi.
«Pronto?»
biascicò mentre strisciava sulla pancia per tornare sul
letto.
«Ti
ho svegliata tesoro?»
«Mhn,
no—» si fermò a fissare perplessa il
mucchio di vestiti per terra
notando un paio di jeans e una maglietta più in
là. «cioè, sì,
ma tranquilla.»
«Ti
godi le vacanze dormendo fino a tardi, e i compiti?» la voce
di sua
madre sembrava divertita nonostante il rimprovero.
«Mi
hai chiamata di prima mattina per chiedermi se ho fatto i
compiti?»
non riuscì ad ammorbidire il tono critico.
«Non
rivolgerti così a tua madre.» la sentì
distintamente trattenere un
sorriso, come se ce l'avesse davanti. «Comunque ti ho
chiamata per
dirti che anticipiamo il rientro a dopodomani, a quanto pare ci
sarà
una tempesta di neve o una bufera.. Non so nemmeno se sono la stessa
cosa, so solo che mi rifiuto di rimanere quassù bloccata
anche se
Francesco e tuo fratello sembrano trovarlo divertente.»
«Immagino..»
borbottò sommersa dal fiume di parole.
«Ti
mando la lista della spesa, tanto immagino che non ci sia niente in
casa.»
«Okay,
okay, tanto domani Carla dovrebbe tornare dalle vacanze, la faccio
fare a lei.» rispose distrattamente mentre, dirigendosi verso
il
bagno, studiava i vestiti non suoi sparsi per il pavimento.
«Forse
è meglio visto che non hai la macchina.. La chiamo io dai,
lascia
stare.»
«Okay.»
La
chiamata durò il tempo necessario per andare al bagno,
mettersi
qualcosa addosso e rassicurare sua madre sul suo stato di salute, la
salutò in cima alle scale, chiedendosi se fosse davvero
preparata a
scoprire cosa c’era al pian terreno.
Lo
trovò in cucina, che –in boxer–
curiosava nel suo frigo come se
nulla fosse.
«Buongiorno.»
lo vide sobbalzare quando la sentì.
«Oh,
buongiorno.» le sorrise spuntando con tutti i capelli
arruffati da
dietro l’anta. «Non hai proprio nulla da mangiare
per colazione,
ma la fai mai una spesa decente?»
«Diciamo
che non è nel mio ambito di competenza.» gli si
avvicinò
allungando un braccio per prendere la bottiglia d’acqua.
«Come mai
sei ancora qui?»
«Ieri
sera sono crollato, come te d'altronde, quando sono uscito dal bagno
eri già nel mondo dei sogni e sembravano piuttosto
agitati.»
«Non
importa, basta che non pretendi di farti pagare la notte
intera.» si
allontanò per appoggiarsi con la schiena all’isola
e bere. La
notte prima, grazie alla lettera che aveva ricevuto, era stata
tormentata dallo stesso incubo che spuntava ogni volta che era
vulnerabile.
«Non
sarei mai così meschino.» chiuse il frigo e le
sorrise radioso,
quel buon’umore mattiniero la infastidiva. Come si fa ad
essere
così allegri quando si è appena scesi dal letto?
«Ora vestiti
però, andiamo a fare colazione fuori.»
«Perché?»
inclinò la testa leggermente da un lato perplessa.
«Perché
io ho fame e tu devi fare una colazione decente, tranquilla, ognuno
paga per sé.» la verità era che non
sapeva perché avrebbe dovuto
dire di no. Cioè, lo sapeva, ma non trovava una motivazione
valida
per cui una colazione avrebbe distrutto quell’equilibrio
precario
che avevano creato. In fondo sarebbe uscita lo stesso a fare
colazione perché nel frigo non aveva più latte
né nulla da
mangiare. Quindi perché no?
«Ci
mancherebbe solo che ti offra la colazione con quello che ti
pago.»
«È
un sì?» sembrava sorpreso, come se non si
aspettasse che lei
sarebbe effettivamente venuta. Sembrava piacevolmente sorpreso.
«Ho
fame e come tu mi hai fatto gentilmente notare il frigo è
vuoto.»
scrollò le spalle uscendo dalla cucina, chiedendosi se si
fosse
dovuta sorprendere anche lei di aver accettato senza indugi.
Dopo
essersi preparati alla bell’e meglio ed essersi coperti per
bene
dato il cielo scuro che minacciava pioggia a catinelle salirono nella
macchina di Ian diretti al bar più vicino.
«Mi
aspettavo un’auto più vistosa da parte tua,
comunque.» disse
Amelia allacciandosi la cintura di sicurezza. Non che ci capisse
molto di auto, distingueva a malapena una Smart da un SUV, ma
insomma, ad occhio poteva dire quali fossero le auto che gli uomini
prendevano per compiacere e spargere il proprio testosterone e quali
per utilità.
«Come
mai?» sorrise lui mettendo in moto.
«Beh,
non è che tu non ti possa permettere
una—» rifletté un secondo
su quali fossero le auto che aveva visto più spesso nel
girone dei
dannati che era l’alta società. «Porche,
per esempio.»
«Sono
scomode e troppo basse, se voglio correre lo faccio in moto.»
era un
guidatore attento, nonostante chiacchierasse con nonchalance con lei
non si lasciava sfuggire nulla della strada. «Senza contare
che mia
madre si chiederebbe come fa uno che salta da un lavoro a tempo
determinato all’altro a permettersi un auto che vale
più della sua
stessa casa.»
«Mi
sembrano entrambe buone motivazioni.. quindi hai una moto?»
parlare
con lui di quelle piccole cose mentre attraversavano la
città
nebbiosa su cui cominciava a piovigginare le sembrava quasi la cosa
più normale del mondo. Forse era perché lo
pagava, forse perché
lui era davvero bravo in ciò che faceva, ma la faceva
sentire a suo
agio, come se avesse il controllo della situazione e potesse
finalmente lasciarsi un po’ andare.
«Sì,
mi sarebbe piaciuta una Harley, ma sai com’è,
credo che non
riuscirei nemmeno a tenerla in piedi senza contare che non ho un
garage dove metterla.»
«Capisco.
Nonostante mi sia sempre piaciuto andare in moto preferisco di gran
lunga essere il passeggero di qualcuno di cui mi fido che il
guidatore, sono troppo veloci e instabili per me.» lo disse
come se
stesse quasi parlando con sé stessa, con lo sguardo perso
fuori dal
finestrino appannato veniva assalita dai ricordi, le vecchie
abitudini. Lei che apriva le braccia e con la testa
all’indietro
urlava sul retro di un motorino, il suo amico che guidava che rideva
a crepapelle, il sole sopra di loro che li abbagliava, il brivido
della libertà.
«In
poche parole non salirai mai su una moto in vita tua.» questa
frase
la fece voltare verso di lui e lui distolse lo sguardo che aveva
posato su di lei per qualche istante.
Lo
fissò intensamente mentre i ricordi sbiadivano tornando al
loro
posto, rinchiusi da qualche parte in cui non sarebbe andata a scavare
di nuovo.
«No,
ora no, ma una volta sì. Era divertente.»
mormorò assorta
fissandolo intensamente. Lui s’immise in un parcheggio
davanti al
bar dove avevano fatto colazione anche quella mattina in cui gli
aveva proposto il secondo accordo.
«Quindi
una volta avevi degli amici, Miss?» rispose al suo sguardo
quando
ebbe sfilato la chiave. Quelle pozze blu così tranquille
avevano un
potere magnetico su di lei, forse si stava abituando troppo in fretta
alla sua presenza.
«Immagino
che si possa dire così.» scrollò le
spalle slacciandosi la cintura
e distogliendo lo sguardo, desiderosa di poter evitare il discorso il
più possibile. Non aveva lottato per diventare quella che
era ora
solo per tornare la nostalgica ragazzina troppo sensibile da essere
spezzata da una parola sbagliata da parte della persona giusta, da un
ricordo al momento sbagliato. Ian scese veloce e fece il giro della
macchina per aprirle la portiera.
«Uh,
quindi una volta eri un comune essere mortale come tutti noi, buono a
sapersi.» le sorrise da sotto la pioggerella fitta e sottile
che gli
inumidiva e scompigliava ancora di più i capelli corvini.
«Buono
a sapersi..?» lo guardò perplessa scendendo
dall’auto a sua
volta, passandosi una mano fra i capelli distrattamente. Ian
schiacciò il bottone sulle chiavi facendo chiudere le
portiere e le
si piazzò davanti con un espressione serafica che le faceva
sempre
temere di scoprire cosa pensasse davvero quel ragazzo.
«Sì,
vuol dire che sei un essere umano.» sorrise con
semplicità a pochi
centimetri dal suo viso mettendola curiosamente a disagio, come se
tutta quella situazione fosse estremamente sbagliata. Come se ci
fosse una nota stonata quanto delle unghie che sfregano su una
lavagna.
«Solo
perché non mi comporto come secondo te dovrebbe fare una
ragazza
della mia età non vuol dire che non sia umana.»
inarcò un
sopracciglio infastidita da quelle battutine più di quanto
avrebbe
dovuto.
«Io
non ho la più pallida idea di quanti anni tu abbia, a dire
il vero,
ma so che non è tutto come sembra con te.» quella
risposta la
lasciò basita ferma vicino all’auto mentre lui con
tutta la
tranquillità del mondo si dirigeva verso la porta del bar e
la
teneva aperta per lei, aspettandola.
Lo
guardò per qualche istante sospettosa, come un animale
selvatico che
valuta quante probabilità ci sono che gli stiano tendendo
una
trappola, poi i suoi piedi si mossero da soli e con lo sguardo fisso
davanti a sé lo superò, sicura che le sarebbe
stato dietro.
«Allora,
che cosa prendi?» le domandò appoggiando la giacca
di pelle alla
sedia di fronte a quella che aveva occupato lei.
«Cappuccio
e brioche.» stette bene attenta a non incrociare il suo
sguardo.
«Okay,
alla marmellata giusto?» accidenti a lui. Con quella domanda
la
sorprese facendola scattare verso di lui, come faceva a sapere?
Giusto, la colazione che avevano fatto quasi un mese prima, ma.. come
faceva a ricordarsi un dettaglio così insignificante?
«Sì.»
quell’unica sillaba le sfuggì dalle labbra
spaccate sotto forma di
un ringhio indispettito, facendole guadagnare un’occhiata
divertita
da parte dell’uomo che sembrava aver capito cosa la
infastidiva
tanto.
«Arrivo
subito.» detto questo andò al bancone a parlare
con la ragazza
bionda della volta precedente lasciandola a guardarsi attorno
distrattamente. C’erano più avventori della volta
precedente,
forse perché erano quasi le undici e non presto come
l’altra
volta. Si ritrovò attratta come una calamita ad osservare di
nascosto Ian che chiacchierava e rideva con la ragazza, inducendola
ad interrogarsi su quale rapporto avessero quei due, se lei sapesse
che lavoro faceva davvero quell’uomo così
affascinante. Se lei
sapesse chi era lui davvero.
In
fondo lei stessa lo sapeva? Certo, non si conoscevano intimamente nel
senso tradizionale eppure sentiva che quel legame puramente fisico
che avevano costruito era qualcosa di diverso, di talmente diverso da
non infastidirla. Non c’era amore, sentimenti, non era legata
a lui
se non per il sesso ed anche se ne aveva bisogno forse il fatto di
essere lei stessa a condurre il gioco riusciva a calmarla. Con molta
probabilità, anche se il rapporto includeva il fatto che i
due si
usassero reciprocamente, proprio perché entrambi erano a
conoscenza
di ciò rendeva quella situazione assolutamente gestibile e
accettabile. Giusta.
Non
ci sarebbe mai stato niente di più e per questo poteva
permettersi
di starsene lì a fare colazione con quel ragazzo senza
temere nulla,
senza temere tutto.
«Ora
arriva tutto.» la riscosse dai suoi pensieri Ian sedendosi
davanti a
lei con un sorriso smagliante. Sentì una strana stretta alla
bocca
dello stomaco, doveva essere davvero molto più affamata di
quanto
pensasse.
«Va
bene.» rispose distrattamente tirando fuori il cellulare per
controllare i messaggi.
«Tutto
bene?» lui era uno dei pochi che riusciva a sorprenderla
intuendo i
suoi stati d’animo, non capiva bene come facesse. Si
ritrovò ad
alzare di nuovo lo sguardo incontrando il suo concentrato su di lei.
«Perché?»
«Una
sensazione.» scrollò le spalle mantenendo il
contatto visivo.
«Capisco.»
«Allora?»
«Cosa?»
poggiò il cellulare di fronte a lei, sul tavolino,
sentendosi
studiata ad ogni minima mossa.
«Allora
va tutto bene?»
«Non
ti arrendi mai, vero?» si passò una mano fra i
capelli lanciandogli
un’occhiataccia.
«Mai.»
sorrise con semplicità facendole chiedere da quale girone
dell’inferno l’avessero mandato per tormentarla.
«Peccato.»
La
bionda le risparmiò di rispondere arrivando con un vassoio
carico
delle loro ordinazioni. Poggiò due brioche con delle gocce
di
cioccolato sopra davanti a lui, i cappuccini e un croissant davanti a
lei.
«Ecco
a voi, dovresti seriamente mangiare di meno.» sorrise la
ragazza
fissando Ian, fingendo un tono di rimprovero.
«Perché
mai se non ingrasso?»
«Fottiti.»
quella risposta diretta fece sorridere sotto i baffi Amelia ancora
prima di rendersene conto. Nonostante si ricompose in fretta
quell’espressione non sfuggi all’uomo di fronte a
lei che le
sorrise a sua volta complice.
«Allora
non sai fare solo smorfie disgustate!» commentò
allegramente
avvicinando a sé la tazza e il piattino con sopra la sua
colazione.
«Sono
completamente d’accordo su quello che ti ha detto la tua
amica.»
«Che
dovrei mangiare di meno?»
«No,
che dovresti andare a farti fottere.» questa risposta detta
con un
tono assolutamente calmo e diplomatico lo fece scoppiare a ridere
attirando diversi sguardi.
Amelia
sbuffò e addentò la sua colazione chiedendosi
ancora una volta
perché fosse lì.
“Wanderwall"
degli Oasis cominciò a risuonare dalla giacca del ragazzo
che
estrasse velocemente il cellulare dalla tasca e rispose senza nemmeno
guardare chi lo stava chiamando.
Senza
farci nemmeno tanto caso, la ragazza si ritrovò ad ascoltare
la
conversazione mangiando la sua colazione.
«Sono
qua da Beth con un’amica adesso.. Beh sì, ma
dopo.. Okay, okay..
Tranquillo, non ho intenzione di assalire la tua promessa
sposa..»
una risata sommessa, il caffè che si raffreddava e lei smise
di
ascoltare disinteressata guardandosi intorno.
C’era
una coppia di anziani che discuteva animatamente dall’altra
parte
del bar, un ragazzo che sembrava pendere da un cellulare che rimaneva
spento appoggiato vicino ad una tazzina vuota e una brioche
intoccata, due ragazzine che potevano avere al massimo quindici anni
che ridevano allegramente e un signore anziano che leggeva la
Gazzetta dello Sport. Erano tutti lì, con le loro vite, il
loro
passato, tutti intrecciati da un destino comune che li portava in
quel bar, senza nemmeno notarsi a vicenda perché troppo
occupati dai
problemi di tutti i giorni. Tanto tempo prima si divertiva ad
immaginare quale potesse essere la storia di ogni persona che
incrociava per strada, le loro esperienze, i loro pensieri. Era una
persona curiosa che fin da piccola voleva sapere tutto per pura
curiosità.
Contrapporre
quell’immagine di sé stessa a quella del presente
faceva male per
la distanza che si era creata fra quelle due persone, diametralmente
opposte. La differenza fra lei e quella ragazzina che ad un certo
punto era arrivata ad un punto in cui non sapeva più nemmeno
lei
dove arrivava la finzione, sospesa fra ciò che gli altri
vedevano e
il nulla che era dentro. E rideva, senza farlo mai davvero, parlava
fino a non sentirsi più lei stessa.
Tutto,
tutto per non sentire il silenzio che urlava sordo dentro di lei.
«Mel?»
come succedeva spesso in quei giorni fu Ian a richiamarla alla
realtà, la cui frequentazione aiutava a lenire i ricordi che
cercavano di risalire a galla.
«Sì?»
riportò lo sguardo su di lui che aveva terminato la chiamata
e
appoggiato il cellulare sul tavolino.
«Mi
sbaglierò, ma c’è un uomo seduto fuori
che continua a fissarti.»
Non
fece in tempo a finire la frase che la sua testa scattò,
sapeva già
che cosa avrebbe visto, chi avrebbe trovato, ma sperava fino
all’ultimo che non fosse vero. Eccolo lì, con un
bicchiere davanti
che la osservava da uno dei tavolini esterni con un sorrisetto
sfrontato, quegli occhi verde bottiglia che la scorticavano come
carta vetrata sulla pelle.
«Lo
conosci?»
«No,
sarà solo un ubriacone a cui piacciono le ragazze
giovani.» scrollò
le spalle mantenendo il controllo sulla propria voce, tutta la
leggerezza di poco prima era sparita.
«Vuoi
che gli dica di smettere?» la fissò con uno
sguardo indecifrabile,
facendola scoppiare suo malgrado in una risatina che suonava falsa
persino alle sue orecchie.
«Ora
anche il ruolo di cavaliere senza macchia fa parte del
pacchetto?»
«Come
ti pare.» sembrava irritato da quel rifiuto così
netto, ma non se
ne curò più di tanto, sentendosi osservata come
una cavia da
laboratorio.
«Vado.»
dopo qualche istante di silenziò finì di bere il
proprio cappuccino
lasciando pressoché intoccata la brioche e si
alzò di scatto,
poggiando i soldi sul tavolo.
«Okay.»
la guardò stranito il ragazzo, capendo che non lo voleva con
sé.
Si
infilò la giacca e uscì in fretta, sperando che
non la seguisse,
non disse un’altra parola ad Ian e lui nemmeno, anche se lo
sentì
mentre la seguiva con lo sguardo. Oppure era solo una sua ossessione
quella di sentirsi osservata?
Camminava
veloce, con le mani in tasca, diretta al supermercato più
vicino per
prendere qualcosa da mangiare e trovare un luogo neutro per
affrontare l’uomo che la seguiva a passo svelto facendo
rumore
quando finiva in una pozzanghera formatasi sul marciapiedi sconnesso.
Una
volta nel parcheggio del discount superò con passo sicuro un
angolo
più nascosto dietro a dove tenevano i carrelli e si accese
una
sigaretta appoggiata al muro, aspettando che la raggiungesse.
«Pensavo
che non ti saresti fermata più.» infatti eccolo,
con quella sua
voce strascicata che tanto odiava.
«Io
non scappo, cosa vuoi?» lo fulminò con lo sguardo
mentre se ne
stava anche lui con le mani in tasca sotto la pioggerellina leggera
che aveva iniziato a cadere, a fissarla.
«Mi
sembra di averlo messo nero su bianco, oppure non hai ricevuto la mia
lettera?»
«Quella
in cui mi chiedi di darti più soldi di quanti
possieda?» inarcò un
sopracciglio mantenendo una calma glaciale. La verità era
che in
quel momento una parte di lei avrebbe voluto urlare, gridare e
dimenarsi, piangere a dirotto. Avere dei sentimenti da riversare
sopra quell’essere che l’aveva fatta a pezzi,
invece rimaneva lì,
bloccata in un limbo in cui si era rifugiata una volta in cui aveva
fatto troppo male per respirare e non ne era più uscita. Non
avrebbe
più mostrato debolezza, né rabbia, né
odio, perché non aveva più
nulla. Solo quel vuoto in cui poteva distintamente sentire
l’eco
del suo battito cardiaco regolare.
«Andiamo,
ho visto in che bella casa vivete, sono sicuro che i soldi li hai, lo
sai che mi servono.» le si avvicinò di un passo.
Anche se era
ancora troppo lontano per sentire il suo odore riusciva ad
immaginarselo, le era rimasto impresso nella mente quel misto di
dopobarba alla menta troppo forte, alcool, sudore e fumo. Tutto
ciò
che aveva amato di suo padre era soffocato in quell’odore
nauseante, sporco.
«Anche
se li avessi non te li darei e in ogni caso non hai nessun diritto di
chiedermeli, saresti tu a dovermi dare gli alimenti.»
cercò di
imprimere il disgusto in ogni singola parola che sputò
fuori. Lui si
accigliò, come se avesse appena detto la stronzata del
secolo.
«È
stata tua madre a cacciarmi di casa, se vuoi lamentarti con qualcuno
fallo con lei.» sputò fuori pieno di risentimento.
«E
io l’ho aiutata, questo non ti da il diritto di venire a
chiederci
di saldare i tuoi debiti.»
«Tu
sei mia figlia, hai il dovere di aiutare tuo padre, ho dato tutto per
te.» si avvicinò ancora di un passo e lei dovette
farsi forza per
non indietreggiare disgustata.
«Mio
padre è morto.» ringhiò raddrizzandosi,
la sigaretta che ormai
fradicia si era spenta da tempo fra le sue dita. «Sono stata
ad
ascoltarti per dirti solo questo: osa ancora avvicinarti a casa mia,
alla mia famiglia e finirai molto peggio di come ti conceranno gli
strozzini con cui sei andato ad impantanarti quando tornerai da loro
a mani vuote.»
Dritta
davanti a lui gli arrivava a malapena alle spalle, aveva preso
l’altezza dalla madre come quasi tutti i suoi tratti e li
portava
orgogliosamente davanti a quell’uomo che aveva tentato di
distruggerli per anni.
«Non
osare parlare così a me ragazzina, sei uguale a quella
stronza di
tua madre.» ormai riusciva a sentire il suo odore per quanto
si era
avvicinato ed era come lo ricordava, notò con una smorfia di
disgusto. Quell’uomo era ciò che rimaneva
dell’uomo affogato nei
vizi che una volta era suo padre. «Tua madre mi deve quei
soldi e se
non me li darai tu, me li darà lei.»
«Io
ti ho avvertito, stalle lontano o ti ammazzo.» rispose
glaciale per
poi superarlo a passo svelto, buttando la sigaretta per terra. Non
riuscì a fare nemmeno un passo che sì senti
stringere con forza il
braccio.
«Dove
credi di andare?» la strattonò riportandola
indietro con uno sbalzo
che quasi la fece cadere. Poteva fare la dura quanto voleva, ma era
alta un metro e un tappo e pesava poco più di 50 chili, per
quanto
lui fosse magro e malmesso era sempre più forte di lei.
«Lasciami
andare.» la sua voce calma sembrava quasi surreale in quel
contesto,
la pioggia aveva smesso di cadere, ma il cielo continuava ad essere
plumbeo nascondendo la luce del sole.
«Altrimenti
cosa fai? Mi ammazzi?» scoppiò a ridere duramente
l’uomo.
Sembrava delirante.
«Mel!»
sentì urlare il proprio nome e in un attimo
l’immobilità si
spezzò, come se non fosse nemmeno lei a muovere il proprio
corpo
sfilò il braccio dalla sua presa che si era allentata quando
aveva
sentito la voce alle proprie spalle e gli sferrò un pugno
dritto sul
naso. Lui cadde come un sasso sull’asfalto alle sue spalle
visto il
suo equilibrio reso instabile dall’alcol con una mano davanti
al
viso sporca di sangue.
«Mel,
stai bene?» vide Ian correre verso di lei da dietro
l’angolo con
un’espressione sconvolta mentre sentiva la propria mano
pulsare
dolorosamente.
«Cosa
cazzo ci fai qui?» lo aggredì non appena fu al suo
fianco.
«Beth
mi ha detto che l’ha visto seguirti e sono venuto, sai
per—»
sembrava confuso, di sicuro quella non era la reazione che si era
aspettato da parte di un’ideale donzella in pericolo.
«E
hai pensato bene di venire in mio soccorso sul tuo cavallo bianco?
Spiacente, so cavarmela da sola.» ringhiò nella
sua direzione
interrompendolo. Lanciò un’ultima occhiata
all’uomo che cercava
di alzarsi da terra barcollando mentre inveiva contro di lei e poi si
allontanò a passo svelto ignorandolo, con Ian alle calcagna.
La
seguì ad un passo di distanza silenziosamente, non
protestò per la
sua accoglienza poco calorosa o le chiese spiegazioni. Semplicemente
la seguì e doveva ammettere con sé stessa che in
qualche modo la
sua presenza la tranquillizzava e irritava al tempo stesso.
Entrò
nella prima farmacia che trovò sulla strada, sempre con la
sua
scorta alle spalle e prese del ghiaccio istantaneo da uno scaffale
per poi continuare verso la cassa.
Vide
l’uomo affiancarla mettendosi in fila per quella vicina con
qualcosa in mano, forse avevano fatto solo la stessa strada e non
l’aveva seguita dopotutto. Non capiva se doveva sentirsi
delusa o
sollevata da quella conclusione.
Pagò
e uscì senza aspettarlo, dirigendosi verso casa, si sarebbe
fermata
dal primo droghiere per prendere qualcosa per il pranzo, il discount
era fuori questione.
Quando
uscì dal negozio se lo trovò lì
davanti, con una busta della
farmacia che gli pendeva dalla mano la aspettava silenziosamente. Gli
lanciò un’occhiata impenetrabile e poi
continuò per la propria
strada. Arrivata al cancellino le fu chiaro che non avrebbe mollato.
Sempre
senza dire una parola aprì il cancellino e poi la porta
dell’ingresso facendolo abbastanza lentamente da lasciargli
il
tempo di seguirla, forse voleva solo i soldi della sera prima e poi
se ne sarebbe andato.
Poggiò
la busta della spesa in cucina e si sedette su uno sgabello vicino
all’isola, lui restò immobile sulla soglia della
stanza,
fissandola silenzioso.
Nonostante
avesse voluto chiedergli dei soldi e mandarlo via le parole le si
fermarono in gola, aprì le labbra una volta e le richiuse
senza
emettere un fiato. Distolse in fretta lo sguardo e si
applicò con la
mano dolorante ad aprire la confezione che aveva preso in farmacia,
ignorandolo.
~*~
La
osservò silenziosamente mentre lo ignorava con
testardaggine. Dal
momento in cui l’aveva aggredito quando era corso in suo
soccorso
aveva capito di aver superato inavvertitamente uno delle tante linee
di confine che lei aveva tracciato.
“La
proposta è questa: quando ho bisogno— dei
tuoi servizi ti chiamo, tu rispondi e poi te ne vai.
Niente domande o
intromissioni nella mia vita privata.”
Quelle
erano state le esatte parole che aveva detto, non si atteggiava da
dura, non era una finzione perché da lui voleva che
abbattesse
quelle barriere. Quando l’aveva incontrata la prima volta
aveva
pensato che fosse pazza, completamente pazza e machiavellica. Pagare
un uomo per perdere la verginità come e quando voleva lei.
Una
maniaca del controllo calda come un ghiacciolo e anaffettiva come
solo Crudelia Demon poteva essere. E quando quella sera si era
presentato alla sua porta per compiere il suo dovere lei non aveva
fatto nulla per fargli cambiare idea.
Eppure
c’era qualcosa di più. Non poteva fare a
meno di continuare a
ripetersi quella frase nella sua testa, spuntava sempre nei momenti
più inopportuni.
Quella
convinzione forse l’aveva spinto ad andare a prendersi cura
di lei
quando era malata e chiederle di lei quando abbassava di poco la
guardia dopo il sesso. Piccole briciole, indizi su chi era davvero
eppure non la capiva ancora. Non riusciva a trovare una motivazione
perché lei si comportasse così, perché
aveva allontanato così la
propria umanità. Non poteva comportarsi così
freddamente solo con
lui, nonostante avesse notato che si era sciolta un po’
bastava un
battito di ciglia, una parola sbagliata e tornava a rifugiarsi dietro
quel muro d’acciaio che si era creata.
Quello
che aveva visto quella mattina forse spiegava qualcosa di quel suo
comportamento e lo legava ancora più strettamente a quella
ragazza
che lo usava per dimenticare, per fuggire da sé stessa.
Quello
che nascondeva con le parole e con i gesti veniva fuori mentre
facevano sesso, nel sonno agitato che la sera prima lo aveva spinto a
fermarsi a dormire e stringerla mentre tremava come una bambina,
inconsapevole.
Quello
che l’aveva spinto a seguirla a piedi lasciando
l’auto quasi
dall’altra parte della città, solo
perché pensava che potesse
avere bisogno di aiuto.
Sapeva
che lei non lo voleva lì, ma non poteva lasciarla andare.
«Lascia.»
fu la prima parola dopo un’ora di silenzio, le si
avvicinò e
poggiò la busta della farmacia che aveva ancora con
sé lì accanto,
poi le sfilò la scatola di cartone contro cui stava lottando
senza
successo. L’aprì e spaccò il ghiaccio
sintetico contro il banco
dell’isola, agitandolo e poi porgendoglielo.
Lei
incontrò il suo sguardo per un attimo e poi lo prese,
poggiandolo
sulla mano le cui nocche erano sbucciate e stavano assumendo un
colore violaceo.
«Non
devi rimanere qui.» mormorò assorta mentre si
guardava le mani. Era
interpretabile come un “Non ho bisogno di te, non ho bisogno
della
tua pietà". Nonostante questo lui scosse la testa serio.
«Non
ho nulla da fare.»
«Non
serve.» insistette alzando lo sguardo, aveva
un’espressione che
era definibile solo come vuota, sembrava
completamente
svuotata dall’astio con cui aveva affrontato
quell’uomo.
«Lo
so, ma resto comunque, mi piace darti fastidio.»
«L’avevo
notato.»
Restarono
ancora qualche istante a guardarsi negli occhi e poi lei
abbassò di
nuovo lo sguardo, persa di nuovo nei suoi pensieri. Era come se nella
sua forza sembrasse estremamente fragile. L’aveva raggiunta
di
corsa, appena in tempo per sentire le ultime frasi da dietro
l’angolo, lei sembrava cavarsela bene con quello che a quanto
pareva era suo padre e aveva deciso di rimanere lì e non
intervenire
se non in caso di bisogno. Era preoccupato per quella ragazzina alta
quanto un nano da giardino che sembrava incurante del rischio che
correva, era assurdo, ma era preoccupato.
Quando
aveva sentito la situazione degenerare non aveva potuto fare altro
che provare ad aiutarla, solo per vederla stendere lo stronzo con un
pugno.
Lo
sguardo che aveva lo aveva bloccato, sembrava come se non ci fosse
altro che odio dentro di lei. In quel momento ci aveva creduto
davvero a quella minaccia che aveva fatto all’uomo a terra,
era
perfettamente plausibile, che l’avrebbe potuto ammazzare
senza
provare nulla. Nell’istante in cui l’aveva pensato
si era dato
dell’idiota, ma quel dubbio strisciante rimaneva.
Era
finita così perché l’odio aveva
consumato tutto il resto? Era
davvero così semplice?
Rimasero
in silenzio, lei con lo sguardo basso persa nei suoi pensieri e lui
che la guardava. Sfilò dalla busta di plastica la pomata e
la garza
che aveva preso e con delicatezza le tolse il ghiaccio dalla mano.
Lei
incontrò il suo sguardo senza dire una parola e lo
lasciò fare
mentre teneva la sua mano piccola e fredda fra le sue, le applicava
l’antinfiammatorio e la fasciava.
«Non
è un po’ esagerato per un paio di
sbucciature?» aveva la voce
rauca, forse dovuta ai capelli bagnati e al lungo silenzio.
«Forse,
ma è sempre meglio esagerare che non fare
abbastanza.» scrollò le
spalle senza dire altro, continuando a tenere la sua mano fra le sue.
«Mhm.»
non disse altro, scendendo dallo sgabello lentamente e avvicinandosi
a lui mantenendo il contatto visivo e fra le mani.
Cominciò
a baciarlo e sospingerlo dolcemente verso il soggiorno, dove sapeva
che avrebbe trovato il divano e lui non poté fare a meno di
darle
ciò di cui aveva bisogno, anche se sapeva lui per primo che
non era
che un altro modo per scappare dai problemi, dalle domande, dalle
spiegazioni. Un modo per riempire il vuoto che sembrava circondarla.
Non
voleva salvarla, non sapeva nemmeno come si faceva, ed era convinto
che se una persona non vuole essere salvata non c’era nulla
da
fare, ma allo stesso tempo non poteva mollare la presa. Anche se non
se ne rendeva conto lei lo attraeva come una forza magnetica che gli
impediva di lasciarla sola a sé stessa.
Note
dell’autrice:
eccomi con un
nuovo capitolo, cerco
di
andare più alla svelta possibile con gli aggiornamento
impegni
permettendo.
Mi
farebbe davvero piacere sentire la vostra opinione a riguardo, per
come sta andando, se vi sta piacendo, se c’è
qualcosa che non
quadra o che non va secondo voi, le critiche sono sempre ben accette.
Vorrei
ringraziare chi sta leggendo fin’ora, anche silenziosamente,
per il
tempo che state dando alla mia storia e chiunque stia seguendo,
preferendo o ricordando.
With
love. :)
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