Capitolo
trenta
Sangue
Silye
si svegliò non appena le prime luci dell'alba si
infiltrarono nella
casupola attraverso l'unica piccola finestra che vi era. Si
stropicciò gli occhi e fece per stiracchiarsi, quando
qualcosa si
mosse accanto a lei, alzandosi ed allontanandosi. Úlfur
doveva
essere rimasto accocolato accanto a lei durante la notte ed ora lei
l'aveva svegliato di soprassalto con i suoi movimenti improvvisi, per
quanto lenti. Sollevò la testa dal giaciglio per guardarsi
intorno:
nessun segno di Vidar. Voleva davvero sapere cosa faceva tutto quel
tempo fuori, lontano da lei. Pensò che forse era proprio
quello il
motivo per cui dalla mattina precedente non faceva altro che
evitarla: non la voleva tra i piedi.
Vidar
almeno poteva essere certo che lei ricambiasse quel suo desiderio.
Nonostante lui si fosse scusato ben due volte con lei, Silye non
riusciva proprio a perdonarlo. Le offese che le aveva rivolto,
sebbene dettate dall'ira del momento, le bruciavano ancora sulla
pelle e lei non sopportava l'idea che qualcuno potesse trattarla
così
e passarla liscia come se non fosse accaduto nulla.
Si
tirò dietro le spalle l'ingombrante massa di ricci rossi e
si alzò
in piedi. Con sua sorpresa vide che il fuoco, che si era spento la
sera precedente, ora scoppiettava nel camino e che di fronte vi era
poggiato a terra il catino che solitamente usava per lavarsi. A fare
tutto ciò non poteva essere stato nessun'altro oltre Vidar.
Si
chiese perché tutto a un tratto la stesse ricoprendo di
quelle
piccole premure. Allungò un dito per toccare l'acqua: era
calda.
Da
una parte era indecisa se cogliere l'opportunità e farsi un
bagno,
di cui aveva un grande bisogno, ma dall'altra temeva anche che Vidar,
non avvertito del fatto che lei si stesse lavando, rientrasse e la
vedesse nuda. Il pensiero di una scena simile la faceva rabbrividire
dall'imbarazzo, ma l'acqua bollente era troppo invitante per non
entrare, tanto che le fece superare il pudore. Si era abituata a
lavarsi ad una temperatura a metà tra il ghiacciato e il
tiepido e
non si era mai curata di scaldare l'acqua fino a quel punto. Dopo
l'esperienza da Hel, tuttavia, sentiva l'impellente bisogno di
togliersi di dosso il freddo che la dea le aveva lasciato, oltre che
lo sporco e quel poco di sangue uscito dalle ferite che ancora non
era riuscita a lavare via.
Iniziò
a spogliarsi, continuando a guardare guardinga la porta; quindi si
infilò svelta nella bacinella, beandosi della sensazione di
calore
che l'acqua le stava offrendo. Piegò le gambe in modo da
immergere
anche la testa e l'enorme quantità di capelli che si portava
dietro,
che presero a galleggiare intorno al suo viso. Cercò di
godersi al
massimo quel momento di pace e piacevole calore, che le ristorava le
membra e la rilassava, distendendole i nervi.
Si
trattenne nell'acqua per diversi minuti, lasciando che questa le
lavasse via lo sporco e, almeno per quel breve tempo, ogni pensiero
che le dava preoccupazione, confusione e rabbia. Si sentì
come se
tutto ciò che di negativo le passava per la testa fosse
stato
espulso da lei.
Quando
riemerse dall'acqua e riaprì gli occhi, tuttavia, vide
l'acqua di un
colore diverso da quello naturale: era rossa, come il sangue.
Iniziò
a boccheggiare, quasi fosse alla ricerca dell'aria che le mancava per
la sorpresa, tirandosi subito su a sedere. Quando alzò le
mani
dall'acqua si accorse che anch'esse erano rosse, come ogni parte del
corpo che fino a quel momento era stata sommersa, ed emanavano un
forte sentore di sangue, lo stesso che permeava l'Helheimr. Quello,
tuttavia, non era l'unico dettaglio inquietante: le braccia,
così
come le gambe, erano ricoperte di graffi da cui fuoriuscivano grandi
fiotti di sangue.
Sangue...
sentì
una voce debole, poco più di un mormorio che le sibillava
nella
mente.
Avrebbe
voluto urlare, ma riuscì a reprimere a fatica l'istinto.
Sangue
sarà versato... continuò
la voce, mentre più sussurri si ammassavano uno sopra
l'altro,
intontendola e costringendola a portarsi le mani alle orecchie pur di
farli smettere, anche se sapeva che era una mossa inutile. Nonostante
la confusione prodotta dall'insieme di voci, si rese conto che tutte
dicevano la stessa parola: sangue.
Strizzò
gli occhi, fin quando le voci non si quietarono all'improvviso.
Abbassò le mani e, quando si strofinò con forza
gli occhi, si
accorse che il sangue era scomparso. L'acqua era tornata al suo
colore originale e trasparente, così come la pelle al suo
rosa
naturale e tutti i tagli si erano dissolti. Iniziò a
chiedersi se
non si fosse sognata tutto e se non stesse diventando pazza. O
forse era una visione pensò,
rabbrividendo il momento dopo. Se così era, allora
significava che
le allucinazioni stavano diventando sempre più reali e
tangenti,
invadendo con maggiore irruenza la sua vita quotidiana. Doveva a
tutti i costi imparare a controllarle o sarebbero arrivate a
disturbarla in qualsiasi momento della giornata.
Ancora
scossa da quello strano presagio, Silye uscì dal catino e
afferrò
un panno che Vidar le aveva lasciato sulla sedia, usandolo per
asciugarsi. Quindi si rivestì in fretta, con il costante
timore che
il dio potesse rientrare quando meno se lo aspettava, cogliendola
nuda e di sopresa. Quando ebbe finito, si intrecciò i
capelli
bagnati in una lunga treccia, cercando di controllare il fremito alle
mani tenendole occupate in quei movimenti lenti e meccanici. Per
quanto tentasse di convicersi che quella era stata solo una visione
come un'altra, non poteva nascondere quanto questa l'avesse
profondamente agitata.
Si
passò una mano sulla fronte, come a scacciare quei cupi
pensieri, e
si affrettò a scaldare sul fuoco gli avanzi della sera
prima. In
realtà si era svegliata senza molta fame, e la poca che le
era
venuta nel corso della mattina era stata scacciata dalla visione
ripugnante e inquietante del sangue.
Sentì
la porta aprirsi dietro di sé e si voltò subito a
guardare,
nonostante avesse già chiaro in mente chi fosse entrato.
«Vidar»
lo chiamò, poiché l'altro teneva la testa bassa e
i ricci che gli
ricadevano sul viso lasciavano intravedere ben poco.
«Buongiorno.»
Lui
si scostò i capelli biondi dal volto e, quando
alzò la testa per
guardarla, Silye notò due lunghe ed evidenti occhiaie che
facevano
da contorno agli occhi evidentemente stanchi.
«Dormito
poco?»
«Mi
sono esercitato tutta la notte» disse lui, con voce
innaturalmente
bassa. «Non mi sono neanche avvicinato al letto. Se
così si può
chiamare l'angolo di pavimento che mi hai lasciato.»
«Oltre
che esausto, mi sembri anche piuttosto nervoso»
commentò Silye,
mettendo su un piatto una delle cosce dell'uccello, le uniche parti
rimaste dalla sera prima. Lo appoggiò sul tavolo e Vidar vi
si
sedette subito davanti, afferrando la carne e facendo per mangiarla.
«Quella era mia!»
«Che
differenza c'è tra una e l'altra coscia?»
domandò il dio, già con
i denti affondati nella carne dell'uccello.
La
ladra sbuffò, tanto rumorosamente da far girare Vidar verso
di lei.
«Che
ti prende?» chiese lui a bocca piena. «Oggi non mi
sembra di essere
l'unico irritato qui dentro.»
«Nulla»
rispose la ragazza. Ovviamente stava mentendo: la visione di quella
mattina le aveva lasciato un gelo dentro che nemmeno l'acqua calda
era riuscito a lavare via. Fino ad allora si era sempre sentita al
sicuro dentro la sua casa; per lei rappresentava il rifugio in cui
rintanarsi quando non si sentiva accettata dal resto del mondo e
cercava protezione. Un tempo tutto ciò per lei era stato suo
padre
Arild; la sua morte, però, l'aveva lasciata del tutto
spaesata,
oltre che addolorata. Da quando lui non c'era più, nella sua
vita si
era creato un vuoto che solo con estrema fatica e tempo era riuscita
a risanare, e ancora non completamente.
Ma
ora, con quella fulminea e tangente visione, aveva capito che i
pericoli in cui era stata trascinata da Vidar e dal suo destino si
annidavano anche nella sua stessa casa: non era più al
sicuro da
nessuna parte.
«Mi
sembri più pensierosa del solito.»
Silye
liquidò la faccenda e agitò la mano come a
spazzare via quei
pensieri e l'argomento. Mise l'altra coscia su un piatto, stavolta
destinato davvero a lei, e si andò a sedere davanti a Vidar.
«In
cosa ti sei esercitato stanotte?»
«A
combattere, dato che ora sarà più difficile
proteggere te e me
stesso senza la mia
lancia. Ancora non riesco a credere che Gungnir sia tra le mani di
quella schifosa
tík¹.»
Silye
si soffermò a guardarlo mentre era impegnato a spolpare
l'osso. Capì
che quel suo atteggiamento era un modo per mostrarsi quasi
disinteressato all'argomento e per nascondere ciò che
davvero
provava. Lei lo sapeva bene, perché anche lei ricorreva
spesso a
quella tattica. «Capisco come ti senti. La rabbia e il dolore
per la
morte di un genitore sono emozioni che faticano ad estinguersi e
placarsi, ma non devi lasciare che prendano possesso della tua mente.
Non puoi permettere loro di prevalere sulla razionalità.
Ricorda che
anch'io ho affrontato la perdita di mia madre e mio padre e conosco
fin troppo bene ciò che si prova.»
«Tu
non sai un bel niente»
sussurrò Vidar, lasciando ricadere l'osso sul piatto. Non
c'era
disprezzo o crudeltà nella sua voce: solo rassegnazione e
una
malcelata sofferenza.
«Potrei
dire lo stesso di te» ribatté Silye, non avendo
alcuna intenzione
di lasciar cadere quel discorso nel vuoto. «Durante il nostro
primo
incontro non mi conoscevi affatto e ti sei messo a sputare sentenze
su di me e su ciò che faccio per vivere.»
«Tu
mi hai minacciato con un pugnale» ribatté Vidar.
«Tra l'altro non
è un grande metodo per uccidere un dio, dato che
probabilmente la
lama non mi avrebbe nemmeno scalfito.»
«Beh,
prova a metterti nei miei panni. Tu cosa avresti fatto in una simile
situazione?»
«Probabilmente
ti avrei trattata con gentilezza e ti avrei accolta nella topaia in
cui vivo.»
«Naturalmente.
Sai, non credo proprio che ti saresti comportato in quel modo,
soprattutto dopo aver visto come tratti gli sconosciuti, come, per
fare un esempio, le viverne dell'Helheimr.»
«Se
mi fossi comportato diversamente allora, tu ora con ogni
probabilità
saresti morta e in questo momento il tuo cadavere starebbe marcendo
nella reggia della tík.»
«Grazie
mille, mi è passata la fame» disse Silye,
appoggiando la carne, di
cui aveva preso solo pochi bocconi. In realtà il riferimento
alla
morte le aveva fatto tornare in mente l'acqua del catino
trasformatasi in sangue.
Vidar
fece una smorfia. «Se proprio non ti va più, lo
prendo io.
Altrimenti andrebbe sprecato.»
«Fai
pure.» Silye diede una spinta al piatto, che venne
prontamente
afferrato dal dio prima che cadesse dal tavolo e si frantumasse.
Per
risparmiarsi la vista nauseante del cibo nella bocca di Vidar, la
ladra si alzò dal tavolo e, preso l'arco e le freccie,
uscì dalla
casa per concedersi un'ultima battuta di caccia prima della partenza,
giusto per assicurarsi qualcosa da mettere sotto i denti quella sera.
L'arto ferito non le avrebbe certo facilitato i movimenti, ma
necessitava al più presto qualcosa con cui svagare la mente
e solo
la calma della foresta e l'eccitazione della caccia avrebbero
allontanato la visione dalla sua testa.
Quella
sera cenarono in silenzio. Sarebbe stato saggio parlare del viaggio
che avrebbero dovuto affrontare, decidere la strada da percorrere e
stimare il tempo che avrebbero impiegato, ma in quel momento non
aveva alcuna voglia di parlare e prevedibilmente discutere con lui.
Tanto alla fine lui avrebbe fatto come gli pareva; semmai in seguito
si fosse accorta che qualcosa non andava o non era fattibile, glielo
avrebbe reso noto. Quelle poche ore che aveva a disposizione,
però,
voleva passarle tutte con Úlfur. In seguito avrebbe avuto
fin troppo
tempo da trascorrere insieme a Vidar, suo malgrado.
Non
provava più per lui vero e proprio disprezzo, come era stato
quando
lo aveva conosciuto e durante la loro ultima lite, poiché
aveva
capito che gran parte delle parole che le aveva rivolto e il
comportamento che teneva con lei era dovuto a dei suoi particolari e
tristi ricordi. Eppure, non riusciva ancora a fidarsi del dio, forse
a causa dei suoi continui cambiamenti d'umore, che rendevano
difficile e instabile il loro rapporto. Per questo preferiva
semplicemente evitarlo e limitare le possibilità di litigi
infruttuosi e inutili.
Conclusa
la cena, Vidar uscì, forse per andare a preparare Sleipnir,
mentre
Silye rimase in casa per riporre nella sacca gli oggetti che le
sarebbero potuti servire durante il viaggio e per salutare il cane.
Prese qualche vestito, giusto per essere sicura di avere dietro dei
ricambi per ogni evenienza, e il suo pugnale, di cui tanto aveva
sentito la mancanza durante la terribile esperienza nell'Helheimr. A
malincuore dovette lasciare abbandonati nella casupola il suo arco e
le frecce, poiché sarebbero stati solo un impiccio nel
cammino.
Strinse
forte a sé il cane, accarezzando il suo morbido pelo grigio.
«Stai
pur certo che ci rivedremo molto presto» gli
assicurò, lasciandolo
e rialzandosi.
Afferrò
la sacca e se la mise in spalla, mentre usciva fuori. Quando
accostò
dietro di sé la porta, in modo che Úlfur nei
giorni di sua assenza
potesse uscire e rientrare come preferiva dalla casa, vide Vidar
intento a legarsi sulla spalla a mo' di sacca la bisaccia che prima
era attaccata alla sella di Sleipnir.
«Non
andiamo a cavallo?» domandò Silye, stupita
perché non vedeva
Sleipnir da nessuna parte.
Vidar
interruppe per qualche secondo il lavoro di legare le cinghie della
borsa, la guardò e scoppiò a ridere.
«Ovviamente no. Non credi che
un cavallo a otto gambe desterebbe non poca incredulità tra
la
gente?»
«Non
può magicamente portarci fino al palazzo del Konungr, come
abbiamo
fatto per arrivare da Hel?»
«Funziona
solo per passare da un regno all'altro. All'interno dei singoli
mondi, Sleipnir è come un cavallo normale.»
«E
se evitassimo i villaggi?»
«Per
prima cosa non abbiamo abbastanza viveri per coprire l'intero
viaggio. E poi non dobbiamo dare nell'occhio, né possiamo
rischiare
di incontrare casualmente qualcuno, pur passando per i boschi. Se la
tua visione è veritiera...»
«Lo
è»
ribatté Silye, interrompendolo.
«Dati
i precedenti, sarebbe meglio usare se.
Perciò, ripeto, se la visione è veritiera, Hel e
il Konungr devono
aver stretto una sorta di patto, il che significa che non esiteranno
a contattarsi tra loro e aiutarsi a vicenda. È
altamente probabile che Hel abbia già avvertito il re della
nostra
fuga e useranno tutti i loro mezzi per trovarci, ovunque ci troviamo.
Dobbiamo evitare di farci notare. Un punto a nostro favore potrebbe
essere il fatto che, con l'intervento di Baldr, Hel potrebbe aver
pensato che fossimo andati ad Asgard dagli altri dei.»
«Speriamo
di avere almeno questo vantaggio» rifletté Silye,
convinta dalle
parole di Vidar.
Quando
Vidar ebbe terminato di armeggiare con la bisaccia, sollevò
lo
sguardo su di lei, osservandolo con sguardo severo e attento.
«Non
dobbiamo destare sospetti.»
«L'hai
già detto. Ho capito» ribadì Silye,
incrociando le braccia sul
petto.
«Voglio
che la cosa sia chiara» si avvicinò di qualche
passo a lei. «Non
fare cose indicibilmente stupide, come hai fatto l'ultima volta al
villaggio di Vél. Niente furti, niente liti con gli abitanti
o altro
che possa attirare attenzione indiscreta su di noi.»
«Guarda
che quello che ha litigato con l'usuraio del villaggio sei stato tu,
non io» disse Silye, accennando un sorriso, più
derisorio che
puramente divertito.
«Silye,
sto parlando sul serio» affermò il dio, ma con un
tono di voce
leggermente più dolce. «Il viaggio potrebbe
rivelarsi molto
pericoloso se Hel si mette in mezzo e non voglio rischiare o avere
nulla di cui preoccuparmi.»
«Va
bene» ripeté la ragazza, lasciando ricadere le
braccia lungo i
fianchi. «E Sleipnir dove rimarrà?»
«Qui.
Gli ho lasciato un po' della mia scorta di cibo, ma non dovrebbe
avere problemi. Grazie alle rune, ha una resistenza alla fame e alla
sete superiore al normale.»
«Bene,
allora direi di metterci in cammino» disse Silye, guardando
in
direzione del sole in procinto di svanire tra gli alberi e le
montagne.
¹
Termine norreno dal significato di “cagna”.
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