IV
I
suoi sensi gli suggerivano che ci fosse qualcuno- o qualcosa- che lo
stesse
seguendo: cercava di essere il più silenzioso possibile ma
l’udito finissimo
dell’elfo riusciva a captarne i passi leggeri che cozzavano
contro i sassi
della strada sterrata, che dal villaggio conduceva verso i Danaver, i
Ciclopi
di Ghiaccio, la mastodontica catena montuosa che divideva Actardion da
Damevar:
una successione infinita di imponenti massicci perennemente ammantati
di neve,
dove nessuno osava avventurarsi di sua spontanea volontà. La
Porta di Lorran,
che si incuneava tra l’Etrion e l’Edemor, era
l’unico passaggio conosciuto,
sebbene la sua esatta ubicazione fosse incerta e molti viandanti si
fossero
persi nella sua ricerca, trovando la morte tra quelle vette; ma, grazie
alla
bussola, Ivory non avrebbe rischiato di vagare tra quella distesa di
roccia e
neve fino ad incontrare la morte.
Nei
tempi in cui la guerra dilagava su quelle terre, la Porta era stata un
fondamentale punto nevralgico controllato dall’occhio attento
di Volkyria, la
Fortezza Nera, una roccaforte di granito e basalto di forma ottagonale
con otto
torri, anch’esse della medesima forma, che si innestavano ad
ogni spigolo e che
davano alla struttura un aspetto vagamente floreale. Con
l’avvento di tempi di
pace e concordia, la fortezza era stata abbandonata e non ne rimanevano
che
delle rovine, smangiate dal vento e dal freddo, ma ancora valide per
offrire un
riparo dai venti impetuosi delle tempeste di neve, che spesso
spazzavano il
valico, grazie ai muri spessi e solidi. L’elfo aveva pensato
di fare tappa alla
fortezza, che si trovava a metà strada tra i due regni, e
contava di
raggiungerla in due o tre mesi: doveva attraversare buona parte di
Actardion e
se fosse arrivato a Danilia, l’ultimo villaggio prima dei
Ciclopi entro due
pleniluni, sarebbe stato un grande traguardo…sempre che,
durante la marcia, non
fosse infastidito da briganti molto arditi o molto disperati, come
quello che
si ostinava a pedinarlo.
L’elfo
si era scocciato: aveva cercato di ignorarlo come meglio aveva potuto,
ma quel
continuo scalpiccio lo innervosiva, non tanto perché avesse
paura di essere
attaccato e derubato- si trattava pur sempre di un mercenario e aveva
visto
cose ben peggiori di un brigate- ma detestava il fatto che
quell’inconveniente
gli avrebbe fatto perdere tempo: voleva giungere a Melinger entro il
mattino,
comprare un cavallo in qualche fattoria nei dintorni e giungere a
Casernya
entro sera, in modo da potersi concedere un pasto decente e un letto
comodo; la
Regina si era premurata di rifornirlo di tutto il denaro necessario per
il
viaggio insieme a qualche piccolo extra per soddisfare un capriccio
ogni tanto.
All’elfo sembrava di essere partito per una scampagnata
piuttosto che per una
missione: avrebbe avuto la possibilità di soggiornare in
locande lungo il
viaggio e persino di cavalcare, così da dimezzare il tempo;
nelle campagne
militari era sempre stato costretto a ritmi di marci serrati ed
estenuanti e a
dormire all’addiaccio, per non parlare della sbobba
ripugnante che gli
rifilavano da mangiare avendo pure il coraggio di chiamarlo cibo!
Quell’incarico sarebbe stata una passeggiata, almeno fino a
quando non fosse
giunto a Damevar e allora avrebbe dovuto ideare un qualche piano per
penetrare
nel Palazzo della Regina Bianca scoprire dove tenesse nascosto lo
specchio e
riportalo; accantonò quei pensieri, per il momento si
trovava ancora ad
Actardion e non aveva senso angosciarsi per qualcosa che doveva ancora
accadere.
I
rumori si interruppero bruscamente, e quel silenzio irreale fu
più
preoccupante: o il suo misterioso inseguitore si era volatilizzato,
oppure
doveva essergli accaduto qualcosa.
La
strada era circondata da campi coltivati e frutteti, e non offriva
molti ripari
per possibili briganti; ma questa era l’opzione
più plausibile, non c’erano
foreste in cui potessero annidarsi belve feroci e il villaggio non era
abbastanza grande e rinomato per attirare banditi di alto calibro.
L’elfo
estrasse la spada, ruotando su sé stesso con circospezione e
sondò con lo
sguardo la nebbia serale, che si sfilacciava e si riannodava a seconda
dei
capricci del vento. Questa foschia poteva risultare un vantaggio per
gli
aggressori, ma l’albino aveva sensi abbastanza sviluppati da
poter fare anche a
meno della vista.
Aguzzò
le orecchie, per poter captare anche il minimo respiro, ma gli rispose
solo il
silenzio. Poi, un gemito soffocato nella notte.
Una
sensazione spiacevole gli attanagliò la bocca dello stomaco:
quella voce, per
quanto ovattata e lontana, gli suonava famigliare. Scattò
nella direzione da
cui proveniva, addentrandosi nelle nebbie. Queste lo accarezzavano e lo
ghermivano con le loro dita di fumo, lasciando come ricordo del loro
passaggio
uno strato di goccioline sui capelli e sui vestiti dell’elfo.
Ivory
arrivò nel mezzo di un frutteto, e scorse ombre muoversi
furtive, staccandosi
dalle sagome degli alberi per poi fondersi nuovamente con loro: erano
in
quattro e sembrava ne stessero trasportando una quinta, con sommo
disappunto di
quest’ultima.
Il
mercenario rinfoderò la spada: i filari di alberi erano
troppo serrati e
l’avrebbero impacciato nei movimenti; estrasse, invece, un
pugnale dalla lama
più corta e maneggevole, che abbandonò la sua
guaina in un sibilo
agghiacciante.
Anche
le ombre dovettero averlo sentito, perché si fermarono, in
allerta.
«Forse
è stato il vento» bisbigliò uno di
loro. Aveva la voce soffocata, segno che
doveva portare una sciarpa o una bandana per nascondere i tratti del
volto, e
la cadenza era tipica delle città che si affacciavano sul
mare, con il loro
caratteristico strascicamento delle vocali finali.
Ivory
si mosse fulmineo e l’uomo si accasciò a terra con
un gemito, i resti
dell’ultima parola ancora rimasti incastrati nella gola. I
restanti tre si
allarmarono e iniziarono a scrutare febbrili quelle nebbie che celavano
lame.
Il
quinto, invece, aveva iniziato a scalciare e a dimenarsi, per provare a
sottrarsi alla morsa, e provava a parlare, ma la sua voce era soffocata
dalla
tela che gli era stata infilata sulla testa. Gli uomini lo lasciarono
cadere
come un sacco di patate per ricorrere alle armi, che estrassero in uno
stridio
sincrono.
Ivory
non si fece spaventare: quei pugnali spuntati non avrebbero potuto
fargli nulla
e gli individui parevano piuttosto inesperti, aveva avuto a che fare
con avversari
più temibili di tre briganti spauriti, non valeva nemmeno la
pena ucciderli: il
primo era stato messo fuori gioco con una semplicità
disarmante.
Scivolò
accanto ad uno di loro e fece sbocciare un sorriso sul polpaccio di
questo.
L’uomo si accasciò a terra, trattenendosi la parte
lesa e Ivory ne approfittò
per tiragli un calcio e fargli perdere i sensi; questi si
afflosciò con un
pigolio patetico.
I
due superstiti strinsero convulsamente le impugnature delle loro lame e
iniziarono a fendere la nebbia, quasi fosse stata essa stessa la
colpevole,
nella vana speranza di ferire il loro aggressore.
Ivory
se la rideva sotto i baffi, nascosto dietro un albero, e gli osservava
mentre
si accanivano contro il nulla, ciechi e nervosi, tremando come foglie.
Sgusciò
tra una pianta e l’altra, per poi afferrare uno dei
sopravvissuti per il braccio
e farlo sparire nella nebbia, stenderlo con il pomolo del pugnale e
dedicarsi
all’ultimo.
Il
compagno si era voltato, ma ciò che si trovò
davanti fu la figura prestante
dell’elfo, ingigantita dal bagaglio e resa più
minacciosa dal mantello da
viaggio in cui era intabarrato, che si fondeva e confondeva con i
rivoli di
nebbia. I capelli bianchi e la pelle diafana risaltavano contro il nero
uniforme del cielo e gli occhi d’ambra scintillavano come
quelli dei felini; la
lama del pugnale baluginava sinistra
nell’oscurità. Nel complesso appariva come
una figura terribile, simile ad un vendicatore, seminatore di morte e
sofferenza. Uno spettro venuto dall’oltretomba per punirlo
della sua pessima
condotta.
Questo
dovette essere il pensiero che attraversò la mente
dell’ultimo brigante, perché
questi lasciò cadere il coltello e si diede alla fuga,
sparendo in un soffio,
senza nemmeno provare ad assalirlo.
Ivory
sorrise soddisfatto e si chinò verso il malcapitato,
cercò di rassicurarlo e
con movimenti misurati e delicati, lo liberò del sacco.
Un
odore famigliare gli invase le narici: era lo stesso profumo delle erbe
che
Brandbury metteva nell’armadio per tenere lontane le tarme,
ugualmente
penetrante e pruriginoso.
«Cosa
diamine ci fai qui!» esclamò sorpreso.
Il
fratello era proprio davanti a lui, intabarrato in un enorme giacca e
con uno
zaino ancora più grande da cui fuoriusciva la fragranza.
Probabilmente aveva
riesumato coperte e cappotti di lana per affrontare al meglio il rigido
freddo
delle montagne. I capelli biondi erano spettinati e il volto era
distorto in
un’espressione stranita.
«Che
domande!» rispose l’altro, tornando a respirare,
«Avevo detto che sarei venuto
con te! Però sei partito con largo anticipo:
all’alba mancheranno ancora sei
ore!»
L’elfo
non sapeva se urlare contro il fratello, rispedirlo indietro o
ucciderlo sul
posto. Forse con l’ultima opzione sarebbe stato sicuro che
non l’avrebbe più
seguito. Nemmeno l’inganno era riuscito, eppure era sicuro di
essersi mosso
silenziosissimamente.
«Ho
il sonno molto leggero» disse Brand, rispondendo ai
suoi dubbi, «E per
quanto tu possa essere silenzioso e lieve, la porta non lo è
e l’ho sentita
gemere e sbattere. Credevo fosse già arrivata
l’alba e mi sono precipitato
fuori casa, scoprendo che era ancora piena notte» non
sembrava esserla presa,
nei suoi occhi non c’era alcuna traccia di rabbia o rancore.
«Ho
immaginato perché l’avessi fatto»
continuò, quasi stesse leggendo i pensieri
dell’altro, «So che
non vuoi che mi accada nulla e che preferiresti sapermi al sicuro a
casa, ma io
non sarei riuscito a sopravvivere un giorno di più rinchiuso
in quella gabbia
di legno senza sapere nulla di te. Quindi mi dispiace, ma sarai
costretto a
prendermi come tuo compagno di viaggio.»
«Vedo
quale compagno di viaggio utile saresti. Non sono passati neanche dieci
minuti
e vieni aggredito dai briganti!»
«Avevo
la situazione perfettamente sotto controllo»
replicò Brand rialzandosi con
l’aiuto del fratello. Il peso del bagaglio gravava sulle
spalle e lo
destabilizzava.
«Ma
ti sei portato dietro l’intero guardaroba
invernale?» esclamò Ivory.
«I
Ciclopi sono famosi per le loro temperature rigide, e le piaghe da
congelamento
sono veramente brutte.»
«Quindi
sei proprio convinto di volermi seguire, anche dopo quello che ti
è successo? I
briganti saranno il nemico meno pericoloso che dovremo
affrontare» cercò di dissuaderlo,
di indurlo a un ripensamento dell’ultimo momento.
«Sappiamo
perfettamente entrambi che non demorderò: ti
seguirò fino a Damevar, che a te
piaccia o no!»
Ivory
alzò gli occhi al cielo: suo fratello sapeva diventare
davvero testardo e
inamovibile quando si impuntava su qualcosa.
Pensandoci
bene, però, forse, avere qualcuno con cui
condividere il viaggio non era
nemmeno un’idea tanto terribile: Brandbury avrebbe potuto
fargli compagnia e
distrarlo dalla fatica e, soprattutto, dalla noia dei lunghi giorni di
marcia
che li attendevano; inoltre era un ragazzo molto intelligente, per
quanto non
ancora esperto del mondo, e avrebbe potuto dargli qualche idea su come
entrare
nel Palazzo della Regina. Si trattava solo di tenerlo il più
possibile lontano
dai guai e dagli scontri.
Alla
fine, sarebbe venuto lo stesso, quindi perché non
approfittarne?
Con
un sospiro rassegnato, l’elfo fece cenno al giovane di
seguirlo.
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