Capitolo 4
Quando il bigliettaio della
stazione di Jotram li vide arrivare, rimase a dir poco stupefatto: i
quattro sahib sembravano tirati fuori da uno dei mucchi di cadaveri
di Isandlwana. Erano sanguinanti, malandati e con le leggendarie
giubbe di qualsiasi colore fuorché rosso. Davano
l’idea di aver
passato l’ultima settimana a scappare da un branco di bufali
inferociti in mezzo a una palude.
Dallo scalcinato gruppetto si
staccò un ufficiale. Si presentò allo sportello e
compitissimo
disse: “Buon giorno. Quattro biglietti per Calcutta, per
favore.
Sola andata.”
L’impiegato ci mise
qualche
secondo a riprendersi dallo stupore, tanto che l’altro si
sentì in
dovere di chiedergli: “Va tutto bene, buon uomo?”
“Scusate, sahib.”
L’indiano
si riscosse e gli consegnò i biglietti. Come sempre il
maharaja
provvide al pagamento.
“Sarebbe così
gentile da dirmi
a che ora parte il treno?”
“Alle nove, sahib.”
“Quindi abbiamo
mezz’ora.
Molto bene. Grazie e buona giornata.” Il tenente raggiunse i
suoi
uomini e con la più grande tranquillità disse:
“Abbiamo anche il
tempo di fare colazione.”
Il volto di Thayes si
illuminò.
E fin qui siamo
arrivati,
pensò Grosvenor mescolando assorto la sua tazza di
caffè. Il
tragitto per Jotram era stato singolarmente tranquillo, ma la cosa
non l’aveva rassicurato per niente. Il contrario, se mai.
Assodato che quel tale
O’lim
era tutt’altro che un babbuino, doveva aver capito subito
cosa
avevano intenzione di fare. Quindi perché frugare per mezza
foresta
quando sapeva per certo che sarebbero saliti su un treno? Molto
meglio occuparsi di loro una volta a bordo, dove fra l’altro
non
avrebbero neppure avuto vie di fuga.
Il tenente infilò
una mano in
tasca e ne trasse un paio di dadi. Cominciò a farli rotolare
distrattamente sulla tovaglia bianca.
Aveva avuto non più
tardi di due
ore prima una riprova delle parole di Kaur: c’era qualcuno
che li
teneva d’occhio, non solo tra i thug, ma anche tra coloro che
erano
fedeli alla Corona.
“Bene, uomini. Ora possiamo
andare,” disse alzandosi. Lasciò i dadi sul
tavolo. Era già
voltato verso l’uscita, per cui non si accorse che il
cameriere li
raccoglieva e se li metteva in tasca.
Si spostarono sulla banchina e
dopo poco di udì un fischio, poi da dietro una curva apparve
una
vecchia locomotiva che tra sfiati di vapore e stridore di freni si
fermò.
Rimase a sobbollire mentre gli
addetti cominciavano a rifornirla del necessario.
Scesero parecchi passeggeri,
ma
ne salirono pochi.
Grosvenor li
osservò cercando di
cogliere in essi qualcosa al di fuori dell’ordinario, ma al
suo
occhio di sahib parvero tutti uguali.
Nessuno vietava che
O’lim fosse
salito alla stazione prima, peraltro, visto che il treno per Calcutta
era solo uno, o che salisse a quella successiva.
Sospirò. Gli
sembrava di
camminare bendato lungo il ciglio di un burrone. Ci voleva gente
esperta per fare certe cose, spie del Grande Gioco, soldati di
eccezionali capacità come Frederick Burnaby*. Come
pretendevano che
uno come lui potesse portare a termine una missione del genere?
D’accordo, beati
monoculi in terra caecorum:
anche lui era un ufficiale, sapeva tenere in mano una pistola e una
sciabola. Era pur sempre meglio di niente, ma da qui a fare di lui un
militare addestrato al controspionaggio ce ne passava.
Salirono a bordo. La carrozza
che
avevano scelto era quasi vuota, c’erano solo quattro o cinque
uomini di varie età e un paio di donne con il saree tirato
sulla
testa a nascondere i lineamenti. Sebbene quattro militari malandati
che prendevano il treno in mezzo ai civili rappresentassero uno
spettacolo quanto meno insolito, nessuno li degnò di un
secondo
sguardo.
Si udì un lungo
fischio, poi
sbuffando e ansimando il convoglio si mise in moto e pian piano prese
velocità. Presto subentrò lo sferragliare
ipnotico delle ruote
mentre fuori dai finestrini scorreva un alternarsi di campi coltivati
e foresta. Talvolta qualche scintilla brillava un istante
nell’aria
e poi scompariva, sbuffate di fumo nero accarezzavano i finestrini
come grandi ali.
“Occhi aperti,”
raccomandò
il tenente.
Fece girare lo sguardo
tutt’intorno: uno degli uomini stava fumando e intanto
guardava il
paesaggio, un altro paio sembravano addormentati. Una delle donne o
presunte tali aveva tirato fuori un lavoro di cucito.
A parte la scarsità
di
passeggeri, la situazione non sembrava diversa da qualsiasi viaggio
in treno avesse fatto in India.
Poi improvvisamente gli parve
di
vedere ombre che si muovevano ai margini del suo campo visivo, ma
prima che potesse sincerarsene la luce calò drasticamente e
un
attimo dopo il vagone piombò
nell’oscurità. “Una galleria!”
esclamò nel buio la voce di Barrett.
Si udirono un frenetico
tramestio, il fremito metallico di qualcuno che sfoderava la
baionetta, un sibilo nell’aria, un gemito. Grosvenor
tentò di
alzarsi, ma si sentì afferrare da più parti.
Qualcuno gli mise una
mano sulla bocca, lui ci piantò i denti, stringendo
più che poteva.
Il suo avversario gettò un grido, provò a
divincolarsi, colpì alla
cieca. Altri però lo stavano afferrando, lo tiravano per la
giubba,
qualcuno gli aveva agguantato una manata di capelli e lo strattonava
all’indietro.
Poi il tenente
sentì un dolore
acuto alla tempia e tutto si fece indistinto. Provò ancora a
liberarsi, ma si accorse che stava barcollando e le forze gli
venivano meno.
Crollò a terra.
L’ultima cosa
che sentì furono mani che da una parte frenavano la sua
caduta, ma
dall’altra lo trattenevano per impedire una sua improbabile
fuga.
Riaprì gli occhi in
una
stanzetta dalle pareti di metallo, senza finestre e illuminata solo
da una piccola lampada a petrolio che si trovava su una cassetta
rovesciata. Il rumore e le vibrazioni gli fecero capire che era
ancora sul treno. Aveva le mani legate dietro la schiena, dalla
tempia gli si irradiavano attraverso il cranio fitte di dolore che
sembravano spilloni da fattucchiera.
“Ben svegliato,
tenente,” lo
salutò una voce fredda.
L’ufficiale
scrollò la testa
un paio di volte e si mise faticosamente seduto. Accanto a lui
c’era
l’uomo in nero.
“Avete dormito bene?”
s’informò O’lim.
“Veramente non
tanto,”
rispose Grosvenor, “i vostri uomini sono stati piuttosto rudi
nei
miei confronti.”
L’altro emise un
teatrale
sospiro. “Vi porgo le mie scuse. Non è facile al
giorno d’oggi
trovare un servizio decente.” Poi, cambiando di colpo tono ed
espressione: “Ma ora mi duole dirvi che non ho tempo, quindi
purtroppo dovremo rimandare la nostra discussione sulla
servitù.
Datemi quei documenti.”
Grosvenor tentò di
assumere
un’aria innocente. “Quali documenti?”
O’lim
sfoderò il kukri e lo
mosse adagio facendo brillare il filo della lama. Con voce
minacciosamente bassa, lentamente recitò: “Tu
lo tieni fermo, tu. Io gli becco quei begli occhioni blu.**”
Avvicinò il pugnale al viso dell’inglese fino a
che la punta non
gli graffiò uno zigomo. “Dei vostri begli occhioni
blu, tenente,
quale preferite che vi tolga per primo?”
Grosvenor deglutì a
vuoto.
“Nessuno dei due, se posso esprimere un parere.”
Tentò di
muoversi, ma la punta del kukri gli bucò la pelle,
facendogli
scorrere sulla guancia una lacrima di sangue.
“Faccio appello al vostro senso
dell’opportunità,”
gli disse O’lim, sempre con la sua espressione
imperturbabile, “vi
ricordo che qui non siamo al circolo ufficiali a parlare di caccia
alla tigre.”
“Posso assicurarvi
che l’avevo capito perfettamente.”
“Tenente, è bene che
sappiate
una cosa: non mi reputo un estimatore del celebre humour inglese. In
più in questo momento la fretta mi rende ancora meno
disposto ad
apprezzare le vostre battute. Datemi quei documenti adesso.”
“Non li ho io,”
rispose
Grosvenor, il che peraltro era la pura verità.
La punta del pugnale
penetrò più
in profondità. “Mi basta spingere ancora un
po’ e farò di voi
un emulo dell’ammiraglio Nelson. Se poi vi ostinerete a non
parlare, per rendere più completa la somiglianza vi
asporterò anche
il braccio destro.”
Il tenente strinse i denti.
“Io
mi compiaccio della vostra conoscenza della cultura inglese,”
replicò, “ma sono un fuciliere, e francamente
troverei insultante
essere reso simile a un marinaio, ancorché celebre come il
vecchio
Horatio.”
Si girò bruscamente
su un
fianco, e pur procurandosi un taglio sullo zigomo, sottrasse
l’occhio
alla minaccia del kukri. Approfittando della propria maggiore mole
spinse via da sé O’lim con un calcio e si
alzò in piedi. Fece per
uscire, ma l’asiatico lo afferrò per una spalla e
lo tirò
indietro. Grosvenor si divincolò e con una pedata gli
spedì il lume
a petrolio addosso. Il serbatoio della lampada andò in
frantumi e
lingue di fiamma avvolsero gli abiti della spia russa, che con un
ringhio di dolore mollò definitivamente la presa.
Il tenente cercò
tentoni la
maniglia, la abbassò col gomito e spinse la porta, che per
fortuna
cedette.
Si trovò in un
corridoio, da una
parte proveniva rumore di spari. Corse in quella direzione.
Pochi secondi dopo
cominciò a
percepire alle sue spalle i passi di varie persone. Una mano lo
raggiunse afferrandolo per la collottola, si divincolò con
uno
strattone, aumentò la velocità.
Nel frattempo cominciava anche
a
sentire l’odore della polvere da sparo.
Una voce inconfondibile
ruggì:
“Per tutti i diavoli! Siete fucilieri o scritturali? Ho detto
di
tenere lontani quei mangiacurry!”
“Sergente Jenkins!”
urlò con
quanto fiato aveva in gola. “Sergente!”
Sentì il kukri
fendere l’aria
alle sue spalle.
“Tenente Grosvenor!”
giunse
la risposta del sottufficiale.
La spia gli fu addosso. Con le
mani legate, l’ufficiale non riuscì a parare la
caduta e rovinò
al suolo. Cercò di divincolarsi, ma l’altro gli
gravava sulla
schiena con tutto il suo peso. Il freddo della lama sulla gola lo
fece rabbrividire.
“I documenti,”
ripeté O’lim.
“Vi ho detto che non li ho
io!”
L’altro premette il
pugnale. “E
allora ditemi chi li ha.”
Grosvenor strinse i denti:
Jenkins era sicuramente in arrivo, doveva cercare di prendere tempo.
“Se ve lo dico, che cosa ci guadagno?”
“Che vi ucciderò in
modo
rapido e pietoso.”
“Spiacente. Se mi aveste
parlato di gin e magari anche di acqua tonica avremmo potuto avviare
una contrattazione, ma se comunque morirò, mi prendo almeno
la
soddisfazione di lasciarvi a bocca asciutta.”
La spia fece una fredda
risata.
“Non vi avrei detto così eroico,”
ghignò, “ma forse siete
solo un povero stolto che non ha idea di quel che lo aspetta.”
Arrivarono altre persone, alle
quali O’lim parlò in una lingua che Grosvenor non
conosceva.
Qualcuno lo afferrò per i piedi e cominciò a
trascinarlo indietro.
In quel momento
echeggiò uno
sparo seguito da un grido. Chi lo stava trascinando smise di farlo.
O’lim si buttò a terra con un ringhio di
disappunto.
“Tutti indietro!”
sbraitò il
sergente con il fucile ancora imbracciato, a gambe larghe per tenersi
in equilibrio nonostante gli scossoni del treno. “Tutti
indietro o
salta la testa di qualcun altro!”
La spia afferrò
Grosvenor per i
capelli e gli appoggiò il pugnale sulla gola. “E
se fosse la testa
di questo bel tenentino a saltare?” chiese a Jenkins.
Il sergente rimase
impassibile.
“Quella dopo sarebbe la vostra,” rispose.
In quel momento il treno ebbe
un
violento sussulto, cigolò e sferragliò come se
una mano enorme lo
stesse agitando, il sottufficiale perse l’equilibrio e
sarebbe
caduto giù se non si fosse provvidenzialmente aggrappato a
una
ringhiera, O’lim scivolò in avanti. Il convoglio
stava perdendo
rapidamente velocità.
“Qualcuno ha staccato i
vagoni!” esclamò Jenkins, che essendo in piedi
riusciva a vedere
cosa stava succedendo.
La metà di treno
rimasta
indietro, con loro sopra, si stava lentamente fermando,
l’altra era
ormai già sparita alla vista e a testimonianza del suo
passaggio
rimaneva solo una scia di fumo nero che si andava dissolvendo.
Approfittando
dell’attimo di
smarrimento, il sergente sparò un colpo. O’lim
scattò di lato
come un felino, quindi scomparve alla vista seguito dai suoi uomini.
“Quel maledetto sta
scappando!”
esclamò Jenkins. Fece per sparare, ma il gruppetto era
già
scomparso nella foresta.
“Dannazione,”
brontolò
abbassando l’arma.
Raggiunse il tenente, gli
slegò
i polsi. “Tutto a posto, signore?” gli chiese con
sussiego.
Grosvenor conosceva bene il sergente, e sapeva che quel tono in
apparenza così formale in realtà significava: non
posso lasciarvi solo un momento.
“Dobbiamo andare,”
disse
l’ufficiale ignorando la domanda. “Siamo dispersi
in mezzo al
nulla e intanto quello là starà correndo a
Calcutta per far secco
il Governatore.”
“Sarebbe increscioso,
signore,”
commentò Jenkins. Poi gli porse un fazzoletto
inspiegabilmente
candido nonostante tutto quello che avevano passato e gli
suggerì:
“Pulitevi un po’ la faccia, signore. Sembrate Guy
Fawkes dopo il
processo.”
“Per fortuna siete arrivato in
tempo, sergente, se no rischiavo di sembrare Guy Fawkes dopo
l’esecuzione.”
Raccolsero la loro roba.
Jenkins
informò il tenente che mentre era prigioniero, lui e i due
soldati
avevano dovuto difendersi dall’attacco dei thug. Piuttosto
stupito
aggiunse che alcuni locali, tra cui le due donne della loro carrozza,
erano accorsi a dar loro man forte contro gli assalitori.
“Voi ci
capire qualcosa, signore?” chiese perplesso.
“Sembra che siamo capitati nel
bel mezzo di una guerra di spie, sergente,” rispose
Grosvenor.
Stava per aggiungere altro quando scorse di nuovo la donna col saree
arancione. Era di spalle lungo il binario, la vide imboccare un
sentiero e scomparire nella vegetazione.
“Aspettate!” le disse
saltando giù dal treno, ma quando raggiunse il punto in cui
era
entrata nella foresta, di lei non c’era più alcuna
traccia.
L’unica cosa che
trovò fu un
dado di osso.
“Sergente, da questa
parte!”
disse.
Si misero rapidamente in
marcia e
dopo circa un quarto d’ora arrivarono a un paese. Il centro
abitato
risentiva già della vicinanza della grande città,
aveva case di
muratura, templi e addirittura qualche strada lastricata. Nella
piazza principale, intorno alla fontana, c’era un gruppo di
donne
intente a lavare i panni, i negozianti esponevano la loro merce lungo
le strade. Bambini giocavano qua e là, festoni di erbe e
peperoncini
erano appesi alle finestre.
“Dobbiamo trovare un mezzo di
trasporto,” disse Grosvenor.
“Un carro, signore?”
propose
Barrett.
“Qualcosa di veloce. Dei
cavalli sarebbero l’ideale.”
Il sergente rimase come sempre
impassibile, ma i due soldati si scambiarono uno sguardo sconcertato:
a Barrett i cavalli avevano sempre fatto paura, mica era diventato un
fuciliere per caso, e Thayes era talmente grosso che in groppa a
qualsiasi cavallo sarebbe sembrato Sancho Panza sul somaro.
Inutile dire che la
prospettiva
di coprire l’ultimo tratto della strada per Calcutta in sella
a un
destriero li allettava pochissimo.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, il tenente insisté: “Siamo a piedi sia
noi che il russo.
Dobbiamo procurarci un mezzo veloce prima di lui, altrimenti possiamo
pure dire addio al Governatore.”
“Sissignore.” Barrett
interrogò gli indigeni, e il responso fu: “Qui non
ci sono
cavalli, però c’è uno che ha un
elefante da vendere. Hanno detto
di chiedere del signor Jaidev.”
“Adoro gli elefanti,”
rispose
l’ufficiale, “andiamo.”
“Ma signore, dicono
che...”
tentò il soldato.
“Non c’è
tempo, andiamo.”
Il signor Jaidev possedeva una
fattoria ai confini del paese. L’edificio principale era
ancora nel
centro abitato, ma il resto si protendeva verso la campagna.
Il proprietario, dapprima
sospettoso, divenne straordinariamente affabile quando seppe il
motivo per cui i quattro sahib si erano recati a casa sua. Offri loro
del tè, del lassi e dei dolci. Si prodigò in ogni
modo. Disse che
avrebbe aggiunto la bardatura dell’elefante senza chiedere
una
rupia in più.
A questo punto, anche una
persona
entusiasta e noncurante come Grosvenor cominciò a
insospettirsi. “Ha
qualcosa che non va il vostro elefante?” chiese.
“Assolutamente no,
sahib!” si
affrettò a negare l’indiano,
“È molto grande e la sua bardatura
non starebbe a nessun altro. Nessuno me la comprerebbe.”
“Quanto ne chiedete?”
L’uomo disse una
cifra che
avrebbe a malapena pagato una capra, tanto che il tenente si
sentì
in dovere di precisare: “È dell’elefante
che stiamo parlando,
non della bardatura.”
“Ma certo,
l’elefante. Il mio
Sarkesh, la bestia più nobile e possente di tutta
l’India.”
Grosvenor e Jenkins si
scambiarono un’occhiata che la diceva lunga su cosa stessero
pensando, ovvero: questo
sta cercando di smerciarci come elefante un mulo con una manica
legata sul muso.
In quel momento si udirono un
barrito poderoso e rumore di legno che andava in frantumi. Qualcuno
urlò qualcosa. “Hanno detto
‘attenzione’, signore,” tradusse
Barrett, “e poi delle parole che non posso
ripetere.”
Si voltarono tutti verso il
signor Jaidev, che nel frattempo aveva assunto un’espressione
assai
turbata.
“C’è
qualche problema?”
chiese il tenente.
Il problema
arrivò un istante dopo: era un elefante di proporzioni
mostruose, il
più grande che avessero mai visto. Aveva zanne lunghe
quattro piedi
e dotate di un rinforzo metallico sulla punta. La proboscide sembrava
un tronco. La bestia scuoteva la testa sventolando le enormi orecchie
e barriva forsennatamente, il terreno tremava sotto le sue zampe.
Due o tre uomini stavano
cercando
senza alcun successo di arginare la sua furia con delle corde e degli
ankus***. Il pachiderma li ignorò fino a che mantennero una
distanza
di sicurezza, ma appena si fecero troppo sotto ne afferrò
uno con la
proboscide e lo lanciò via come se fosse stato uno straccio.
“Sarkesh! Nā,
nā****!” urlò
il signor Jaidev, col tono che avrebbe usato per redarguire un
pechinese che aveva fatto la cacca sul tappeto.
L’elefante si
girò nella sua
direzione e allargò le orecchie con fare minaccioso. I
puntali di
metallo delle zanne brillavano sotto il sole.
“Sarkesh...” e
già la voce
era meno energica.
La bestia rispose con un
barrito
poderoso. Fece per avanzare verso di lui, ma si accorse che
c’erano
delle presenze nuove. Sempre a orecchie larghe si avvicinò
ai
quattro inglesi, scosse la testa con aria di sfida e alzò la
proboscide per fiutarli. Nessuno osava muoversi.
L’indiano
provò a richiamarlo,
ma l’animale non gli prestò alcuna attenzione.
Faccia a faccia con
l’appendice
che lo studiava, Grosvenor fece un sorriso di circostanza.
“Bell’elefantino,” disse con tono
amichevole. La bestia sbuffò,
scompigliandogli i capelli con la potenza del soffio d’aria
emesso.
Sarkesh annusò
tutti con grande
cura, poi emise un barrito di soddisfazione e circondò con
la
proboscide le spalle del sergente. Sembrava uno che avesse ritrovato
un vecchio amico.
Se lo tirò vicino e
sollevò una
zampa anteriore.
“Vuole farvi salire in
groppa,”
spiegò il signor Jaidev.
Il sergente lo
fissò, senza
parole forse per la prima volta da quando Grosvenor lo conosceva.
“A
me?” disse soltanto.
Sarkesh era sempre fermo con
la
zampa alzata. Addirittura piegò la testa nella sua direzione
per
fare in modo che gli afferrasse l’orecchio più
facilmente.
“Mi sembra che gli piacciate,
Jenkins,” disse il tenente. Poi rivolto
all’indiano: “Lo
prendiamo.”
Il pachiderma intanto si
coccolava l’attonito sergente. Di nuovo gli porse la zampa,
accompagnando il gesto con un brontolio. Lo sospinse con la
proboscide.
“Coraggio, Jenkins”
lo
sollecitò l’ufficiale, “fate contento il
nostro elefante.”
“Che mi venga un
colpo,”
commentò l’altro, poi salì in groppa a
Sarkesh, che emise un
barrito assordante e fece un giro del cortile con l’aria di
chi si
vanta enormemente di avere sulla schiena un vero sergente britannico.
Il signor Jaidev si
girò verso
il tenente e disse: “È un elefante da guerra. Era
del maharaja di
Barhdaman, ma ora non si fa più la guerra con gli elefanti e
lui non
lo voleva più. Troppo cattivo, Sarkesh. Troppo nervoso. E
grosso.
Mangia molto.”
Grosvenor sogghignò
all’idea
che avrebbe ricomprato il pachiderma con i soldi di chi
l’aveva
venduto. Pagò all’uomo il prezzo corrente di un
elefante più una
buona mancia. Così, per simpatia, e perché il
denaro era quello di
chi aveva tentato di tirargli il collo non più tardi di
ventiquattr’ore prima.
* Celeberrimo ufficiale
dell’Esercito Britannico dalla vita avventurosa. Spia del
Grande
Gioco, viaggiatore e schermidore. Era in grado di parlare
correntemente otto lingue ed era famoso per la prodigiosa forza
fisica.
** “Twa
Corbies”, canto
tradizionale scozzese.
*** Bastone di circa 1,5 m che
termina con un uncino. È lo strumento usato dal mahout per
guidare
l’elefante.
**** “No,
no!”
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