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Autore: Old Fashioned    18/05/2017    18 recensioni
Siamo nell'India coloniale di fine ottocento. Il tenente Eldred Grosvenor dei fucilieri di Sua Maestà è prigioniero dei thug e sta per essere sacrificato alla dea Kali per mano di un maharaja traditore alleato con l'Impero Russo. Ma i thug non erano stati debellati quarant'anni prima dal generale Sleeman? Chi è stato a far riprendere loro l'antico vigore e a fomentarli contro l'Impero Britannico? Chi è la misteriosa spia dello Zar che sta finanziando il Movimento Indipendentista Indiano? Ma soprattutto: riuscirà il nostro tenente a salvare la pellaccia?
Prima classificata al contest "Dire Circumstances" indetto da Sagas sul forum di EFP.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Grosvenor'
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Capitolo 4

Quando il bigliettaio della stazione di Jotram li vide arrivare, rimase a dir poco stupefatto: i quattro sahib sembravano tirati fuori da uno dei mucchi di cadaveri di Isandlwana. Erano sanguinanti, malandati e con le leggendarie giubbe di qualsiasi colore fuorché rosso. Davano l’idea di aver passato l’ultima settimana a scappare da un branco di bufali inferociti in mezzo a una palude.
Dallo scalcinato gruppetto si staccò un ufficiale. Si presentò allo sportello e compitissimo disse: “Buon giorno. Quattro biglietti per Calcutta, per favore. Sola andata.”
L’impiegato ci mise qualche secondo a riprendersi dallo stupore, tanto che l’altro si sentì in dovere di chiedergli: “Va tutto bene, buon uomo?”
Scusate, sahib.” L’indiano si riscosse e gli consegnò i biglietti. Come sempre il maharaja provvide al pagamento.
Sarebbe così gentile da dirmi a che ora parte il treno?”
Alle nove, sahib.”
Quindi abbiamo mezz’ora. Molto bene. Grazie e buona giornata.” Il tenente raggiunse i suoi uomini e con la più grande tranquillità disse: “Abbiamo anche il tempo di fare colazione.”
Il volto di Thayes si illuminò.

E fin qui siamo arrivati, pensò Grosvenor mescolando assorto la sua tazza di caffè. Il tragitto per Jotram era stato singolarmente tranquillo, ma la cosa non l’aveva rassicurato per niente. Il contrario, se mai.
Assodato che quel tale O’lim era tutt’altro che un babbuino, doveva aver capito subito cosa avevano intenzione di fare. Quindi perché frugare per mezza foresta quando sapeva per certo che sarebbero saliti su un treno? Molto meglio occuparsi di loro una volta a bordo, dove fra l’altro non avrebbero neppure avuto vie di fuga.
Il tenente infilò una mano in tasca e ne trasse un paio di dadi. Cominciò a farli rotolare distrattamente sulla tovaglia bianca.
Aveva avuto non più tardi di due ore prima una riprova delle parole di Kaur: c’era qualcuno che li teneva d’occhio, non solo tra i thug, ma anche tra coloro che erano fedeli alla Corona.
Bene, uomini. Ora possiamo andare,” disse alzandosi. Lasciò i dadi sul tavolo. Era già voltato verso l’uscita, per cui non si accorse che il cameriere li raccoglieva e se li metteva in tasca.
Si spostarono sulla banchina e dopo poco di udì un fischio, poi da dietro una curva apparve una vecchia locomotiva che tra sfiati di vapore e stridore di freni si fermò.
Rimase a sobbollire mentre gli addetti cominciavano a rifornirla del necessario.
Scesero parecchi passeggeri, ma ne salirono pochi.
Grosvenor li osservò cercando di cogliere in essi qualcosa al di fuori dell’ordinario, ma al suo occhio di sahib parvero tutti uguali.
Nessuno vietava che O’lim fosse salito alla stazione prima, peraltro, visto che il treno per Calcutta era solo uno, o che salisse a quella successiva.
Sospirò. Gli sembrava di camminare bendato lungo il ciglio di un burrone. Ci voleva gente esperta per fare certe cose, spie del Grande Gioco, soldati di eccezionali capacità come Frederick Burnaby*. Come pretendevano che uno come lui potesse portare a termine una missione del genere? D’accordo, beati monoculi in terra caecorum: anche lui era un ufficiale, sapeva tenere in mano una pistola e una sciabola. Era pur sempre meglio di niente, ma da qui a fare di lui un militare addestrato al controspionaggio ce ne passava.
Salirono a bordo. La carrozza che avevano scelto era quasi vuota, c’erano solo quattro o cinque uomini di varie età e un paio di donne con il saree tirato sulla testa a nascondere i lineamenti. Sebbene quattro militari malandati che prendevano il treno in mezzo ai civili rappresentassero uno spettacolo quanto meno insolito, nessuno li degnò di un secondo sguardo.
Si udì un lungo fischio, poi sbuffando e ansimando il convoglio si mise in moto e pian piano prese velocità. Presto subentrò lo sferragliare ipnotico delle ruote mentre fuori dai finestrini scorreva un alternarsi di campi coltivati e foresta. Talvolta qualche scintilla brillava un istante nell’aria e poi scompariva, sbuffate di fumo nero accarezzavano i finestrini come grandi ali.
Occhi aperti,” raccomandò il tenente.
Fece girare lo sguardo tutt’intorno: uno degli uomini stava fumando e intanto guardava il paesaggio, un altro paio sembravano addormentati. Una delle donne o presunte tali aveva tirato fuori un lavoro di cucito.
A parte la scarsità di passeggeri, la situazione non sembrava diversa da qualsiasi viaggio in treno avesse fatto in India.
Poi improvvisamente gli parve di vedere ombre che si muovevano ai margini del suo campo visivo, ma prima che potesse sincerarsene la luce calò drasticamente e un attimo dopo il vagone piombò nell’oscurità. “Una galleria!” esclamò nel buio la voce di Barrett.
Si udirono un frenetico tramestio, il fremito metallico di qualcuno che sfoderava la baionetta, un sibilo nell’aria, un gemito. Grosvenor tentò di alzarsi, ma si sentì afferrare da più parti. Qualcuno gli mise una mano sulla bocca, lui ci piantò i denti, stringendo più che poteva. Il suo avversario gettò un grido, provò a divincolarsi, colpì alla cieca. Altri però lo stavano afferrando, lo tiravano per la giubba, qualcuno gli aveva agguantato una manata di capelli e lo strattonava all’indietro.
Poi il tenente sentì un dolore acuto alla tempia e tutto si fece indistinto. Provò ancora a liberarsi, ma si accorse che stava barcollando e le forze gli venivano meno.
Crollò a terra. L’ultima cosa che sentì furono mani che da una parte frenavano la sua caduta, ma dall’altra lo trattenevano per impedire una sua improbabile fuga.

Riaprì gli occhi in una stanzetta dalle pareti di metallo, senza finestre e illuminata solo da una piccola lampada a petrolio che si trovava su una cassetta rovesciata. Il rumore e le vibrazioni gli fecero capire che era ancora sul treno. Aveva le mani legate dietro la schiena, dalla tempia gli si irradiavano attraverso il cranio fitte di dolore che sembravano spilloni da fattucchiera.
Ben svegliato, tenente,” lo salutò una voce fredda.
L’ufficiale scrollò la testa un paio di volte e si mise faticosamente seduto. Accanto a lui c’era l’uomo in nero.
Avete dormito bene?” s’informò O’lim.
Veramente non tanto,” rispose Grosvenor, “i vostri uomini sono stati piuttosto rudi nei miei confronti.”
L’altro emise un teatrale sospiro. “Vi porgo le mie scuse. Non è facile al giorno d’oggi trovare un servizio decente.” Poi, cambiando di colpo tono ed espressione: “Ma ora mi duole dirvi che non ho tempo, quindi purtroppo dovremo rimandare la nostra discussione sulla servitù. Datemi quei documenti.”
Grosvenor tentò di assumere un’aria innocente. “Quali documenti?”
O’lim sfoderò il kukri e lo mosse adagio facendo brillare il filo della lama. Con voce minacciosamente bassa, lentamente recitò: “Tu lo tieni fermo, tu. Io gli becco quei begli occhioni blu.**” Avvicinò il pugnale al viso dell’inglese fino a che la punta non gli graffiò uno zigomo. “Dei vostri begli occhioni blu, tenente, quale preferite che vi tolga per primo?”
Grosvenor deglutì a vuoto. “Nessuno dei due, se posso esprimere un parere.” Tentò di muoversi, ma la punta del kukri gli bucò la pelle, facendogli scorrere sulla guancia una lacrima di sangue.
Faccio appello al vostro senso dell’opportunità,” gli disse O’lim, sempre con la sua espressione imperturbabile, “vi ricordo che qui non siamo al circolo ufficiali a parlare di caccia alla tigre.”
Posso assicurarvi che l’avevo capito perfettamente.”
Tenente, è bene che sappiate una cosa: non mi reputo un estimatore del celebre humour inglese. In più in questo momento la fretta mi rende ancora meno disposto ad apprezzare le vostre battute. Datemi quei documenti adesso.”
Non li ho io,” rispose Grosvenor, il che peraltro era la pura verità.
La punta del pugnale penetrò più in profondità. “Mi basta spingere ancora un po’ e farò di voi un emulo dell’ammiraglio Nelson. Se poi vi ostinerete a non parlare, per rendere più completa la somiglianza vi asporterò anche il braccio destro.”
Il tenente strinse i denti. “Io mi compiaccio della vostra conoscenza della cultura inglese,” replicò, “ma sono un fuciliere, e francamente troverei insultante essere reso simile a un marinaio, ancorché celebre come il vecchio Horatio.”
Si girò bruscamente su un fianco, e pur procurandosi un taglio sullo zigomo, sottrasse l’occhio alla minaccia del kukri. Approfittando della propria maggiore mole spinse via da sé O’lim con un calcio e si alzò in piedi. Fece per uscire, ma l’asiatico lo afferrò per una spalla e lo tirò indietro. Grosvenor si divincolò e con una pedata gli spedì il lume a petrolio addosso. Il serbatoio della lampada andò in frantumi e lingue di fiamma avvolsero gli abiti della spia russa, che con un ringhio di dolore mollò definitivamente la presa.
Il tenente cercò tentoni la maniglia, la abbassò col gomito e spinse la porta, che per fortuna cedette.
Si trovò in un corridoio, da una parte proveniva rumore di spari. Corse in quella direzione.
Pochi secondi dopo cominciò a percepire alle sue spalle i passi di varie persone. Una mano lo raggiunse afferrandolo per la collottola, si divincolò con uno strattone, aumentò la velocità.
Nel frattempo cominciava anche a sentire l’odore della polvere da sparo.
Una voce inconfondibile ruggì: “Per tutti i diavoli! Siete fucilieri o scritturali? Ho detto di tenere lontani quei mangiacurry!”
Sergente Jenkins!” urlò con quanto fiato aveva in gola. “Sergente!”
Sentì il kukri fendere l’aria alle sue spalle.
Tenente Grosvenor!” giunse la risposta del sottufficiale.
La spia gli fu addosso. Con le mani legate, l’ufficiale non riuscì a parare la caduta e rovinò al suolo. Cercò di divincolarsi, ma l’altro gli gravava sulla schiena con tutto il suo peso. Il freddo della lama sulla gola lo fece rabbrividire.
I documenti,” ripeté O’lim.
Vi ho detto che non li ho io!”
L’altro premette il pugnale. “E allora ditemi chi li ha.”
Grosvenor strinse i denti: Jenkins era sicuramente in arrivo, doveva cercare di prendere tempo. “Se ve lo dico, che cosa ci guadagno?”
Che vi ucciderò in modo rapido e pietoso.”
Spiacente. Se mi aveste parlato di gin e magari anche di acqua tonica avremmo potuto avviare una contrattazione, ma se comunque morirò, mi prendo almeno la soddisfazione di lasciarvi a bocca asciutta.”
La spia fece una fredda risata. “Non vi avrei detto così eroico,” ghignò, “ma forse siete solo un povero stolto che non ha idea di quel che lo aspetta.”
Arrivarono altre persone, alle quali O’lim parlò in una lingua che Grosvenor non conosceva. Qualcuno lo afferrò per i piedi e cominciò a trascinarlo indietro.
In quel momento echeggiò uno sparo seguito da un grido. Chi lo stava trascinando smise di farlo. O’lim si buttò a terra con un ringhio di disappunto.
Tutti indietro!” sbraitò il sergente con il fucile ancora imbracciato, a gambe larghe per tenersi in equilibrio nonostante gli scossoni del treno. “Tutti indietro o salta la testa di qualcun altro!”
La spia afferrò Grosvenor per i capelli e gli appoggiò il pugnale sulla gola. “E se fosse la testa di questo bel tenentino a saltare?” chiese a Jenkins.
Il sergente rimase impassibile. “Quella dopo sarebbe la vostra,” rispose.
In quel momento il treno ebbe un violento sussulto, cigolò e sferragliò come se una mano enorme lo stesse agitando, il sottufficiale perse l’equilibrio e sarebbe caduto giù se non si fosse provvidenzialmente aggrappato a una ringhiera, O’lim scivolò in avanti. Il convoglio stava perdendo rapidamente velocità.
Qualcuno ha staccato i vagoni!” esclamò Jenkins, che essendo in piedi riusciva a vedere cosa stava succedendo.
La metà di treno rimasta indietro, con loro sopra, si stava lentamente fermando, l’altra era ormai già sparita alla vista e a testimonianza del suo passaggio rimaneva solo una scia di fumo nero che si andava dissolvendo.
Approfittando dell’attimo di smarrimento, il sergente sparò un colpo. O’lim scattò di lato come un felino, quindi scomparve alla vista seguito dai suoi uomini.
Quel maledetto sta scappando!” esclamò Jenkins. Fece per sparare, ma il gruppetto era già scomparso nella foresta.
Dannazione,” brontolò abbassando l’arma.
Raggiunse il tenente, gli slegò i polsi. “Tutto a posto, signore?” gli chiese con sussiego. Grosvenor conosceva bene il sergente, e sapeva che quel tono in apparenza così formale in realtà significava: non posso lasciarvi solo un momento.
Dobbiamo andare,” disse l’ufficiale ignorando la domanda. “Siamo dispersi in mezzo al nulla e intanto quello là starà correndo a Calcutta per far secco il Governatore.”
Sarebbe increscioso, signore,” commentò Jenkins. Poi gli porse un fazzoletto inspiegabilmente candido nonostante tutto quello che avevano passato e gli suggerì: “Pulitevi un po’ la faccia, signore. Sembrate Guy Fawkes dopo il processo.”
Per fortuna siete arrivato in tempo, sergente, se no rischiavo di sembrare Guy Fawkes dopo l’esecuzione.”

Raccolsero la loro roba. Jenkins informò il tenente che mentre era prigioniero, lui e i due soldati avevano dovuto difendersi dall’attacco dei thug. Piuttosto stupito aggiunse che alcuni locali, tra cui le due donne della loro carrozza, erano accorsi a dar loro man forte contro gli assalitori. “Voi ci capire qualcosa, signore?” chiese perplesso.
Sembra che siamo capitati nel bel mezzo di una guerra di spie, sergente,” rispose Grosvenor. Stava per aggiungere altro quando scorse di nuovo la donna col saree arancione. Era di spalle lungo il binario, la vide imboccare un sentiero e scomparire nella vegetazione.
Aspettate!” le disse saltando giù dal treno, ma quando raggiunse il punto in cui era entrata nella foresta, di lei non c’era più alcuna traccia.
L’unica cosa che trovò fu un dado di osso.
Sergente, da questa parte!” disse.
Si misero rapidamente in marcia e dopo circa un quarto d’ora arrivarono a un paese. Il centro abitato risentiva già della vicinanza della grande città, aveva case di muratura, templi e addirittura qualche strada lastricata. Nella piazza principale, intorno alla fontana, c’era un gruppo di donne intente a lavare i panni, i negozianti esponevano la loro merce lungo le strade. Bambini giocavano qua e là, festoni di erbe e peperoncini erano appesi alle finestre.
Dobbiamo trovare un mezzo di trasporto,” disse Grosvenor.
Un carro, signore?” propose Barrett.
Qualcosa di veloce. Dei cavalli sarebbero l’ideale.”
Il sergente rimase come sempre impassibile, ma i due soldati si scambiarono uno sguardo sconcertato: a Barrett i cavalli avevano sempre fatto paura, mica era diventato un fuciliere per caso, e Thayes era talmente grosso che in groppa a qualsiasi cavallo sarebbe sembrato Sancho Panza sul somaro.
Inutile dire che la prospettiva di coprire l’ultimo tratto della strada per Calcutta in sella a un destriero li allettava pochissimo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il tenente insisté: “Siamo a piedi sia noi che il russo. Dobbiamo procurarci un mezzo veloce prima di lui, altrimenti possiamo pure dire addio al Governatore.”
Sissignore.” Barrett interrogò gli indigeni, e il responso fu: “Qui non ci sono cavalli, però c’è uno che ha un elefante da vendere. Hanno detto di chiedere del signor Jaidev.”
Adoro gli elefanti,” rispose l’ufficiale, “andiamo.”
Ma signore, dicono che...” tentò il soldato.
Non c’è tempo, andiamo.”

Il signor Jaidev possedeva una fattoria ai confini del paese. L’edificio principale era ancora nel centro abitato, ma il resto si protendeva verso la campagna.
Il proprietario, dapprima sospettoso, divenne straordinariamente affabile quando seppe il motivo per cui i quattro sahib si erano recati a casa sua. Offri loro del tè, del lassi e dei dolci. Si prodigò in ogni modo. Disse che avrebbe aggiunto la bardatura dell’elefante senza chiedere una rupia in più.
A questo punto, anche una persona entusiasta e noncurante come Grosvenor cominciò a insospettirsi. “Ha qualcosa che non va il vostro elefante?” chiese.
Assolutamente no, sahib!” si affrettò a negare l’indiano, “È molto grande e la sua bardatura non starebbe a nessun altro. Nessuno me la comprerebbe.”
Quanto ne chiedete?”
L’uomo disse una cifra che avrebbe a malapena pagato una capra, tanto che il tenente si sentì in dovere di precisare: “È dell’elefante che stiamo parlando, non della bardatura.”
Ma certo, l’elefante. Il mio Sarkesh, la bestia più nobile e possente di tutta l’India.”
Grosvenor e Jenkins si scambiarono un’occhiata che la diceva lunga su cosa stessero pensando, ovvero: questo sta cercando di smerciarci come elefante un mulo con una manica legata sul muso.
In quel momento si udirono un barrito poderoso e rumore di legno che andava in frantumi. Qualcuno urlò qualcosa. “Hanno detto ‘attenzione’, signore,” tradusse Barrett, “e poi delle parole che non posso ripetere.”
Si voltarono tutti verso il signor Jaidev, che nel frattempo aveva assunto un’espressione assai turbata.
C’è qualche problema?” chiese il tenente.
Il problema arrivò un istante dopo: era un elefante di proporzioni mostruose, il più grande che avessero mai visto. Aveva zanne lunghe quattro piedi e dotate di un rinforzo metallico sulla punta. La proboscide sembrava un tronco. La bestia scuoteva la testa sventolando le enormi orecchie e barriva forsennatamente, il terreno tremava sotto le sue zampe.
Due o tre uomini stavano cercando senza alcun successo di arginare la sua furia con delle corde e degli ankus***. Il pachiderma li ignorò fino a che mantennero una distanza di sicurezza, ma appena si fecero troppo sotto ne afferrò uno con la proboscide e lo lanciò via come se fosse stato uno straccio.
Sarkesh! Nā, nā****!” urlò il signor Jaidev, col tono che avrebbe usato per redarguire un pechinese che aveva fatto la cacca sul tappeto.
L’elefante si girò nella sua direzione e allargò le orecchie con fare minaccioso. I puntali di metallo delle zanne brillavano sotto il sole.
Sarkesh...” e già la voce era meno energica.
La bestia rispose con un barrito poderoso. Fece per avanzare verso di lui, ma si accorse che c’erano delle presenze nuove. Sempre a orecchie larghe si avvicinò ai quattro inglesi, scosse la testa con aria di sfida e alzò la proboscide per fiutarli. Nessuno osava muoversi.
L’indiano provò a richiamarlo, ma l’animale non gli prestò alcuna attenzione.
Faccia a faccia con l’appendice che lo studiava, Grosvenor fece un sorriso di circostanza. “Bell’elefantino,” disse con tono amichevole. La bestia sbuffò, scompigliandogli i capelli con la potenza del soffio d’aria emesso.
Sarkesh annusò tutti con grande cura, poi emise un barrito di soddisfazione e circondò con la proboscide le spalle del sergente. Sembrava uno che avesse ritrovato un vecchio amico.
Se lo tirò vicino e sollevò una zampa anteriore.
Vuole farvi salire in groppa,” spiegò il signor Jaidev.
Il sergente lo fissò, senza parole forse per la prima volta da quando Grosvenor lo conosceva. “A me?” disse soltanto.
Sarkesh era sempre fermo con la zampa alzata. Addirittura piegò la testa nella sua direzione per fare in modo che gli afferrasse l’orecchio più facilmente.
Mi sembra che gli piacciate, Jenkins,” disse il tenente. Poi rivolto all’indiano: “Lo prendiamo.”
Il pachiderma intanto si coccolava l’attonito sergente. Di nuovo gli porse la zampa, accompagnando il gesto con un brontolio. Lo sospinse con la proboscide.
Coraggio, Jenkins” lo sollecitò l’ufficiale, “fate contento il nostro elefante.”
Che mi venga un colpo,” commentò l’altro, poi salì in groppa a Sarkesh, che emise un barrito assordante e fece un giro del cortile con l’aria di chi si vanta enormemente di avere sulla schiena un vero sergente britannico.
Il signor Jaidev si girò verso il tenente e disse: “È un elefante da guerra. Era del maharaja di Barhdaman, ma ora non si fa più la guerra con gli elefanti e lui non lo voleva più. Troppo cattivo, Sarkesh. Troppo nervoso. E grosso. Mangia molto.”
Grosvenor sogghignò all’idea che avrebbe ricomprato il pachiderma con i soldi di chi l’aveva venduto. Pagò all’uomo il prezzo corrente di un elefante più una buona mancia. Così, per simpatia, e perché il denaro era quello di chi aveva tentato di tirargli il collo non più tardi di ventiquattr’ore prima.














* Celeberrimo ufficiale dell’Esercito Britannico dalla vita avventurosa. Spia del Grande Gioco, viaggiatore e schermidore. Era in grado di parlare correntemente otto lingue ed era famoso per la prodigiosa forza fisica.
** “Twa Corbies”, canto tradizionale scozzese.
*** Bastone di circa 1,5 m che termina con un uncino. È lo strumento usato dal mahout per guidare l’elefante.
**** “No, no!”


   
 
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