Galoppava
come una pazza forsennata, costeggiando a gran velocità le
costiere
battute dal vento della Cornovaglia.
Appena
letto quel dannato biglietto, era uscita di casa di corsa, aveva
farfugliato qualche frase sconnessa a Jud e Prudie circa quella sua
uscita frettolosa e poi si era diretta alla stalla per prendere il
suo cavallo.
Aveva
evitato Ross. Pur nel marasma delle sue emozioni per quanto accaduto
a Dwight e Caroline, non se l'era sentita di renderlo partecipe di
quanto successo. Nelle condizioni in cui era, lui non sarebbe stato
di nessuna utilità alla tenuta dei Penvenen. Non era
più il Ross di
una volta, il migliore amico di Dwight, quello che pochi mesi prima,
a Capodanno, le aveva rivelato quasi in lacrime la terribile malattia
della bambina dei loro amici. E inoltre quanto successo con lui nella
giornata faceva ancora talmente male che desiderava vederlo il meno
possibile. Lo aveva voluto vicino, quel pomeriggio. E ora desiderava
solo che stesse il più lontano possibile da lei.
Ma
in quel momento non importava. Tutto quello che aveva in mente era il
visino dolce e perfetto della piccola Sarah, i suoi capelli biondi e
lisci come seta, il suo sorriso dolce, i suoi modi di fare delicati
cancellati per sempre dalla morte. E poi Dwight, l'uomo più
gentile
e onesto che avesse mai conosciuto, buono come il pane e sempre
pronto a mettersi a disposizione degli altri. E Caroline, la sua
migliore amica, colei che l'aveva generosamente aiutata e salvata a
Londra anni prima, aprendole le porte per un futuro brillante. Lei,
così frivola, civettuola, ammiccante e allo stesso tempo
dolce ed
altruista, come avrebbe fatto a sopportare quella perdita? E come ci
sarebbe riuscito Dwight?
Demelza,
mentre galoppava verso casa loro, non riusciva a non chiedersi cosa
ne sarebbe stato dei suoi due amici, come avrebbero superato quella
tempesta terribile e come avrebbero fatto a non perdere se stessi.
Conosceva quel dolore, sapeva quanto aveva lacerato lei e Ross e
sperava di poter dare loro conforto, anche se serviva a poco, e
insieme qualche utile consiglio, se loro ne avessero voluti.
Quando
arrivò alla dimora dei Penvenen, dove Dwight e Caroline si
erano
trasferiti dopo il matrimonio, il sole stava iniziando a calare.
Bussò alla porta e un servitore venne subito ad aprile.
Demelza
entrò in quella casa dove spesso era stata invitata assieme
a Ross e
ai bambini per un pranzo o una cena fra amici e ricordava le risate,
le chiacchiere, le corse forsennate di Jeremy e Clowance nel grande
giardino della villa con Horace. Ora era tutto desolatamente cupo e
silenzioso. La casa era sempre quella ma era come se al suo interno
fosse stata spenta la luce.
Un
via vai incessante di persone saliva e scendeva le scale. Gente
arrivata da ogni dove e di ogni estrazione sociale erano lì,
a dare
il loro conforto a Caroline e Dwight. C'erano proprio tutti, dai
minatori che Dwight generosamente curava, ai nobili e all'alta
società della zona e di Londra. Molti li conosceva, aveva
trattato
affari con loro, aveva discusso e aveva trovato accordi economici
vantaggiosi quando, ogni volta che tornava nella capitale, si
trasformava nella scaltra donna d'affari che era stata nei tre anni
di separazione da Ross.
La
salutarono tutti, con un cenno rispettoso del capo o con un inchino e
Demelza rispose con cortesia. Poi salì le scale, ma prima di
arrivare all'ultimo gradino fu travolta da un abbraccio convulso, che
quasi le fece mancare il fiato.
Caroline,
informata del suo arrivo da un servitore, le era venuta incontro.
Indossava un abito nero, i suoi bellissimi capelli biondi erano
pettinati e perfetti come sempre, raccolti in una crocchia, e a prima
vista sembrava perfetta ed eterea come sempre. Ma bastava uno sguardo
più attento per capire che non era così. Grosse
occhiaie ne
deturpavano il viso che era ridotto a una maschera di dolore, il suo
colorito era pallido e gli occhi arrossati e completamente asciutti.
Demelza non disse nulla, non c'erano parole da dire o conforti da
dare, c'era solo da stare in silenzio e farle sentire che era
lì
accanto a lei. La capiva, lei più di tutte comprendeva fin
troppo
bene il suo dolore, un dolore forte, lacerante e allo stesso tempo
sordo che toglieva il fiato e che non ti permetteva nemmeno di
piangere. Anche lei, quando aveva perso Julia, aveva pianto
pochissimo e solo molti giorni dopo che la sua bimba se n'era andata.
Le lacrime sono un qualcosa di liberatorio e la morte di un figlio
non ha proprio nulla di liberatorio, ci vogliono giorni, mesi o anche
anni per far uscire allo scoperto quel dolore che si è
sedimentato
dentro di te.
La
abbracciò, le accarezzò la schiena e
sentì che era lei che aveva
voglia di piangere. Non era giusto che Sarah se ne fosse andata. Non
era giusto come non lo era la morte di nessun bambino...
"Si
era addormentata come le altre sere..." - singhiozzò
Caroline.
"Ero riuscita pure a farle mangiare tutto lo stufato di carne
con le patate, a lei che di solito avanzava sempre qualcosa e non
aveva mai fame. Forse non dovevo sforzarla, forse avrei dovuto farla
mangiare meno, forse avrei dovuto coprirla di più... O
Demelza, cosa
ho sbagliato?" - disse Caroline, quasi gridando, lei che era
sempre stata controllata e attenta alle buone maniere.
Demelza
le accarezzò la guancia, scuotendo il capo. "Era malata
Caroline, tu non hai sbagliato niente. Potevi fare mille cose diverse
ma sarebbe successo...".
"Io
la rivoglio! Rivoglio la mia bambina, come faccio a riaverla
indietro?".
Le
sorrise, tristemente. "Non si puo', puoi solo portarla sempre
con te, nel tuo cuore".
Caroline
si aggrappo' nuovamente a lei, come cercando un appiglio per non
cadere. "Non lasciarmi sola".
"Non
lo farò".
"Sai
Demelza, cosa vorrei?".
"Cosa?".
"Tornare
indietro nel tempo, quando noi due vivevamo felici e spensierate a
Londra e io non piangevo la morte di un figlio, non ero una donna
sposata e il mio unico cruccio era scegliermi l'abito per andare a un
ballo".
Demelza
annuì, era umano che desiderasse una fuga di quel genere.
"Quello
che hai avuto qui, con Dwight, vale più di tutto. E so che
non ci
rinunceresti mai, anche sapendo l'epilogo. A Londra eri felice, ma
non conoscevi Sarah".
"Certo,
ma... ma... partiamo un po', solo noi, come una volta".
Scosse
la testa, non poteva farlo, aveva troppi macelli da sistemare a
Nampara e Caroline doveva rimanere a casa. "Dwight ha bisogno di
te, non puoi abbandonarlo. Vivete insieme questo dolore, non
rintanatevi ognuno nel vostro cantuccio, non fate lo stesso errore
mio e di Ross. Parlate, urlate, piangete insieme, litigate se questo
puo' farvi sfogare. Ma resta qui con lui".
Caroline
accennò un sorriso. "L'ho sempre detto che sei
più saggia di
me".
Demelza
le strizzò l'occhio. "E allora dammi retta".
"Vuoi
vederla?".
A
quella domanda, Demelza deglutì. Voleva vedere la piccola
Sarah?
Com'è un bambino morto? La ferita per la morte di Julia era
sempre
lacerante, pur non avendola vista senza vita. Per Ross era stato
diverso, lui sapeva com'era, sapeva cosa si prova a stringere fra le
braccia un bambino senza vita, ma a lei quello strazio era stato
risparmiato dalla malattia. Non averla potuta vedere per dirle addio
era il suo più grande rammarico, ma allo stesso tempo
l'aveva
salvata dal dolore di ricordarla morta, quel dolore che Ross si
portava dietro da allora. Avrebbe voluto averlo vicino in quel
momento, affrontare quel lutto con lui, con tutti i ricordi che
risvegliava in lei. Ma Ross non c'era, stavolta era lui quello
risparmiato grazie a una malattia ed era il suo turno di affrontare
da sola quell'inferno, per il bene di Caroline. Aveva paura, certo,
perché vedere Sarah avrebbe significato un po' rivedere
Julia.
Strinse i pungi, abbracciò l'amica e cercò di
farle e di farsi
coraggio. "Certo".
Caroline
annuì, la prese per mano e la condusse su per gli ultimi
scalini.
Percorsero in silenzio il corridoio fino alla stanza di Sarah, una
cameretta dalle tinte pastello, elegante e allo stesso tempo
rassicurante per un bambino, con una culla che sarebbe rimasta vuota,
tanti giochi, tante bambole, tutto il mondo di quella piccola
innocente.
Dwight
era lì, riverso sulla culla, a fissare ciò che
era stata la sua
fiducia per il futuro, il suo sogno d'amore, il frutto del suo
rapporto con Caroline. Era ammutolito, senza parole, con un volto
quasi trasfigurato.
Demelza
deglutì, si avvicinò e lo abbracciò in
silenzio, senza dire nulla.
Glielo aveva promesso, gli aveva giurato che ci sarebbe stata quando,
con calore e affetto, l'aveva sorretta durante i giorni terribili
dell'incidente di Ross. Dwight non l'aveva mai abbandonata e non le
aveva mai fatto mancare la sua vicinanza, nonostante il dolore che
stava vivendo. E lei non l'avrebbe lasciato solo. "Mi dispiace".
Dwight
sprofondò la mano nei suoi lunghi capelli rossi,
accarezzandole la
nuca. "Grazie per essere qui".
"Non
c'è altro posto al mondo dove dovrei essere, in questo
momento".
E poi lo fece. Si allontanò da lui e si mise accanto alla
culla.
Sarah
era lì, come se ancora dormisse e aspettasse che la sua
mamma
arrivasse per svegliarla. Era lì, col suo viso perfetto come
quello
di Caroline e Dwight, coi capelli biondi perfettamente pettinati e
decorati con un nastrino rosa come l'abitino di pizzo che indossava.
Sembrava un angelo addormentato, una di quelle statue d'avorio che
nei musei ti fermi ad ammirare. Il suo colorito era marmoreo,
pallido. Ma sembrava così in pace col mondo, così
serena in quel
suo sonno eterno. Era bella, la bellezza di una bambola. Si chiese se
anche Julia fosse stata così... Si portò una mano
al petto,
realizzando che stava guardando qualcosa di molto simile a quanto le
era stato celato dal fato e dalla malattia. Stessa innocenza, stessi
sogni spezzati, stesso immenso dolore per qualcuno che non sarebbe
mai diventato grande. Guardò Sarah e fu come aver saldato il
suo
debito col destino perché si sentì come se stesse
guardando, con
undici anni di ritardo, la sua piccola Julia.
E
poi, sopraffatta dall'emozione, ricordò il capodanno di
alcuni mesi
prima, che sembrava lontano secoli, il modo tranquillo di giocare di
Sarah, i desideri che tutti loro avevano espresso dopo la mezzanotte.
Era andato tutto male, da allora. Ogni cosa...
Scosse
la testa, distrutta dalla perdita di quella bambina, dal dolore di
Dwight e da quanto stava accadendo a casa sua. "Scusate, devo
andare!" - disse, correndo fuori dalla porta, senza dar loro il
tempo di controbattere.
Percorse
alcuni passi nel corridoio e poi si appoggiò alla parete,
cercando
di riprendere fiato. Caroline e Dwight, distrutti dal dolore, non
l'avevano seguita e per alcuni minuti poté rimanere sola.
Sentiva al
piano di sotto il mormorìo della servitù e dei
visitatori che si
accomiatavano dalla visita alla bambina, il vento che faceva vibrare
le finestre e il battito incessante del suo cuore che le martellava
in petto.
"Vi
sentite bene, signora?".
A
quella domanda, sobbalzò. Non si era accorta che era
arrivato
qualcuno. Si voltò, trovandosi davanti un giovane che le era
pressocché sconosciuto, più giovane di lei forse
di una manciata
d'anni, dai capelli mossi di color castano chiaro, con un viso
raffinato e affascinante, vestito con abiti eleganti. "Non
molto" – ammise. "Ma ora mi passa, state tranquillo".
"Volete
che vi faccia portare un bicchiere d'acqua? Capisco il vostro
tormento, vedere una bambina morta non è mai una bella cosa".
Nonostante
tutto, Demelza sorrise. Gli faceva piacere quella gentilezza da uno
sconosciuto, soprattutto in un momento del genere. "Vi ringrazio
ma non è necessario" – sussurrò,
rendendosi conto che,
stranamente, trovava piacevole la compagnia di quello sconosciuto. Lo
guardò meglio e appena lo fece, fu come colta da una strana
scarica
elettrica. Non sapeva perché, ma si sentì
attratta da lui, dai suoi
bei modi, dal suo aspetto così fine e delicato. Era la prima
volta
che le succedeva. Anzi, la seconda. Le era capitato anche la prima
volta che aveva visto Ross, ora che ci pensava. Era una sensazione
piacevole e spiacevole allo stesso tempo. Piacevole per quello che
risvegliava in lei e che le faceva provare. Spiacevole
perché lei
non avrebbe dovuto sentire quel tipo di sensazioni...
Il
giovane le sorrise. "Come vi chiamate? Siete un'amica di
famiglia?".
"Il
mio nome è Demelza Poldark e sì, sono amica da
anni sia di Caroline
che di Dwight".
A
quelle parole, il giovane spalancò gli occhi. "Poldark?
Moglie
del capitano Ross Poldark?".
Si
stupì. Come faceva a conoscere Ross? "Sì, ma come
fate a...?".
Il
ragazzo le si avvicinò, facendo un breve inchino per
prenderle la
mano e baciarla. "Piacere di conoscervi, il mio nome è Hugh
Armitage e sono stato compagno d'arme di vostro marito in Francia,
alcuni anni fa. E lì che ho conosciuto anche Dwight, con cui
ho
stretto amicizia. Soffro di alcuni problemi di salute che mi danno
noia alla testa e agli occhi e dopo la guerra mi sono affidato alle
sue cure, in guerra ha conquistato la mia più piena
fiducia". E
così dicendo, le baciò la mano.
Sentì
di nuovo, ancora più potente, quella scossa. Le aveva
risposto, ma
non aveva sentito molto di quello che le aveva detto. Si
sentì
stranita da quel fatto, dal trovarlo così piacevole e
attraente. Non
le era mai successo con nessuno eccetto suo marito, nemmeno a Londra
quando per tre anni era stata da sola ed era entrata in contatto con
uomini che la adoravano. E ora, perché? Perché
era vulnerabile e
ferita per il comportamento di poco prima di Ross? Perché
era
devastata da ciò che la piccola Sarah aveva risvegliato in
lei?
Perché si sentiva sola e senza appigli? Perché
era il primo che le
dedicava attenzioni e gesti gentili, da tanto? "Francia? Oh, mio
marito ci ha combattuto quasi un anno" – disse, non sapendo
bene come intavolare una discussione che acquietasse il suo cuore.
"Vostro
marito era un eroe per me, un mito. Indomito, forte, coraggioso, non
si fermava davanti a niente. Era la parte romantica della guerra, in
un certo senso".
Demelza
scosse la testa, ricordando quanto fosse stata arrabbiata quando
aveva scoperto che era partito per il fronte. "Mio marito
sfuggiva da tante cose, in quel momento. Probabilmente anche da se
stesso". Sorrise a Hugh, quasi d'istinto, a quelle parole. "E
voi, che ci facevate laggiù? I giovani aristocratici dalle
belle
maniere, non vanno in guerra".
Hugh
arrossì impercettibilmente, a quella domanda. "Sono un
letterato, uno scrittore. Amo scrivere poesie ed ero attirato appunto
dal lato romantico della guerra. Sapete, quelle storie patriottiche e
romantiche di eroi che diventano miti, le cui gesta si raccontano
nelle leggende e nei libri".
"La
guerra non ha lati romantici!" - rispose subito Demelza, a tono.
Hugh
sorrise di nuovo. "Mio malgrado, l'ho capito sulla mia pelle. Se
non fosse stato per vostro marito, io sarei morto ora. Sono caduto in
un'imboscata e lui mi ha salvato la pelle. A proposito, ho saputo che
non sta bene. Mi spiace".
"Già".
Abbassò lo sguardo, non sapendo cosa dire. La conversazione
con lui
era stata piacevole, finché il discorso non era caduto su
Ross... "E
così, scrivete poesie? Di che genere?" - chiese, per
cambiare
argomento.
"Poesie
dedicate a persone speciali".
"Ammiratrici?".
"Ammiratrici...
O amanti".
"Lo
immaginavo" – rispose, civettuola. Demelza gli sorrise per un
attimo, ma poi si irrigidì. Stava flirtando con lui... E lo
trovava
piacevole... Deglutendo, fece un passo indietro, spaventata
più da
se stessa che da Hugh. "Io... Io forse dovrei andare" –
balbettò.
Hugh
le si avvicinò di nuovo, sorridendole in modo amabile.
"Siete
qui sola?".
"A
cavallo".
"Permettete
che vi accompagni almeno alle stalle".
Avrebbe
voluto dirgli di no, ma inspiegabilmente disse di sì. "Se vi
fa
piacere...".
"Ovviamente
mi fa piacere. Siete davvero una splendida creatura, Demelza Poldark,
trovo strano che vostro marito non abbia mai decantato le vostre lodi
al fronte".
Adorava
il modo in cui parlava, in cui parlava di LEI. Sarebbe rimasta ad
ascoltarlo per ore, rasserenava il suo spirito e la sua anima da
tutto il dolore che si portava dietro. "Mio marito non è di
molte parole".
Hugh
annuì, mentre insieme si avviavano verso l'uscita. "Potrei
venire a trovarlo, uno di questi giorni? Non vivo lontano da qui".
"Certamente,
ma non ricorda nulla del suo passato".
Hugh
sorrise, scuotendo la testa. "Beh, se non altro sarà una
scusa
per fare un saluto a voi. Potrei portarvi una mia poesia?".
"Cosa?".
"Una
poesia che scriverò appositamente per voi. Un dono! I
visitatori
devono sempre portare doni".
"Non
credo sia il caso" – rispose Demelza con poca convinzione.
"Permettetemi
di insistere, non c'è niente di male in ogni forma d'arte".
Demelza
sospirò. Era strano essere oggetto di tante attenzioni da
parte di
un uomo così raffinato, affascinante e colto, un uomo
così diverso
da Ross... Si sentiva sola e forse avere un nuovo amico le avrebbe
fatto bene. Forse... Mentiva a se stessa, un po' lo sapeva. Gli
piaceva quell'uomo, il suo modo di fare e ciò che
risvegliava in
lei. Lo voleva rivedere e voleva sentirsi piacevole ai suoi occhi.
"Avete ragione, non c'è niente di male. Aspetto voi e la
vostra
poesia a Nampara".
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