ReggaeFamily
Capitolo
otto: Prison
Song
Ciao
Lau, allora stasera veniamo a trovarti, va bene?
Ehii
Cri, ma certo! A che ora arriverete? :)
Adesso
ne parlo con Lucia e Michele e ti faccio sapere :-)
Perfetto,
allora attendo vostre notizie ;)
Eravamo da poco tornati al
residence e io stavo scambiando dei messaggi con Cristina, una mia
amica. Lei, sua sorella Lucia e il suo ragazzo Michele si stavano
organizzando per venire a trovarmi, dal momento che quel giorno c'era
la festa paesana nel luogo in cui stavamo svolgendo il campo. Essendo
domenica, ci sarebbe stata anche la tradizionale processione, la
stessa a cui avevamo assistito durante il campo precedente.
Mi alzai dal letto su cui mi
ero stesa dopo aver fatto la doccia e avvertii ancora una volta una
fitta atroce alla schiena. Avrei avuto bisogno di molto riposo dopo
l'esperienza a cavallo, ma ovviamente non avremmo avuto il tempo per
farlo, perché alle sette meno venti dovevamo essere pronti per
uscire.
Raggiunsi la cucina e mi
affacciai alla scala in legno che portava al piano superiore, ovvero
alla camera di Marta.
«Ci sei?»
domandai all'educatrice.
«Sì! Dai,
sali!» mi invitò lei in tono allegro.
Riuscii ad arrampicarmi per
quei gradini, reggendomi alla parete con le mani, finché non
emersi in un ambiente che aveva l'aspetto di una mansarda, era tutto
ricoperto di legno e dava l'impressione di essere una serra, visto
l'afoso caldo che lo permeava.
Marta aveva spalancato la
finestra, ma il fatto che il cielo fosse coperto di nubi basse e
immobili impediva a qualsiasi brezza di materializzarsi e stemperare
un po' la stanza.
«Ti piace la mia
camera?»
«Fa un caldo
terribile!» borbottai.
«Lo so, a chi lo
dici!»
Sorrisi. «Marta, i
miei amici hanno detto che vengono a trovarmi. Possono, vero?»
mi sentii in dovere di chiedere, anche se per me era scontato che
loro potessero raggiungermi.
«Non lo so, devo
chiedere agli istruttori. Mando ora un messaggio nel gruppo WhatsApp
e...»
«Chiedere? Ma chiedere
il permesso?» Ero stranita, non riuscivo a spiegarmi le sue
parole.
«Lo sai che qui non
decido io» tagliò corto in tono leggermente amaro e
ironico.
«Ma che decisione
bisogna prendere? Mi sembra di essere in prigione!» sbottai
contrariata.
«Dicono che non può
entrare chiunque qui al residence, ci vogliono delle autorizzazioni
e...»
La interruppi: «Stiamo
fuori dal cancello, se è questo il problema!».
«Ma penso che dovrete
fare qualche attività tra poco, non ci sarebbe il tempo. Non
so cosa dirti, sono ordini dall'alto» concluse lei
dispiaciuta, pettinandosi frettolosamente i capelli.
Basita, ridiscesi le scale e
rientrai impettita in camera; recuperai il cellulare e scrissi un
altro messaggio a Cristina.
A
quanto pare non potete entrare in struttura... senti, ci vediamo
direttamente nella piazza in cui si ferma la processione? Se non ho
capito male, vogliono portarci lì...
Mmh
ok, va bene :-) arriviamo verso le 7 cmq
Scusate
davvero, purtroppo qui io non decido un cazzo... sapessi quanto sono
incazzata Cri...
Dai
tranquilla Lau non ci puoi fare nulla ;-)
Sorrisi appena per il fatto
che Cristina mi mandasse sempre le faccine con il naso, era qualcosa
che la caratterizzava. Io non le sopportavo, però vederle
apparire sul mio cellulare scatenava sempre la mia ilarità.
Nel frattempo raccontai
l'accaduto via SMS anche ad Anna, Beatrice e Danilo, i quali furono
estremamente dalla mia parte e si mostrarono comprensivi.
Intanto Viola uscì
finalmente dal bagno e quasi contemporaneamente Tamara ci raggiunse.
Annunciò: «Oddio,
ragazze, che schifo! Gabriella non vuole fare la doccia!».
«Cosa?!»
sbottammo all'unisono io e Viola.
Marta, dalla sua stanza,
prese a ridere e gridò: «Non dire cazzate!».
«Lo giuro! Ha detto
che tanto non si è sporcata. Io sono sconvolta! Sono
scappata perché in camera nostra c'era un odore di maneggio
allucinante! Ha anche detto che si lava a pezzi, così, una
cosa veloce...»
Mi portai una mano sulla
fronte e sospirai. «Oddio che schifo, non farmi vomitare!»
«Tami, stai
scherzando, vero?» disse Viola sconvolta. Anche se non riuscivo
a vederla, avrei scommesso che sul suo viso fosse dipinta una smorfia
schifata e incredibilmente buffa.
«No, non scherzo.
Stavo per vomitarle addosso, pensate che non voleva neanche cambiarsi
i vestiti!» raccontò ancora mia sorella.
Io ero veramente senza
parole, perciò cominciai a ridere e presto contagiai anche le
altre, scaricando un po' quel senso di tensione che mi si era
aggrappato addosso dopo aver appreso che sarebbe stato un problema
vedere i miei amici.
In seguito raccontai
l'accaduto anche a Tamara e Viola e loro rimasero sorprese quanto me,
domandandosi quale fosse la difficoltà tanto declamata dagli
istruttori.
«Mi sembra di stare in
carcere! E questo dovrebbe essere un campo mirato a
responsabilizzarci? Ho ventitré anni e devo chiedere il
permesso a questi qui per vedere i miei amici?»
«Appunto! Sono
ridicoli quando fanno queste cose» commentò mia sorella.
«Ah, oddio, devo raccontarvi di Marco!» esclamò
poi all'improvviso.
Aggrottai le sopracciglia.
«Di Marco?»
«Sì! Sai che
ieri notte...»
Un grido proveniente dal
piano di sotto ci interruppe: «Ragazze, scendete! Siamo tutti
qui che vi aspettiamo!». Era stato Nicolò a urlare come
un pazzo.
Mi accostai alla finestra e
risposi irritata: «Calmati, Nicolò, fatti gli affari
tuoi».
Lui mi ignorò
deliberatamente e nel giro di un minuto piombò a sproposito in
camera nostra, cominciando a sbraitare cose che solo lui capiva.
Infine fummo costrette a
raggiungere il resto del gruppo di fronte al cancello del residence,
dal momento che comunque non saremmo riuscite a parlare con lui tra i
piedi.
Quando tutti fummo riuniti
accanto all'uscita, Lorenzo annunciò: «Vi dividerete in
coppie e raggiungerete la piazza in cui si ferma la processione.
Ricordatevi che dovete stare uniti, perché anche se
procederete a due a due, questa è un'attività di
gruppo».
«Ma sul serio? Io ho
mal di schiena, come faccio? Usare il bastone mi rallenta e...»
«Fai uno sforzo, dai»
tagliò corto Lucrezia.
In quel momento capii che
non sarei riuscita a mantenere la calma molto a lungo. Sentivo
montare dentro una rabbia incredibile, che poi riconobbi come una
sensazione di frustrazione e impotenza; se c'era una cosa che
detestavo, era sentirmi dire ciò che dovevo o non dovevo fare,
specialmente quando non mi andava o non ero nelle condizioni fisiche
e mentali di fare ciò che mi veniva richiesto. Da quando era
cominciato quel campo, non avevo fatto che ricevere ed eseguire
ordini impartiti da degli istruttori megalomani e poco attenti alle
necessità e ai problemi di noi ragazzi. Le esperienze come
quella dovevano servire per insegnarci a vivere la quotidianità
nel modo più normale possibile, riuscendo a fare tutto ciò
che i normodotati potevano fare. Ma ovviamente era tutta
un'illusione, non era sempre così che andavano le cose. Forse
alcuni dei miei compagni d'avventura potevano non rendersi conto di
essere dei burattini alla mercé di adulti che volevano
organizzare le attività in base ai loro comodi, ma io non ero
deficiente e neanche stupida, capivo benissimo cosa avevano combinato
anche quel giorno, il che mi faceva andare in bestia.
Mi ritrovai in coppia con
Giorgio e non feci che pochi passi prima di sentire il mal di schiena
aumentare. Stavamo camminando troppo lentamente per la mia povera
colonna vertebrale, e gli istruttori non facevano che ripeterci che
dovevamo stare uniti.
A un certo punto non ne
potei davvero più, mi sentivo invadere dal dolore, ero seccata
e nervosa sia per il fatto di non poter incontrare liberamente i miei
amici, sia perché nessuno di quegli istruttori si era
minimamente curato di chiederci se fossimo d'accordo nel fare
quell'attività, dopo la mattinata estenuante trascorsa al
maneggio.
«Che palle, mi fa
malissimo la schiena! Scusa, Tami, puoi andare un po' più in
fretta? Non ne posso più...» mi lamentai con mia
sorella, la quale camminava di fronte a me in coppia con Viola.
«Non posso mica
correre, c'è gente di fronte a me!» sbottò lei,
nervosa a sua volta per quella situazione. Sicuramente era in
pensiero per me, ma si sentiva impotente proprio come la
sottoscritta.
«Sì, ho capito,
ma io sto morendo...»
«Sì, ma non è
colpa mia! Calmati, cosa posso farci?»
«Guarda, lasciamo
perdere...» Feci una pausa, ma ormai non poteva più
fermarmi nessuno, ormai stavo veramente scoppiando e le parole
uscirono da sole dalla mia bocca. «Perché in questo
cazzo di campo sembra di essere in un carcere di massima sicurezza,
noi siamo dei burattini e qui decidono tutto loro! Non ci chiedono
cosa vogliamo fare, come stiamo, su cosa siamo d'accordo e su cosa
no! Ma dimmi te se devo stare male per colpa di questa gente
insensibile...»
«Lau, lo so, ma cerca
di calmarti...» provò a dire mia sorella.
«Ma che cazzo stare
calma! Loro devono stare calmi, pensano forse che siamo delle
macchine? Ci saremmo dovuti riposare di più!» sbraitai
ancora, senza preoccuparmi del fatto che sul marciapiede opposto si
trovassero Lorenzo, Lucrezia e Samuele. Ovviamente loro stavano
sentendo tutto ciò che stavo sputando fuori con rabbia, ma
nessuno dei tre osò rispondere o dire qualcosa per cercare di
calmarmi.
Questo fatto non fece che
aumentare ulteriormente la mia furia: mi ignoravano come se fossi una
cretina che stava blaterando senza cognizione di causa, come osavano?
Stavo per dire
qualcos'altro, quando Giovanna mi raggiunse e mi propose: «Vai
in coppia con Tamara? Magari potete camminare un po' più in
fretta».
«Forse è
meglio...» bofonchiai, mentre Giorgio e Viola si sistemavano in
coppia insieme e io mi accostavo a mia sorella.
Ormai il sole stava calando
ed era per noi d'obbligo usare il bastone, ma questo continuava a
rallentare la mia camminata, nonostante ora avessi mia sorella
accanto e con lei riuscissi a velocizzare un po' il passo.
«È inutile che
ci abbiano messo in coppia insieme, tanto se dobbiamo stare al passo
del resto del gruppo, non mi cambia niente!» mi inalberai
nuovamente.
«Lo so, ma come
facciamo? Io non so cosa dirti...» ribatté Tamara.
«Non sai cosa dirmi,
certo...»
Una voce mi trapanò i
timpani, proveniente dalle mie spalle: «Oh, Laura, ma la smetti
di rompere e di lamentarti? Sei noiosa eh!».
«Nicolò, fatti
i cazzi tuoi, hai capito? Smettila di intrometterti in ciò che
non ti riguarda!» esplosi senza alcun ritegno, cercandi di
accelerare il passo per non sentirlo troppo vicino a me.
«Invece no, perché
mi stai rompendo, hai capito? Che palle che sei!»
Gabriella, che faceva coppia
con lui, subito lo spalleggiò, rimanendo però più
pacata e intromettendosi appena: «Sì, state strillando
da dieci minuti, ci prenderanno per pazzi!».
Ma io ormai stavo per
voltarmi da Nicolò per strozzarlo, non lo sopportavo più.
Era tassativo che prima o poi ci si incazzasse con quel ragazzino
durante un campo, era talmente pedante e indisponente da risultare
proprio insopportabile.
Tuttavia, fu Tamara stavolta
a rivoltarsi contro di lui: mentre Nicolò continuava a
blaterare a caso, mia sorella si voltò di scatto e gli urlò
contro degli insulti, per poi mollare un paio di colpi di bastone
alla cieca. Questi, però, finirono per colpire anche
Gabriella, nonostante nessuna di noi due volesse che ciò
accadesse.
Infine Samuele ci prese con
sé e ci fece camminare più in fretta, così ci
allontanammo da Nicolò e gli altri, raggiungendo un po' prima
la nostra meta.
Ci ritrovammo a sederci
sulla stessa scalinata che ci aveva ospitato l'anno precedente, e
com'era successo allora, mi chiesi che senso avesse portare un gruppo
di ciechi e ipovedenti a vedere una processione. E poi,
onestamente, a me di certi rituali non fregava un emerito cazzo.
Ero arrabbiata, ma speravo
ancora – ingenuamente – di poter trascorrere un po' di
tempo con Lucia, Cristina e Michele.
Così telefonai a
Cristina.
«Pronto, Lau? Dove
sei?» esordì la mia amica.
«Siamo appena
arrivati, non ti dico il casino che è successo... sono
incazzatissima» raccontai. «Siamo seduti sulla gradinata
di fronte alla chiesa. Voi?»
«C'è un sacco
di gente, non so di preciso dove siamo, ma ormai è tardi e mi
sa che dobbiamo rientrare... c'è il viaggio da fare...»
mi disse in tono dispiaciuto.
«Cazzo, no! Siete
venuti per niente! Non è giusto!» dissi, sentendo
l'ennesima ondata di rabbia pervadermi completamente.
«No dai, non è
colpa tua. Ci siamo fatti una gita, non importa. Poi ci vedremo
appena torni a casa, okay?» tentò di rassicurarmi
Cristina.
«Sì, forse è
meglio, tanto con questa gente di mezzo non si può fare
niente...» fui costretta ad arrendermi, sentendomi sconfitta
per l'ennesima volta contro gli istruttori e i loro modi dispotici.
«Scusate ancora» aggiunsi.
«Tranquilla. Luci e
Miki ti salutano!» esclamò lei.
«Ricambia, grazie per
essere venuti. Ci sentiamo presto» conclusi.
Ci salutammo, poi interruppi
la conversazione e riposi il telefono in borsa, sospirando e
avvertendo un'intensa voglia di piangere e di strapparmi i capelli.
Era un momento colmo di disperazione per me, uno di quelli in cui mi
sentivo limitata dai miei problemi fisici e non sopportavo l'idea di
non potermi muovere in autonomia. Se questo fosse stato possibile,
sarei corsa a cercare i miei amici senza dar retta alle stronzate che
provenivano dall'alto.
Non badai assolutamente alla
processione, all'arrivo del resto del gruppo, alla folla che mi
circondava.
Sentivo solo freddo fuori e
dentro me, ero preda dello sconforto più totale e speravo che
per quella giornata il mondo mi lasciasse in pace e mi permettesse di
riposare la mente e il corpo.
Volevo strappare a morsi le
barre della mia cella, lasciare la prigione in cui ero stata
rinchiusa e riprendermi quel poco di libertà che potevo
permettermi.
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