Le cronache di Aveiron: Vittime e complici

di Emmastory
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Capitolo XXXIX

 
Superstiti in campo

 
Ero lì stesa sul selciato sporco di sangue, o di ciò che sembrava rimanerne data la furia della battaglia. Sentivo ogni cosa, ma con grande difficoltà, e malgrado ogni tentativo, non riuscivo a svegliarmi e riprendermi. Qualcuno chiamava il mio nome, e ne ero certa, ma malgrado tutto, non potevo rispondere. Uno di quei mostri mi aveva sfiancata, e proprio per questo ero caduta battendo la testa. Uccidevano, ed era vero, ma in realtà la loro strategia era proprio questa. Iniziare una battaglia priva di alcun senso per poi portare chiunque tentasse di affrontarli allo stremo delle forze, per poi vederli cadere e finirli con un colpo di spada, daga, o qualunque altra arma bianca. Così, le lancette del tempo continuavano a muoversi, ma data la mia attuale condizione, e il mio stato di semicoscienza, mi sembrava di vivere ogni attimo da una prospettiva diversa, quasi dal di fuori. Era come se fossi appena entrata in una bolla impenetrabile, e che questa assorbisse tutto. Voci, colpi, grida, dolore, tutto. Ad ogni modo, decisi che ne avevo avuto abbastanza, e sforzandomi per aprire gli occhi, riuscii finalmente a vedere tre figure. Con la testa che girava, non ero sicura di nulla, ma volli fidarmi, e sperare che fossero visi amici. Rimanendo ferma, chiesi aiuto con un filo di voce, e subito dopo, venni sollevata da terra. Di lì a poco, persi ancora i sensi, ma appena un attimo prima, sentii uno di quegli individui parlarmi e dire qualcosa. “Ti porteremo in salvo, sta tranquilla.” Disse quella voce, infondendomi oltre a coraggio e sicurezza anche una buona dose di speranza. Sapevo bene di essere ancora viva e per questo fortunata, ma a detta dei miei tre salvatori respiravo malissimo. Nei miei momenti di coscienza, alternati tristemente al buio più totale, pregavo di farcela e uscire viva da questo scempio, e quando finalmente il mio viaggio verso l’ignoto ebbe fine, ne approfittai per dormire. Poteva sembrare strano, ma in quel momento volevo soltanto riposare e cercare di dimenticare tutto, ben sapendo che ogni evento di quel così lungo, cruento e sanguinoso giorno era lungi dall’irreale. In altre parole, non stavo sognando, e avevo paura. Paura di perdermi, andarmene e morire, venendo poi chiamata a far parte di una dimensione diversa da quella terrena. Non potevo morire, non ora. Avevo messo decisamente troppo impegno nel mio vivere per abbandonare tutto e tutti in questo modo. Ad essere sincera, non sapevo se ce l’avrei fatta, se mi sarei mai ripresa o se sarei mai potuta tornare a combattere e tentare di liberare i due regni da una così grande minaccia, ma ero certa che non avrei mollato, e che dopo ogni sforzo sarei diventata, assieme ai membri del mio gruppo e della mia famiglia, un’eroina, una soldatessa e uno dei pochi superstiti ancora in campo.




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