ReggaeFamily
Capitolo
nove: Life
Il
locale in cui stazionavamo era estremamente piccolo e stretto; gli
istruttori avevano fatto di tutto pur di far stare tutti noi ragazzi
in un'unica tavolata, con il risultato di far sedere Tamara a
capotavola. In questo modo, lei riusciva a stare a malapena seduta
tranquillamente, dal momento che le persone che passavano di lì
spesso la urtavano e in definitiva era davvero d'ingombro in quel
punto.
Io
ero riuscita a malapena a incastrarmi nel mio posto, seduta tra
Gabriella e Giorgio.
«Qui
dentro non ci stiamo, non capisco per quale motivo hanno insistito
per farci sedere tutti insieme in due tavoli» si lamentò
Viola, seduta alla sinistra di mia sorella.
Di
fronte a me si trovava Marco, il quale a sua volta si era ritrovato
tra Viola e Nicolò.
Ero
già stanca di stare lì dentro, non mi piaceva il fatto
che stessimo tutti appiccicati, tuttavia non potevo farci molto; mi
limitai a ordinare qualcosa da mangiare – dei ravioli al
pomodoro e una caprese – e ad attendere di ricevere il cibo.
Nel
frattempo ci servirono, al posto del pane, una focaccia con sale e
olio fatta con la pasta della pizza. Era buonissima, così ne
mangiai diverse fette e sperai di riuscire a mandare giù anche
il resto del cibo che avevo ordinato.
«Troppo
buono, mangerei solo questo» osservai, continuando a mangiare
quella prelibatezza.
Istruttori
e educatori si erano sistemati in un altro tavolo e ogni tanto si
avvicinavano per aiutare Simona a scegliere la sua cena o per
supportare qualcun altro o accompagnare qualcuno in bagno.
«Non
ci credo, anche oggi Simona ha fatto leggere dieci volte il menu
prima di scegliere la sua solita pizza con le melanzane! Avrebbe
potuto dirlo prima, no?» commentò Viola in tono
esasperato.
«Lo
sai com'è, che vuoi farci?» le fece notare Tamara, per
poi sbuffare. «Ogni due secondi qualcuno passa e mi sbatte
addosso! Che palle!» aggiunse poi.
«Per
carità, avrebbero potuto portarci da un'altra parte...»
borbottai.
Marco,
ogni tanto, tirava qualche sospiro, poi all'improvviso chiamò
Giovanna. Sembrava preoccupato, aveva un tono di voce strano, non
riuscivo bene a definirlo, ma era come se avessi l'impressione che
qualcosa non andasse.
Quella
terribile giornata sembrava non avere più intenzione di
concludersi.
Poco
dopo Giovanna lo raggiunse e insieme uscirono dal locale.
Inizialmente pensai che si fossero diretti a fumare, ma poi mi resi
conto che erano usciti da un po' troppo tempo.
«Ma
Marco che fine ha fatto?» chiesi a nessuno in particolare.
«Non
lo so, sarà uscito a fumare...» osservò Tamara.
«Ma mi sembra che stia passando troppo tempo, vero?»
aggiunse.
«Appunto,
per quello chiedevo...»
Il
tempo trascorse e dopo circa venti minuti Marco e Giovanna
rientrarono, seguiti da Marta.
«Che
è successo?» chiese subito Tamara in tono leggermente
apprensivo.
«Ha
avuto un attacco di claustrofobia» spiegò Giovanna.
«Marco!
E adesso come stai?» saltò su Viola allarmata.
Lui
sospirò. «Sto meglio, tranquilla Vivi» rispose lui
in tono piatto.
Mi
venne in mente il giorno in cui, due anni prima, eravamo entrati
nella grotta e lui si era sentito morire, tra vertigini e
claustrofobia; era buffo pensare a quali fossero i nostri rapporti
all'epoca, quanto fossi preoccupata per lui e quanto volessi stargli
accanto e sostenerlo al meglio.
Ora
parevano dei giorni lontani, ricordi sbiaditi, quasi come se non li
avessi mai vissuti. Eppure sapevo che era tutto accaduto davvero, il
che mi metteva addosso un senso di malinconia e divertimento insieme,
una sensazione difficile da descrivere.
«In
effetti qui c'è poca aria» mormorai.
Afferrai
il cellulare e notai con disappunto che all'interno di quel buco non
c'era campo. Avrei voluto rispondere a Danilo e Anna, i quali mi
avevano spedito dei messaggi in risposta al mio racconto su quanto
accaduto quel pomeriggio con gli istruttori, ma i messaggi non
partivano. Sbuffai e nel frattempo arrivò la mia cena.
Mangiai
senza troppo entusiasmo, non stavo molto bene quel giorno, mi sentivo
stanca e spossata, volevo soltanto dimenticare tutto ciò che
di negativo mi era successo. La bella esperienza a cavallo sembrava
sbiadire se paragonata al malumore che ormai mi aveva avvolto da ore.
Finii
in fretta di mangiare e cominciai a non poterne più di stare
là dentro. Volevo andarmene, c'era troppa confusione per la
mia mente annebbiata.
All'improvviso
cominciai ad avvertire una sensazione d'ansia crescere all'interno
del mio petto; si fece strada in fretta e mi attanagliò,
impedendomi di compiere i movimenti o i gesti che avrei voluto.
Questo non fece che amplificare il panico, facendomi sentire quasi
paralizzata.
L'unica
cosa che riuscii a fare fu allungare una mano sul tavolo, trovando
quella di Marco. Gliela strinsi e avvertii immediatamente le lacrime
invadermi gli occhi, rotolare sulle guance e bagnarmi il viso.
Ero
completamente in panico e non sapevo come farlo capire a chi mi
circondava, solo lui in quel momento era a mia disposizione, poteva
in qualche modo comprendermi.
Cominciai
a stringergli la mano con forza e a quel punto si rese conto che in
me c'era qualcosa che non andava.
«Lau?»
mi chiamò.
Ovviamente
non fui in grado di rispondergli, mi limitai a tenergli forte la mano
e a sperare che capisse che avevo bisogno di aiuto.
«Lau?
Oh, cos'hai?» si preoccupò maggiormente. Rendendosi
conto che non riuscivo a spiccicare parola, si voltò verso il
tavolo degli educatori e istruttori. «Giovi? Vieni per favore?
Lau sta piangendo» disse.
In
pochi attimi Giovanna piombò accanto a me e cercò di
capire cosa mi fosse preso, ma io le feci solo intendere che avevo
bisogno di uscire dal locale e di prendere aria.
«Sta
piangendo, la porto fuori» annunciò l'educatrice in tono
pratico, senza lasciarsi prendere dal mio stesso panico.
«Giovi,
ma Lau riesce a parlare?» chiese Tamara preoccupatissima.
Sapevo
perché lo aveva detto: mia sorella aveva assistito a un altro
di quegli strani attacchi di panico che si erano presentati negli
ultimi anni, sapeva che quando ero in quelle condizioni, non riuscivo
a parlare e trascorrevo almeno mezzora in silenzio, incapace di
collegare gli impulsi del cervello alle mie labbra e alle corde
vocali.
Avrei
voluto rispondere, avrei voluto dirle che no, non riuscivo a parlare,
ma mi limitai a rimanere in silenzio mentre mi alzavo dalla sedia e
mi trovavo incerta sulle mie stesse gambe.
«Sì»
replicò invece Giovanna.
«Sicura
che parla?»
«Sì,
sì» ripeté ancora l'educatrice, aiutandomi a
uscire dallo stretto spazio in cui ero rimasta incastrata fino a poco
prima.
Evidentemente,
per Giovanna, i gesti che avevo compiuto per farle capire che volevo
lasciare per un po' il locale, erano equivalsi al concetto di
parlare, ma mi dispiaceva che mia sorella non avesse potuto sapere la
verità.
Fui
grata a Giovanna quando finalmente mi fece uscire all'aria aperta e
mi condusse verso un muretto di cemento in cui potemmo sederci. Non
avevo idea del luogo in cui ci trovavamo, non riuscivo a vedere
niente e non ero nelle condizioni adatte per far affidamente su uno
straccio di senso dell'orientamento. Immaginai che di fronte al
locale ci fosse una piazza, la sensazione era quella di uno spazio
ampio e aperto, e spesso si sentivano le grida e le risate di alcuni
bambini che correvano a piedi o a bordo di una bicicletta.
«Lau,
cosa è successo?» provò a chiedermi Giovanna.
Io
non riuscivo ancora a parlare, mi limitavo a piangere come una
stupida e mi sentivo davvero cretina in quel momento. Perché
mi ero ritrovata ancora una volta in una situazione del genere?
Perché non ero riuscita a controllare l'ansia?
Forse
era colpa della stanchezza, del nervosismo e del malumore, ma
sicuramente anche il mal di schiena faceva la sua parte. Mi sentivo
una vera merda quel giorno, forse avevo toccato il fondo per quel
campo. Questo significava forse che potevo soltanto risalire? Lo
speravo, ma ancora dovevo riuscire a uscire da quella situazione.
Afferrai
la mano di Giovanna e cercai di esprimermi utilizzando il suo palmo
per scrivere. Non mi venne in mente niente di meglio, non sapevo come
altro fare.
Le
scrissi, lentamente, che non riuscivo a parlare.
«Come
mai?»
Tracciai
la parola panico sulla sua
pelle e lei cercò di rassicurarmi più che poté.
«Vedi, secondo me è
anche normale reagire così, non preoccuparti. Adesso cerca
solo di rilassarti» disse con calma, accarezzandomi i capelli.
Poco dopo Lucrezia ci
raggiunse e si posizionò in piedi di fronte a me; dopo aver
chiesto a Giovanna cosa fosse capitato, cominciò a parlarmi a
sua volta, in tono calmo e rassicurante.
«Laura, ascolta.
Sicuramente sei molto stanca e non stai bene oggi, ma non devi
preoccuparti. Passerà. Sai, io penso che tu sia una ragazza
molto forte, ma anche le rocce a volte si sgretolano. Condurre una
vita come la tua non è facile, io lo capisco benissimo e ti
ammiro molto.» Lucrezia fece una pausa e io non capii appieno a
cosa si riferisse, ma seppi con certezza che lei non si era
arrabbiata con me per aver dato di matto in strada qualche ora prima.
Forse non ce l'avevo con lei, forse mi ero incazzata più che
altro con Lorenzo, ma a lei parve non importare più di tanto.
Questo fece crescere in me una marea di sensi di colpa che
infittirono le mie lacrime.
Giovanna, al mio fianco, mi
abbracciò e mi accarezzò ancora i capelli. «Lucrezia
ha ragione» concordò.
«Tu hai come una
doppia vita: di giorno vivi in un modo, puoi fare un po' le cose che
fanno tutti. Poi scende la notte e il tuo modo di vivere e percepire
cambia, è come se diventassi quasi un'altra persona. Questo è
straordinario, specialmente perché tu affronti tutto questo
con il sorriso, senza mai arrenderti e con la giusta dose di ironia.
Per me questa è la vera forza, io non ci riuscirei mai. Te lo
dico perché ne sono certa, ed è normale che ogni tanto
tu ceda a certi momenti. Devi solo affrontarli come fai sempre,
capito?» concluse l'istruttrice, e io sentii un sorriso
impregnarle il tono di voce.
Annuii senza ancora riuscire
a replicare a voce. In quel momento mi sentivo debole e vulnerabile,
non ero tanto certa che lei avesse ragione. Avrei tanto voluto una
persona in particolare a tenermi compagnia, così afferrai
ancora una volta la mano di Giovanna e la voltai col palmo all'insù.
Disegnai
una G e rimasi
immobile a riflettere.
Era l'iniziale del cognome
di Danilo, ma anche di quello di Marco.
E non sapevo chi dei due
avrei voluto mi abbracciasse in quell'istante, ero confusa e mi
sentivo infinitamente triste.
Ripresi a parlare poco prima
che tornassimo al residence, ma non fui granché loquace.
Tamara mi chiese, quando mi
incontrò accanto al furgoncino che ci avrebbe riportato in
struttura, cosa fosse successo.
«Ho avuto l'ansia per
tutto il tempo, pensa che, per assurdo, Vivi era più
tranquilla di me e ha dovuto pensare lei a rassicurare me!»
spiegò mia sorella. «Riuscivi a parlare o no?»
aggiunse.
«No» risposi
stremata.
«Ecco lo sapevo!
Cazzo, non ci voleva... come va adesso? Uff, volevo uscire da te,
ma...» partì in quarta lei, agitatissima.
«Stai tranquilla,
Tami. Ora sto bene» la rassicurai.
Trascorsi il tempo del
ritorno quasi completamente in silenzio, finché non tornammo
al residence.
«Ragazze, che ne dite
di venire nella nostra stanza? Ho scorte di cibo per un mese!»
propose Giovanna a me, Viola e Marta.
«Va bene, perché
no?» accettò la mia amica. «Tu Lalli te la senti?»
«Ma certo, va
benissimo anche per me!» risposi.
Mi sentivo decisamente
meglio, forse piangere mi era stato utile e aveva fatto sì che
scaricassi molta della mia ansia.
Raggiungemmo in poco tempo
la camera di Giovanna, Tamara, Gabriella e Simona; entrando, avvertii
un'orribile puzza indecifrabile e storsi il naso.
«Oddio, c'è
ancora odore di maneggio qui, che schifo!» sbottò mia
sorella, tappandosi teatralmente il naso.
«È vero, non vi
invidio per niente...» osservai disgustata.
Ci accomodammo attorno al
tavolo posto di fronte alla porta d'ingresso e Giovanna cominciò
a sistemare varie confezioni di cibo sul ripiano in legno.
«Abbiamo gli arachidi
salati, i Ringo, un po' di Canestrelli, delle patatine... servitevi
pure!» esclamò l'educatrice, sedendosi a sua volta su
una sedia.
Nel frattempo Gabriella e
Simona si prepararono – non senza difficoltà – per
andare a letto.
Poi finalmente noi potemmo
chiacchierare in pace, anche se tenemmo un tono di voce basso e
contenuto.
«Ieri Marco ha
superato se stesso, voleva farci sedere su una cassettiera! O
comunque non so cosa fosse, ma...» disse Tamara.
«Non ricordarmelo, che
scena raccapricciante!» esclamai, sgranocchiando qualche
patatina.
«Se volete ci sono
anche questi biscotti dell'Eurospin» disse Giovanna, aprendo
una nuova confezione di cibo.
«No grazie, mi bastano
i Ringo!» replicò Tamara.
«Ma guarda, anche tu
separi il biscotto dal ripieno quando mangi i Ringo? Anche io!»
esclamò Marta, osservando mia sorella.
«Certo, altrimenti non
c'è gusto!»
«Comunque, Marco
secondo me sta peggiorando tanto» proferì Viola,
facendosi un po' più seria.
«Sì. E poi ci
prova spudoratamente con me...» bofonchiò mia sorella.
«Oddio»
intervenne Giovanna. «Sul serio? E io che pensavo che farsi
una famiglia avesse un altro
significato...»
Calò per un attimo il
silenzio, poi scoppiammo tutte a ridere.
«Questa è
bellissima, Giovi!» commentai in tono divertito, non riuscendo
più a contenere le risate.
In effetti non aveva tutti i
torti, ma solo lei riusciva a portare fuori certe fesserie e a dirle
in tono serio e divertente allo stesso tempo.
Quando quella sera arrivai
in camera mia, non ebbi molto tempo per riflettere e pensare a ciò
che era avvenuto durante la giornata; la stanchezza si impossessò
di me e mi gettò immediatamente in un sonno profondo.
Mi resi soltanto conto di
essere grata alle ragazze che avevano fatto di tutto per distrarmi
quando eravamo tornate al residence, e ripensai con una nota di
malinconia al fatto che Danilo non fosse ancora venuto a trovarmi.
Forse non sarebbe venuto per
niente.
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