Martedì,
19 giugno 2012
La
scorsa notte è stata interminabile.
Dormire
mi è risultato praticamente impossibile.
La
gamba che continua a farmi male.
Mamma
che non c'è più.
L'ansia
per i referti.
Nella
mia testa c'era troppo rumore per poter dormire.
Alla
fine il giorno è arrivato. E adesso sono qui, che cammino,
zoppicando un po' per il dolore, accanto a mio padre, verso lo studio
della dottoressa Lisandri.
Guardo
le persone che incrocio per i corridoi dell'ospedale, domandandomi
come mai siano qua, quale sia la loro storia, quali i loro problemi,
quali le loro paure.
Qualcuno
di loro si sente come me in questo momento?
Qualcuno
di loro si sta domandando perché io sia qua, quale sia
la mia storia, quali i miei problemi, quali le mie paure?
Mi
manca mamma.
Vorrei
che ci fosse lei qui con me, in questo momento.
Col
suo sorriso rassicurante.
Con
la sua mano calda.
Io
e mio padre camminiamo in silenzio, mentre cerco di immaginare cosa
mi aspetta.
Sono
preoccupato.
La
Lisandri mi è sembrata preoccupata.
Quel
timbro “URGENTE” sulle richieste degli esami mi ha messo
addosso un ansia che non riesco a spiegare.
Quell'ansia
non ha fatto che crescere in questi giorni di attesa e cresce ancora
di più, adesso, quando arriviamo davanti alla porta del suo
studio.
"Papà,
voglio entrare da solo."
"Ma
Leo... Sei sicuro?"
"Sì.
Davvero."
"Va
bene, come vuoi" mi dice stringendomi una spalla. "Se hai
bisogno sono qui".
So
che in fondo anche lui preferisce aspettare fuori.
So
che ha più paura di me, in questo momento.
So
che mi ha accompagnato solo perché l'ha promesso alla mamma ma
che avrebbe preferito di gran lunga mandare Asia.
So
che è terrorizzato all'idea che io possa avere qualcosa di
serio.
Mi
avvicino alla porta con il cuore che mi batte in gola e la sensazione
di essere estraniato dal mio corpo e di stare assistendo a tutto dal
di fuori.
Vorrei
andarmene, ma non posso sottrarmi.
Busso.
"Buongiorno
Leo, accomodati" mi accoglie la Lisandri, seduta alla sua
scrivania. "Sei da solo?" "Buongiorno";
ricambio il saluto con tono incerto. "C'è mio padre
fuori" dico indicando la porta col pollice.
"Non
preferisci farlo entrare?" mi chiede mentre mi siedo di fronte a
lei.
"No"
rispondo stringendo le labbra nervosamente.
"Ne
sei sicuro? Mi sembri nervoso."
"No,
si sbaglia."
"Guarda
che non c'è niente di male nell'avere paura..."
"Non
ho paura. Io non ho paura mai di niente".
E'
un'affermazione esagerata e me ne rendo conto nel momento esatto in
cui esce dalla mia bocca.
Mi
è capitato, eccome, di avere paura.
Più
di una volta.
Anche
se sono sempre riuscito ad affrontarla a testa alta e a sconfiggerla,
la paura.
O
almeno a nasconderla bene. Ma adesso niente di tutto ciò mi
riesce.
E
non serve neanche ostentare questa esagerata sicurezza in me.
L'ansia
e la paura mi attanagliano.
E
a rendere tutto ancora più difficile c'è lo sguardo
della Lisandri, cui sembra non sfuggire niente, e quella cartella
clinica chiusa, con su scritto il mio nome, che campeggia davanti a
lei.
"Davvero,
con mio padre qui sarebbe peggio."
“D'accordo
Leo, come vuoi. Come ti senti? Sei pallido... Hai ancora la febbre?"
"Va
e viene."
"E
il dolore alla gamba?"
"Quello
non se ne va. Però adesso andiamo al punto: cos'ho che non
va?".
Lei
mi rivolge un breve sorriso che vorrebbe essere rassicurante, ma che,
per me, non lo è affatto: "Mi sono consultata con altri
medici ma non lo sappiamo ancora con esattezza.”
“Come
sarebbe?! E quindi?!”
“E
quindi devi fare altri esami, più approfonditi."
"Che
esami?"
"Una
tac e una risonanza magnetica. E dovrai rifare di nuovo gli esami del
sangue, più specifici."
"Ok"
dico prendendo fiato e passandomi una mano tra i capelli, cercando di
metabolizzare le informazioni. "Ma cosa state cercando
esattamente? Perché un'idea ve la sarete pure fatta,
no?".
Ecco
la mia ostentata sicurezza che ritorna.
E
quasi mi convinco che sia reale.
"Più
che cercare qualcosa, diciamo che stiamo cercando di escludere
qualcosa" dichiara la Lisandri togliendosi gli occhiali.
"Cosa?"
chiedo con la voce spezzata, mentre penso che forse la risposta a
questa domanda non la voglio sentire.
"Leo..."
"Cosa?!"
ripeto alzando la voce. "Escludere cosa?!"
"Temiamo
possa trattarsi di un tumore alla tibia".
Un
tumore alla tibia.
Mi
si blocca il respiro.
La
mia testa va in totale confusione.
Vorrei
urlare. Chiudo per un momento gli occhi, cercando di riprendere il
controllo su me stesso.
"Mia
madre..."; deglutisco rumorosamente, alzandomi in piedi. "Mia
madre aveva un tumore alle ossa."
"Sì.
Questo è il motivo per il quale mi sono allertata subito.
Anche se il tipo di tumore che aveva lei era diverso da quello che
speriamo non abbia tu, può esistere comunque una certa
familiarità".
Cerco
di respirare lentamente.
Cerco
di non pensare a tutto quello che mamma ha vissuto.
Cerco
di non pensare a lei pallida, stesa sul letto, sempre più
magra, sempre più fragile, sempre più debole.
Cerco
di dirmi di aspettare, di non essere impulsivo come al mio solito.
Cerco
di dirmi di non crollare prima di sapere con certezza se ce n'è
davvero bisogno.
Cerco
di fare tutto questo, ma non ci riesco.
La
disperazione mi travolge e mi sommerge.
Crollo
sulla sedia.
In
lacrime.
"Leo,
non è ancora detto niente. Non è il momento di buttarsi
giù. Aspettiamo".
Sollevo
la testa a guardarla: "Non voglio passare tutto quello che ha
passato lei!" dico con la voce rotta.
"Aspettiamo"
ripete lei decisa. "Magari ci stiamo allarmando per niente.
Magari ci stiamo sbagliando."
"E
SE NON FOSSE COSI', EH?!" urlo. "SE CE L'HO DAVVERO?!".
Sento
il panico salire e stringermi il petto.
Non
può essere.
Non
sta succedendo davvero.
Non
posso avere un tumore alla tibia.
E
se invece ce l'ho?
Se
ce l'ho davvero?
Non
riesco a smettere di piangere.
Bussano
alla porta e vedo entrare mio padre.
Incrocio
il suo sguardo smarrito.
"Scusate"
dice con aria mesta. "Leo, lo so che non mi vuoi qui, ma ti ho
sentito gridare..., non ce l'ho fatta a restare fuori. Che succede?"
mi chiede inginocchiandosi davanti a me, ma io non riesco a
rispondergli. Si gira allora verso la Lisandri: "Dottoressa? Che
succede?"; percepisco l'angoscia più profonda nella sua
voce.
"Si
accomodi" risponde lei pacata. "Le spiego tutto".
Ma
io non gli do modo di alzarsi.
Mi
avvento contro di lui, buttandogli le braccia al collo e facendolo
quasi cadere.
E
piango.
Piango
così forte che il petto mi fa male.
Buio.
E'
l’unica cosa che riesco a vedere davanti a me, nonostante i
raggi del sole di questo caldo pomeriggio estivo, che penetrano nella
mia stanza dalle fessure delle tapparelle.
Dovrei
essere a pallanuoto a quest'ora.
Oppure
potrei essere al mare.
O
in piscina.
O
al parco con Zeus.
Potrei
essere da qualsiasi parte con Giulia o con i miei amici, a godermi le
vacanze e invece me ne sto qui, senza fare niente.
Ho
freddo.
Non
so nemmeno da quanto tempo sono qui, sdraiato nel letto.
Provo
tante emozioni tutte insieme.
Come
quando è morta mamma.
La
paura in questo momento prevale su tutte.
Anche
se fatico ad ammetterlo, perfino a me stesso.
Una
paura incontrollabile.
Una
paura disperata.
Mi
sento impotente.
Un
bambino smarrito e vulnerabile.
La
mia forza non vale niente davanti a tutta questa paura che mi
dilania.
Il
ricordo della malattia di mamma mi tormenta.
Nonostante
abbia combattuto con tutte le sue forze, non è stato
abbastanza.
Non
è riuscita a salvarsi.
Nessuno
è riuscito a salvarla.
E
nessuno riuscirà a salvare me da ciò che forse sta per
accadere.
O
è già accaduto.
Mi
sveglio in preda a un orribile incubo e balzo a sedere sul letto,
urlando e scalciando; il piede destro va a sbattere contro qualcosa e
la gamba viene subito attraversata da un dolore atroce che mi fa
urlare di nuovo.
“Leo!”.
Apro
gli occhi, ancora disorientato e confuso; ormai è sera e dalle
tapparelle filtra solo la debole luce dei lampioni in lontananza;
riconosco Giulia seduta ai piedi del mio letto: “Cosa...?”.
Cosa
ci fai qui?!
"Mi
hai tirato un calcio!" esclama lei mentre io accendo la luce.
"Cazzo!
Ti sanguina il naso!".
Mi
alzo in piedi e la tiro giù dal letto, conducendola in bagno,
mentre Asia ci raggiunge.
"Cosa
succede?!" chiede allarmata. "Leo, perché hai
urlato?!"
"Un
incubo" rispondo sbrigativo. "Prendi del ghiaccio!"
"Perché?"
chiede lei, prima di accorgersi del naso sanguinante di Giulia e
della sua maglietta sporca e di correre in cucina.
"Mi
dispiace" dico porgendo a Giulia un asciugamano per tamponare il
sangue.
Asia
ritorna con una busta di ghiaccio sintetico avvolta in un paio di
strati di carta assorbente da cucina e me la porge: "Ma che è
successo?"
"Mi
ha rotto il naso!" risponde Giulia ridendo nervosamente.
"Grazie
Asia, puoi andare" dico chiudendo la
porta del bagno alle mie spalle.
Appoggio
la schiena contro la porta e sospiro portandomi una mano ai capelli,
mentre Giulia si guarda il naso sanguinante allo specchio.
"Leo,
mi dai il ghiaccio?" mi chiede con il suo solito sorriso,
nonostante tutto.
"Ah,
già, scusa! Faccio io, siediti".
Giulia
si guarda intorno e si siede sul cesto dei panni sporchi; le tengo il
ghiaccio sul naso, con la mente ancora piena delle orribili scene
dell'incubo.
Un
brivido gelido mi attraversa la schiena, facendomi rabbrividire.
Sono
completamente sudato, capelli compresi, e la mia canotta è
bagnata.
"Era
proprio brutto quell'incubo, eh?" mi chiede Giulia come
leggendomi nel pensiero.
"Sì..."
"Me
lo vuoi raccontare?"
"No."
"Asia
mi ha detto che devi fare altri esami."
"Asia
dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi."
"Tu
sei un affare suo. E anche mio, se è per
questo!".
Giulia
cerca di incrociare il mio sguardo mentre io lo distolgo
immediatamente.
Appoggio
il ghiaccio sul bordo del lavandino, afferro l'asciugamano poggiato
sulle sue gambe e ne bagno un angolo pulito; le prendo in mano il
viso e comincio a ripulirla dal sangue, con la maggior delicatezza
possibile. "Cazzo, avrei potuto veramente rompertelo!";
voglio cambiare discorso, non voglio parlare di me, e il suo naso mi
sembra un ottimo argomento, in questo momento.
"Anche
la tua gamba deve aver preso una brutta botta! Ti fa molto male?"
"Non
più del solito" rispondo evasivo, tornando a tamponarle
il naso con il ghiaccio. I nostri occhi si incontrano e il suo
sguardo compassionevole mi innervosisce; deglutisco, cercando di
mandar giù il fastidioso groppo che ho in gola.
Lei
scosta la mia mano e si alza in piedi, avvicinandosi allo specchio:
il naso è gonfio e probabilmente ci vorrà qualche
giorno, prima che torni alla normalità.
Mi
avvicino a lei e l'abbraccio da dietro, dandole un bacio sul collo.
"Scusa"
le mormoro. "Se ti può consolare ti trovo comunque
bellissima".
Lei
mi sorride ed è davvero bellissima.
Io,
invece, non ho per niente un bell'aspetto: sono pallido, sudato, con
le occhiaie e con lo sguardo vuoto e angosciato.
Giulia
si gira verso di me e mi abbraccia; chiudo gli occhi, cercando di
abbandonarmi a quell'abbraccio, ma quando li riapro il mio sguardo
nello specchio non è cambiato ed io non riesco a tollerarlo.
"Scusami"
le dico allontanandomi da lei; apro la porta del bagno e vado in
camera mia.
Subito
dopo Giulia mi raggiunge e mi trova intento a togliermi la canotta e
i pantaloni del pigiama; sussulta alla vista della mia gamba e
distoglie lo sguardo, mentre indosso un paio di jeans.
“Dove
vai?” "Ho
bisogno d'aria" rispondo seccamente infilandomi una maglietta.
"Se vuoi cambiarti la maglietta prendi pure una delle mie"
le dico mentre apro il cassetto dei calzini rapidamente e con urgenza
ne indosso un paio; calzo le scarpe senza neanche slacciarle, poi
recupero dal comodino il cellulare, il portafogli e le chiavi di casa
e me li infilo nelle tasche dei jeans.
Lancio
un'occhiata a Giulia che se ne sta ferma vicino alla porta e gioca
nervosamente con l'elastico per capelli che ha al polso. "Vado"
dico afferrando il casco e la chiave della Vespa ma, mentre le passo
accanto, Giulia mi ferma tirandomi per la maglietta.
"Posso
venire con te?" mi chiede piano, con gli occhi dolorosamente
lucidi.
"No,
scusa, voglio stare da solo".
"Leo!"
esclama Asia alzandosi dal divano, dov'è intenta a leggere,
quando mi vede passare. "Dove stai andando?! Sono le dieci!"
"Vado
a fare un giro!"
"Ma
non puoi prendere la Vespa!" dice notando il casco nella mia
mano. "Non hai ancora il patentino!"
"Lo
sai che so già guidarla!"; ogni tanto Mattia mi ha fatto
guidare il suo motorino e Asia lo sa benissimo perché gliel'ho
confidato non molto tempo fa.
"Leo!
Se lo sa papà...!"
"Tranquilla,
torno prima che finisca il turno in caserma"; prendo
dall'attaccapanni il giubbotto di tela leggero e scendo le scale
verso il garage, dove mi aspetta la mia Vespa nuova fiammante.
"Un'altra
brutta nottata?" mi chiede Lucia quando mi vede arrivare.
"Già..."
rispondo storcendo le labbra in una specie di sorriso.
"Oggi
la vita ha avuto molto da fare... sono nati ben tre bambini! Vieni a
vederli".
La
seguo fino alla grande vetrata del nido e lei mi indica i nuovi
arrivati: "Noemi, Marta e Giovanni. E tu? Come ti chiami?
L'altra volta non me l'hai detto."
"Leo."
"Che
sta per Leonardo?"
"No,
sta per Leone."
"Oh...
bello! In sei anni che lavoro qui non ho mai visto un Leone, e sì
che di bimbi ne ho visti tanti. Dev'essere un onore avere un nome
così!"
"Sì,
lo è”.
Ma a
volte ne sento anche tutto il peso.
Come
se fossi sempre costretto a essere forte.
Come
se da me non ci si aspettasse altro.
E a
dire il vero sono anche il primo a pretenderlo.
Restiamo
qualche minuto in silenzio ad osservare i bambini e mi sembra
impossibile che tanta bellezza si trovi in un posto così
triste.
"Dev'essere
bello lavorare qui" dico mentre osservo Marta stiracchiarsi. "E'
come un'isola felice in questo posto triste."
"Sì,
è molto bello vedere ogni giorno la vita all'opera... ma non è
l'unico posto felice dell'ospedale, sai?!".
Io
le rivolgo uno sguardo perplesso e lei si affretta a spiegarmi: "C'è
tanta gente felice, ogni giorno, qui: gente che pensava di non
farcela e poi ce la fa, che dopo tanto tempo e tante lotte guarisce,
gente che vede i propri cari sopravvivere a una brutta malattia o a
un brutto incidente... Quelle felicità assomigliano molto a
quelle di una nascita, se ci pensi. Sono come delle rinascite".
Mi
perdo a riflettere su quelle parole, mentre Lucia si precipita a
prendere in braccio Giovanni che ha cominciato a piangere disperato e
un'altra infermiera sta cambiando il pannolino a Marta.
"Adesso
devo andare" mi dice Lucia, passandomi accanto con il bimbo in
braccio. "Giovanni ha fame, lo porto dalla sua mamma".
Io
annuisco guardando l'orologio sulla parete. "Vado anch'io".
Mio
padre rincaserà tra meno di un'ora e non voglio di certo che
scopra del mio giro notturno in Vespa.
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