Quando
l'incoscienza iniziò a ritirarsi, per Elwar fu come risvegliarsi
dalla propria tomba.
Non
seppe stabilire nemmeno in seguito per quanto tempo era rimasto privo
di sensi ma quando ciò avvenne il primo messaggio che gli trasmise
il suo corpo dolorante fu un fastidioso indolenzimento alla schiena,
così come a gran parte dei suoi muscoli, e la percezione di un letto
di ciottoli decisamente scomodi sotto di sé, tanto da rendergli un
supplizio ogni respiro dei polmoni in fiamme.
In
quell'iniziale ed assoluta immobilità dovuta ad uno stordimento
pressoché assoluto gli ci volle una manciata di secondi per rendersi
conto d'esser vivo e poi, mentre tentava di lottare contro l'apatia
che gli offuscava la mente, iniziò a distinguere qualcuno dei suoni
dell'ambiente circostante. Si fece spazio nella sua coscienza un
rumore sordo, costante, pari ad uno scroscio fragoroso dapprima
lontano e indistinto e poi sempre più forte al suo fine udito. Fu il
rumore della cascata a poche decine di metri di distanza a scacciare
gran parte del suo stordimento, un attimo prima che una serie di
immagini mentali gli invadessero la mente.
L'imboscata!
Elwar
aprì di scatto gli occhi, trovandosi a combattere contro la luce che
gli ferì le pupille e la pesantezza delle membra mentre, con uno
scatto, si sollevava a sedere, pervaso da un'unica potente emozione:
l'incredulità dopotutto d'essere ancora vivo. Boccheggiando, fece
appena in tempo a raddrizzare la schiena che un'altra acuta fitta di
dolore gli trapassò il cranio, facendolo gemere e costringendolo a
portarsi una mano alle tempie.
Quando
la ritrasse, riconobbe immediatamente il sangue sulle proprie dita.
Senza
scomporsi né rimanerne sorpreso, distolse allora lo sguardo e si
guardò brevemente attorno per cercare di stimare la propria
posizione. Era più a valle di un buon centinaio di metri dal punto
in cui era precipitato ed aguzzando la vista, nonostante il mal di
testa, distinse senza problemi il punto in cui il dislivello del
terreno roccioso dava vita a quel salto terrificante.
Era
stato fortunato oltre ogni dire ad uscirne vivo.
Poi
i suoi occhi si focalizzarono su un riflesso poco distante presso la
riva del fiume e, dopo un paio di minuti impiegati a rimettersi in
piedi e ritrovare una certa stabilità sulle gambe, raggiunse quel
punto solo per chinarsi a raccogliere quella che si rivelò essere la
sua spada.
Che
strana fortuna.
Perplesso,
Elwar tornò a guardarsi attorno, sentendosi quasi sopraffatto dalla
sua stessa incredulità per tutta quella buona sorte. Gli ci volle
un'altra manciata di secondi per ritrovare la propria abituale
freddezza ed ipotizzare con un distacco autoimposto come fosse stata
la stessa corrente a spinger lui e la sua spada sin lì. Non si fece
altre domande in merito e, dopo essersi assicurato che non avesse
subito danni, la rinfoderò prima di uscire totalmente dall'acqua
fredda.
Quando
i suoi stivali calcarono nuovamente il terreno solido si diresse con
passo incespicante verso est, seguendo il corso del fiume: doveva
assolutamente capire dove era finito. Fu dopo un altro paio di
centinaia di metri di cammino che colse il rumore di un altro corso
d'acqua ed avanzando non dovette far molta strada per scorgere il
fiume ben più imponente che attraversava la piana: il Crydee.
Fermandosi
sulle rive di quest'ultimo nel punto in cui l'affluente affluiva ad
arricchire le acque del fiume principale, facendo mente locale riuscì
a stimare di trovarsi non troppo lontano dalle colline dello Yabon ed
a nord-ovest delle foreste di Elvandar: a pressapoco quattro di
giorni di cammino, nel suo attuale stato.
Ed
anche gli ultimi strascichi di stupore per la sua buona sorte
sfumarono completamente dal suo animo: Elvandar voleva dire eledhel
ed eledhel voleva dire soltanto guai, seppure non fossero così
vicini da costituire una seria minaccia.
Giudicando
poco prudente attardarsi allo scoperto, entrò al riparo di un
piccolo boschetto.
Non
voleva correre il rischio di imbattersi in qualche pattuglia di
sorveglianza dei confini del territorio Hadati, situato in un punto
imprecisato oltre le colline ad est, anche se normalmente non se ne
sarebbe curato: al confronto coi nani, i cavalieri delle colline
dello Yabon erano contadini con in mano dei bastoni.
Starnutì
sommessamente a causa di una folata di vento che gli rammentò
d'essere completamente fradicio e si mise meccanicamente alla ricerca
dell'occorrente per accendere un fuoco. Dopo che vi fu riuscito, non
senza qualche difficoltà dovuta al tremore delle mani ancora
intirizzite dal freddo, depositò accanto al focolare ciò che del
proprio equipaggiamento poteva togliersi di dosso prima di sedervisi
di fronte. Non dovette attendere molto prima che le fiammelle
guizzanti lambissero col loro calore la sua figura, ma quel tepore
ebbe anche un altro effetto: quello di risvegliare il suo stomaco.
Ben presto i languori della fame divennero talmente insistenti da
costringerlo a mettersi alla ricerca di un pasto e fortuna volle che
di lì a poco riuscì a imbattersi nella tana di una lepre protetta
da alcuni cespugli di bacche. Non gli occorse altro.
Si
appostò in attesa, con la pazienza dell'esperto cacciatore quale
era, finché non giunse l'occasione che aspettava. Con un colpo secco
del suo pugnale da caccia abbatté un giovane maschio dal pelo fulvo
e dopo averne appeso il corpicino ad un ramo a dissanguare raccolse
anche qualche bacca da quel cespuglietto rigoglioso, senza curarsi
del sangue e della polvere che gli era finito su braccia e mani.
Fu
quando tornò accanto alle braci del suo fuocherello che, avvertendo
la sensazione fastidiosa del sangue che gli si stava seccando sulla
pelle, sfoggiò una smorfia nel guardarsi. Se avessero potuto vederlo
i suoi confratelli lo avrebbero di certo preso in giro per il modo in
cui era riuscito a ridursi. Preda di quel pensiero istintivo fece per
ripulirsi, ma si bloccò con ancora la casacca umida a mezz'aria.
Che
stava facendo?
La
sua guida, i suoi compagni, coloro per cui si era sempre battuto ed
adeguato ad un determinato stile di vita non c'erano più: nessuno
gli avrebbe rimproverato il suo stato.
Le
braccia gli ricaddero lungo i fianchi, improvvisamente prive di
energia, e con un'ombra a calargli sul volto abbronzato si lasciò
scivolare di nuovo seduto dinanzi al focolare ancora acceso. Gli ci
volle una manciata di minuti per decidersi a riprendere da dove s'era
fermato, spinto più dai morsi della fame che da altro, e quando si
mise a pulire il suo pranzo i suoi gesti potevano dirsi quelli di un
automa.
Per
tutto il tempo, un solo interrogativo ad echeggiargli nella mente.
E
adesso?
***
Aredhel
riprese lentamente coscienza, stimolata dal buon profumino di
selvaggina che permeava l'aria. Lentamente e con una difficoltà mai
provata prima aprì gli occhi, riuscendo dopo un paio di battiti di
ciglia a focalizzare lo sguardo sul fuoco posto al centro di quello
che era in tutto per tutto un accampamento.
Un
accampamento moredhel.
I
ricordi dell'accaduto le inondarono la mente e lei in risposta si
irrigidì, assalita da un'inquietudine talmente intensa da essere sul
punto di sfociare in terrore. Eppure l'istante seguente ogni cosa
venne stroncata da una fitta di dolore che come una scarica elettrica
le invase la mente, rammentandole con estrema brutalità le sue
condizioni di prigioniera ferita. Dovette imporsi di tornare a
respirare con regolarità e cautela, non riuscendo a non digrignare i
denti per lo sforzo, prima di tentare di guardarsi nuovamente
intorno.
Accanto
al focolare un Fratello Oscuro stava tenendo d'occhio la cottura di
un grosso animale; doveva trattarsi di uno dei moredhel che aveva
ferito, a giudicare dalla fasciatura al fianco che spiccava sotto le
sue vesti scure.
L'istante
successivo a quei pensieri si rese effettivamente conto che la sua
visione del mondo era ribaltata e comprese di trovarsi riversa sulla
nuda terra, la sensibilità degli altri arti quasi nulla e le braccia
bloccate dietro la schiena e legate ad altezza dei polsi. E come se
non bastasse, un pezzo di stoffa le era stato rudemente legato sulla
bocca come un bavaglio, rendendole più difficoltoso respirare.
–
Amras – una voce aspra, quasi sgradevole, la distolse dal sommario
rapporto delle proprie condizioni fisiche e nel suo campo visivo
comparvero un paio di stivali in avvicinamento – Si è ripresa.
Spostando
leggermente il capo, l'elfa riuscì ad inquadrare il volto del nuovo
elfo nel proprio campo visivo. Aveva un'espressione austera che non
faceva altro che renderne più duri i lineamenti naturalmente fini,
ma qualcosa al limitare della sua consapevolezza le insinuò la
sensazione di non vederlo per la prima volta. Doveva essere il capo.
Gli
bastò un cenno e l'istante seguente un paio di mani l'afferrarono
senza grazia per le braccia, sollevandola a sedere e tenendola al
contempo ferma con presa ferrea. Quel cambiamento repentino e
l'indelicatezza usatale le procurarono una nuova scarica di dolore
dal fianco e per una manciata di secondi mille scintille le danzarono
davanti agli occhi. Serrando le palpebre attese con una smorfia
insofferente che quel momento passasse, di modo che la vista le si
schiarisse nuovamente, prima di azzardarsi a rivolgere una nuova
occhiata ai suoi carcerieri.
La
freddezza che colse negli sguardi altrui, mista a scherno e odio per
nulla celati, furono per lei come una serie di stilettate dritte al
petto che minacciarono di farla vacillare, ma un orgoglio insperato,
antico e prepotente, le impedì di abbassare il capo.
Nel
silenzio a seguire venne liberata del bavaglio e fatta bere, ma
terminati i pochi sorsi che le inumidirono la gola riarsa la
lasciarono ricadere distesa nella polvere in malo modo. L'impatto le
svuotò i polmoni con un gemito strozzato ed Aredhel rimase immobile
nel tentativo di riprendere fiato, cogliendo nel mentre il sibilo di
qualche risatina malevola. Poi i Fratelli Oscuri non la degnarono
d'altra considerazione e se ne andarono a sedersi accanto al fuoco
scoppiettante, dandole le spalle e tradendo quanta poca importanza le
dessero persino come prigioniera.
Doveva
esser quella considerazione che veniva rivolta agli eledhel come lei:
una creatura infima e inutile, tanto inferiore da non dover nemmeno
essere sorvegliata.
Di
nuovo quell'orgoglio che le aveva impedito di soccombere sotto gli
sguardi altrui le si agitò in petto, risvegliando in lei una
sensazione ribollente ed amara senza nome, qualcosa che non aveva mai
provato in precedenza e che si mescolò ad un'avversione nuova ed
istintiva per quei Fratelli Oscuri. Qualcosa che le impedì di
lasciarsi andare allo sconforto della sua situazione.
Lasciata
sola, raccogliendo come poté le poche forze di cui ancor giovava
nonostante l'accaduto, riprese da dov'era stata interrotta con un più
accurato esame sulle proprie condizioni fisiche. Mosse piano le dita
cercando di riattivare la circolazione, digrignando i denti per il
dolore. Quindi, resistendo al meglio alle fitte che ad ogni minimo
movimento le attanagliavano le viscere, tentò di ravvicinare le
gambe al ventre con lo scopo di rialzarsi, ma stavolta senza
successo: quando ci provò il bruciore nel punto in cui era stata
ferita tornò a ravvivarsi, divampando all'improvviso e riempiendola
di brividi di freddo che le tolsero le poche forze che aveva raccolto
sino a quel momento.
Fu a
quel punto che si rese conto delle reali condizioni in cui vigeva.
Quel
che aveva inizialmente supposto trattarsi di un taglio superficiale
doveva essersi aggravato durante la sua incoscienza, infiammandosi a
causa della mancanza di cure adeguate. Serrando i denti tentò di
rannicchiarsi maggiormente e con uno sforzo dei muscoli riuscì ad
esaminare visivamente il proprio fianco, prima di accasciarsi di
nuovo sul terreno con un sospiro. Almeno era stata fasciata.
Non
sarebbe morta dissanguata, si disse. Molto più probabilmente
l'avrebbe presa l'infezione che ne sarebbe venuta di lì a poco; se i
suoi aguzzini l'avessero lasciata vivere abbastanza a lungo,
beninteso.
Scacciò
quelle considerazioni controproducenti e continuò la sua ispezione.
Come ovvio constatò che era stata perquisita e disarmata e, cercando
con lo sguardo, vide il proprio equipaggiamento dall'altro lato di
quell'accampamento. Imprecando mentalmente per la distanza che la
separava da qualsivoglia lama, soppresse per mera forza di volontà
la sensazione di ineluttabilità che le ispirava la sua situazione
disperata, così tornò a guardarsi intorno. Ed a quel punto il cuore
le sussultò nel petto.
Questa
non è la foresta di Elvandar..
Gli
alberi erano più bassi di quelli a cui era abituata e le fronde
erano colme di una vegetazione dalle tonalità più scure, che
contribuiva a far aleggiare nel sottobosco circostante una penombra
che le impedì di determinare a che punto fosse il percorso del sole
nel cielo. Puntando un'altra volta l'attenzione sui moredhel che
l'avevano catturata, un'altra domanda affiorò inquietante fra i suoi
pensieri. Perché l'avevano tenuta in vita?
Quell'ultimo
interrogativo non fece che assillarla per tutto il resto del tempo in
cui rimase cosciente e le impedì di riposare al meglio delle sue
possibilità. Gelida, la morsa dell'ignoto le serrò la bocca dello
stomaco, accompagnandola nei momenti di veglia come in quelli di
incoscienza e non demordette mai, in quello come nei giorni che
seguirono.
Il
tempo iniziò a dilatarsi e deformarsi alla sua percezione a causa
delle ripetute perdite di coscienza, perdendo regolarità ai suoi
occhi ed il susseguirsi dei giorni si confuse, cosicché non riuscì
mai a stabilire quanti ne trascorsero durante la sua condizione.
Debilitata, tornava bruscamente alla realtà quando veniva
sbatacchiata da un campo all'altro o quando la destavano con
malagrazia per darle da mangiare o da bere in quantità a malapena
sufficienti a tenerla in vita.
Più
volte si rese conto, nel corso dei momenti di veglia, di qualche
Fratello Oscuro intento a fissarla con espressione indecifrabile,
sebbene per la maggior parte del tempo la ignorassero. Soltanto il
loro capo, Amras, le rivolgeva regolarmente parola ma solo per
rivolgerle qualche commento malevolo con il lampante intento di
spaventarla e piegare il suo animo, ma ben presto la ragazza si
impose di non dare alcun credito alle sue parole.
Iniziò
invece a concentrarsi su altro, come la routine che era la vita di
quei guerrieri moredhel, le loro abitudini, tentando di estrapolare
da questi uno schema che le avrebbe fornito un'occasione per salvarsi
la vita. Certo, attendere che fossero Lorren e gli altri a salvarla
sarebbe stato più comodo, ma non sapeva dove si trovava né dov'era
la squadra degli eledhel che doveva senz'altro essersi mobilitata
alla sua ricerca e farvi cieco affidamento sarebbe stata una pazzia.
In
un'occasione le parve persino di distinguere la direzione nella quale
si stavano muovendo grazie allo scorcio di alcune catene montuose fra
uno spiraglio di vegetazione e l'altro, ma non avrebbe messo la mano
sul fuoco sull'affidabilità delle sue deduzioni.
In
realtà fu dopo appena tre giorni dalla sua cattura che ebbe il vero,
primo, confronto degno di nota con Amras.
L'avevano
sistemata in una sorta di tenda, le avevano esaminato la fasciatura e
poi l'avevano lasciata lì a riposare per quelli ad ella erano
sembrati pochi minuti, prima di tornare da lei.
Aredhel
si sentiva stremata a causa del poco riposo e dello sforzo che il suo
fisico era stato costretto a sopportare sino a quel momento, pertanto
fu di soprassalto che si destò da quello che era un sonno leggero ed
inquieto non appena il drappo della tenda venne scostato e la luce
del giorno la colpì in pieno viso.
–
Bene.. – esordì la voce carica di scherno di Amras delineandosi in
controluce – Come sta la nostra ospite?
La
ragazza-elfa alzò lo sguardo appena in tempo per notare il
sorrisetto affilato che egli stava sfoggiando ed incrociandone gli
occhi scuri vi lesse lo stesso disprezzo malcelato che aveva visto
sul volto degli altri Fratelli Oscuri, sentimento che risvegliò in
lei quell'avversione mista a orgoglio e rabbia che le era nata in
petto sin dal primo giorno.
Il
ghigno del moredhel si accentuò in risposta al suo sguardo sfrontato
e le si avvicinò abbastanza da chinarsi e sollevarle il mento con
una mano. Il suo tocco indiretto, filtrato dal guanto che gli copriva
le dita, le procurò una smorfia malcelata.
–
Sai il perché sei ancora in vita?
Lei
non rispose, non batté ciglio, così come non si permise di
abbassare lo sguardo, traendo forza e sostegno dal suo solo orgoglio,
ma questo non parve impedire al moredhel di trarre le sue
conclusioni.
–
Come pensavo – ribatté infatti questi in tono risaputo e carico di
derisione – Voi eledhel siete troppo stupidi... Ebbene, te lo dirò
io – negli occhi dell'elfo passò un riflesso che ne rese
quell'esordio tanto inquietante da farle correre un brivido su per la
schiena ed il ghigno sul suo volto gli si accentuò di rimando nella
luce del crepuscolo incombente – Sei ancora in vita per il semplice
motivo che ci servi come tale. Almeno ancora per qualche tempo.
Sarebbe un peccato che un bel faccino come il tuo andasse sprecato,
non credi? – la mano destra che le aveva tenuto sollevato il mento
scese ad accarezzarle il collo e la spalla, provocandole un brivido
di repulsione e gelo che la fece tremare.
–
Non... non mi toccare! – esclamò scostandosi bruscamente e
lottando contro il senso di panico che minacciò di sopraffarla, ma
la presa sulla sua spalla si fece più salda, bloccandola.
Amras
scoppiò in una risata talmente tagliente da renderle ancora una
volta evidente in tutta la sua crudeltà la sua situazione di
prigioniera alla totale mercé dei suoi aguzzini e il respiro le
rimase impigliato in gola; non aveva alcuna possibilità.. né alcun
controllo sul proprio fato.
–
Come immaginavo: le eledhel sono di tutt'altra pasta rispetto agli
esseri umani. Ti riserverò un trattamento speciale – riprese il
moredhel in tono sommesso, avvicinando il suo volto a quello di lei –
Dopo che mi sarò divertito con te non avrai più così tanta voglia
di fare la difficile – quelle parole risuonarono nella mente della
ragazza più fredde di un blocco di ghiaccio – e allora forse
lascerò divertire un po' anche i miei ragazzi.
Aredhel
si ritrovò a sgranare gli occhi chiari preda di un terrore ed un
gelo che le avviluppò i sensi con una repentinità tale da smorzarle
il respiro e togliendole anche la più piccola padronanza della
propria voce.
Amras
parve accorgersene e l'istante dopo era di nuovo riversa a terra,
mentre quest'ultimo le volgeva le spalle, allontanandosi con ancora
quel ghigno sfrontato a delineargli le labbra sottili.
Fu
quello il primo ed unico momento in cui una calda lacrima le sfuggì
alle ciglia, rigandole la gota sinistra. La consapevolezza di quale
fosse il destino a lei riservato le strinse il petto in una morsa
soffocante.
Oh
Lorren... ti prego vieni a salvarmi.
E
tuttavia, come quel pensiero le si formulò nella mente, al contempo
la colse la disarmante consapevolezza che era una speranza vana e
flebile al pari di un filo di fumo nella bruma serale. Non avrebbero
fatto in tempo.
Avrebbe
dovuto trovare il modo di scappare da sola, a qualunque costo.
Era
tempo di reagire.
***
Erano
passati quasi sette giorni da quando quella ricerca era iniziata e la
spedizione partita da Elvandar s'era addentrata da tempo nelle terre
dello Yabon, seguendo le tracce lasciate dai Fratelli Oscuri. Da
quando avevano iniziato a costeggiare le colline il capitano del
drappello di elfi aveva raccomandato a tutti la massima attenzione e
cautela: gli uomini di quelle alture non erano rinomati per la loro
tolleranza verso chi invadeva il loro territorio. Per non parlare dei
moredhel che vi si nascondevano.
Eppure,
per quanto la perizia messa in quel compito fosse tale da poter
giustificarne la cosa, il fatto di non essersi ancora imbattuti in
alcun esploratore stava diventando rapidamente motivo di
inquietudine.
Col
calare del settimo sole si accamparono per passare le notte in una
macchia di vegetazione e fare il punto della situazione.
–
Vedrai che la ritroveremo – Lorren si avvicinò al loro
condottiero, fermandosi al suo fianco.
Il
fratello di Aredhel nel sollevare lo sguardo su di lui serrò le
labbra fra loro in una piega tesa. Sotto quello sguardo, l'ex
moredhel si sentì per l'ennesima volta attanagliato dai sensi di
colpa.
–
Mi dispiace, Varsel – mormorò, distogliendo il proprio.
Pensieri
ricorrenti si erano affacciati in quei giorni alla sua mente,
rimpianti, ipotesi, recriminazioni rivolte a sé stesso ed a come
erano andate le cose. Sentirsi responsabile per quanto avvenuto ad
Aredhel era il motore e il sostentamento dell'impegno che ci stava
mettendo a ritrovarla ed era una sensazione del tutto nuova che non
aveva mai provato, non così intensamente, prima di allora. Non
sapeva se era dovuto all'aver fatto Ritorno o se era per il legame
che stava iniziando ad instaurare con la ragazza-elfa, ma non sarebbe
rimasto a guardare. L'inattività non era mai stata da lui.
Avevano
già affrontato quel discorso ma, nonostante le rassicurazioni di
Varsel, non v'era modo per lui di scacciare il fantasma che gli stava
corrodendo l'animo dall'interno.
–
Non è stata colpa tua – rispose per l'ennesima volta il capitano
in tono stanco, scuotendo il capo nel tentativo di rimanere lucido –
Hai fatto il tuo dovere tornando subito ad Elvandar per avvertirci.
Lorren
rimase in silenzio mentre, per l'ennesima volta negli ultimi giorni,
riviveva l'accaduto.
Era
perfettamente consapevole di ciò che sarebbe potuto capitare ad
Aredhel sotto prigionia e non era certo una consapevolezza che poteva
giovare al suo stato d'animo. I Corvi erano Fratelli Oscuri senza
morale e con una soglia dell'onore più bassa di molti altri clan
moredhel della zona. L'unico motivo per cui facevano prigionieri era
per rivenderli come schiavi ad altri popoli o per giovarne loro
stessi finché questi non morivano di stenti. Era questo il motivo
per cui, ogni secondo che passavano senza procedere, la situazione
minacciava di sfuggirgli di mano.
Inspirò
a pieni polmoni, lasciando fuoriuscire in un sospiro parte della
tensione che gli irrigidiva le membra.
Quindi
pregò per l'ennesima volta la fortuna di assistere la sua amica.
***
Aredhel
venne svegliata bruscamente da una guardia che dopo averle assestato
un calcio contro una gamba le posò innanzi quello che era il suo
pasto: una ciotola di avanzi.
Il
moredhel non rimase a fissarla ma si allontanò senza indugi e lei,
dopo un istante, si concesse un sospiro di sollievo prima di
esaminare ciò che le era stato portato. Non molto in verità:
qualche brandello di carne ancora attaccato all'osso immerso in un
brodetto apparentemente disgustoso, ma che la fame le fece apparire
quanto di più delizioso potesse esserci al mondo. Con mani rese
incerte dalla stretta delle corde, grata che nessuno la stesse
fissando, si dedicò al sacro compito di riempire quanto più poté
il proprio stomaco.
Doveva
assolutamente recuperare e conservare quante più energie le era
possibile e l'unico modo per farlo era continuare a nutrirsi e
riposare ogni volta che poteva.
Il
male minore in tutta quella faccenda era il fatto che le avevano
cambiato le corde, legandole le braccia dinanzi al busto e non più
dietro la schiena, cosicché potesse nutrirsi da sola. Probabilmente
doveva ringraziare l'apparenza inoffensiva che era riuscita ad
ostentare sino a quel momento per questo e non mancò di
approfittarne ogni volta che poté. Era persino riuscita a sistemarsi
meglio la fasciatura intorno alla vita, stringendo maggiormente il
nodo delle bende e mitigando il dolore che ogni tanto le si
risvegliava sottopelle.
Non
passò molto tempo da sola tuttavia, una decina di minuti a seguire
Amras tornò a farle visita, sfoggiando quel suo ormai consueto
quanto malevolo sogghigno derisorio.
–
Sono venuto per annunciarti che fra pochi minuti ci rimetteremo in
viaggio – le disse con una certa arroganza – Mi auguro che
resisterai all'andatura, nonostante le tue condizioni.
Nel
suo sguardo ella vi lesse qualcosa che fece augurare la stessa cosa
anche a lei, ma riuscì a non battere ciglio di fronte alla
strafottenza del capo moredhel, rimanendo impassibile a sostenere
quell'ennesimo confronto di volontà. E il ghigno di Amras non mancò
di farsi più affilato.
–
Bene – disse soltanto. Fece per voltarsi ma venne raggiunto da uno
dei suoi subordinati; uno degli esploratori, a giudicare
dall'equipaggiamento.
–
Amras – il tono, come la sua espressione, tradiva una certa urgenza
– Eledhel.
Bastò
quella singola parola a far scomparire quel sogghigno dal volto del
loro capo e far spuntare, per contro, un flebile e spontaneo sorriso
su quello della prigioniera. Il primo dopo chissà quanto tempo.
Il
seme della speranza germogliò di nuovo nell'animo di Aredhel.
–
Dì agli altri di prepararsi a partire – comandò intanto Amras
congedando l'esploratore con un singolo gesto, prima di tornare ad
abbassare la sua attenzione su di lei – Pare che la fortuna stia
girando dalla tua parte oggi – poi quel ghigno in tralice riaffiorò
sul suo volto – ...o forse no.
L'eledhel
a quell'inquietante minaccia velata avvertì quel fugace guizzo di
positività venirle meno, sostituito da un profondo sconforto che le
fece chinar il capo verso il terreno. I pochi minuti a seguire venne
sgombrato totalmente il campo, sotto le direttive dell'ormai
familiare e sgradevole voce del moredhel al comando. Quando ormai
tutto fu pronto un moredhel tornò da lei, costringendola senza alcun
riguardo a rimettersi in piedi.
Venne
fatta avvicinare ad uno dei pochi cavalli del drappello, già sellato
e pronto alla partenza così come era pronto Amras, intento a
reggerne le redini.
Per
un fugace primo istante ad Aredhel venne in mente di stenderlo con
una testata dritta sul naso in un ultimo scatto disperato, quindi
montare in groppa all'animale e fuggire al galoppo mentre gli altri
moredhel nella più rosea delle aspettative erano ancora intenti a
chiedersi che cosa fosse accaduto, ma quello seguente la ragione
tornò a dissuaderla. La presa del suo custode era salda intorno al
suo braccio e le impediva ogni movimento che non fosse lui stesso ad
imporle.
Amras
salì in sella, ma poi si volse a guardarla ed a quel punto ella capì
che quella volta, anziché procedere a piedi, sarebbe dovuta salire a
propria volta. Il pensiero di trovarsi a così stretto contatto con
il suo principale aguzzino le fece salire un'ondata di disgusto che
minacciò di farle rivoltare quel poco che aveva mangiato a
colazione, ma riuscì a dominare i crampi alla bocca dello stomaco
seppur non a sopprimere la smorfia che le delineò le labbra
screpolate. Venne issata con malagrazia sul dorso del cavallo proprio
davanti al Fratello Oscuro, il quale non mancò di cingerla
saldamente in vita con il braccio sinistro mentre con la mano destra
strinse le briglie.
Sotto
il suo comando il piccolo gruppo si mise in marcia, cavalcando al
piccolo trotto attraverso la selva, la quale nel diradarsi in alcuni
punti permise ancora una volta alla ragazza-elfa di scorgere sprazzi
del mondo circostante. Quando contro il cielo plumbeo si stagliarono
le cime di una catena montuosa particolarmente imponente, le nozioni
che le erano state inculcate in testa dal suo precettore le andarono
in aiuto.
I
Denti del Mondo!
Lo
sconforto tornò a minacciare di afferrarle il cuore.
Si
trovava a leghe intere da Elvandar, in un territorio sconosciuto ed
inospitale e stavano senza dubbio dirigendosi verso nord-est, proprio
in direzione delle montagne. Un'ulteriore complicazione da
aggiungersi ad un suo tentativo di fuga.
Per
gran parte della giornata proseguirono a cavallo, concedendosi
soltanto brevi soste e mandando di continuo esploratori a piedi alle
loro spalle col compito di accertarsi della distanza che li separava
dagli inseguitori; due di loro non fecero ritorno.
Oramai
mancava meno di un'ora al tramonto.
–
Sono tenaci i tuoi amichetti – commentò Amras pesantemente
ironico, tanto vicino che ella ne percepì il lieve spostamento
d'aria accanto all'orecchio sinistro.
Preda
della repulsione suscitatale, Aredhel si scostò quel tanto che le
era permesso dalla presa del moredhel e cercò di non pensare a
quella mano che la teneva saldamente stretta alla vita.
–
Presto il tuo patetico orgoglio verrà spazzato via – le sussurrò
nuovamente in tono sprezzante, serrando le dita nel punto in cui
giaceva la sua fasciatura e strappandole un sussulto.
Aredhel
trattenne un gemito, il fiato di nuovo mozzatole in gola, ed avvertì
un lieve capogiro minacciare di destabilizzarla.
–
Smettila – quella parola sussurrata risuonò quasi come una
supplica, troppo vicina al proprio limite per opporsi con la consueta
fermezza: era stremata per la cavalcata e le emozioni negative della
giornata, la mente offuscata dall'avversione suscitatale dal capo dei
Corvi.
Amras
tornò a drizzare completamente la schiena sulla sella e un istante
dopo diede ordine ai compagni di trovare un luogo adatto per
accamparsi. Non dovettero fare molta strada: si fermarono in una zona
a ridosso delle prime montagne e ben riparata dagli alberi.
–
Ci fermiamo qui – annunciò il Fratello Oscuro prima di smontare di
sella.
Finalmente
libera dalla sua presenza oppressiva, Aredhel fu di nuovo in grado di
pensare e il pensiero che la colse fu improvviso non tanto per
natura, ma per l'intensità con cui la investì, tale da farle
entrare in circolo una nuova ondata di adrenalina.
Doveva
fuggire. Adesso.
Ogni
muscolo le si tese meccanicamente. Qualunque cosa avesse deciso di
fare, avrebbe dovuto farla subito.
–
Tiratela giù.
L'ordine
perentorio di Amras fu il segnale che fece crollare ogni suo
tentennamento. Preda della disperazione del momento, con profonda
determinazione affondò i talloni nei fianchi del cavallo e questi si
impennò, riuscendo a strappare di mano al capo dei Corvi le proprie
redini con un forte nitrito di protesta. Gli zoccoli fendettero
l'aria ed esclamazioni d'allarme si levarono dagli elfi lì presenti,
mentre Aredhel si aggrappò con tutte le sue forze al crine
dell'animale riuscendo solo per miracolo a non scivolare a terra a
propria volta. E l'attimo seguente, spronato ancora una volta
dall'urlo dell'eledhel, lo stallone scartò di lato, balzando al
galoppo fra uno dei varchi della fitta vegetazione.
Stava
scappando.
Il
primo e più persistente pensiero che si sovrappose al fragore di
quella corsa ed al fischio del vento fu che stava scappando. Con
l'adrenalina in circolo ad acuire ogni suo senso, lottando per
rimanere in sella, la ragazza avvertì per la prima volta in vita sua
un'eccitazione ed una vitalità talmente intense che se non avesse
avuto il cuore saldamente piantato in gola avrebbe esultato e
gridato.
Era
riuscita a fuggire!
Sotto
il sibilo del vento delle urla risuonarono alle sue spalle, come echi
lontani e rabbiosi, ricordandole che non era ancora in salvo ed
inducendola a rimettere sotto controllo le proprie emozioni per
restare concentrata su ciò che stava facendo. Ogni sussulto infatti
minacciava di sbalzarla a terra ed ogni falcata dell'animale sotto di
lei sembrava incrementare la loro velocità lungo il pendio, tant'è
che si ritrovò a lottare contro un offuscante strato di lacrime nato
dal vento che le sferzava il viso.
All'ennesimo
salto del cavallo avvertì l'impatto di qualcosa di più rigido di
cuoio e finimenti contro la gamba destra e solo a quel punto si rese
conto della presenza di un coltello assicurato ad una fibbia accanto
alla sacca da sella. Con cautela e riuscendo miracolosamente a non
perdere l'equilibrio, Aredhel riuscì a sfilarlo dal fodero e, con
una destrezza che solo un appartenente della sua razza poteva
vantare, a tranciare con quella lama le corde che la legavano.
Perse
la lama l'istante seguente, ma finalmente libera da qualsivoglia
costrizione si sporse nuovamente in avanti nel tentativo di afferrare
le briglie della cavalcatura imbizzarrita sotto di lei.
Fortuna
e tenacia le andarono in soccorso e le impedirono di fare la fine di
quel coltello a discapito di quel galoppo sfrenato, permettendole di
arrivare alle cinghie di cuoio ed a tirarle con forza verso di sé.
Costretto a rallentare, il cavallo sbuffò e tentò di ribellarsi
alla sua nuova cavaliera ma poco dopo iniziò a frenare la propria
corsa.
Bastò
quel calo di velocità tuttavia a permettere ai suoni della natura
circostante di superare il fischio del vento e subito le giunsero
alle orecchie a punta i rumori provocati dai suoi inseguitori. Non
osò voltarsi indietro, spronò di nuovo il cavallo che aveva rubato
ad Amras al galoppo e questi balzò di nuovo in avanti con un nuovo
nitrito.
Sfrecciarono
fra gli alberi giù per il declivio di quel tratto di bosco come se
ne andasse della vita ed Aredhel, per la prima volta, sperimentò
l'eccitazione ed il terrore sordo tipici di una preda. Perché tale
era, braccata dai cacciatori moredhel a poche decine di metri da lei,
perfettamente consapevole che semmai fosse stata ricatturata, sarebbe
stata la sua fine.
Spronata
da quelle stesse emozioni, ella sfruttò tutta l'abilità di cui era
capace e anche di più spingendosi al limite in quella fuga
precipitosa, mentre la paura che attanagliava il cuore dell'elfa finì
ben presto per contagiare anche il suo cavallo, il quale iniziò a
schiumare dalla bocca a causa dello sforzo fisico, incapace di
fermarsi.
Attraversarono
tratti in cui la vegetazione era più rada e altri in cui ogni passo
del cavallo poteva essere l'ultimo, e quando avevano raggiunto il
tratto centrale di una delle radure più estese la ragazza trovò il
coraggio di scoccare un'occhiata alle proprie spalle, alla ricerca
dei suoi inseguitori. Li scorse al limitare del suo campo visivo
sotto forma di ombre fra gli alberi e quella vista non fece altro che
smorzarle ancora una volta il fiato in gola, inducendola a tornare a
chinarsi sulla groppa del suo cavallo ed a spronarlo ancora una
volta.
Un
secondo dopo gli alberi tornarono a coprirle i fianchi ed a
sfrecciarle accanto, mentre il terreno riprese un'andatura più
pianeggiante sotto gli zoccoli dell'animale. Poi, senza preavviso,
quegli stessi zoccoli sollevarono schizzi limpidi sino al suo viso
facendola meccanicamente sussultare. Drizzandosi sulla sella tirò
nuovamente le redini e la sua cavalcatura scartò di lato a quel
nuovo comando, minacciando di farla sbalzare di sella a causa del
cambiamento repentino di traiettoria.
Con
l'affanno a bruciarle i polmoni ad ogni boccata d'aria, Aredhel si
rese conto di aver incrociato quello che era il corso di un torrente
e, dopo un primo istante di stupore e smarrimento, tornò a
indirizzare con decisione il cavallo lungo la riva, per una via più
sgombra e meno pericolosa per le zampe dello stesso.
Non
aveva idea di dove stesse andando. Era a soltanto consapevole di
dover continuare a correre per porre quanta più distanza possibile
fra lei e i suoi inseguitori e così fece. Per questo motivo, preda
d'un potente istinto di sopravvivenza, non pensò al reale pericolo
che costituiva per lei quel tratto.
Fu
subito prima di una larga curva del torrente che, dopo aver appena
iniziato a pensare che forse ce l'avrebbe fatta, una freccia moredhel
raggiunse la sua cavalcatura, trapassando pelle e muscoli. L'animale
incespicò e cadde rovinosamente con un alto nitrito di dolore ed
Aredhel venne sbalzata in avanti con tale slancio che finì per
rotolare per diversi metri sul terreno disseminato di cespugli, prima
di finire contro un tronco d'albero in un brusco arresto.
L'impatto
le svuotò i polmoni e mille stelle iniziarono a danzarle davanti
agli occhi, ma il campanello d'allarme che le era risuonato nella
testa per tutto il tempo continuò a riempirle lo spazio fra le
orecchie a punta, impedendole di cedere all'incoscienza. Di nuovo
parzialmente dietro la copertura della vegetazione, digrignando i
denti per lo sforzo ed attingendo ad energie di cui ella stessa non
sapeva essere in possesso, si rialzò in piedi e si rimise a correre.
Non
poteva fermarsi.. non doveva!
Ignorò
le molteplici fitte di dolore che le giungevano da più punti del suo
corpo e, il respiro ormai tanto affannoso da raschiarle la gola come
fuoco rovente, si costrinse a non mollare. Caracollò in avanti
tuttavia quando sotto di lei una pietra perse stabilità, ma fu
quando si imbatté in una strada battuta e ben definita che finì
seriamente di finire a terra. Si aggrappò all'ultimo istante ad un
tronco vicino e, in un moto di rinnovata speranza, vi si gettò
letteralmente al seguito premendosi nel mentre un braccio contro il
fianco fasciato. La sensazione di umido che di lì a poco avvertì
fra le dita non fu che la conferma di ciò che già sospettava da
tempo: la ferita le si era riaperta, cosa che spiegava per quale
motivo ogni falcata era pari ad una vera e propria pugnalata.
Sarebbe
morta, se lo sentiva.
Ma
dov'è Lorren?! Si chiese disperata, incespicando di nuovo.
La
stanchezza ormai le appesantiva le gambe e il petto le bruciava
talmente tanto da renderle impossibile respirare. Solo la paura le
impedì di fermarsi o anche solo di voltarsi indietro, conscia che se
ci avesse provato avrebbe ceduto e non si sarebbe più rialzata.
Era
giunta al suo limite; era finita.
Poi
un nuovo rumore attirò la sua attenzione: un fischio penetrante
proveniente da un punto più avanti, oltre la schermatura del
sottobosco. Un richiamo che ella riconobbe.
Lorren!
Un
sorriso le tese le labbra screpolate e il cuore le ebbe un nuovo
guizzo di insperata energia in petto, rianimato dalla speranza che le
impedì di cedere al suo destino. Non ancora.
Continuò
a incespicare in avanti cercando disperatamente di raggiungere la
salvezza ormai tanto vicina. Era sul punto di gridare con il poco
fiato rimastole il nome dell'amico nel tentativo di farsi sentire
quando accadde l'inevitabile: una gamba le cedette e l'altro piede si
incastrò sotto una radice sporgente in mezzo al sentiero. Finì a
terra con un urlo strozzato, attutendo a malapena la caduta con le
braccia, schiacciata dal suo stesso peso.
Si
ritrovò riversa al suolo, ansimante, con la testa che le girava e
gli occhi colmi di lacrime. Tentò di rialzarsi ma il suo corpo si
rifiutò con tutto sé stesso di obbedire alla sua volontà,
paralizzandola con scariche di dolore e bruciore muscolare.
All'improvviso
l'eledhel accusò tutta la stanchezza, tutti gli sforzi sopportati
sino a quel momento ed ormai svuotata si sentì perduta.
Era
finita.
Chiuse
gli occhi, la rabbia e l'angoscia che presero il sopravvento,
combinandosi e dilaniandole l'animo tanto intensamente che ella finì
per non riuscire ad arrendersi. No, non poteva. Non con la squadra di
Elvandar così vicina.
In
un ultimo disperato tentativo tentò di muoversi, di spostarsi da
quel tratto allo scoperto per cercare riparo fra la vegetazione più
vicina che delimitava quel tratto di sentiero. Prese a strisciare
nella polvere, dando fondo a quelle poche scintille di energia che le
rimanevano riuscendo a malapena a guadagnare il ciglio della via
prima di avvertire improvvisamente due mani afferrarla intorno al
busto e trascinarla via, lontano dalla sua ultima speranza di
salvezza.