24. The secret
sharer – Part I
«Se non fosse stato per la guerra, non avrei mai conosciuto
Louise», iniziò a raccontare Merlino, sdraiato
accanto ad Abby sul piccolo lettino.
«Ero stufo di starmene con le mani in mano, così
quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale mi sono
arruolato e sono partito con la Royal Navy Britannica per proteggere il
nostro Paese. Sin dall’inizio ho fatto parte
dell’equipaggio di diversi incrociatori da battaglia, fino a
quando non sono stato trasferito sulla Queen Mary: classe Lion, in
servizio nel Primo Squadrone, armata con otto cannoni da 343
millimetri, con un dislocamento di 27.200 tonnellate e una
velocità di ventotto nodi. Tutte cose molto importanti, ma
la più importante per me è che fu la nave su cui
conobbi James McTrusty».
«Il padre di Louise?», domandò Abby, con
gli occhi grandi pieni di curiosità. Merlino si
limitò ad annuire, abbassando le palpebre, e riprese il
racconto da dove lo aveva interrotto.
«Dormivamo uno accanto all’altro e
all’inizio non ci parlavamo nemmeno: entrambi riservati, con
troppi pensieri per la testa… Poi ci fu
quell’episodio, durante la distribuzione del rancio serale.
«James stava guardando la foto di sua moglie, come faceva
durante la maggior parte del poco tempo libero a nostra disposizione, e
il cuoco lo saltò. Quando se ne accorse, era ormai troppo
tardi e protestare non sarebbe servito a nulla, così io gli
diedi la mia porzione. Quando quella sera, prima di spegnere le luci,
mi chiese perché l’avessi fatto, gli ho risposto
che lui aveva qualcuno da cui tornare alla fine della guerra, al
contrario di me, e che non poteva permettersi di morire di fame.
«Ovviamente molti marinai avevano assistito
all’episodio e da allora iniziò a circolare la
voce che io fossi gay. Gli insulti volavano con le occhiate, tra un
tiro e l’altro di sigaretta, a mezza voce durante la
cena… A me non importava e nemmeno a James, il quale
iniziò a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa e
della sua vita prima della guerra. Siamo diventati amici, soli in mezzo
a quelli che dovevano essere i nostri alleati. Eravamo in guerra su due
fronti, invece.
«Un giorno un marinaio con qualche legame con uno degli
ufficiali, un certo Brandon, fece una battuta di pessimo gusto senza
paura di poter essere sentito. In effetti i pettegolezzi erano giunti
persino al comandante, e nonostante essere omosessuale a quei tempi
fosse un reato, nessuno era intervenuto: in mare aperto, è
consigliato non dare ossigeno a piccoli fuochi perché per
quanto innocui possano sembrare, se alimentati possono distruggere ogni
cosa.
«Quel giorno feci l’errore di ribellarmi e
rispondere a tono alle accuse, dando del frocetto a Brandon, insinuando
che quell’ufficiale gli proteggesse il culo perché
ne voleva un po’ ogni sera, e quella stessa notte fui
trascinato fuori dal mio letto, legato ed imbavagliato e pestato a
sangue. Poi mi infilarono in uno sgabuzzino e con una siringa rubata
dall’infermeria mi iniettarono dell’aria nel
sangue».
Abby rabbrividì al suo fianco e Merlino si
domandò se non stesse esagerando con i particolari. In fondo
era stata lei a chiedergli che le raccontasse tutto, ogni cosa; stava
solo esaudendo il suo desiderio.
«Ero già bello che andato, quando James si
svegliò a causa di uno scossone improvviso, temendo che ci
stessero attaccando, e si accorse della mia assenza. Ovviamente venne
subito a cercarmi e mi trovò, ricoperto di lividi ed
escoriazioni, con la siringa ancora nel braccio. Pianse come solo un
amico piangerebbe per un altro, poi si alzò per andare a
dare l’allarme e fu allora che accadde – fu allora
che scoprì il mio segreto.
«I lividi lentamente scomparvero, le ferite si rimarginarono
lasciando solo delle cicatrici e le ossa tornarono al loro posto nel
mio corpo. Il mio cuore riprese a battere singhiozzando, come un motore
difettoso, e un respiro rantolante mi sfuggì dalle labbra
quando sollevai la testa per abbandonarla contro il muro alle mie
spalle. Quando aprii gli occhi ed incrociai quelli terrorizzati di
James, capii che avrei dovuto ucciderlo e poi nascondermi fino a quando
non avessi trovato un modo per andarmene dalla Queen Mary.
«Iniziai a chiedermi perché mi avesse trovato lui,
perché non qualcun’altro, qualcuno di cui non mi
importava un fico secco. Ucciderlo, rubandolo a sua moglie e
costringendo sua figlia a vivere senza un padre, mi avrebbe
perseguitato per il resto dei miei giorni, ma non ero sicuro che
avrebbe potuto mantenere un segreto così grande e non avevo
altre alternative».
«Non ci credo che tu l’abbia fatto. Non
l’hai fatto davvero, Merlino!», sussurrò
inorridita Abigail, il viso paonazzo e gli occhi lucidi.
Lo stregone si girò per la prima volta verso di lei e i loro
nasi quasi si sfiorarono, mentre si guardavano intensamente negli
occhi. Alla fine abbozzò un sorriso, mormorando:
«Non ce n’è stato bisogno».
Abby sospirò di sollievo, tornando a fissare il soffitto, e
così fece anche Merlino.
«Al terrore succedette l’incredulità e
poi ancora l’euforia. James era così contento che
fossi vivo che scoppiò a ridere, rischiando di svegliare
l’intero equipaggio, e mi abbracciò stretto. Ne
rimasi così sorpreso che abbandonai con sollievo
l’idea di ucciderlo, ma gli feci giurare solennemente che non
avrebbe detto nulla a nessuno. James giurò e così
inizio la nostra amicizia segreta.
«Venni accusato di essere un disertore e tutti sulla nave
avevano ricevuto l’ordine di spararmi a vista nel caso fossi
stato trovato, incluso Brandon e i suoi scagnozzi, i quali non erano
più riusciti a dormire sonni tranquilli da quando il mio
corpo era scomparso da quello sgabuzzino. James aveva sapientemente
messo in giro la voce che il mio fantasma, dopo aver buttato in mare il
corpo, aveva deciso di rimanere a bordo per dare la caccia a coloro che
mi avevano ucciso. E in effetti lo feci, sgattaiolando di notte fino ai
loro letti per rubare loro vestiti, scarpe, o lasciare dei regalini
dall’odore piuttosto indelebile.
«James era il mio compagno di avventure ormai e una volta
spente le luci riusciva sempre a raggiungermi nella sala caldaie o
ovunque mi nascondessi per portarmi qualcosa da mangiare, abbastanza da
non morire di nuovo. Mi raccontava ciò che succedeva ai
piani superiori, mi portava dei libri per passare il tempo, mi
aggiornava sull’andamento della battaglia, delle rotte che
prendevamo e ci facevamo un sacco di risate quando mi descriveva
l’aspetto sempre più sconvolto e spaventato di
Brandon e degli altri. In cambio, io gli raccontavo di me, del vero me:
della mia vita a Camelot, di Artù, della magia e di Morgana;
dei posti che avevo visto, delle mie morti più
spettacolari… Era l’unica persona a cui avessi
detto tanto di me, il primo migliore amico che avessi avuto dalla morte
di Artù, e quando lo persi… beh, fu
devastante».
Merlino si voltò nuovamente verso Abby e la ragazzina
ricambiò il suo sguardo, chiedendogli silenziosamente di
proseguire. Il mago però le domandò:
«Com’è il livello di istruzione qui in
ospedale?».
«Molto scarso direi», rispose, ridendo.
«Quindi presumo tu non sappia nulla della battaglia dello
Jutland».
Abby perse il sorriso e scosse gravemente il capo. Merlino si concesse
un grande respiro ed iniziò a spiegare: «Fu una
delle tante battaglie navali tra la flotta inglese e quella tedesca.
Alla fine furono gli Alleati a prevalere, ma le conseguenze furono
catastrofiche… Nel giro di due giorni – quanto
durò effettivamente lo scontro – morirono
più di ottomila uomini, di entrambe le fazioni».
«È tremendo», disse Abby, con un nodo a
stringerle la gola. «E… e
James…?».
«Sì», le rispose ancor prima che
concludesse la domanda. «È morto anche
James».
«Emrys! Emrys,
sono James!».
Merlino si
alzò quel tanto che bastò all’amico per
individuarlo nell’immenso locale caldaie e lo raggiunse di
corsa, col volto pallido e allo stesso tempo velato di sudore.
«C’è
qualcosa che non va? È successo qualcosa?», gli
chiese, posandogli una mano sulla spalla.
James annuì e
dopo aver respirato profondamente per calmare il proprio cuore
impazzito, spiegò: «È appena arrivato
l’ordine di puntare verso est alla massima
velocità».
«Sì,
poco fa ho notato un’improvvisa virata… Ma che
vuol dire?».
«Vuol dire che
domani a quest’ora potremmo essere morti».
Un silenzio pesante
cadde tra di loro, interrotto soltanto dagli sbuffi e dai rumori
meccanici dovuti a tutti gli strumenti presenti in quel locale in cui
il calore si appiccicava ai vestiti e ai capelli, rubando
l’aria ai polmoni.
«Pardon, io
potrei essere morto, perché tu ti risveglieresti dopo un
po’», si corresse James con una risatina nervosa,
togliendosi il cappello per passarsi le mani tra i capelli castani.
Alla fine Merlino lo
prese per le spalle e fissò gli occhi nei suoi:
«Smettila di dire idiozie e raccontami che cosa mi sono
perso».
James gli
spiegò allora che alla Stanza 40 – un ufficio di
decrittazione inglese – avevano decifrato un messaggio
proveniente dall’ammiragliato tedesco, individuando la
posizione di una delle flotte sotto il comando di Scheer.
«Stanno
navigando nelle acque dello stretto dello Skagerrak e Jellicoe ha
ordinato a tre squadre di navi di linea – tra cui anche noi
– di inchiodare e affrontare il nemico nello stretto.
Potremmo morire in uno scontro del genere, Emrys! Non
capisci?».
James si
lasciò allora andare alla lacrime, baciando più
volte la foto di sua moglie, e Merlino non osò dirgli di
smetterla, come non provò a dirgli che era sicuro che
sarebbe sopravvissuto. Come poteva promettergli una cosa del genere?
Rimase in silenzio al
suo fianco per quelle che gli sembrarono ore, fino a quando la sirena
che scoccava la mezzanotte non squarciò l’aria,
ordinando a tutti i marinai di raggiungere le proprie brande per la
notte.
James si ricompose e gli
sorrise, scusandosi per il suo comportamento infantile. Quindi gli
augurò la buonanotte e gli promise che si sarebbero rivisti
il giorno successivo.
Il suo amico, come gli
piaceva ricordare spesso scherzando col proprio cognome, era uno di cui
ci si poteva fidare e manteneva sempre le promesse. E Merlino attese
con ansia il suo arrivo, tanta che iniziò a provare della
delusione quando non lo vide nemmeno durante la pausa pranzo. Ma non
avrebbe mai dovuto dubitare di James e se ne convinse quando lo vide
entrare di corsa in sala macchine e stringerlo nel loro secondo
abbraccio, forte come quello che gli aveva dato dopo averlo visto
risorgere ma dovuto quella volta alla paura, anziché alla
gioia.
Erano ancora
l’uno nelle braccia dell’altro, quando si
udì il primo colpo di cannone, in grado di far tremare loro
le ossa.
Frettolosamente James
infilò le mani sotto la casacca nera dell’uniforme
ed estrasse la scatoletta di metallo in cui aveva conservato la foto
della moglie e la collanina che lei gli aveva dato come atto di fede,
promessa che presto o tardi sarebbe tornato a casa per rimettergliela
al collo: una catenina d’oro con un piccolo crocifisso come
ciondolo. Quante volte aveva sentito James pregare ad occhi chiusi,
tenendola stretta nel pugno vicino al cuore? E ora la stava consegnando
a lui.
«Assolutamente
no», si rifiutò, allontanandola con una mano.
«Senti, io per
primo vorrei rimanere in vita e rivedere la mia famiglia, ma metti caso
che non ce la faccia… Chi si prenderà cura di
loro?».
«Non io,
James! Sai che non posso farlo!».
Il secondo e poi il
terzo colpo di cannone vennero sparati, anche se quella volta da
più lontano. La battaglia stava per infuriare.
James gli prese una mano
e gliela strinse con forza intorno alla scatoletta nera, guardandolo
negli occhi con intensità: «Ti supplico, Emrys. Se
sei davvero mio amico, promettimi che lo farai».
Merlino
respirò profondamente e finalmente annuì con un
cenno del capo. «Te lo prometto, James. Ma non ce ne
sarà bisogno: tua moglie e tua figlia dovranno sopportare la
vista del tuo brutto muso fino a quando non avrai
novant’anni».
James, nonostante gli
occhi lucidi, sorrise e lo abbracciò di nuovo, proprio
mentre l’ennesimo colpo sembrava averli mancati per un
soffio.
Si salutarono in
silenzio, scambiandosi solo un’occhiata, senza sapere che
sarebbe stata l’ultima.
«Un’ora dopo il nostro incontro, la Queen Mary
è stata colpita. Mi sono precipitato subito sul ponte,
conscio del fatto che nessuno si sarebbe preoccupato di me sotto
attacco, e il mio cuore ha smesso per un attimo di battere quando ho
visto il fumo salire nero e denso dalla torre Q. Lì
c’era James. Dalla mia posizione non riuscivo a capire quale
dei due cannoni fosse stato messo fuori uso e comunque poteva anche
essere che nell’esplosione entrambi i marinai fossero stati
uccisi. Ho avuto qualche speranza quando il cannone di sinistra, il
cannone di James, riprese a sparare contro la Seydlitz.
«Iniziai a correre a più non posso verso la torre
Q: se quelli dovevano essere i nostri ultimi istanti, volevo
trascorrerli con il mio amico. Intanto la nave tedesca continuava a
rispondere al fuoco e furono quasi colpite le torri a prua. Ero quasi
sotto la torre, quando qualcuno si mise sulla mia strada:
Brandon».
«Non ci credo», sussurrò Abby scioccata,
proprio come se stesse guardando un film appassionante e pieno
d’azione.
«Per colpa sua, dei suoi “Ma io ti ho controllato
il polso!”, “Tu eri morto!”,
“Com’è possibile?”, la torre Q
venne colpita di nuovo e crollò prima che io potessi
raggiungere James. Successivamente ci fu un incendio e prima che ne
accorgessimo la nave si inclinò ed affondò. A
quel punto feci l’unica cosa sensata: presi Brandon per il
braccio e lo buttai in mare, per poi seguirlo a ruota.
«Furono pochi i marinai della Queen Mary che si salvarono e
io e Brandon fummo tra questi fortunati, anche se venimmo pescati da
una nave nemica. Ci catturarono, ci torturarono e, cosa peggiore di
tutte, io e lui fummo tenuti rinchiusi nella stessa minuscola cella.
Brandon non fece altro che scusarsi e piangere, ammettendo che era
davvero lui l’omosessuale, e ad un certo punto rischiai anche
di ucciderlo. Ero lì, con le mani intorno al suo collo, e il
suo volto era così rosso da sembrare
un’aragosta… Ma alla fine ho pensato a James, a
quello che avrebbe detto se mi avesse visto, e l’ho lasciato
andare».
«E alla fine come sei tornato in Inghilterra? Come hai
mantenuto la promessa?», gli chiese Abby, che ormai pendeva
dalle sue labbra.
«Ho aspettato e aspettato, ascoltando le conversazioni delle
guardie tedesche – ignare che io conoscessi la loro lingua,
– fino a quando non ho capito che eravamo abbastanza vicini
alla terra ferma da riuscire a scappare con una scialuppa di
salvataggio. Ed è quello che ho fatto, alla fine».
«Lo racconti come se fosse stato facile»,
esclamò Abby, ridendo.
Merlino rise a sua volta. «Ho fatto cose molto più
difficili nella mia lunga vita: scappare dai crucchi è stata
una passeggiata, in confronto».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, ripensando a quel
passato incredibilmente lontano eppure vicinissimo.
Abby si chiese quante altre storie del genere avesse collezionato
Merlino in più di millequattrocento anni e quante sarebbero
rimaste celate al mondo per sempre. Le dispiaceva che il mago non ne
avesse mai parlato con nessuno prima d’ora e soprattutto che
lei, a cui avrebbe fatto così piacere, non avesse il tempo
necessario ad ascoltarle tutte.
«Quanti anni aveva Louise quando l’hai incontrata
per la prima volta?», gli domandò ad un tratto,
allontanando la tristezza.
Merlino abbozzò un sorriso e sollevò una mano,
col pollice nascosto dietro il palmo ad indicare la sua età.
«Sono tornato in Galles una volta finita la guerra, nel
novembre del 1918, ma ci ho messo qualche altro mese per prendere
coraggio e trovare la famiglia di James. Sapevo che sua moglie era
già stata informata della sua morte, ma non ero sicuro che
vedere un suo compagno d’armi le avrebbe fatto
bene… Poi, quasi due anni dopo che me l’aveva
affidata, ho deciso di aprire la scatola col suo nome inciso sopra:
dentro ci trovai la collanina, ma non la foto di sua moglie.
Probabilmente aveva deciso di tenerla vicina al cuore, nel caso fosse
morto. C’erano anche due lettere: una per sua moglie e
l’altra per sua figlia, entrambe scritte lo stesso giorno
della sua morte, il 31 maggio 1916. Le lessi e fu come risentire la
voce di James, come averlo di nuovo vicino, e capii che non potevo
tradire la sua fiducia non mantenendo la promessa. Così sono
andato a Cardiff e dopo qualche settimane di ricerche finalmente le ho
trovate.
«Louise aveva solo quattro anni, ma di carattere era
già identica a suo padre, mentre da sua madre aveva preso la
bellezza. Fu strano presentarmi a loro, raccontare alla signora
McTrusty del tempo trascorso con suo marito e ciò che
avevamo fatto l’uno per l’altro… ma mi
sono sentito sollevato, meno in colpa. E decisi che avrei aiutato e
protetto Louise in ogni modo. Mi trasferii in una minuscola casa non
molto lontana dalla loro ed iniziai a lavorare in una nuova fabbrica,
spendendo ogni attimo del mio tempo libero con la famiglia di James.
«Nella lettera diretta alla moglie le aveva spiegato che mi
aveva scucito una promessa e che doveva lasciarmi fare,
perciò non trovò inappropriato che un uomo della
mia età si fosse avvicinato tanto alla figlia piccola.
Però la gente sì, lo vedeva come una specie di
scandalo, e Edith – si chiamava così la moglie di
James – per il bene della figlia, che si era affezionata a me
come un padre, mi chiese di sposarla. Allora capii che ero andato
troppo oltre e che era giunto il momento di cambiare tattica: avrei
sempre tenuto un occhio sulla famiglia McTrusty, ma da lontano.
«Fu difficile separarmi da quella che avevo iniziato a
ritenere la mia famiglia, ma mi costrinsi ad abituarmici dicendo che
era per il loro bene».
Abby si tirò seduta sul letto ed incrociò le
gambe, guardandolo con una mano sotto il mento, impaziente di ascoltare
dell’altro. Gli chiese: «E quando hai rivisto
Louise? All’ospedale in cui lavoravate?».
«No, quello successe molto tempo dopo. Fu al funerale di
Edith. Non pensavo mi avrebbe riconosciuto, aveva solo cinque anni e
mezzo quando me ne andai ed incominciai a seguire la sua crescita da
lontano, ad inviare soldi a sua madre perché le comprasse i
vestiti più belli e la facesse studiare nelle scuole
migliori. Quando Edith morì ne aveva sedici ed era ancora
più bella. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo,
uno soltanto, e realizzai che lei ricordava chi fossi. Non a caso mi
rincorse, una volta concluso il funerale, prima di andare via con sua
zia, e la prima cosa che mi chiese fu come facessi a non essere
invecchiato di un giorno da quando mi aveva visto l’ultima
volta. Mi ricordava così tanto suo padre che decisi subito
di rivelarle il mio segreto e lei mi credette, senza se e senza ma.
Sorrise e mi salutò con un bacio sulla guancia, molto
impudicamente, poi tornò da sua zia, da cui si
trasferì, in una piccola cittadina a qualche chilometro
dall’ospedale che sorgeva in aperta campagna».
«Quello che sorgeva proprio qui, prima di questo»,
disse Abby, sorridendo smagliante.
«Esatto. Cambiai identità e la storia del mio
passato – com’era facile, allora – ed
ottenni facilmente un posto all’ospedale, mentre Louise
terminò gli studi per poi iniziare un corso da infermiera,
spinta da sua zia.
«Ci scrivemmo centinaia di lettere in quel periodo, ma ci
incontrammo anche molte volte, nel cuore della notte. Guardavamo il
cielo, ci raccontavamo le nostre giornate, i nostri sogni e le nostre
speranze per il futuro… E il mio affetto per lei cresceva a
dismisura: era la figlia che non avrei mai avuto, la mia migliore amica
e poi, lentamente, il mio primo grande amore dopo secoli di solitudine.
Sapevamo tutto l’uno dell’altro ed era
così bello… Parlare con lei, stare al suo fianco
era… liberatorio. Ma anche un macigno che sentivo pesarmi
sul cuore nei momenti più impensabili: sapevo che prima o
poi sarebbe arrivato il giorno in cui lei non ci sarebbe più
stata e io non sarei più riuscito a vivere, eppure non
riuscivo mai a lasciarla andare».
«Tanto che è stata lei a lasciarti, alla
fine», concluse Abby per lui, riprendendo tra le mani il
diario della sua bisnonna.
Merlino annuì e sospirò, portandosi le mani
dietro la nuca e chiudendo gli occhi alle lacrime.
«All’inizio della Seconda Guerra Mondiale. A causa
della guerra l’ho incontrata, a causa della guerra
l’ho persa», mormorò con la voce intrisa
di malinconia.
«Non è vero, non l’hai mai persa. Lei ti
ha sempre amato, Merlino. È vero, amava anche suo marito, ma
tu sei stato il suo primo amore, la sua anima gemella… Non
avrebbe mai potuto dimenticarti. Altrimenti perché avrebbe
ascoltato la tua voce in sogno, quella che l’ha avvertita del
bombardamento dell’ospedale? Si è fidata tanto da
provare a salvare i colleghi e i pazienti, ma tutti le hanno dato della
pazza e lei è corsa via, da sola, nel bosco, giusto un
momento prima che le bombe facessero saltare in aria tutto quanto.
È stata l’unica sopravvissuta, grazie a te. Tu non
hai mai smesso di proteggerla e lei non ha mai smesso di pensare a
te».
Abby fece una pausa, sfogliando le pagine ingiallite su cui la sua
bisnonna aveva raccolto tutte le memorie di una vita, a partire da
quando le loro strade si erano separate. Più che un diario
sembrava una lunghissima lettera scritta nel corso di settimane, forse
mesi, nella speranza che un giorno Emrys – Louise aveva
iniziato proprio con “Caro Emrys” – lo
trovasse. Voleva fargli sapere che nonostante tutto aveva vissuto una
bella vita e lo doveva totalmente a lui.
«Lo sai che ha chiamato mia nonna Daisy perché
quando lavoravate all’ospedale tu ogni mattina le andavi a
raccogliere delle margherite e gliele posavi sul comodino?»,
gli chiese sorridendo, con gli occhi ancora sulle pagine
dall’inchiostro in molti punti sbavato, come se fosse stato
bagnato.
Merlino sorrise e subito dopo si sollevò, dandole le spalle.
Si puntellò sul materasso, ma non si alzò, come
se volesse aggiungere dell’altro ma non sapesse se fosse
giusto o meno.
«Che cosa c’è?», lo
incalzò Abby, chiudendo il diario.
«Non l’hai capito?». Merlino si
voltò di tre quarti e posò delicatamente una mano
sulla copertina in pelle. Aveva gli occhi più lucidi ed
arrossati che mai e le sue labbra tremavano, di nuovo sul punto di
scoppiare in singhiozzi. «Secondo te come ho fatto a
riconoscerlo?».
Abby aprì la bocca, quando un’idea le
attraversò la mente, facendole sgranare gli occhi.
Scioccata, ci mise qualche secondo a mettere in fila una parola dietro
l’altra per comporre una frase di senso compiuto:
«Tu sei andato a trovarla prima che morisse in
quell’ospizio».
Merlino annuì soltanto e tirò su col naso. Poi si
alzò e si diresse verso la porta, dove si
aggrappò allo stipite e le disse: «Non scherzavo,
quando ho detto che uccidevo chi scopriva il mio segreto e non era
intenzionato a mantenerlo. Vedi di tenere sotto controllo Hala e Baqi,
stanno facendo troppe domande».
Abby deglutì e non disse una parola, inorridita
dall’immagine di Merlino, il suo dolce ed impacciato Merlino,
che uccideva qualcuno a sangue freddo. Rialzò gli occhi e
lui non c’era già più, sostituito da
Mark sulla propria carrozzina, che le chiedeva se aveva voglia di fare
un giro. La ragazzina accettò, desiderosa di un
po’ d’aria fresca per tornare alla
realtà.
***
Artù era così felice che le cose che tra lui e
Cathleen fossero tornate alla normalità che non vedeva
l’ora che Merlino tornasse per raccontargli tutto. E poi
aveva bisogno di una mano per preparare il bagaglio da portare via la
mattina seguente: il paramedico gli aveva detto solo che sarebbero
stati via per il week-end, ma non aveva voluto rivelargli dove lo
avrebbero trascorso. A conti fatti al sovrano non importava molto:
tutto quello che desiderava era stare con Cathleen, conoscerla ancora
meglio e vivere un po’ la vita, come se non ci fosse alcun
destino da portare a termine, nessuna preoccupazione, nessun ricordo
triste.
Seduto nella veranda che dava sul giardino sul retro, guardava il cielo
punteggiato di stelle e pensava alla sua vecchia vita, così
diversa da quella parentesi, quella seconda chance che forse un giorno,
chissà, avrebbe apprezzato ancor di più della
prima.
Ad un tratto sentì il motore della Pininfarina in
avvicinamento e poco dopo lo scricchiolio degli pneumatici sullo
sterrato. I fari illuminarono parte del giardino, allungando le ombre
dei manichini mutilati e del rudimentale stendi abiti e poi Merlino
parcheggiò proprio di fronte alle porte chiuse del vecchio
fienile. Spense il motore e il silenzio tornò a regnare
nella campagna, reso ancora più piacevole dai grilli e dai
gufi nel bosco, usciti allo scoperto per cacciare.
Artù attese che Merlino scendesse dall’auto e lo
raggiungesse, ma non lo fece. Con la fronte corrugata e la
curiosità di un bambino, si alzò dalla sedia e
con cautela si avvicinò all’auto. Ad un paio di
metri dalla portiera iniziò a sentire dei singhiozzi e
sforzandosi di vedere in quell’oscurità, aiutato
dalla luce della luna, tutto ebbe un senso: Merlino non scendeva
dall’auto perché stava piangendo, col viso
nascosto tra le braccia posate sul volante, mentre tra le mani
stringeva una collanina con una croce che Artù aveva
già visto. Avvicinandosi ulteriormente, nonostante il groppo
alla gola, il re vide sul suo grembo la scatoletta di metallo che lui
stesso aveva tirato fuori dalla soffitta, qualche tempo prima.
Non riusciva a vedere il suo unico e migliore amico in quello stato,
così aprì bruscamente la portiera e lo
tirò fuori dall’auto prendendolo per la giacca.
«Riprenditi», bofonchiò, sorreggendolo
tra il proprio corpo e la fiancata dell’auto. «Fai
l’uomo, Merlino!».
Ma lo stregone reagì istintivamente e la magia prese il
sopravvento, permettendogli di scaraventarlo a qualche metro di
distanza. Artù, dolorante, rimase a terra per una dozzina di
secondi, guardando il cielo che ora sembrava girargli intorno come una
trottola. Quando quel movimento nauseante si placò, si
sollevò sui gomiti e vide Merlino inginocchiato a terra,
intento a raccogliere ciò che gli era caduto
nell’erba: la scatola di James, l’ultima lettera
dell’uomo a sua figlia, la fotografia in bianco e nero di
Louise e la sua ultima lettera, indirizzata proprio a lui, a Emrys.
Senza smettere di singhiozzare, anche se meno vistosamente,
infilò tutto nella scatola e se la portò al
petto. Quindi si risollevò, barcollando e tirando su col
naso, e guardò Artù per la prima volta negli
occhi, furiosamente.
«Andatelo a dire a qualcun altro, che piangere non
è da veri uomini», berciò prima di
superarlo, diretto verso la veranda.
«Merlino… Cercavo solo di aiutarti!»,
gli gridò dietro il sovrano, finalmente seduto
sull’erba umida.
«Non ho bisogno del vostro aiuto!», fece in tempo a
rispondere, prima che un violento attacco di tosse gli squassasse la
schiena e lo facesse ruzzolare sulle scale, il corpo rannicchiato in
posizione fetale e in preda a delle terribili convulsioni.
Artù lo raggiunse correndo e provò a sollevarlo,
ma Merlino si oppose con tutte le forze che gli rimanevano.
L’unica cosa che riuscì a fare fu girarlo e
rendersi conto del sangue gli usciva dalle narici e da un angolo della
bocca, macchiandogli il maglioncino, e della botta che aveva preso alla
fronte.
«Merlino, devo portarti in casa», provò
a farlo collaborare, ma lo stregone scosse il capo ed
abbozzò un sorriso, gli occhi vacui e patinati dal dolore
rivolti verso il cielo.
«Voglio stare qui, voglio guardare il cielo fino al sorgere
del sole, come facevo con Louise. La mia Louise…».
Riprese a piangere, singhiozzando piano tra le sue braccia, e
Artù sospirò con la morte nel cuore, le lacrime
che rischiavano di bagnare anche i suoi occhi.
«I suoi figli l’hanno messa in
quell’ospizio quando si è ammalata», gli
raccontò, incurante che lo ascoltasse o meno.
«L’hanno abbandonata come un cane
sull’autostrada e raramente passavano a trovarla…
Io ho trascorso con lei gli ultimi anni, quando la malattia le impediva
di alzarsi dal letto e gli antidolorifici le impedivano di ricordare
chiaramente ciò che voleva scrivere sul suo diario. Io
l’ho aiutata, perché mi informavo sul suo conto
regolarmente e sapevo molte cose.
«Ero con lei quando è morta… Le ho
stretto forte la mano, le ho chiuso gli occhi, poi sono rimasto al suo
fianco per un’ora, prima di chiamare gli infermieri.
«Al suo funerale ho visto i suoi due figli, i suoi nipoti e
anche la piccola Abby, sapete? Aveva due anni, allora. Stava tra le
braccia della sua mamma e non capiva cosa stesse succedendo. Credo che
i nostri sguardi si siano anche incrociati, per un attimo,
perché ricordo di aver pensato che fosse identica a Louise
da bambina. Era così bella ed innocente, eppure io
l’ho odiata, come ho odiato chiunque fosse lì, a
piangere lacrime false. Se l’amavano davvero avrebbero potuto
andare a trovarla più spesso, trascorrere un po’
di tempo con lei, farle conoscere i suoi nipoti e bisnipoti…
farla sentire un po’ meno sola e un po’
più felice. Non ho ragione? Non ho ragione,
Artù?».
«Sì, hai ragione», rispose piano il re
di Camelot, passandogli una mano sulla fronte imperlata di sudore. La
sua pelle scottava, nonostante il freddo stesse calando su di loro come
una coperta. Doveva assolutamente portarlo dentro, prima che si
prendesse un accidenti.
Si issò con uno sforzo delle gambe ed afferrò
Merlino avvolgendogli un braccio intorno alla schiena e
l’altro sotto alle ginocchia piegate. Lo stregone non
protestò quella volta, forse era troppo stanco per farlo, e
continuò a farfugliare frasi sconnesse fino a quando non lo
adagiò sul suo letto.
«Vado a prenderti delle pezze bagnate, torno
subito», lo avvisò, ma non fece in tempo ad
allontanarsi di un passo che il mago artigliò le dita
intorno al suo polso, stringendolo con una forza che non avrebbe mai
immaginato.
Con gli occhi gonfi ed arrossati, resi pazzi dal dolore, gli disse con
chiarezza: «Perché dovrei sacrificarmi per questo
mondo, per queste persone che pensano solo a se stesse? Voglio che
muoiano. Devono morire tutti!».
«Stai farneticando, Merlino», rispose
Artù con rabbia, liberandosi il polso con uno strattone.
Lasciò il mago nella sua stanza e andò a prendere
degli asciugamani e una bacinella d’acqua fredda. Una volta
di fronte alla porta socchiusa, riuscì a sentire Merlino
ripetere ancora e ancora quelle parole terribili, figlie del delirio e
della disperazione. Artù respirò profondamente e
poi entrò, si sedette al suo capezzale e gli pulì
il sangue dal viso, sforzandosi di non ascoltarlo. In qualche modo ci
riuscì e si sorprese quando si accorse che Merlino si era
finalmente addormentato, stremato.
Artù si addossò allo schienale della sedia e
sospirò, massaggiandosi il volto. Lo stregone aveva parlato
di sacrificarsi, ma che cosa voleva dire? In ogni caso non gli piaceva,
per niente, e forse partire con Cathleen, il giorno successivo, non era
la cosa giusta da fare. Non poteva lasciarlo solo, non in quelle
condizioni.
Si appoggiò al bordo del materasso con la testa tra le
braccia, giusto un momento per far riposare gli occhi, ma si
addormentò non appena li chiuse.
Venne tormentato dalle
parole di Merlino persino nei sogni.
***
Il suono della sveglia gli fece male come se ci fosse stato un alveare
di api assassine dentro la sua testa.
L’aria che respirava – faticosamente, ma respirava
ancora – gli fece male ai polmoni come se questi fossero in
fiamme, fiamme che crescevano e bruciavano i suoi organi interni ad
ogni boccata di ossigeno.
E infine la luce, quando si azzardò a sollevare un poco le
palpebre. La luce gli fece male come se avesse una sfilza di aghi
dietro agli occhi.
Con un enorme sforzo, Darrell allungò un braccio verso il
comodino, sentendo i muscoli irrigiditi tirare, ed afferrò
il cellulare per disattivare la sveglia. Poi lo lasciò
ricadere sul petto, sfinito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte
e allo stesso tempo tremava di freddo, perciò giunse alla
ovvia conclusione che doveva essersi ammalato e che in quelle
condizioni non poteva andare al lavoro.
Lui che aveva sempre vantato una salute di ferro, lui che non aveva mai
saltato un giorno alla scuola d’addestramento così
come alla Centrale.
Poi si ricordò della promessa che era riuscito a strappare
ad Alexandra: tra poche ore si sarebbe presentata in Centrale a
sporgere denuncia contro ignoti per l’effrazione a casa sua e
Darrell avrebbe dovuto essere lì, ad aspettarla, dopo aver
indagato ancora un po’ sul perché l’auto
di Cathleen fosse parcheggiata proprio di fronte alla villetta
dell’infermiera. No, non poteva stare a casa.
Peccato che ogni movimento equivalesse ad una pugnalata, che il suo
stomaco fosse in preda a spasmi incontrollabili a causa
dell’acidità e la sua testa fosse pesante come
piombo e svuotata da ogni pensiero.
Non ricordava nulla di ciò che era successo la notte
precedente, eppure era certo di non aver toccato nemmeno un goccio
d’alcool. La droga non era neppure da prendere in
considerazione. Allora che cosa gli era successo?
Riuscì ad arrivare fino al bagno, dove si
accasciò sul lavandino, con la faccia sotto il getto
d’acqua ghiacciata del rubinetto. Poi si sollevò e
si guardò allo specchio, trovandosi così malmesso
che lui stesso si sarebbe buttato via: la pelle di uno strano colorito
smorto, degli evidenti rigonfiamenti sotto gli occhi arrossati, i
capelli arruffati.
Non si diede nemmeno la pena di asciugarsi il viso prima di spogliarsi
e di gettarsi sotto la doccia per cercare di levarsi di dosso
quell’intorpidimento mentale e fisico. Non fu un completo
successo, ma almeno riuscì a pensare più
chiaramente e soprattutto a ricordare, come se l’acqua fosse
riuscita a lavare via uno strato di sabbie mobili che lo affaticava e
gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Era ancora nudo, con solo un asciugamano in vita, quando le immagini
della sera precedente invasero il suo cervello - una serie di
diapositive messe l’una dietro l’altra, tanto
veloci da aggravare il suo mal di testa.
Freya in ospedale che gli diceva che voleva andarsene e che una volta a
casa non gli rivolgeva più la parola; lui che avrebbe voluto
dirle che l’amava ed andava a letto con la paura di non
trovarla più il mattino seguente; Freya che nel cuore della
notte entrava in camera sua e gli chiedeva il permesso di stendersi un
po’ con lui, che gli diceva quelle cose assurde e poi...
Le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi al lavandino per non
cadere a terra, con gli occhi sgranati e la testa che gli doleva
così tanto che gli sembrava di avere alle spalle qualcuno
intento ad aprirgli il cranio con un rompighiaccio. Alla fine fu
schiacciato dai suoi stessi ricordi e si rifiutò di
combattere: si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla
tazza del water e vomitò tutto ciò che ancora
aveva nello stomaco dalla sera prima.
Il suo ultimo ricordo, quello che lo stava riducendo in quel modo, era
così assurdo che doveva per forza essere parte di un sogno;
non c’erano altre spiegazioni. Eppure perché lo
faceva tremare come un bambino, perché avrebbe voluto
gridare e disperarsi? Era solo un sogno.
Deve esserlo, per l’amor di Dio.
I conati finalmente cessarono, lasciandolo svuotato e privo di forze,
ancora aggrappato alla tavoletta. Darrell si passò il dorso
di una mano sulla bocca e chiuse gli occhi, respirando profondamente
per calmarsi, ma non fece altro che vedere ancora una volta le iridi
dorate di Freya lampeggiare nel buio, inghiottirlo e cancellargli ogni
volontà.
Darrell sollevò di scatto le palpebre, sentendo il cuore
scoppiargli nella cassa toracica, e si disse che doveva esserci una
spiegazione logica a tutto ciò. Forse era ancora influenzato
da ciò che aveva letto a proposito dello strano simbolo
tatuato sul braccio di Freya, o forse doveva prendere in considerazione
la droga.
Facendo leva sulle braccia, si alzò e tirò lo
sciacquone. Poi si lavò i denti e tornò in camera
per vestirsi. Seduto sul bordo del letto, trovò il bicchiere
che la sera precedente si era portato sul comodino. Lo prese e lo
guardò controluce, cercando di scorgere qualche residuo,
mentre con la mente ripercorreva quegli istanti. Era solo, quando aveva
tirato fuori il bicchiere pulito dalla credenza e vi aveva versato
l’acqua, poi lo aveva sempre tenuto in mano durante la
conversazione a senso unico con Freya. Lei non si era nemmeno
avvicinata, quindi la droga era da escludersi al novantanove percento.
È stato tutto
un sogno, si ripeté, cercando di
convincersene.
Freya
non è mai entrata in camera mia, non si
è mai sdraiata al mio fianco, non mi ha mai detto quelle
cose e, soprattutto, non ha mai avuto gli occhi dorati.
Soddisfatto del proprio discorsetto, c’era comunque da capire
perché si sentisse così stanco e malaticcio. Si
rifiutò semplicemente di rimuginarci ancora sopra
– non era mica Superman – e finì di
vestirsi.
Era già in ritardo, perciò abbandonò
l’idea di fare colazione. Con lo stomaco ancora sottosopra,
poi, non sarebbe stata la cosa più intelligente da fare.
Prima di uscire però non riuscì a resistere: che
gli piacesse o no, sogno o realtà, doveva scoprire cosa
aveva deciso di fare Freya.
Si avvicinò alla stanza degli ospiti e posò
l’orecchio contro la porta, poi bussò piano una,
due, tre volte, fino a quando non si decise a sbirciare
all’interno. Il letto era intatto e non c’era
più niente ad indicare che quella stanza era stata abitata
da qualcuno per le ultime tre settimane, a parte forse il profumo. Il
suo profumo.
Darrell strinse le labbra in una smorfia di tristezza e richiuse subito
la porta, come a non voler sprecare l’unica cosa che Freya
aveva deciso di lasciargli. Era tutto ciò che gli rimaneva
di lei, assieme al proprio cuore infranto.
***
Artù si svegliò all’improvviso, forse
per la strana posizione che aveva assunto sulla sedia, e
sentì il proprio cuore mancare un battito non vedendo
Merlino a letto. Dov’era andato, quel citrullo?
Si alzò, un po’ troppo in fretta a dire il vero,
ed iniziò a cercarlo per tutto il piano: in bagno, nella sua
camera, nella Stanza dei Ricordi. Quindi scese le scale ed
entrò in cucina, dove lo trovò intento a
preparargli una colazione coi fiocchi: uova, bacon, salsicce, pane
tostato, frutta e caffè.
Stava proprio rompendo l’ennesimo guscio per far scivolare
l’uovo nella padella con uno sfrigolio, quando si accorse
della sua presenza e lo salutò con un sorriso fin troppo
ampio: «Buongiorno, maestà! Sedetevi, forza, non
vorrete mica che si freddi!?».
«Merlino», balbettò, scioccato.
«Merlino, come ti senti?».
Lo stregone continuò a sorridere, ma per una frazione di
secondo ad Artù parve di vedere un tremito sulle sue labbra,
come se sotto sforzo.
«Che domande sciocche! Benissimo, come dovrei sentirmi?
È una splendida giornata e so che voi e Cathleen vi
divertirete un mondo questo week-end, perciò non potrei
sentirmi meglio!».
Il re sentì la rabbia salirgli piano, dai pugni delle mani
al cervello, fino a quando non riuscì più a
contenerla ed avanzò verso di lui a grandi passi,
prendendogli la padella di mano e guardandolo con aria truce.
«Smettila di fingere, di pretendere che non sia successo
niente. Non mi interessa quello che hai detto, so che deliravi e che
non pensi davvero quelle cose, perciò...».
«
In vino
veritas», mormorò lo stregone,
a capo chino.
«Che cosa?».
«È un proverbio latino. Vuol dire che il vino e
l’ubriachezza permettono agli uomini di rivelare i loro
pensieri più nascosti, quelli che non rivelerebbero mai da
sobri». Finalmente Merlino alzò il capo,
permettendogli di vedere i suoi occhi lucidi di lacrime. «E
se le pensassi davvero, le cose che ho detto? Se davvero, nel profondo,
desiderassi vendicarmi sul mondo per la morte di Louise?».
«Non è così», rispose
Artù, quasi dolcemente. Si avvicinò e gli
posò le mani sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi.
«Ti conosco, Merlino».
Il mago ricambiò il suo sguardo con intensità,
poi sospirò e sorrise veramente, come solo lui era capace.
Il sovrano lo imitò inconsapevolmente e gli tirò
un colpetto sulla nuca, poi si sedette a tavola. Ma la fame gli
passò presto, quando ricordò le parole che
più di tutte gli avevano fatto uscire il fumo dalle
orecchie, tanto si era sforzato di darvi un senso diverso da quello che
aveva intuito.
«Hai detto che ti saresti dovuto sacrificare. Che
intendevi?».
Merlino si strinse nelle spalle, cercando di scrostare l’uovo
che si era appiccicato alla padella.
«Dimmelo, Merlino».
«Già lo sospettavo, in
realtà», esordì a bassa voce,
continuando a dargli la schiena. «Freya mi ha confermato che
l’unica possibilità per questo mondo è
che io distribuisca tutta la magia che si è immagazzinata
nel mio corpo. Così facendo, però, io... Non
rimarrà nulla di me, solo polvere».
Artù era talmente incredulo e nauseato da
quell’idea che allontanò il proprio piatto.
«Ci dev’essere un altro modo»,
esclamò poi.
«A quanto pare no».
«E io a che servirei a questo proposito, eh? Freya ha detto
che io ero l’asso nella manica, ciò che ti avrebbe
convinto a fare questa pazzia. Lei e i custodi si aspettano per caso
che ti dica che è la cosa giusta da fare?! Sono
matti».
«È ancora più semplice, in
realtà».
Merlino si voltò: stava sorridendo come se di fronte a
sé avesse il cucciolo più dolce e carino del
mondo e sapesse che gliel’avrebbero portato via presto.
Artù si sentì talmente a disagio e in imbarazzo
che avrebbe voluto tirargli un pugno sul naso.
«Beh, che significa?», urlò ad un
tratto, innervosito dal suo silenzio.
Il mago però non ebbe il tempo di spiegarsi, interrotto dal
trillo del campanello. Presi com’erano dalla loro
conversazione, non si erano nemmeno accorti dell’arrivo di
Cathleen.
Non aspettò che qualcuno le desse il permesso di entrare:
dato che la porta era aperta, si introdusse e si annunciò da
sola.
«Mmm, che buon profumino!», esordì una
volta in cucina, e i suoi occhi brillarono alla vista di tutto
ciò che Merlino aveva cucinato. «Posso
favorire?».
Il mago rise e le indicò il tavolo. «Almeno tu
potresti darmi delle soddisfazioni».
Il paramedico si accomodò ed iniziò a
banchettare, sotto gli occhi esterrefatti e divertiti rispettivamente
di Artù e Merlino. Quando Cathleen si accorse dello sguardo
del biondo, alzò entrambe le sopracciglia e dopo aver
mandato giù il boccone gli chiese: «Che
c’è che non va? Perché tu non
mangi?».
«Si è svegliato di cattivo umore», lo
anticipò Merlino, lanciandogli un’occhiata
ammonitrice: probabilmente non voleva che si sapesse di quello che era
successo la sera prima.
«È per la gita? Perché se non ti va, o
non vuoi, possiamo fare un’altra volta, oppure
mai...», tentò disperatamente di salvare la
situazione il paramedico, arrossendo sotto il trucco pesante
– forse anche più pesante di quanto erano abituati
– che quel giorno nascondeva la bellezza e la delicatezza del
suo viso.
«Non c’entra niente la gita», la
rassicurò Artù, posando una mano sulla sua.
«È solo che…».
«È un po’ nervoso perché di
solito era lui che organizzava le spedizioni e ne manteneva il riserbo,
celando tutto o quasi persino ai propri cavalieri»,
spiegò Merlino, impedendogli di aprire bocca ancora una
volta. «Pensa che una volta mi ha detto che se mi avesse
rivelato dov’eravamo diretti, poi avrebbe dovuto uccidermi,
“immediatamente e senza esitazioni”».
Cathleen rise e ricambiò la stretta. «Non ti
preoccupare Artù, andrà tutto bene. Almeno, lo
spero…».
Il sovrano corrugò la fronte alle sue ultime parole e
scambiò uno sguardo con lo stregone, ma non
riuscì a dar voce ai propri pensieri.
Cathleen si alzò in piedi quasi di scatto e dopo essersi
leccata le dita sorrise a trentadue denti, esclamando:
«Allora, se tu sei pronto possiamo andare».
«Sì, devo solo…».
Merlino sorrise a sua volta e lo interruppe dicendo: «Vi ho
già preparato lo zaino, è di fianco al
letto».
Artù aprì la bocca, scioccato, e si costrinse a
richiuderla, sospirando dentro di sé. Sapeva che sarebbe
stato in pensiero per lui tutto il week-end, ma non voleva nemmeno
rinunciare a Cathleen. Si costrinse a rilassarsi e si diresse verso le
scale, pregando perché le sorprese future fossero tutte
positive.
***
Alex fece una capatina al quarto piano prima di andare via.
Riempì il suo vecchio armadietto e poi fece un giro di ronda
per i corridoi che da lunedì sarebbero tornati ad essere di
nuovo quelli che avrebbe percorso ogni giorno.
Le piaceva entrare nelle camere dei bambini, rimboccare loro le coperte
e guardare le loro espressioni serene mentre dormivano nella quiete del
primo mattino. Eccetto quando avevano degli incubi o il dolore
prevaleva su tutto, quello era il momento in cui le sembravano normali,
sani e felici. Riusciva persino ad immaginarseli nelle loro camerette
colorate, circondati dai loro giochi e dai libri di scuola, e questo la
faceva stare bene.
Entrò nella camera di Mark e Danilo e sorrise, trovandoli
entrambi sdraiati scomposti tra le lenzuola. Gli unici rumori che si
sentivano erano il cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra e il
lieve russare di Danilo.
Si avvicinò al letto di quest’ultimo e gli
portò delicatamente il braccio sul petto, fino ad allora
penzolante oltre il bordo del materasso, poi gli sistemò le
coperte, incastrandole contro le basse sponde. Poi passò a
Mark, su cui si chinò per accarezzargli il cranio rasato e
sfiorargli la fronte con le labbra.
Il ragazzino si girò verso di lei e ancora addormentato
mugugnò: «Ancora cinque minuti, mamma».
Alex si morse il labbro per trattenere una risata: avrebbe potuto
prenderlo in giro per quell’attimo di debolezza –
lui che si dipingeva come il duro dell’ospedale –
ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Avrebbe conservato
gelosamente quel ricordo, con affetto, dato che le
possibilità che potesse mai sentirsi chiamare
“mamma” al momento le sembravano pari a zero.
Quando Steve li aveva lasciati aveva promesso a se stessa che non
avrebbe mai dato alla luce un essere innocente. Inoltre, se le
previsioni di Freya erano esatte, non aveva senso mettere al mondo un
bambino sapendo che la sua vita sarebbe stata ancora più a
rischio del normale. Però le sarebbe piaciuto avere un
bambino, le sarebbe piaciuto molto. Quando immaginava la sua vita
ideale, c’era almeno un marmocchio tra le sue braccia. Ma
Merlino che cosa avrebbe pensato? Soprattutto, sarebbe stato mai in
grado di...?
L’infermiera sospirò e si sollevò
lentamente, per non svegliare Mark, ed uscì dalla stanza in
silenzio, più triste di come era entrata.
Tornò al Pronto Soccorso e ad aspettarla trovò
tutti i colleghi, sia del turno di notte sia quelli del mattino, che la
riempirono di abbracci e di pacche sulle spalle.
«È stato bello lavorare con te, per quel che
è durato», le disse un’infermiera.
«Se hai bisogno di un po’ d’azione, sai
dove trovarci!», disse un’altra.
Avrebbe voluto rispondere che erano proprio degli ingenui a credere che
in oncologia non ci fosse azione, ma sorpresa com’era da
tutto l’affetto dimostratole, si limitò a
sorridere e ad annuire ad ogni cosa.
In un angolo scorse Keith, il quale si limitò a rivolgerle
un debole sorriso e un cenno del capo, come se le avesse appena letto
nel pensiero.
Quando finalmente riuscì ad andare a casa, già in
auto iniziò a sentire un vago senso di oppressione e
malinconia pesarle sul petto, tanto da farle salire le lacrime agli
occhi. Non ci volle molto prima che le lasciasse scivolare sul viso:
avendo deciso di non volere figli non aveva mai realizzato che, se
avesse cambiato idea, non avrebbe potuto averli comunque. In effetti,
con Merlino non avrebbe mai avuto una vita normale. Si stava tirando
indietro, dopo tutto quello che aveva fatto e sopportato? Lei
l’aveva scelta, l’aveva voluta con ogni fibra del
suo corpo, eppure all’improvviso...
Stringendosi il cuscino sotto al viso irritato dalle lacrime, si disse
che doveva smetterla di pensare a stronzate del genere: lei amava
Merlino, voleva spendere ogni istante della sua vita con lui, nel bene
e nel male, ed era certa che la normalità
l’avrebbe stufata, presto o tardi. E poi ormai
c’era dentro fino al collo e non c’era modo che
potesse uscirne: bracciale o meno, i poteri assopiti in lei si erano
riaccesi e sentiva il richiamo della magia, un richiamo così
forte da non poter essere ignorato.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di
tranquillizzarsi. Poi prese il cellulare e mandò un SMS a
Merlino: avrebbe dormito fino all’ora di pranzo e sarebbe
andata da Darrell per quella stupida denuncia, poi l’avrebbe
raggiunto. Non aspettò la sua risposta: spense direttamente
il telefono e nascose il viso sotto al cuscino, addormentandosi senza
nemmeno accorgersene.
***
«Allora, non mi vuoi proprio dire dove siamo
diretti?». Artù dovette urlare per farsi sentire
sopra il rombo del motore e i caschi integrali che entrambi indossavano.
Nonostante vedesse solo la sua schiena e una massa di capelli rossi che
gli sfioravano il viso, il sovrano immaginò il sorrisetto
malizioso che incurvava le labbra di Cathleen mentre gli rispondeva,
urlando a sua volta: «Ti ho detto che è una
sorpresa!».
Artù si arrese e si godette il viaggio, lasciandosi cullare
dalla guida sciolta e sicura del paramedico ed ammirando il paesaggio:
verdi colline, campi coltivati e piccoli villaggi che si susseguivano
l’uno a pochi chilometri di distanza dall’altro.
Il mondo era così cambiato, rispetto ai suoi tempi... A
tratti peggiorato, ma sapeva che era comunque degno di essere salvato.
Non a discapito della vita di Merlino però, questo mai.
Decisero di fare una breve pausa sulla riva di un fiumiciattolo stretto
e dall’acqua così limpida da riuscire a vederne il
letto sassoso, per sgranchirsi le gambe e dissetarsi. Oltre ad una
bottiglietta d’acqua, Merlino gli aveva messo nello zaino
anche un paio di tramezzini e dei cracker, coi quali fecero una specie
di picnic seduti sull’erba, poco lontano da dove avevano
lasciato la moto.
Immersi nel verde, circondati dai suoni della natura, gli sembrava di
essere tornato a Camelot, alla sua prima uscita ufficiale con Ginevra.
Era stato tutto così bello, così normale e
semplice, fino a quando suo padre e Morgana non erano comparsi proprio
di fronte a loro, sorprendendoli nel bel mezzo di un bacio ed accusando
ingiustamente Ginevra di stregoneria. Ripensando a quello spiacevole
episodio, che li aveva costretti ad amarsi da lontano e ad aspettarsi
in silenzio, Artù si ritrovò a sorridere
realizzando che era stato allora che aveva fatto la conoscenza di
Dragoon, lo stregone che altri non era che Merlino. Anche quella volta
l’aveva aiutato, salvando Gwen da una morte certa, e lui non
se n’era mai reso conto, anche se, in effetti, aveva scorto
qualcosa di familiare negli occhi di quel vecchio.
La voce di Cathleen lo fece ritornare all’improvviso alla
realtà. «Che cos’hai detto?»,
le chiese sbattendo le palpebre.
«Avevi un’espressione strana, divertita e allo
stesso tempo malinconica, e mi chiedevo a che cosa stessi
pensando».
Artù si strinse il collo tra le spalle, tornando a fissare
la corrente a nemmeno un metro da lui. «Io e Ginevra a volte
facevamo dei picnic simili a questo, fuori dalle mura di Camelot. Mi
sono ricordato che una volta mio padre ci ha sorpresi e abbiamo
trascorso un bel po’ di guai perché... beh, lei
era una serva ed io un principe: non potevamo stare insieme».
Le labbra di Cathleen si strinsero in una smorfia di disgusto, ma si
sforzò di risultare indifferente chiedendogli: «E
poi com’è andata a finire?».
«C’è voluto del tempo e tanti, tanti
sacrifici... però alla fine siamo riusciti a farla
funzionare: Ginevra è diventata regina e gli anni che
abbiamo trascorso insieme – non abbastanza – sono
stati i migliori della mia vita».
Si voltò a guardare il paramedico, incuriosito dal suo
silenzio, e la tristezza che vide adombrare i suoi occhi nocciola fece
male come una fitta al cuore. Dandosi dello stupido, sospirò
e disse: «Mi dispiace, non dovrei parlare di lei con
te».
Ma Cathleen lo sorprese come solo lei sapeva fare, scoppiando in una
risata argentina, una delle più belle che avesse mai
sentito, e si gettò all’indietro, atterrando di
schiena sul tappeto di erba e muschio. I suoi capelli formavano
un’aureola color cremisi intorno alla sua testa e
Artù ebbe la forte tentazione di accarezzarli, ma
all’ultimo momento ritrasse la mano, come per timore di
bruciarsi.
«Puoi parlarmi di Ginevra quanto vuoi, Artù,
credimi. È solo che la vostra storia sembra così
simile alla nostra...».
Il sovrano ci mise qualche secondo a capire che si stava riferendo a
lei e Zachary e, ad essere del tutto onesto con se stesso,
provò un po’ di delusione e di insensata gelosia.
Come poteva essere invidioso di un ragazzo che non aveva mai conosciuto?
Scrollandosi di dosso quei pensieri malsani, Artù stava per
chiederle in che modo le loro storie potessero essere simili, quando
Cathleen si tirò a sedere di scatto e con una maschera di
determinazione sul viso esclamò: «Abbiamo
cazzeggiato fin troppo, andiamo».
Artù la osservò spolverarsi il retro dei
pantaloni mentre si dirigeva verso la moto e il suo sguardo
indugiò un attimo di troppo sul suo sedere, ma lo distolse
non appena se ne rese conto. Quindi si alzò e la raggiunse
appena in tempo: Cathleen diede gas che lui non si era ancora
allacciato il casco. Sembrava che all’improvviso avesse
fretta di arrivare – ovunque stessero andando – e
che allo stesso tempo fosse nervosa a riguardo, visto quanto stringeva
le mani intorno al manubrio.
Non si azzardò a chiederle cosa le fosse preso, sapeva che
non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, perciò
rimase in silenzio e le strinse più forte le braccia intorno
alla vita, sperando che il suo contatto riuscisse a calmarla.
***
Abigail stava ancora dormendo, quando sua nonna era entrata nella sua
camera e aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con gentilezza. La
ragazzina si era svegliata, ma aveva continuato a fingersi
addormentata, cercando di cacciare in fondo al cuore il rancore che
aveva iniziato a provare nei suoi confronti quando Merlino se
n’era andato: anche in compagnia di Mark, aveva continuato a
pensare a quanto fosse stato ingiusto abbandonare Louise, dimenticarsi
della sua esistenza ed ignorare la sua malattia.
Quella era stata una notte insonne e Abby prima di riuscire finalmente
ad abbandonarsi al sonno, qualche ora prima dell’alba, aveva
anche pensato al suo primo incontro con Merlino. Il mago
l’aveva riconosciuta, quando i loro sguardi si erano
incrociati per la prima volta? Di sicuro non poteva essersi dimenticato
di sua nonna, perciò l’ipotesi più
probabile a cui era giunta era che sì, aveva fatto due
più due e ciò nonostante aveva mantenuto il
segreto, fingendo di non averla mai vista in vita sua. Era stato tanto
convincente da ingannare persino se stesso, almeno fino a quando non
era stato riportato tutto quanto a galla, lasciandolo ad annaspare.
Abigail sospirò e si voltò lentamente verso sua
nonna, accennando un sorriso.
«Buongiorno tesoro».
«Buongiorno», mugugnò, strofinandosi gli
occhi gonfi di sonno.
Sua nonna si sedette al suo fianco e le accarezzò il viso
con una mano, mostrandosi un po' preoccupata. «Hai dormito
male? Hai un faccino così sciupato...».
«Sono andata a letto tardi e credo di essermi agitata un
po’».
«Brutto sogno?».
Abby sollevò di scatto gli occhi in quelli di sua nonna ed
esitò, indecisa se mettere in atto l’idea che le
era venuta in mente oppure no. Alla fine la curiosità fu
troppo grande e, suo malgrado, usò la scusa dei suoi
genitori per la seconda volta in pochi giorni: «Ho sognato
mamma e papà».
La signora Chapman chinò il capo, il mento a sfiorarle lo
sterno, e le strinse forte una mano tra le sue. Abby però
non le diede il tempo di parlare e aggiunse: «Tranquilla, era
un bel sogno – forse un ricordo – nulla a che
vedere con il loro incidente».
Sua nonna scosse il capo, mordendosi le labbra. «Sono sempre
stati due avventurieri, i tuoi genitori».
«Immagino di sì. Non mi ricordo molto di quel
giorno, solo che ero rimasta nello chalet a valle con la madre di
un’amichetta che mi ero fatta e che ad un certo punto
c’è stato un gran trambusto intorno a me. Poi
ricordo di aver dormito con quella bambina e, nel cuore della notte, di
aver sentito gli elicotteri passare continuamente sopra le nostre
teste, diretti verso la montagna. Al mio risveglio, c’eri
tu».
«Ricordi più di quanto immaginassi»,
esclamò sua nonna, abbozzando un sorriso. «Avevi
solo sei anni, allora…».
«Perché tu?», le chiese Abby a
bruciapelo, sollevandosi un po’ sui gomiti. «Prima
dell’incidente non mi ricordo di averti mai vista. Nemmeno
nelle fotografie dei miei compleanni, a Natale, o a Pasqua…
tu non c’eri mai».
Il sorriso di Daisy si spense lentamente e Abby non riuscì a
decifrare la sua espressione, dato che si alzò e si diresse
alla finestra, davanti alla quale si fermò per guardare
fuori.
«Sapevo che prima o poi mi avresti fatto questa
domanda», disse alla fine. «Io e tua
madre… non siamo mai andate troppo d’accordo,
è la verità. Avevamo quello che si potrebbe
chiamare tranquillamente un rapporto conflittuale. Mi accusava spesso
di trattarla come una bambina, di disapprovare ogni sua
scelta… Lei era la mia unica figlia e volevo solo che fosse
felice, ma mi sono resa conto troppo tardi di non averla aiutata in
questo senso.
«La situazione è degenerata quando è
morta la tua bisnonna. Solo allora Valerie ha scoperto che
l’avevamo portata in una struttura specializzata e mi ha
urlato contro che le sarebbe piaciuto andarla a trovare, farle
conoscere te, ma non ha potuto a causa del mio cuore di pietra. Sai, ho
sempre lasciato che fosse mio fratello ad occuparsi di lei e non sono
mai andata a trovarla all’ospizio, nemmeno una volta. Non ci
sono riuscita. Nonostante nei miei libri le protagoniste siano sempre
donne forti, donne come tua madre o la tua bisnonna, io sono sempre
stata una codarda: vedere mia madre soffrire, morire…
avrebbe fatto troppo male. Ho preferito lasciarla sola, piuttosto che
stare al suo fianco a stringerle la mano».
Sua nonna tirò su col naso e si passò una mano
sulla guancia, lì dove una lacrima aveva tracciato un solco.
Abby si alzò lentamente per raggiungerla e porgerle un
fazzoletto, stringendole delicatamente una spalla con l’altra
mano. Daisy sobbalzò e sforzandosi di sorridere la
rimproverò e la riportò subito a letto, dove
tornò a sedersi al suo fianco, senza però
incrociare mai i suoi occhi.
«Quando ho sentito della valanga, sapevo che
c’erano pochissime possibilità che Valerie e Tom
fossero sopravvissuti», riprese pacatamente, asciugandosi
ancora gli angoli degli occhi. «Avevo deluso già
mia madre e mia figlia, non potevo deludere anche la mia nipotina. Ne
ero terrorizzata, certo, ma non appena ti ho vista, da sola in quella
camera d’albergo, ho capito che chiedere il tuo affidamento
era la cosa giusta da fare».
Le passò teneramente una mano sui capelli e poi le prese il
volto tra le mani, facendo finalmente incontrare i loro sguardi.
«Sono grata che Valerie non abbia preso nulla da me e che ti
abbia dato alla luce. So di non essere stata perfetta, ma
credimi… se dovessi perdere anche te, la mia vita non
avrebbe più senso».
Abby posò le mani sulle sue e sorrise. «Grazie per
aver trovato il coraggio di prendermi con te, nonna. Ti prometto che
farò del mio meglio per vincere anche questa
battaglia».
«È tutto ciò che chiedo,
tesoro».
Si abbracciarono e Abigail sentì il rancore sciogliersi
lentamente, lasciando il suo cuore di nuovo libero e leggero. Sorrise,
affondando il viso nell’incavo della spalla della nonna ed
inspirando il suo profumo, e la strinse ancora più forte
ricordando quando, a sei anni, le sue braccia erano state
l’unico posto in cui aveva voluto stare dopo aver scoperto
che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori.
***
Darrell premette il pulsante di linea sulla base del telefono per
terminare la chiamata e, sempre tenendo la cornetta incastrata tra la
spalla e l’orecchio, si massaggiò gli occhi
stanchi con due dita. Poi raccolse tutte le proprie forze con un
respiro profondo e compose l’ultimo numero della sua lista di
nominativi e numeri spuntati.
«Pronto?», rispose una donna anziana, dalla voce
arrochita ma allegra.
«Buongiorno, parlo con la signora Levinson?».
«Sì, sono io».
«Salve, sono l’agente Darrell Fisher. Mi sono
occupato dell’effrazione a casa della sua vicina, la
signorina Greenwood. Si ricorda?».
«Ma sì, certo! Fortunatamente la mia memoria
è rimasta quella di trent’anni fa. Come posso
aiutarla, agente?».
«Volevo sapere se nei giorni successivi
all’effrazione ha notato qualcosa di strano, qualcosa di
inusuale… qualsiasi cosa».
«Mmm, no, non mi pare proprio, sa?».
«E per quanto riguarda la signorina Greenwood? L’ha
vista, come le è sembrata?».
La donna ridacchiò prima di rispondergli.
«Giovanotto, crede che me ne stia tutto il giorno davanti
alla finestra?».
Beh, a dire la
verità sì, avrebbe voluto
ammettere, ma evitò.
«Comunque col lavoro che fa, povera stella, la vedo molto
poco. Però non mi è sembrata spaventata, se
è quello che vuole sapere».
«E – l’ultima domanda, glielo prometto
– sa se per caso qualcuno le ha fatto visita, dopo
l’effrazione?».
«No, non credo. In effetti, non rimane mai molto a casa da
sola».
«Potrei passare a mostrarle un paio di fotografie? Sempre se
non reco disturbo, ovviamente».
«Passi pure quando vuole agente, non dico mai di no ad un
po’ di compagnia».
«Perfetto. Grazie per la disponibilità, signora
Levinson».
Finalmente abbandonò la cornetta sulla base del telefono e
si massaggiò l’orecchio, sospirando. Aveva
chiamato tutti i vicini di Alexandra, tutti coloro che potevano aver
visto o sentito qualcosa la notte dell’effrazione e nei
giorni successivi. Non aveva ottenuto molto, eccetto due appuntamenti
fuori orario di lavoro. Entusiasmante.
Si sentiva ancora instabile – prima accaldato, subito dopo
infreddolito – e la testa gli girava terribilmente, per non
parlare dello stomaco, così stretto e disturbato da
impedirgli di mettere qualsiasi cosa sotto i denti, con
l’unico risultato di renderlo ancora più debole.
Darrell si alzò e andò alla boccia
d’acqua per prendersene un bicchiere. Aveva assolutamente
bisogno di un’aspirina.
Ritornò alla scrivania e aprì il primo cassetto,
ma la sua attenzione fu catturata dallo strano oggetto che aveva
trovato nel bosco la notte dell’effrazione a casa di
Alexandra. Darrell l’afferrò e se lo
rigirò ancora una volta tra le mani, osservandolo pieno di
curiosità e con un pizzico di timore attraverso il sacchetto
di plastica.
Non riusciva a capire che cosa potesse essere, figuriamoci se poteva
immaginare quale fosse il suo utilizzo. Forse era solo un ninnolo, un
soprammobile cattura-polvere, ma l’istinto gli diceva il
contrario. Si chinò un po’ di più
sull’oggetto e strinse gli occhi nel tentativo di decifrare
gli incomprensibili segni incisi sull’anello metallico al cui
centro era stato fissato quel cristallo bianco, simile ad un quarzo. I
simboli si alternavano a delle parole, appartenenti ad una lingua
antica e sconosciuta, ed abbandonò ogni tipo di ragionamento
dopo il primo tentativo, sentendo il mal di testa trapanargli il
cervello.
Sospirando, trovò il flaconcino di aspirine e
versò una pastiglia effervescente nel bicchiere
d’acqua. Nell’attesa, con la coda
dell’occhio continuò ad osservare quella
potenziale prova, incapace di tenere a freno il desiderio di risolvere
quel mistero.
Spazientito dai suoi stessi ripensamenti, afferrò di nuovo
la busta, ne aprì la chiusura ermetica e con estrema cautela
estrasse quella potenziale prova. Il metallo risultò
freddissimo alla sua presa, come se fosse stato nel freezer. Con le
dita sfiorò i simboli, prima uno alla volta, grattandoli con
l’unghia dell’indice, poi provò a
percorrerli in senso orario ed antiorario, avendo come la sensazione
che si riscaldassero. Quando terminò un giro completo essi
si illuminarono, prendendo lo stesso colore del metallo messo sul fuoco
per essere modellato dal fabbro, mentre all’interno del
cristallo iniziò ad intravedersi una materia scura, liquida
e vischiosa. Darrell era per ovvi motivi trasalito, alzandosi in piedi
ed allontanandosi dalla scrivania con così tanta foga da far
cadere il bicchiere con l’aspirina, ma non appena aveva
mollato la presa l’aggeggio si era come spento, ritornando
alla normalità.
Era ancora sotto shock, con gli occhi sbarrati per il terrore, quando
sentì la porta aprirsi e poi dei passi leggeri avvicinarsi
all’ingresso del suo ufficio. Non ebbe nemmeno il tempo
materiale per ricomporsi prima che Alexandra comparisse sulla soglia,
con le nocche che picchiettavano contro lo stipite
nell’incerto tentativo di annunciarsi.
«Cavolo, sembra tu abbia appena visto un fantasma»,
esclamò l’infermiera, senza azzardarsi a fare un
passo all’interno dell’ufficio.
L’agente si passò una mano sulla fronte e poi la
fece scivolare sugli occhi, concentrandosi sul proprio respiro per
tranquillizzarsi. Lentamente la razionalità tornò
a prendere il sopravvento, facendogli catalogare tutto quanto come
un’allucinazione da stress. Gli studiosi della psiche
avrebbero avuto qualcosa da ridire, ma che si trattasse di magia,
tecnologia aliena o chissà cos’altro, a lui poco
importava; era stato solo un brutto scherzo della sua mente, sintomo
che la stanchezza e gli avvenimenti dell’ultima settimana lo
avevano davvero provato.
«Buon pomeriggio, Alexandra», la salutò
sospirando. «Perdona il disordine».
«Che cos’è successo?», gli
chiese e finalmente avanzò, facendo scivolare lo sguardo sul
cerchio metallico con il quarzo.
Darrell si chinò per prendere un paio di guanti in lattice
dal secondo cassetto della scrivania e dopo averli infilati
afferrò l’aggeggio con il pollice e
l’indice, il minimo necessario, e lo ripose nuovamente nella
busta di plastica. Una volta lontano dai suoi occhi si poté
concentrare di nuovo sull’infermiera.
«Niente, sono solo stato sbadato. In effetti, non mi sento
tanto bene», rispose, lasciando che Alex gli offrisse un
fazzoletto per asciugare il disastro che aveva combinato sulla
scrivania. Per terra, vicino al piedino più esterno, si era
anche formata una piccola pozza d’acqua effervescente.
«Io sono di riposo», disse l’infermiera,
sollevando le mani per tirarsene fuori.
«Non ti ho chiesto di visitarmi, non mi pare».
Alexandra sbuffò facendo anche una piccola pernacchia con le
labbra e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte alla
scrivania di Darrell, la stessa su cui si era seduta quando
Artù era stato portato in Centrale da Myra.
«Facciamo questa cosa in fretta, ho altri impegni».
Darrell sollevò il sopracciglio ed approfittò
della situazione per scambiare due chiacchiere, nella speranza che
venisse smentito a proposito dei suoi sospetti. Voleva aver torto,
sarebbe stato più semplice per tutti.
«Sai, ho conosciuto persone che non sono riuscite a chiudere
occhio per settimane, dopo un’esperienza come la
tua», esordì, continuando a passare il fazzoletto
sull’acqua rovesciata. «Ti rendi conto vero che
qualcuno è entrato in casa tua? Perché sembra
proprio che non te ne importi niente».
L’infermiera scrollò le spalle, annoiata.
«Non ero in casa quand’è successo e a
mio parere è inutile fasciarsi la testa prima di essersela
rotta. Comunque non credo che ricapiterà».
«Come fai a dirlo?».
«Beh, se non mi è stato portato via niente vuol
dire che nulla di ciò che possiedo vale la pena di essere
rubato, o sbaglio?».
Il suo tono di voce vagamente saccente gli fece storcere il naso, ma la
lasciò finire.
«Scommetto che il ladro ha già fatto passaparola
con tutti i suoi colleghi per dire loro di non sprecare
tempo».
Darrell si sforzò di non sbattersi una mano sul viso e fece
il giro della scrivania per buttare nel cestino il fazzoletto bagnato.
Ritornando alla sua poltrona, notò che Alexandra aveva
iniziato ad arricciarsi una ciocca di capelli tra le dita tremanti. Che
fosse sintomo di nervosismo? Forse era sulla buona strada.
«Sei sicura che non ti manchi niente?», insistette,
guardandola dritta negli occhi mentre si sedeva.
«Sì, te l’ho già
detto», rispose con le sopracciglia aggrottate e le labbra
arricciate in un ghigno aggressivo. «Perché dovrei
mentire?».
Darrell scrollò le spalle come aveva fatto lei poco prima.
«Non ne ho idea. Era giusto per mettere in chiaro il
punto».
«Bene, ora che abbiamo
chiarito
il punto,
potremmo…?».
Il poliziotto però la interruppe, picchiettandosi una penna
alle labbra e guardando il ventilatore fermo appeso al soffitto:
«Eppure è stato molto selettivo, il nostro
ladro… Ha messo a soqquadro solo la camera da letto e
nessun’altra stanza. Sapeva dove cercare, forse».
Gettò una rapida occhiata ad Alex, con la coda
dell’occhio, e la vide arrossire mentre tratteneva il fiato.
Dopo qualche secondo sbottò: «Dimmi a cosa stai
pensando e falla finita, Darrell».
«Non è che conoscevi la persona che è
entrata in casa tua e, per chissà quale motivo, la stai
proteggendo?».
Alexandra lo fissò in silenzio, tanto a lungo che
iniziò a temere di averci preso. Poi però un
angolo della sua bocca si sollevò in un sorrisino beffardo e
alla fine scoppiò a ridergli in faccia, tenendosi la pancia.
«Ma ti ascolti quando parli?», gli
domandò, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Per
quale diavolo di motivo dovrei proteggere una persona che ha ridotto la
mia camera ad uno schifo e rotto una finestra?».
Darrell, ferito nell’orgoglio, si imbronciò e si
voltò per tirare fuori da un mobile le pratiche per la
denuncia. Le sbatté sul tavolo e gliele porse, ma Alexandra
smise di ridere di colpo e strinse le mani intorno ai suoi polsi,
bloccandoglieli sulla scrivania. Si trovarono così occhi
negli occhi, tanto vicini da poter sentire ognuno il fiato
dell’altro sul viso.
«Posso sapere perché ti fai così tante
domande? Non ci sono prove e dubito le troverai, eppure continui a
rimuginarci sopra. La mia sicurezza sembra interessare più a
te che a me».
Darrell non distolse gli occhi dai suoi e con un rapido movimento di
polsi rovesciò la situazione, così da bloccare le
sue di mani al ripiano di legno. La vide digrignare i denti, come se
non ne fosse stata contenta, e senza saperne il motivo provò
un po’ di soddisfazione.
«È il mio lavoro, fare domande e rimuginare sulle
cose. C’è qualcosa che non torna, in tutta questa
faccenda, e ti prometto che ne verrò a capo, che ti piaccia
o no».
Alexandra gli rivolse l’ennesimo sogghigno, replicando:
«Forse dovresti prima preoccuparti dei problemi a casa tua,
invece di guardare in quelle degli altri».
«Ti stai riferendo a Freya?», le chiese sentendo il
sangue incendiarsi nelle sue vene, come se il suo ricordo avesse
innescato una miccia invisibile dentro di lui.
«Ieri non mi sembravi troppo convinto di aver fatto la cosa
giusta, ospitandola a casa tua».
«No, infatti. Ma è un problema risolto,
ormai».
L’espressione sorpresa sul suo viso lo stupì tanto
da lasciare la presa sui suoi polsi. Che cosa aveva detto di tanto
incredibile?
«Che intendi dire?», gli domandò, quasi
balbettando.
Senza pensarci su due volte, confessò: «Freya se
n’è andata, questa notte». Forse
perché con Alexandra era facile parlare, forse
perché era lui ad avere un disperato bisogno di sfogarsi.
«Andata? E dove? Insomma… Non aveva perso la
memoria?».
Darrell annuì e raccontò cos’era
successo all’ospedale prima della TAC, quando la ragazza gli
aveva detto che era ora che ognuno andasse per la propria strada, che
sarebbe stato un bene per entrambi. Le disse anche che era stata tutta
colpa sua, visto che si era lasciato sfuggire che aveva dubitato di
lei.
Mentre l’agente parlava le dita delle loro mani si erano
intrecciate dolcemente e quando se ne resero conto ovviamente le
separarono, guardandole esterrefatti ed imbarazzati, chiedendosi come
poteva essere successo.
Alex fu la prima a rompere il silenzio, schiarendosi la gola con un
colpetto di tosse: «Mi dispiace che lei ti abbia…
Cioè, sapevo che ci tenevi».
«Non fa niente», rispose, stringendosi il collo
nelle spalle. «Non ho mai creduto nelle favole, in
fondo».
Alex sorrise, un sorriso vero quella volta, e Darrell ne fu
così piacevolmente sorpreso da ricambiare inconsciamente.
Grazie a quel sorriso tutto il risentimento che c’era tra di
loro, nato in quei pochi minuti, scivolò via altrettanto
velocemente, senza che potessero fare niente a riguardo. Questo
però non voleva dire che Darrell avesse abbandonato la sua
missione: prima o poi avrebbe scoperto cos’era successo
veramente quella notte, lo giurò a se stesso.
***
Cathleen provò una spiacevole stretta al cuore quando si
ritrovò a percorrere il ponte in mattoni da cui iniziava
ufficialmente la proprietà della sua famiglia.
Una volta guadato il canale, due filari quasi infiniti di alberi li
affiancarono, fornendo loro frescura grazie alle loro fronde ombrose,
fino a quando non si avvicinarono ad un enorme cancello dipinto di
bianco e sormontato ai lati dalle statue di due cervi imponenti,
così fieri e maestosi da incutere un timore quasi
riverenziale. A Cathleen venne solamente voglia di sparare loro contro,
come aveva fatto quella notte, col fucile che il migliore amico di Zac
aveva rubato a suo padre. Ripensandoci un sogghigno le
incurvò le labbra, per poi scomparire quando si rese conto
che i ricordi di lei e Zachary avrebbero continuato ad affiorare,
implacabili e dolorosi. Ma faceva parte della prova, no? E se non fosse
riuscita a reggere, sapeva che poteva contare su Artù.
«Siamo arrivati?», domandò ad un tratto
l’ex-sovrano, confuso.
Cathleen sospirò ed annuì con un cenno del capo,
poi diede una leggera mandata di gas per avvicinarsi al grosso citofono
con telecamera, tirarsi via la mascherina a protezione degli occhi e
premere il pulsante di chiamata.
A rispondere, dopo una manciata di secondi, fu una voce maschile,
austera e distaccata: «Residenza Shaw».
Il paramedico non poteva vedere in viso il suo interlocutore, ma sapeva
di essere osservata tramite l’occhio elettronico posto sopra
l’interfono, perciò gli fece l'occhiolino e
sorrise maliziosamente, esclamando: «Ehi
Freddie, ti ricordi di me?».
Il maggiordomo rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen ebbe il
serio timore che si fosse dimenticato di lei, lui come tutta la sua
famiglia. Poi però si sentì un clic e un ronzio
– il cancello che si apriva di fronte a loro – e
Freddie rispose: «Bentornata a casa, signorina
Shaw».
Cathleen guardò il sentiero sterrato, anch’esso
immerso nel verde, che portava alla villa da cui più di
dieci anni prima era scappata, promettendo che non vi avrebbe
più messo piede, ed esitò stringendo forte le
dita intorno ai manici del manubrio. Fu Artù a darle la
forza necessaria di portare a termine ciò che aveva
iniziato, addossandosi ancora di più alla sua schiena per
chiederle pieno di stupore: «Tu… La tua famiglia
vive qui?».
Il paramedico gli gettò un’occhiata con la coda
dell’occhio, sforzandosi di sorridere. «Non te
l’aspettavi, vero?».
«No, anche se… tu mi sorprendi sempre, in
fondo».
Quelle parole le riscaldarono il cuore. Da suo padre si era
sentita dare dell’anticonformista, dell’anarchica,
della ribelle, solo perché voleva vivere una vita diversa
rispetto a quella che aveva pianificato per lei e lottava con le unghie
e con i denti per fare ciò che riteneva più
giusto. Non aveva fatto altro che criticarla negli anni immediatamente
precedenti alla sua fuga, dicendole che non avrebbe mai fatto nulla di
buono nella vita se avesse continuato a seguire il cuore.
Artù invece, proprio come sua madre e come Zachary, pensava
che lei fosse
sorprendente:
i suoi colpi di testa, le sue decisioni
prese d’istinto… erano una parte di lei che
amavano, e non disprezzavano.
Cathleen avvicinò il viso al suo per baciarlo, ma i loro
caschi cozzarono l’uno contro l’altro, facendoli
ridere.
«Rimandiamo a dopo», sussurrò il
paramedico, ridacchiando a causa del rossore che si
impadronì delle guance di Artù. Quindi si
voltò e diede gas per oltrepassare il cancello e le sue
guardie di pietra.
Fermò di nuovo la moto solo dopo aver disegnato un otto
intorno alle due aiuole circolari, di un raggio di una trentina di
metri ciascuna, al cui centro si ergevano fontane con
l’ennesimo richiamo ai cervi, simboli della casata nobiliare
a cui apparteneva suo padre.
Artù scese per primo, lasciando la presa sui suoi fianchi, e
Cathleen lo guardò mentre girava su se stesso come un
idiota, misurando con gli occhi tutti e ottantacinque gli ettari di
proprietà e l’immensa facciata della villa della
sua famiglia: un maniero costruito nella seconda metà
dell’ottocento, immerso nella campagna e tramandato da
generazione in generazione. Una struttura quasi interamente spigolosa,
con due sezioni laterali più sporgenti e col tetto a punta,
gli infissi candidi e i mattoni a vista negli spazi lasciati liberi
dalle numerosissime finestre e i rispettivi balconi. Sul tetto dalle
tegole violacee abbondavano i comignoli e diverse torrette, simili a
quelle dei castelli, mentre un grande terrazzo divideva già
dall’esterno il piano terra dal primo, degna imitazione di
quelli che usavano con orgoglio i regnanti per guardare
dall’alto in basso i loro sudditi.
Davanti all’ingresso, alla fine di una piccola scalinata
semicircolare, li aspettava un maggiordomo in livrea, con dei folti
capelli bianchi e la barba curata dello stesso colore, il viso serio e
gli occhi azzurro-ghiaccio imperscrutabili.
Cathleen decise di lasciare ad Artù ancora qualche minuto
per metabolizzare e con un sorriso tirato si diresse verso il
domestico, la cui espressione non cambiò di una virgola
nemmeno quando i loro sguardi si incrociarono dopo ben undici anni.
«Cavolo Freddie, mi aspettavo un po’ di
entusiasmo», esclamò ridacchiando, tirandogli un
pugnetto sul braccio. Il maggiordomo fissò per un attimo il
punto dove l’aveva colpito, poi rispose con voce atona:
«Sono molto felice di rivederla, signorina Shaw. Sono
desolato di non riuscire a dimostrarglielo».
«Non ti preoccupare. Anzi, ad essere sincera mi tranquillizza
che tu non sia cambiato affatto».
«Intendete dire che lei e signorino Shaw non dovrete pensare
a nuovi soprannomi per il sottoscritto?».
Cathleen impallidì a quella risposta, chiedendosi come
facesse a sapere dei vari soprannomi che lei e Ash gli avevano
affibbiato quando lei era un’adolescente. Giurò
inoltre di aver notato un luccichio di soddisfazione negli occhi di
Freddie, ma lo ignorò e si voltò verso
Artù, richiamando la sua attenzione: «Allora, hai
finito sì o no?».
Il sovrano la guardò con quei suoi grandi occhi blu, ancora
più spalancati per la sorpresa, e il cuore di Cathleen fece
una capriola nel petto. Poi le sorrise e il paramedico non
poté fare diversamente, stendendo una mano verso di lui
perché la raggiungesse.
«Scusami, è solo che… wow»,
ammise, facendo due gradini per volta. Guardò
l’uomo di fronte a loro e da perfetto abitante del
ventunesimo secolo si presentò, togliendo a Cathleen
l’imbarazzo di doverlo introdurre – in effetti, non
aveva idea di cos’erano l’uno per l’altra.
Freddie non afferrò la mano che gli aveva porto, ma rispose
con gentilezza: «Il piacere è tutto mio, signor
Pendragon». Poi si rivolse ad entrambi: «Posso
avere i vostri bagagli?».
«Oh, non c’è problema Freddie, li
portiamo noi», rispose la rossa, sistemandosi meglio lo zaino
sulla spalla.
«Sarò anche vecchio come una mummia –
come dite voi signorini Shaw – ma posso ancora occuparmi di
certe mansioni», ribatté piccato il maggiordomo,
ma non rimase in attesa di scuse: si voltò semplicemente e
fece loro strada all’interno del maniero.
Le diede i brividi ritrovarsi di nuovo in quello che lei aveva sempre
chiamato “l’ingresso
dell’inferno” – d’altronde ne
aveva tutto l’aspetto, col basso soffitto a volta decorato da
dipinti raffiguranti angeli e demoni duellanti; con
l’illuminazione ridotta a delle piccole lampade sorrette da
puttini sul punto di cedere sotto il loro peso; e, ciliegina sulla
torta, il pavimento di marmo nero su cui ogni passo produceva
un’eco spettrale – perciò strinse
più forte la mano di Artù. Nonostante la sua
presenza rassicurante, rischiò un infarto quando Freddie si
voltò all’improvviso verso di loro, esclamando con
la sua solita voce monocorde: «Perdonatemi, posso sapere per
quanto tempo avete intenzione di fermarvi?».
«Cristo, Freddie!», urlò Cathleen, con
una mano sul cuore. «Mi hai spaventata!».
Il maggiordomo aprì la bocca per scusarsi, impassibile come
sempre, ma venne interrotto dalla risata cristallina di
Artù, il quale avvolse un braccio intorno alle spalle del
paramedico e con l’altra mano le massaggiò il
braccio.
«Tranquilla, è tutto a posto», le
sussurrò tra i capelli, facendola arrossire. Cathleen
avrebbe preferito davvero essere all’inferno in quel momento.
Evitò il suo sguardo e si concentrò sulla domanda
di Freddie: «Sì, io penso… penso che ci
fermeremo fino a domani pomeriggio, se non siamo di troppo
disturbo».
«Questo possono dirlo solo i signori Shaw, sa che io non mi
permetterei mai», esclamò il maggiordomo, chinando
un poco il capo in segno di rispetto. «Avviserò
subito Cecilya e Margaret che vi fermerete per la notte. Quante stanze
devo farvi preparare?».
Giù di un’altra decina di metri, direttamente tra
le braccia di Lucifero.
Artù la tirò fuori dai pasticci ancora una volta,
nonostante l’imbarazzo avesse preso il sopravvento anche sul
suo viso: «Due, grazie».
Il maggiordomo annuì. «Perfetto».
Si voltò di nuovo e spalancò le pesanti porte di
legno intagliato, quelle che davano accesso al salotto di ricevimento:
un grande spazio in cui intrattenere gli ospiti, seduti sulle comode
poltrone imbottite di fronte al monumentale camino e circondati da
tappeti pregiati, dipinti ad olio e scaffali stracolmi di libri. Sulla
destra c’era un corridoio porticato, con tanto di colonne di
marmo perlaceo, che portava alle cucine e ad altre stanze della
servitù, mentre il soffitto era semplicemente un grande
lucernario che permetteva di vedere il cielo e che durante le ore del
giorno offriva luce in abbondanza. Il primo e il secondo piano,
infatti, si estendevano lungo i lati della residenza, girando intorno
al perimetro quadrangolare del salotto grazie ad altri porticati sulle
cui balconate era stato inciso nella pietra lo stemma della casata
Shaw.
A lei ed Ash piaceva stare seduti con le gambe a penzoloni tra le
ringhiere di pietra, a sbirciare dall’alto del secondo piano
i discorsi dei loro genitori e degli ospiti. Peccato che se Ash
reputava tutto un gioco, una recita in cui loro erano gli astuti ed
indispensabili colleghi dell’agente 007, per Cathleen
origliare era un’occasione come un’altra per
accaparrarsi qualche segreto che magari, un giorno, le avrebbe fornito
la libertà.
Ripensando a quei giorni e al suo fratellino, non si era accorta che
Freddie era nel bel mezzo di un discorso quando lei smise di guardare
in alto e chiese frettolosamente: «Ash è in
casa?».
Freddie sarebbe risultato infastidito dall’interruzione se
solo Dio gli avesse concesso l’espressività
facciale, ma visto che il giorno della distribuzione lui si era
dimenticato di mettere la sveglia, rispose con la solita voce atona che
lo contraddistingueva: «Dovrebbe essere ancora sul campo da
tennis con la signora Shaw».
Cathleen annuì distrattamente e si avvicinò al
tavolino rotondo posto tra le
due poltrone più vicine, su cui aveva adocchiato il retro di
un portafoto. Prese la cornice dorata tra le mani e strinse le labbra
tanto forte da farle impallidire, realizzando che probabilmente
qualcuno si era davvero dimenticato della sua esistenza: suo padre, dal
volto sciupato ma pur sempre sorridente, che nella foto compariva
accompagnato soltanto da Trisha e Ash.
Artù le posò una mano sulla spalla e il
paramedico si voltò, ritrovandosi a pochissima distanza dal
suo viso col proprio, il quale subito avvampò.
«Va tutto bene?», le chiese apprensivo.
Cathleen annuì e si tolse lo zaino dalla spalla per
lasciarlo su una delle poltrone, quindi si rivolse al maggiordomo:
«Freddie, ci chiami tu quando le nostre stanze sono pronte?
Io faccio fare un giro ad Artù».
Il domestico si chinò un poco col busto, le mani unite
dietro la schiena. «Certamente, signorina
S–».
«Cathleen», lo interruppe bruscamente. A bassa
voce, già diretta verso il corridoio che li avrebbe portati
all’esterno, aggiunse: «Chiamami
Cathleen».
***
«Allora?», sbottò
all’improvviso Baqi, seduto al suo fianco nella sala
d’aspetto del quarto piano, di fianco alle grandi vetrate da
cui si potevano vedere le ambulanze in sosta e il parchetto di fronte
all’ospedale.
Hala sospirò, riconoscendo quel tono, e chiuse gli occhi
appoggiando la nuca sulla parete alle sue spalle. «Allora
cosa?».
«Quando hai intenzione di dirmi quello che mi stai
nascondendo?».
La ragazza si irrigidì e la gola le divenne arida tutto
d’un tratto. Troppe volte si dimenticava che una delle
fregature dell’essere gemelli era la capacità di
leggere l’uno nella mente dell’altro, che lo
volessero oppure no.
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e si
sistemò meglio sulla poltroncina, incrociando le braccia al
petto e continuando a tenere gli occhi chiusi. Da quando erano
lì aveva serie difficoltà a dormire, un
po’ perché Baqi russava e un po’
perché pensava troppo: pensava a Merlino, alla bisnonna di
Abby, all’ospedale, a Keith… Keith!
Un’idea le balzò alla mente e dovette trattenersi
dal sorridere.
«Non pensavo semplicemente che tu volessi saperlo»,
rispose alla fine, sollevando le spalle.
«Probabile, ma mi dà i nervi non sapere. Sputa il
rospo».
«Il dottore che mi ha accompagnata da Abby il primo giorno
– il suo nome è Keith Ellis – mi ha
chiesto di uscire con lui».
Baqi tirò fuori la lingua, fingendo un conato.
«Bleah. Tu che gli hai risposto?».
«Che gli avrei fatto sapere».
«Tutto qui?».
«Tutto qui».
«Sicura non ci sia dell’altro?».
Hala aprì gli occhi e voltò il capo verso il suo,
sorridendo maliziosamente. «No, a meno che tu non voglia
sapere che cosa mi piacerebbe fargli».
Il gemello scosse la testa, ancora più disgustato, e si
alzò per andare a fare due passi.
Rimasta sola, Hala sospirò e guardò fuori dalle
vetrate, lasciandosi ipnotizzare da un paio di uccellini che volavano
l’uno accanto all’altro, intrecciando le loro
traiettorie di quando in quando.
Poi un’ambulanza con le luci accese attirò la sua
attenzione, frenando bruscamente una volta di fronte alle porte del
Pronto Soccorso. Subito un paio di infermiere e un dottore uscirono per
correre incontro ai paramedici e sentì il cuore finirle in
gola quando realizzò che il dottore in servizio era proprio
Keith, il quale distribuiva i compiti mentre esaminava i parametri
vitali del paziente.
Deglutì rumorosamente e poi sospirò, dicendosi
che doveva ancora dargli una risposta. Decise che più tardi
sarebbe andata da lui e avrebbe seguito il proprio istinto, in modo da
non avere ripensamenti.
Sarebbe andata come sarebbe andata e quel pensiero la
tranquillizzò, rendendole più facile raggiungere
la camera di Abigail.
***
Alex uscì dalla Centrale di polizia e si appoggiò
con la schiena ad uno dei pilastri del piccolo porticato per trarre una
lunga boccata d’ossigeno.
In quell’ufficio si era sentita soffocare ogni minuto di
più, almeno fino a quando non aveva toccato le mani di
Darrell: era stato come attaccarsi ad una bombola d’ossigeno
e allo stesso tempo respirare lava, talmente era bruciante il dolore
che aveva sentito al petto pensando a Merlino, il quale
l’aspettava a casa per trascorrere insieme il week-end.
Socchiuse gli occhi e respirò nuovamente, strofinandosi la
fronte.
Il senso di colpa aveva iniziato a divorarla dall’interno e
sapeva che non sarebbe mai stata bene, se non avesse trovato il modo
per espiarlo, almeno in parte. E fu così che le venne
un’idea: doveva recuperare il prototipo.
Ma come? Di certo non poteva rientrare e chiederlo a Darrell; le
avrebbe chiesto cos’era, come aveva fatto a perderlo nel
fitto del bosco... Avrebbe fatto domande a cui non avrebbe potuto
rispondere. No, aveva bisogno di agire di nascosto, senza che la
vedesse.
Fece il giro dell’edificio, passando sotto il profilo delle
finestre, agile e veloce come una ladra professionista, e una volta sul
retro si sollevò quel tanto che bastava per sbirciare dalla
finestra alle spalle delle due scrivanie.
L’agente Fisher era ancora seduto sulla sua poltrona, intento
a battere sulla tastiera del computer: sembrava stesse compilando un
modulo elettronico, forse quello della sua denuncia. Ad un certo punto
si fermò ed aprì Chrome, su cui rimase per una
decina di secondi senza scrivere nulla nella barra delle ricerche, come
se non sapesse proprio da che parte cominciare. A quel punto
cambiò idea e tornò al proprio lavoro, ma non
proseguì per molto: due minuti dopo, infatti,
ritornò su Google e quella volta scrisse qualcosa.
Alex era troppo lontana per riuscire a leggere l’oggetto del
suo interesse, perciò ci rinunciò e si
accovacciò per terra, con la schiena addossata alla parete
di assi di legno scuro e le ginocchia contro lo sterno.
Pensò ad una soluzione, pur sapendo fin
dall’inizio che c’era solo una cosa che potesse
fare. Tirò fuori dalla borsa il cellulare e
chiamò Merlino.
«Alex! Ma dove sei finita? Ti ho preparato il
pranzo!».
I sensi di colpa crebbero di colpo al pensiero di Merlino che cucinava
per lei e qualcosa le morse lo stomaco, qualcosa di ben diverso dalla
fame.
«Scusami, sono andata in Centrale per la denuncia e non
pensavo ci fossero così tante scartoffie da compilare.
Comunque avrei dovuto avvisarti, è colpa mia».
«Non c’è problema», rispose
amorevolmente il mago. «Ora stai tornando?».
«In realtà c’è
un’altra cosa di cui vorrei occuparmi... ma ho bisogno del
tuo aiuto».
Merlino esitò, forse preoccupato dal tono incerto che aveva
usato – e in effetti Alex non aveva idea di come sarebbe
andata a finire – e quando alla fine rispose lo fece con fin
troppa tranquillità: «Certo, che cosa devo
fare?».
L’infermiera respirò profondamente per prendere
coraggio, ma non ne trovò a sufficienza per spiegargli il
suo piano (anche se definirlo tale era un atto di spavalderia), anzi
iniziarono a venirle dei dubbi. Quindi fece retromarcia: «Ho
voglia di gelato. A te che gusti piacciono?».
Merlino dovette intuire che quello era un salvataggio in corner, ma
lasciò correre.
Quando pose fine a quella fallimentare telefonata, Alex tirò
fuori dalla borsa a tracolla il libro di magia che Gaius aveva
tramandato a Merlino e si strappò dal polso il bracciale di
Morgana.
Era stata un’idea stupida chiamare lo stregone: come aveva
potuto anche solo sperare che avrebbe acconsentito a farle usare la
magia senza prima averla addestrata a dovere su come controllarla?
Inoltre Merlino, abituato com’era a fare a meno dei suoi
poteri, avrebbe sicuramente trovato un metodo altrettanto efficace, e
forse anche più semplice, per far sparire il dispositivo
assorbi magia nera. Lei invece, per quanto stupido, rischioso ed
inutile potesse essere, voleva disperatamente mostrargli che poteva
farcela, che poteva e doveva fidarsi di lei. Voleva sorprenderlo,
renderlo orgoglioso, e non c’era modo migliore di questo.
«Non c’era modo migliore? Ma ti rendi conto di che
stupidaggine sia?!», le urlò contro Merlino,
paonazzo in volto. Sollevò il dispositivo che con
così tanta fatica Alex era riuscita a recuperare
dall’ufficio di Darrell e continuò: «Mi
stanno venendo in mente almeno una dozzina di modi diversi con cui
avremmo potuto recuperarlo! Ma tu hai preferito metterti in mostra,
rischiare di farti beccare e passare un sacco di guai, invece di darmi
retta! Perché con voi Pendragon è sempre
così difficile farsi ascoltare?!».
Alex tentò nuovamente di rispondere per le rime, ma si
sentiva così denigrata e demoralizzata che
abbassò semplicemente il capo ed evitando il suo sguardo
mormorò: «Mi dispiace».
Merlino non si aspettava una resa così rapida, infatti le
chiese di ripetere. L’infermiera ripeté, cosa che
non avrebbe fatto se non fosse stata davvero mortificata, poi prese la
confezione di polistirolo con dentro il gelato e un cucchiaio e se ne
andò in salotto, dove si rannicchiò sul divano a
guardare la TV.
***
Merlino diede un calcio ad una sedia, facendola rovesciare sul
pavimento, e poi si passò le mani sul viso. Appoggiato al
bordo del tavolo col fondoschiena, respirò profondamente per
calmarsi, ma per sbollirsi del tutto dovette uscire in veranda.
Camminare per il giardino, sotto un sole insolitamente caldo, gli
schiarii le idee e gli fece capire che aveva esagerato con Alex.
L’aveva aggredita con foga, urlando tanto da farle chiudere
forte gli occhi; le aveva riversato addosso tutto il nervosismo e la
frustrazione che sentiva da quella mattina, quando si era svegliato e
vedendo Artù addormentato al suo capezzale si era ricordato
di ciò che aveva detto e fatto la notte prima. Si era
sentito così in colpa che gli aveva preparato la colazione
migliore della sua vita, ma non era bastato per cancellare la vergogna
e riempire il vuoto che aveva iniziato a sentire in mezzo al petto dopo
aver riportato a galla il ricordo di Louise con Abby.
Louise… Non riusciva più a togliersela dalla
testa ormai e questo non faceva che peggiorare le cose: la voragine si
allargava di minuto in minuto, risucchiando come un buco nero qualsiasi
cosa sul suo cammino, e il solo pensiero di dover trascorrere con Alex
un intero week-end lo tormentava. Ricordava fin troppo bene
ciò che gli aveva detto Abby quando per la prima volta
l’aveva nominata: Alex non meritava di essere paragonata a
Louise, non meritava di dividere il suo cuore con un fantasma. Lei si
meritava il meglio, come Artù più e
più volte aveva affermato, e Merlino non era più
convinto di esserlo. Sapeva fin dall’inizio che non avrebbero
dovuto portare la loro relazione a quel livello, ma Alex era riuscita a
convincerlo, a fargli credere che il loro amore avrebbe sconfitto ogni
cosa… Avevano mentito a loro stessi, preferendo una dolce
bugia alla cruda realtà.
Merlino si fermò accanto al salice piangente e si
infilò una mano nella tasca dei pantaloni della tuta, dove
teneva il cofanetto che il signor Greenwood gli aveva in un certo senso
tramandato. Lo strinse forte nella mano e guardò il cielo,
chiedendo consiglio.
Amava Alex, ma non l’amava più di quanto avesse
amato Louise. Il
peso di quella verità gli crollò sul cuore,
lasciandolo affannato, e con gli occhi lucidi spostò alcuni
rami del salice, i quali poi tornarono al loro posto alle sue spalle,
proprio come una tenda in grado di assicurargli una certa privacy.
Si chinò e trovò un punto in cui le radici
dell’albero non fossero troppo vicine alla superficie; quindi
a mani nude iniziò a scavare una piccola fossa. Quando fu
soddisfatto del proprio lavoro, prese di nuovo il cofanetto di velluto
rosso tra le mani sporche e se lo portò alle labbra per
baciarlo ad occhi chiusi.
Alex meritava di sapere la verità, meritava di trovare
qualcuno che l’amasse più di ogni altra cosa o
persona al mondo. Se l’avesse sposata davvero, se avesse
fatto finta di nulla, se si fosse tenuto quel peso dentro, agendo
egoisticamente, era certo che questo lo avrebbe lentamente ucciso.
Mise il cofanetto nella buca e lo ricoprì fino a quando non
fu completamente sotterrato. Dopo un po’ si alzò,
guardò il segno scuro lasciato dalla terra smossa per quella
che gli sembrò un’infinità e
ritornò in cucina, dove si lavò con cura le mani,
facendo particolare attenzione alle unghie. Una volta cancellate le
prove – nonostante continuasse a sentirsi lercio dentro
– racimolò tutto il coraggio che ancora possedeva
e varcò la soglia del salotto. Lentamente si
avvicinò al divano e si sedette accanto ad Alex, mantenendo
però una distanza di sicurezza. (Anche se avesse voluto
avvicinarsi di più, l’infermiera sembrava come
avvolta da un campo di forza così potente che nemmeno la
magia sarebbe riuscita a spezzare).
«Perdonami se ho alzato la voce, ho esagerato»,
esordì con semplicità, guardando il profilo del
suo viso rivolto verso la televisione. «Continuo a pensare
che tu abbia corso un rischio inutile e sono ancora arrabbiato con te
perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto, ma
questo non significa che io non sia impressionato».
Quel risvolto improvviso catturò l’attenzione di
Alex, la quale spense la televisione e si girò verso di lui,
infilando una gamba sotto l’altra. Ciò nonostante
non fu abbastanza e non aprì bocca, lasciando continuare
Merlino.
«Che cosa avrei fatto, se Darrell ti avesse visto utilizzare
la magia?», le domandò, sollevando una mano verso
il suo viso.
Alex chiuse gli occhi: non più perché in quel
modo sperava di non sentire le sue urla, piuttosto per dargli il tacito
consenso di toccarla. Il mago le accarezzò la guancia e poi
la strinse forte contro il suo petto, immergendo il viso tra i suoi
capelli biondi. Respirò profondamente e in quel momento
realizzò che non poteva in alcun modo lasciarla andare:
poteva sopportare di mentirle, poteva morire lentamente – lo
stava già facendo, dopotutto – ma non poteva
vederla infelice. Perché lui ci aveva già
provato, ad allontanarla, e non ci era riuscito. Anzi, aveva solo fatto
del male ad entrambi. Alex non si era mai arresa, aveva lottato con le
unghie e con i denti, ed era certo che qualsiasi cosa le avesse detto
lei non avrebbe smesso di amarlo. E lui neanche, nonostante il pensiero
di Louise avesse infettato una buona parte del suo cuore.
Non le avrebbe detto nulla di lei, ma non le avrebbe nemmeno dato
l’anello un tempo appartenuto a sua madre, quello che Edwin
le aveva regalato quando si erano fidanzati e che qualche giorno prima
aveva consegnato a lui perché facesse la proposta ufficiale
a sua figlia. La sua unica possibilità era che il suo
destino si compisse il prima possibile.
I suoi stessi pensieri lo nauseavano, eppure riuscì a
trovare la forza per allontanarsi quel tanto che bastava per guardarla
negli occhi ed esclamare con finta eccitazione: «Ti conviene
iniziare a raccontare, perché voglio sapere tutto, ogni
particolare, anche il più superfluo».
Il sorriso di Alex si allargò e senza farselo ripetere due
volte gli spiegò che all’inizio era stata
fortunata, dato che Darrell si era allontanato per andare in bagno. Gli
descrisse l’incantesimo che aveva usato per aprire la
finestra e quello per aprire a distanza il cassetto della scrivania, da
cui poi aveva fatto volteggiare verso di sé il prototipo.
Poi aveva ammesso che era stato difficile utilizzare così
tanta magia tutta insieme, ma non era stata la parte peggiore.
Pronunciare correttamente e con la giusta intonazione le parole nella
lingua della Religione Antica infatti, era stato ciò che
l’aveva fatta sudare di più, tanto che aveva
rischiato di far schiantare il prototipo contro il soffitto quando
finalmente aveva avuto successo con la telecinesi.
Merlino l’aveva ascoltata in silenzio, senza interromperla
mai e fingendosi incredulo: in verità sapeva già
a grandi linee quello che era successo… l’aveva
dolorosamente percepito.
Alex aveva iniziato ad accumulare un po’ di potere e a
tenerselo da parte nell’organismo, forse assorbendolo
inconsciamente da lui con il semplice stargli vicino. E mentre lei era
all’opera per cercare di renderlo orgoglioso, Merlino si era
ritrovato improvvisamente senza forze ed era quasi svenuto di fronte ai
fornelli, col sangue che gli bruciava nelle vene e con la sensazione
che ogni organo del suo corpo stesse per collassare.
Merlino continuò ad ascoltarla rapito e a sorridere, conscio
che non le avrebbe confessato nemmeno questo.
Diceva sempre che i Pendragon non sarebbero mai cambiati: gliene faceva
una colpa, c’erano momenti in cui li odiava per questo, ma
non aveva mai capito prima di allora che la verità era che
loro
non potevano
cambiare. All’improvviso aveva realizzato
che, al contrario, lui avrebbe potuto, ma non l’avrebbe mai
fatto. Per scelta.
Questo lo rendeva una cattiva persona? Era ancora definibile una
persona, dopo più di millequattrocento anni di vita? Merlino
non lo sapeva. Era solo stanco, tanto stanco, e scegliere
ciò che era sempre stato – un bugiardo
doppiogiochista – era e sarebbe sempre stata la scelta
più facile.
***
Artù seguì Cathleen attraverso
l’immenso maniero in silenzio, evitando di farle domande o
semplicemente di confessarle che si sentiva perfettamente a suo agio
tra quelle mura, quasi come si sarebbe sentito se si fosse ritrovato a
passeggiare tra i corridoi e le sale di Camelot. Aveva intuito che per
Cathleen non era lo stesso, dal suo passo nervoso e dal suo continuo
guardarsi intorno: sembrava che avesse fatto di tutto per dimenticarsi
quei luoghi ed era come se, più che considerarla una casa,
il paramedico la ritenesse una specie di prigione, una gabbia
d’oro in cui aveva sperato ardentemente di non dover
più tornare.
Artù capì di aver avuto ragione quando si
ritrovarono di nuovo all’aperto e Cathleen trasse un sospiro
di sollievo, come se invece all’interno fosse stata in apnea.
«Di qua», gli disse, indicandogli di fare il giro
intorno alla piscina olimpionica intorno alla quale c’erano
decine di lettini prendisole e diversi ombrelloni da spiaggia.
Poco più in là, in un angolo più
appartato del giardino, c’era anche una specie di tinozza di
legno simile a quella che usava lui per fare il bagno al castello, solo
dalle dimensioni extra-large, e purtroppo non ebbe modo di chiedere a
Cathleen quale fosse il suo utilizzo.
Oltre alla piscina c’era un ampio gazebo in ferro circondato
da bellissimi cespugli di fiori, sotto cui prendere un tè in
tutta tranquillità, e proseguendo per un’altra
ventina di metri il giardino sembrava terminare bruscamente, quasi a
strapiombo, permettendo di intravedere in lontananza la linea blu del
mare che si fondeva con quella più chiara del cielo.
Cathleen proseguì senza paura verso il bordo e quando si
accorse che Artù aveva smesso di seguirla si
voltò per rivolgergli un sorriso e stendere una mano verso
di lui. Allora il biondo la raggiunse e sospirò quando si
rese conto che era solo un effetto ottico: non c’era alcuno
strapiombo in realtà, solo una scalinata di pietra infinita
che portava ai due campi da tennis.
Fu una passeggiata scendere, ma Artù già sudava
al pensiero di doverla risalire per tornare al maniero.
Sui campi di terra rossa c’erano solo due persone che stavano
giocando: una donna coi
capelli e gli occhi castani, che poteva avere dai trenta ai
cinquant’anni – per Artù era
tremendamente difficile riconoscere l’età delle
persone di quell’epoca a causa di tutto ciò che
facevano per sembrare più giovani ed attraenti – e
un ragazzo che per via della corporatura esile non dimostrava
più di diciotto anni.
Quest’ultimo dava loro le spalle e dovette aspettare che la
donna dall’altra parte della rete non rispondesse
volontariamente al servizio prima che potesse constatare che anche il
suo viso, dai lineamenti incredibilmente delicati, quasi androgini,
mostrava ancora i segni dell’adolescenza.
«Oh, per favore!», esclamò con voce
stridula, quando la donna mollò la presa sulla racchetta e
lasciò che la pallina le rimbalzasse accanto senza battere
ciglio. Abbassò le braccia, sbuffando sconsolato, e si
voltò per seguire la traiettoria dello sguardo della donna,
urlando ancora: «Posso sapere che cosa diavolo
stai…?». Si interruppe bruscamente
però, iniziando a boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua, una volta incrociato lo sguardo di Cathleen, la
quale, notò Artù, stava esibendo il suo primo
sorriso di gioia da quando avevano varcato il cancello della Residenza
Shaw.
«Ehi, coglioncello, perché mi guardi con quella
faccia da ebete?», gli domandò la rossa,
portandosi una mano sul fianco.
Il ragazzo ghignò e la imitò, rispondendo:
«Brutta stronza che non sei altro, sei per caso
ingrassata?».
Artù non riusciva a capire cosa stesse accadendo e,
nonostante fosse sconvolto e ad occhi sgranati, non osò
intervenire per difendere il paramedico. Fu la mossa giusta,
perché dopo qualche altro insulto i due si corsero incontro
e si abbracciarono forte, girando in tondo. Probabilmente era
così che si salutavano e si dimostravano affetto reciproco.
La gente del ventunesimo secolo gli sembrava sempre più
strana.
«Perché non mi hai avvisato che saresti venuta? Mi
sarei fatto trovare pulito!», gridò ancora il
ragazzo – se avesse continuato così,
Artù a fine giornata si sarebbe ritrovato sordo –
prendendosi la maglietta del completo bianco tra le dita e tirandosela
verso il naso per asciugarsi il sudore sulle guance. Poi bisbigliando
aggiunse: «Di sicuro avrei avuto la scusa per non giocare con
mia madre. Io odio il tennis».
Cathleen rise e quel suono fu musica celestiale per Artù, il
quale dimenticò tutto il resto e sentì soltanto
una grande pace interiore.
«È stata una cosa decisa all’ultimo
momento. E poi volevo fosse una sorpresa», gli
spiegò, arruffandogli i lunghi capelli neri tenuti indietro
da una fascia di spugna bianca.
Il ragazzo le allontanò la mano, ma a Cathleen quel gesto
non piacque e gli avvolse rapidamente un braccio intorno al collo per
strofinargli il pugno sulla testa con più insistenza, quasi
come faceva lui con Merlino ogni tanto.
«Piantala!», si lamentò il moro, anche
se ridendo, e il paramedico decise di mostrare clemenza liberandolo.
«Sei sempre la solita», bofonchiò, ma
risultò più un complimento che un rimprovero. Poi
il ragazzo fissò gli occhi in quelli di Artù e
questo si sentì quasi intimidito dalla loro
particolarità: l’iride era in prevalenza grigia,
ma intorno alla pupilla nera c’era un’aureola color
rame. Erano semplicemente incantevoli, tanto da togliere il respiro, ma
il sovrano evitò di dirlo ad alta voce e distolse lo sguardo
per guardarsi alle spalle, fingendo di non aver capito che stesse
fissando proprio lui.
Alla fine il ragazzo ruppe il silenzio, esclamando con un sorrisino
malizioso dipinto sul volto: «E nemmeno le tue buone maniere
sono migliorate. Posso avere l’onore di sapere chi
è questo manzo che ti sei portata dietro?».
Artù si sentì arrossire fino alle punte dei
capelli e guardò Cathleen, sperando che almeno lei lo
salvasse dall’imbarazzo. Purtroppo non fu così,
perché lo prese per il braccio e si chinò verso
il ragazzo, sussurrando: «Non ci provare, Ash. Lui
è mio».
«Te pareva», bofonchiò il moro prima di
porgere una mano verso di lui.
«Artù, lui è Ash, mio fratello. Ash,
lui è Artù».
«Ed è…?», la
incalzò e fu lei quella volta ad essere travolta
dall’imbarazzo.
«Ci stiamo lavorando», rispose Artù per
lei, anche se avrebbe preferito di gran lunga starne fuori, mentre
stringeva la mano di Ash.
«Questa sì che è una sorpresa coi
fiocchi!».
Tutti sobbalzarono e si voltarono verso la donna che si era avvicinata
a loro.
Artù avrebbe capito che era la madre di Ash semplicemente
ascoltandola parlare: aveva lo stesso tono di voce del figlio,
inconsapevolmente alto e un po’ stridulo, e anche i tratti
del viso erano pressoché identici. Ciò che non
riusciva a capire era come quella donna potesse avere un qualche legame
di parentela con Cathleen: erano l’una l’opposto
dell’altra, eccezion fatta forse per il decolté
– incredibile ma vero, quello della madre di Ash sembrava
essere ancora più… Si costrinse a cancellarsi
dalla testa quell’immagine e si schiarì
rumorosamente la gola, beccandosi un’occhiata sia da Cathleen
che da Ash.
La donna si sporse verso il paramedico e prima che potesse sottrarsi
l’abbracciò forte, accarezzandole i capelli.
«Ci sei mancata tanto, Kitty».
Al contrario di Ash, Artù si trattenne nel fare una smorfia
sentendo quel soprannome. Conoscendola, dubitava che Cathleen lo
gradisse, eppure non disse niente e quando si scostò
abbozzò persino un sorriso, chiedendo: «Come stai,
Trisha? In forma come sempre, vedo…».
Indicò il suo seno pronunciato, visibile grazie
all’ampia scollatura della polo bianca abbinata alla gonna
cortissima. «Le hai gonfiate ancora un
po’?».
La donna abbassò gli occhi e si strizzò i seni
con fare amorevole ed orgoglioso. «Oh sì,
l’hai notato? Non sono bellissime?».
Cathleen guardò Artù con la coda
dell’occhio e trattenendo una risata rispose:
«L’importante è che piacciano a
papà».
«Forse non è…»,
iniziò a dire Ash, allarmato, ma la madre non lo fece finire.
«Tuo padre ed io siamo nel bel mezzo di una crisi, ma sono
sicura che col tempo la supereremo».
Cathleen evidentemente non se lo aspettava, perché
corrugò la fronte e guardando Ash e Trisha
corrugò la fronte. «Una crisi? Perché,
che cos’è successo?».
«Tesoro, ci sono così tante cose che non
sai…», le disse teneramente, posandole una mano
sulla schiena. «Forse dovremmo sederci e parlare un
po’, che ne dici?».
«In realtà preferivo far sistemare Artù
e farmi una doccia prima di vedere papà».
«No, zuccherino, a meno che non andremo noi da lui, tuo padre
non ci sarà».
Cathleen sospirò, afflitta, e al contempo strinse i pugni
lungo i fianchi. «Ho capito, papà non mi considera
più sua figlia da quando sono scappata e vuole che vada da
lui a prostrarmi ai suoi piedi e a scusarmi, ma si sbaglia di grosso se
io…», si interruppe notando lo sguardo apprensivo
di Trisha. Artù inoltre scorse nello sguardo di Ash
un’ansia che non seppe a cosa attribuire ed istintivamente
prese la mano di Cathleen, proprio mentre lei sbottava:
«Allora, vuoi dirmi perché mi guardi
così? Sembra che…». Il paramedico
impallidì all’improvviso e balbettò:
«Papà sta bene, vero?».
Trisha si precipitò a rassicurarla, massaggiandole la
schiena con la mano: «Ma sì, certo tesoro, sta
bene».
«Mamma», la rimproverò Ash, lanciandole
un’occhiata tagliente. «Non mentirle, non
è una bambina».
«Ma…».
«Che cos’ha?», domandò
Cathleen, guardando prima l’uno e poi l’altra.
Quando ripeté la domanda, strinse così forte la
sua mano che Artù dovette serrare i denti per non
lamentarsi.
Ash alzò semplicemente gli occhi verso il maniero ed
aspettò che Cathleen si voltasse e facesse lo stesso.
Artù, travolto dalla curiosità, la
imitò.
Dietro ad una delle finestre del piano più alto si scorgeva
il volto pallido ed emaciato di un uomo coi capelli bianchi e gli occhi
resi folli dalla rabbia. Guardava proprio verso di loro, ma non
sembrava per nulla intenzionato ad aprire la finestra per salutarli.
«Quello che intendevo dire, tesoro»,
iniziò a dire Trisha, il più pacatamente
possibile, «è che Roger non può uscire
dalle sue stanze».
Artù voleva sapere di più, capire che cosa
significassero quelle parole, ma
rispettò il silenzio di Cathleen e le rimase accanto
lasciando che gli stringesse forte la mano. Quando
all’improvviso scostò lo sguardo e si diresse
verso delle strane automobili aperte sui lati, il sovrano si
lasciò trascinare senza porre domande, seguito anche da un
Ash cupo e dal collo infossato tra le spalle.
Il paramedico gli lasciò la mano solo per ordinargli di
salire sul posto del passeggero e di reggersi forte. Il fratello aveva
appena fatto in tempo a salire sulla piccola vettura prima che la
facesse partire in quarta verso una galleria che attraversava
l’immenso giardino.
Artù immaginò l’enorme piscina sopra di
loro, i litri e litri d’acqua che si sarebbero potuti
riversare in quel tunnel in ogni momento, e l’aria
iniziò a mancargli dai polmoni, ma nemmeno respirare
velocemente lo aiutò a riempire il vuoto che sentiva
schiacciarlo da dentro. Stava avendo un attacco di panico che, se
sommato ai suoi speciali problemi di cuore, poteva essergli fatale.
Merlino gli aveva raccomandato più volte di stare attento e
non fare sforzi, visto che non avevano ancora recuperato il
dispositivo, ma lui gli aveva dato dello stupido: a che serviva
preoccuparsi tanto? A quanto pare, con lui non c’era affatto
da stare sereni.
«Ehi, amico, stai bene?», gli domandò ad
un tratto Ash, sporgendosi tra lui e Cathleen.
Solo allora il paramedico si accorse delle sue condizioni, ma
anziché fare retromarcia premette ancora di più
il piede sull’acceleratore e gridò: «Non
ti ci mettere anche tu, ora! Ho appena scoperto che
l’agorafobia di mio padre è peggiorata e che mio
fratello me ne ha tenuto all’oscuro… Non puoi
spaventarti per una galleria!».
Artù avrebbe voluto scusarsi e allo stesso tempo gridarle
contro che non era colpa sua, che non doveva mancargli di rispetto e
avrebbe voluto ricordarle che a Camelot era il più valoroso
degli uomini e che non aveva mai sofferto di questi problemi. La
verità però era che aveva smesso di respirare del
tutto.
Quando la galleria finalmente finì, facendoli sbucare di
fronte a diversi cespugli disposti a mo’ di mini-labirinto,
Artù trasse un respiro così profondo che
sentì male dappertutto.
Cathleen tirò il freno a mano ancor prima che il piccolo
veicolo si fosse fermato e si voltò verso di lui per
controllargli i parametri vitali. Certa che stesse bene, gli
posò un bacio sulle labbra – un po’
migliorando e un po’ aggravando le sue condizioni –
e gli accarezzò il viso.
«Scusami, mi sono dimenticata della tua claustrofobia. Ora va
meglio?».
Artù annuì, deglutendo più volte, e si
sporse per baciarla di nuovo, ma Ash urlò: «Oh, vi
prego, mi farete venire il diabete!».
«Non dovevi andare a fare doccia, Ash?», gli
ricordò la sorella, a denti stretti.
«Puzzi».
«’kay, me ne vado».
Il ragazzo saltò giù dal veicolo e si diresse
verso un ingresso secondario senza mai guardarsi le spalle.
Artù aprì la bocca per chiedere a Cathleen la
vera natura del loro legame – come Trisha non poteva essere
la sua vera madre, Ash non poteva essere suo fratello di sangue
– ma fu azzittito direttamente dalle sue labbra. Chiuse gli
occhi e si rilassò, godendosi quel momento come se fosse
l’ultimo, e per la prima volta riuscì a non
sentirsi in colpa nei confronti di Ginevra. Quel pensiero lo fece
sorridere e il paramedico fece istintivamente lo stesso, per poi
scostarsi, pur rimanendo con la fronte contro la sua, e chiedergliene
il perché.
«Non eri costretta a portarmi qui, a farmi conoscere la tua
famiglia», le disse, sistemandole una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Vedo che stare qui ti rende
nervosa, sai?».
Cathleen scrollò le spalle, abbassando gli occhi.
«Tu mi hai raccontato tutto di te e io… volevo
ricambiare. E spiegarti il perché ho detto quelle cose
riguardo alle famiglie con nomi importanti».
«E io te ne sono infinitamente grato, Cathleen, ma devi
promettimi che se non dovessi più farcela, me lo dirai e ce
ne andremo. Siamo d’accordo?».
«Siamo d’accordo».
Artù sorrise e le posò un nuovo bacio sulle
labbra, poi scese dalla piccola auto senza portiere e strizzando gli
occhi per la luce abbagliante del sole alzò il viso verso il
piano più alto del maniero, nella direzione dove supponeva
si trovasse la finestra attraverso la quale avevano visto il padre di
Cathleen.
«Che cos’ha tuo padre? Perché non
può uscire dalle sue stanze?», le chiese e quando
si rese conto della poca delicatezza con cui aveva posto quelle domande
era ormai già troppo tardi.
Cathleen però non si pose il problema e rispose pacatamente,
quasi con distacco, come se si riferisse ad un paziente qualunque e non
a suo padre: «Si chiama agorafobia. È una
manifestazione ansiosa: chi ne soffre ha paura di stare in posti
affollati o in grandi spazi all’aperto… insomma,
di uscire dalla propria “zona sicura”».
Artù aveva individuato la finestra, ma il signor Shaw non
c’era più. «E da cosa è
causata?», chiese ancora.
«Dipende». Cathleen si strinse nelle spalle e
cercò il pacchetto delle sigarette per accendersene una. Con
il filtro tra le labbra, continuò: «Paura del
nuovo, dello sconosciuto, di non riuscire a controllare la situazione
intorno a sé, disturbi
ossessivi-compulsivi…».
Il re si voltò verso di lei, sempre più
incuriosito. Voleva chiederle di più, chiederle
perché suo padre si fosse trovato rinchiuso nelle sue
stanze, da quanto tempo soffriva di agorafobia e come aveva potuto lei,
sapendolo, non preoccuparsi della sua salute per ben undici anni. Non
sapeva però da dove cominciare e aveva paura di risultare
troppo invadente.
«A che cosa stai pensando?», gli chiese ad un
tratto, riportandolo alla realtà. Cathleen sorrideva e
Artù si umettò le labbra, incerto.
Fu lei alla fine a parlare, esclamando: «E va bene. Volevo
aspettare, ma ti racconterò l’intera
storia».
Artù avrebbe voluto dirle che non c’era fretta,
che non doveva farlo per forza, ma non ci riuscì, in parte
perché avrebbe mentito e in parte perché lei non
gli diede il tempo di aprire bocca: lo prese semplicemente per mano e
lo portò in casa, al fresco, trascinandoselo per gli
infiniti corridoio e di salottino in salottino, ognuno con una diversa
carta da parati e diverse tappezzerie per divani.
Poi arrivarono ai piedi di un’ampia scalinata di marmo, quasi
a chiocciola, e una volta terminata, al secondo ed ultimo piano, si
trovarono di fronte l’ennesimo corridoio. La stanza che
cercavano però era proprio davanti alle scale, la porta
chiusa e calda a causa del sole che entrava dall’alta
finestra lì accanto.
Cathleen posò la mano sul pomello, ma prima di entrare si
girò verso di lui e lo guardò profondamente negli
occhi, quasi come a cercare un incoraggiamento. Artù le
rivolse un pallido sorriso, senza sapere cosa dire. Dovette bastare,
perché il paramedico aprì la porta e trasse un
lungo sospiro.
La guardò fare qualche timido passo all’interno e
guardarsi intorno con aria spaesata, gli occhi lucidi di lacrime.
Quando la raggiunse, corrugò la fronte cercando di collegare
tutti i pezzi.
La stanza era grande, priva di mobilia ma piena zeppa di vasi colmi di
fiori freschi, ed era inondata di luce grazie all’immensa
vetrata da cui si riuscivano a scorgere il mare e le scogliere della
baia in lontananza. Erano dall’altro lato della casa,
perciò la piscina, il gazebo e i campi da tennis non si
vedevano. Da lì, la vista era solo verde, verde, verde,
cielo e mare. Uno spettacolo.
Dall’altro lato della stanza, sul muro opposto alla vetrata,
era stato appeso un quadro gigantesco il cui soggetto era una donna
bellissima, col volto spruzzato di efelidi e dai lineamenti fini e
delicati e gli occhi color nocciola. Era stata ritratta dal busto in su
e probabilmente avrebbe dovuto assumere una postura composta, seriosa,
ma anche volendo non ci sarebbe mai riuscita. C’era qualcosa
in lei che ti costringeva a volerle bene e a trovarla simpatica: forse
la sua chioma pel di carota e naturalmente scompigliata, oppure la
scintilla di pura genuinità che brillava nei suoi occhi, o
ancora il suo sorriso contagioso.
Artù riusciva ad immaginarsela mentre veniva costretta a
star ferma su quello sgabello, e ogni volta che il ritrattista
abbassava gli occhi sulla tavola gli faceva le boccacce o assumeva pose
provocanti. Quella fantasia lo fece sorridere ed istintivamente
posò lo sguardo su Cathleen: una lacrima le era rotolata su
una guancia, fino a nascondersi nella tenerissima fossetta che le
spuntava tutte le volte che mostrava il suo sorriso più
bello e più raro, lo stesso sorriso della donna nel
ritratto.
Si avvicinò a lei di qualche passo e senza guardarla fece
scivolare le dita della mano destra tra le sue, intrecciandole piano.
Cathleen tirò su col naso e finalmente parlò,
dicendo ciò che Artù già sapeva:
«Lei è mia madre, Helena».
«Siete due gocce d’acqua», disse a bassa
voce, come se si trovassero in una vera cappella, un santuario in cui
commemorare il ricordo di quella donna tanto amata e che evidentemente
se n’era andata troppo presto.
«Sì, è vero. È stata la mia
benedizione e la mia rovina».
«Perché?». Come poteva essere una
rovina, essere tanto belle e vere allo stesso tempo?
Cathleen si prese una ciocca di capelli tra le dita ed
iniziò a tirarla, nervosamente. «Forse
è per questo che mio padre ha iniziato a dare di matto. Ma
partiamo dall’inizio, okay?».
Si avvicinò in fretta alla specie di altare che era stato
innalzato sotto al ritratto di Helena e Artù la
seguì.
La rossa indicò una delle tante fotografie posate
sul ripiano, accanto ad un lume acceso, e raccontò:
«Mia madre morì quando avevo nove anni. Lei era
davvero una forza della natura, energica ed iperattiva, ma anche un
po’ incosciente. Sottovalutava sempre il pericolo, o questa
è l’idea che mi sono fatta di lei quando
è morta». Fece una breve pausa, scuotendo il capo
mestamente. «Sai che non me la ricordo quasi più?
Non mi ricordo la sua voce, il suo profumo… Sono passati
vent’anni ormai, però pensavo che…
Insomma, è la mia mamma, pensavo non avrei potuto
dimenticarmela».
Artù deglutì e prese coraggio per dire:
«La mia è morta dandomi alla luce, se questo
può farti stare meglio. L’ho vista per la prima
volta con Merlino, grazie alla magia. Non so nemmeno se fosse
così, da viva. Ma quella riproduzione non aveva nessun
profumo».
Cathleen tornò a prendergli la mano, ma non gli disse nulla
per tirarlo su di morale, non lo compatì, e Artù
lo apprezzò molto.
«Hai visto che tutte le finestre hanno le
inferriate?», gli chiese.
«Sì, ho notato».
«Le ha fatte mettere mio padre dopo la sua morte. Prima non
c’erano, anche perché… a che scopo? Le
finestre dei corridoi le hai viste, non sono a livello del pavimento.
Sto divagando.
«Mio padre le ha fatte mettere lì
perché mia madre era un’amante della natura e
degli animali. Cioè, non proprio per questo, ma capirai.
«Mia madre adorava i canarini, dico davvero. In questa
stanza, la più fresca e meno soleggiata del maniero, mamma
teneva tutti i suoi canarini: ne avremmo avuti una ventina. Le piaceva
svegliarsi sentendoli cantare e stava con loro per ore, a parlare, a
curare le loro gabbiette… robe così.
«Un giorno passando per un corridoio di questo piano
sentì un cinguettio. Veniva dall’esterno, ma non
era un uccellino di passaggio. Incuriosita, ha trovato un binocolo ed
è scesa in giardino per scoprire da dove provenisse. Ci
riuscì: due uccellini avevano fatto il nido proprio sopra
una delle finestre del corridoio, nella grondaia, e non poté
resistere alla sua estrema passione per quegli animali.
Tornò in casa, rubò un pezzo di pane dalla cucina
e corse alla finestra. Si arrampicò sul davanzale, tenendosi
aggrappata alla stessa grondaia, e quando gli uccellini scapparono via
spaventati, lei perse l’equilibrio. Non si sa se avesse
mollato la presa di proposito per acchiapparli o se fu solo una
fatalità. Sta di fatto che lei cadde proprio di fronte
all’ingresso, con il pezzo di pane ancora in mano.
«Questo è quello che mi ha raccontato di nascosto
il giardiniere, che ha visto tutta la scena. Mio padre non ha mai
voluto dirmi quello che è successo davvero, forse pensava
che fosse un modo troppo stupido per morire, indegno di Helena, o forse
se ne vergognava soltanto. Io ricordo che lo trovai poetico, ricordo di
aver scritto sul mio diario che la mia mamma era morta da eroina,
perché voleva salvare dalla fame un paio di uccellini.
«Quando mio padre è stato avvisato di
ciò che era successo, è rimasto sulla soglia
dell’ingresso, incapace di raggiungere mamma sul selciato, e
quel rifiuto ha dato il via alla sua agorafobia. Non è
più uscito di casa da quel momento. Ci abbiamo provato in
tutti i modi: io, Freddie, gli psicologi… Non appena
provavamo a farlo uscire, anche per fargli fare una semplice
passeggiata in giardino, non importava di fronte a quale porta lo
portassimo… lui iniziava a gridare e a dire che
c’era Helena di fronte a lui, con la testa spaccata e il
sangue che scorreva tra le fughe delle piastrelle di mattoni.
«Da allora non è più stato lo stesso,
era irriconoscibile. Non riusciva più a stare davanti ad una
finestra aperta, soffriva di paranoia, di insonnia, era
lunatico… E il fatto che io somigliassi così
tanto a mamma non ha aiutato. C’erano momenti in cui mi
odiava e non sopportava la mia vista, altri in cui non poteva starmi
lontano e mi costringeva a tenerlo per mano ovunque decidesse di
andare. Capisci che per una bambina della mia età fu
traumatico. L’unico modo per sfuggire alla pazzia di mio
padre era stare all’aperto, dove lui non avrebbe mai potuto
raggiungermi, e ovviamente camuffare il mio vero aspetto. Iniziai coi
capelli, chiedendo ad una delle cameriere di tagliarmeli come quelli di
un maschio. Poi passai ai vestiti, sbarazzandomi delle gonne e delle
scarpe carine. A tredici anni scoprii i trucchi e da quel momento in
avanti iniziai a sperimentare fino a quando non raggiunsi questo
risultato», si indicò il volto stiracchiando un
sorriso quasi imbarazzato.
Artù avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma
al momento c’era un’altra questione che lo
interessava: «Aspetta un attimo. Quand’è
che entrano in scena Ash e Trisha? Soprattutto…
com’è successo? Con tuo padre recluso tra queste
mura…».
Cathleen sorrise e lo prese per mano per farlo uscire dalla stanza
dedicata a sua madre. Camminarono un po’ per i corridoi del
secondo piano, fino a quando non raggiunsero un alto parapetto in
pietra: si affacciarono e Artù si rese conto con immenso
stupore di essere sopra il primo salotto che avevano incontrato
entrando nella residenza, scortati da Freddie.
Il paramedico sorrise furbetta e si sedette per terra, infilando le
gambe tra le colonne del parapetto, così da avere i piedi
penzoloni nel vuoto. Artù non poté fare altro che
imitarla.
«Mio padre faceva davvero una vita da recluso,
così decise di portare la vita qui dentro. Ogni sera
c’era un party diverso e lui intratteneva i suoi ospiti come
se nulla fosse successo. Fu proprio qui, in questo salotto, che mio
padre e Trisha si incontrarono per la prima volta. Lei al tempo era
fidanzata con un altro riccone, vivevano su uno yacht – una
barca molto lussuosa».
«Grazie per la spiegazione», le disse, anche se
sorridendo.
«Dovere», replicò, ridacchiando.
«Ad ogni modo poco tempo dopo Trisha mollò quel
tipo e me la ritrovai qui, con un figlio di sei anni al seguito; io ne
avevo tredici e Ash non mi piacque subito. Poi capii che eravamo sulla
stessa barca e tanto valeva remare insieme».
«Ora siete molto legati?».
«Moltissimo. Non abbiamo lo stesso sangue, ma è
come se fosse mio fratello a tutti gli effetti».
«Eppure… tu sei andata via, mentre lui
è ancora qui. Da quanto tempo non vi vedevate?».
Cathleen si rabbuiò e Artù si pentì di
quella domanda. Avrebbe voluto scusarsi, ma lei liquidò
l’argomento, dicendo con tono ferale: «È
stata una sua scelta». Quindi riprese da dove aveva lasciato,
per poi rendersi conto che non c’era nient’altro da
dire, o almeno nulla che volesse confidargli al momento. Una cosa per
volta: Artù lo capiva bene e non le avrebbe fatto pressioni.
Il pesante silenzio che era piombato su di loro venne interrotto dal
maggiordomo, il quale, passando per il salotto sotto di loro,
alzò il capo ed esclamò: «Signorina
Cathleen, le vostre stanze sono pronte se volete».
Lei non parlò, ma riuscì a leggerle in faccia
ciò che pensava: “Giusto in tempo”.
Artù sospirò e si alzò, seguendola
giù per l’ennesima scalinata di marmo, solo che
questa era spigolosa, più convenzionale e maestosa, e non a
chiocciola.
«Facci strada, Freddie».
Seguirono il domestico dall’altro lato della casa e poi
salirono al primo piano. Durante il tragitto Cathleen lo aveva anche
affiancato e gli aveva stretto il braccio, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio. Il sovrano aveva afferrato qualche parola, quel
che bastava per capire che lo stava ringraziando per aver tenuto in
ordine la stanza di sua madre.
«È un piacere, signorina. Ogni mattina raccolgo
personalmente i fiori».
A quella risposta ad alta voce, Cathleen guardò
Artù con la
coda dell’occhio, rossa come un peperone, come se si
vergognasse di sentire la mancanza di sua madre. Lui
avrebbe voluto dirle che non c’era nulla di male, ma fu solo
una delle tante considerazioni che non riuscì a farle.