「 Roxbury,
Boston, 12th April
h. 03:12
p.m. 」
Jude corre a perdifiato, lo scalpiccio dei suoi passi affrettati
riecheggia rimbalzando lungo le strade di Boston. Fortunatamente il
commissariato non è poi così lontano dalla zona
di Southwest Corridor, perciò anche senza correre avrebbe
raggiunto gli altri in pochissimo tempo.
Quella, tuttavia, è un’emergenza vera e propria,
per cui Jude non riesce a fare a meno di trovare adatta
quell’andatura.
Le braccia si muovono lungo i suoi fianchi a ritmo delle gambe, solo
che il ragazzo non riesce a darci peso, la mente completamente occupata
dalle parole che, poco prima, David gli ha rivolto, al telefono.
Hanno arrestato Caleb.
Jude trattiene le imprecazioni tra i denti – cazzo, cazzo, cazzo –
mentre sfreccia con folle velocità, attraversando la strada
e fiondandosi all’interno del commissariato senza pensarci
troppo. Solo quando ormai si trova all’interno della
struttura sembra ricordarsi di dover mantenere un comportamento
appropriato a quel luogo, perlomeno se non vuole finire a fare
compagnia in cella a Caleb, così si decide a prendere dei
respiri profondi, immobilizzandosi sul posto.
Si guarda attorno, confuso: non è mai stato in quel luogo,
tant’è che adesso si sente come un pesce fuor
d’acqua. Tutt’attorno a sé ci sono
agenti in divisa che si muovono da una parte all’altra del
distretto con assoluta tranquillità e disinvoltura
– e Jude per questo li invidia anche un po’, come
vorrebbe sapere a sua volta dov’è che deve
andare…
«Serve una mano?»
Jude si volta di scatto, sorpreso di sentire quella voce. È
abbastanza certo che, chiunque sia stato a parlar lare, si stesse
rivolgendo a lui: d’altronde, dubita che altre persone
lì attorno possano avere la stessa espressione smarrita che
sa di avere in quel momento sul suo volto.
Jude ci mette un po’ a mettere a fuoco l’ambiente
attorno a sé e, quando finalmente ci riesce, si accorge
della presenza di un piccolo gabbiotto alla sua sinistra.
All’interno di esso c’è una donna
– anch’ella con indosso una divisa da agente
– che lo sta squadrando attentamente. Il ragazzo non ha dubbi
che lo trovi incredibilmente inadeguato; d’altronde, sa
perfettamente di essere la persona meno in ordine del mondo, in quel
momento: con la sua aria affannata, il volto paonazzo per lo sforzo
dovuto alla corsa di poco prima e i vestiti malridotti non è
certo un gran bello spettacolo. Magari crede che sia un ladruncolo alle
prime armi venuto a costituirsi, chi lo sa.
«Ehm» dietro la schiena Jude si tortura le mani,
alquanto a disagio «sono qui perché mi ha chiamato
un mio amico, dicendo che uno di noi era stato arrestato e portato in
centrale—»
Il ragazzo si blocca all’istante quando nota lo sguardo della
donna squadrarlo da capo a piedi. Inutile dirlo ma quella sorta di
radiografia non fa che mettere Jude ancor più in imbarazzo.
«Ahh, ho capito» commenta la donna, mentre torna a
fissare il ragazzo in volto «deve trattarsi di quei tre tipi
poco raccomandabili arrivati qualche minuto fa. Santo cielo, non la
smettevano un momento di urlare…»
Jude vorrebbe dirle che non
ha capito niente, che qualsiasi idea si sia fatta di loro
sta certamente sbagliando. Peccato che non abbia tempo, per quelle
sciocchezze.
«Urlavano? Allora deve trattarsi sicuramente di
loro» Jude si lancia in direzione della scrivania,
osservandola intensamente attraverso il pannello di plexiglass che li
separa «e mi dica, adesso dove si trovano?»
«Beh, il detective Cormac ha portato di sopra, al primo
piano, il teppista che ha arrestato, probabilmente in sala
interrogatori per poterlo torchiare per bene—»
Jude non le dà il tempo di finire la frase che è
già schizzato in direzione delle scale, senza neppure
ringraziarla. Ha saputo ciò di cui aveva bisogno, ora ha ben
altro di cui occuparsi.
Non appena raggiunge il primo piano si trova per un momento di nuovo
senza la minima idea di dove andare, perlomeno finché non
sente un gran vociare provenire dalla sua destra. Jude neanche
controlla, è già partito in quella direzione,
riconoscerebbe quei timbri – uno roco e profondo,
l’altro più acuto e squillante –
all’incirca tra milioni. Ora, infatti, vede nitidamente
davanti a sé Joe e David, mentre continuano a tormentare
l’uomo che è appena uscito da una stanza in fondo
al corridoio, chiudendo la porta alle proprie spalle. A Jude non ci
vuole molto per capire che deve trattarsi del detective Cormac a cui
gli ha accennato poco prima la donna all’entrata.
«La prego, non può trattenerlo» afferma
David, agitando convulsamente le braccia «state commettendo
un grosso sbaglio, non avete motivo per non lasciarlo andare!»
«Beh, questo sta a noi stabilirlo» replica Cormac
– un uomo sulla trentina, al massimo trentacinque anni,
dall’aspetto tutto d’un pezzo e una zazzera
arruffata di capelli castani – impassibile «e
comunque il vostro amico è stato colto in flagrante sulla
scena di un reato, per cui lasciarlo andare sarebbe piuttosto
folle.»
«Questa è
un’assurdità» sbotta Joe, con veemenza
«e sentiamo, quali sarebbero queste prove?»
Il detective Cormac appare piuttosto spazientito, con ogni
probabilità è sul punto di esplodere e sta per
intimare ai ragazzi di lasciar fare alla polizia il proprio dovere,
aggiungendo che, se davvero Caleb è innocente, allora loro
lo scopriranno senza ombra di dubbio; Jude tuttavia sente che, qualora
lasciasse morire così quella conversazione, forse per Caleb
non ci sarebbero possibilità di scampo: è per
questo che, ne è certo, deve fare qualcosa – e
anche alla svelta, in effetti.
«Joe! David!» si affretta allora a chiamare i suoi
amici, cercando di attirare la loro attenzione.
I due ragazzi si voltano subito nella sua direzione, sorpresi di
avvertire una voce amica in quel mare di persone sconosciute e infide.
«Jude!»
David si lancia letteralmente addosso al ragazzo per salutarlo
– e per questo Jude si becca un’occhiataccia da
parte di Joe – come se in quel momento avesse disperatamente
bisogno del suo sostegno fisico e psicologico. E, in effetti,
è esattamente così.
«Meno male che sei arrivato» riprende David,
continuando a tenersi stretto a lui «non riusciamo a parlare
con Caleb, sembra che nessuno qui voglia dirci cosa sta
succedendo—»
Jude intreccia mollemente una mano tra i capelli turchini di David,
carezzando lievemente la chioma del ragazzo e sperando, almeno con quel
gesto così apprensivo e premuroso, di riuscire a calmarlo un
po’.
«Shh, vedrai che adesso andrà tutto a
posto» mormora, senza troppa convinzione.
In realtà, Jude non sta fissando David: il detective Cormac,
infatti, non gli ha ancora tolto lo sguardo di dosso da quando li ha
raggiunti, così adesso il ragazzo si è deciso a
fronteggiare con decisione quello sguardo, senza la minima intenzione
di retrocedere nei propri intenti.
«Salve» s’introduce il ragazzo coi
dreadlock, agitando appena i piedi sul posto – quel genere di
situazioni lo mettono sempre così a disagio «non
è che potrei parlarle un momento in privato?»
Cormac annuisce, senza troppa convinzione, per poi distendere un
braccio di lato, indicandogli di avviarsi in quella direzione.
Jude tiene gli occhi bassi e fissi sul pavimento – una
monotona sequenza sempre uguali di piastrelle avana di medie dimensioni
– mentre si avvia mestamente lungo il corridoio. Il detective
lo segue, a pochi passi di distanza; a Jude sembra quasi di sentire il
fiato dell’uomo sul suo collo ed è abbastanza
certo che no, quella non è una suggestione, affatto.
Poco dopo il ragazzo è costretto a fermarsi,
perché si accorge solo in quel momento di essere giunto al
termine del corridoio. Ora, infatti, davanti a lui si trova una
finestra, la tenda a sottili losanghe di ferro è abbassata,
tuttavia attraverso lo spazio tra una strisciolina di metallo e
l’altra Jude riesce a distinguere la presenza di un piccolo
parco pubblico, qualche metro sotto di loro.
«Allora» il detective Cormac si schiarisce la voce,
evidentemente seccato da quella che, con ogni probabilità,
non riesce a concepire in maniera differente da un’inutile
perdita di tempo «di che cos’è che
volevi parlarmi?»
«Perché avete fermato quel ragazzo?»
Jude arriva subito al sodo: sa perfettamente, infatti, che in una
situazione come quella non si può permettere nessuna sorta
di perdite di tempo.
«Lo abbiamo beccato mentre stava ritirando della merce da un
piccolo spacciatore, in un vicolo appartato nella zona della Back
Bay» gli spiega allora Cormac, con una calma che ha del
sorprendente – ma che, al contrario, non fa altro che far
innervosire ancora di più Jude «solo qualche
grammo d’eroina, niente di eclatante, a dire la
verità. Il suo fornitore è riuscito a darsela a
gambe nella confusione generale – due agenti avevano appena
fatto irruzione nel vicolo – mentre il tuo amico non ha avuto
modo o tempo di fare altrettanto.»
Jude abbassa di scatto lo sguardo, ritrovandosi improvvisamente a
fissare il parchetto di poco prima. La situazione è
più complicata di quanto immaginasse, cazzo. Sa che Caleb
non assume assiduamente sostanze stupefacenti, di solito capita con una
cadenza saltuaria di all’incirca una volta ogni cinque o sei
mesi. Da quando frequenta Camelia quella frequenza è perfino
diminuita, per cui Jude non può fare a meno di notare, per
l’ennesima volta, quanto il destino sappia essere infame:
possibile che Caleb dovesse farsi beccare proprio in
un’occasione del genere? E dire che, in generale,
è sempre piuttosto attento, quando si tratta di non farsi
scoprire dalla polizia. Oltretutto, è un delinquente
abbastanza esperto, ormai, perciò Jude non riesce proprio a
spiegarsi come possa essere possibile che si sia lasciato cogliere
tanto facilmente con le mani nel sacco.
Jude sospira: detesta dover ricorrere a quell’escamotage,
tuttavia dubita di poter risolvere la questione in altri modi.
«Ascolti, detective» esordisce infatti, mentre
comincia a rovistare all’interno delle tasche dei suoi
pantaloni «da quello che mi è parso di capire non
c’è modo di interloquire con la persona che avete
fermato. A questo punto mi vedo costretto a dover chiamare mio padre,
il candidato governatore Sharp, affinché si metta in
contatto con i suoi superiori ed interceda in modo da potermi concedere
un colloquio con il ragazzo arrestato. Tuttavia, qualora preferisse
evitarsi un richiamo da parte del capitano del suo distretto, forse
potrebbe procedere in qualche altro modo, non trova?»
Jude estrae finalmente il telefono e fa per comporre il numero di suo
padre sulla tastiera, quando d’improvviso il detective lo
interrompe bruscamente.
«Se credi che io sia quel genere di persona che si lascia
corrompere così facilmente ti sbagli di grosso,
ragazzo» commenta infatti Cormac, avviandosi a grandi falcate
lungo il corridoio.
A Jude non resta altro da fare che seguirlo. D’altronde, il
suo non era nient’altro che un bluff: non avrebbe mai potuto
chiamare suo padre, poiché sa bene quanto disprezzi la sua
scelta di frequentare una banda di delinquenti, per cui mai e poi mai
sarebbe sceso in campo per porgergli il suo aiuto – e forse,
in fin dei conti, Jude è quasi più lieto
così, considerando quanto altrimenti il signor Sharp gli
avrebbe fatto pesare una cosa del genere.
In effetti, non c’è nulla di piacevole nel dover
ricorrere al potente nome di suo padre pur di riuscire a sbrogliare
determinate situazioni. Jude non ama riempirsi la bocca di quel cognome
pesante come macigni, anzi, non fosse stato che i suoi amici erano
già a conoscenza dell’identità dei suoi
genitori dai tempi della scuola, probabilmente avrebbe preferito
nascondere perfino a loro le sue origini. Gradisce in maniera di gran
lunga maggiore essere ricordato come “Jude”,
piuttosto che per essere “il figlio del candidato governatore
Sharp”: in poche parole, ha sempre preferito che gli altri lo
identificassero per i propri meriti, anziché quelli di suo
padre. Per questo motivo cerca sempre di non avvalersi di privilegi
che, per ovvie ragioni, il suo nome è in grado di
conferirgli. Non è un pallone gonfiato, si domanda come
certa gente possa sentirsi grande e importante per una roba del genere,
quasi come se questo li legittimasse a gonfiare il petto o cose di
questo tipo.
Peccato che, invece, in una situazione come quella gli sia toccato
farne uso.
Cormac si arresta davanti alla porta della sala interrogatori,
posandosi per un momento le mani sui fianchi, per poi poggiarne una
sulla spalla di Jude.
«Hai cinque minuti» gli comunica il detective, con
espressione seria «non uno di più.»
«La ringrazio» commenta Jude, proprio un momento
prima che Cormac possa spingerlo all’interno della stanza e
chiudere la porta alle sue spalle.
La sala interrogatori è una stanza vuota, che Jude non
stenta a definire desolante e desolata al tempo stesso: le pareti sono
di un verde scolorito che infonde una tristezza indicibile, oltre al
fatto che ci sono diverse macchie scure di muffa negli angoli
più defilati del soffitto. Gli unici complementi
d’arredo presenti sono un tavolo al centro della stanza e due
sedie, una di fronte all’altra, poste ai lati di esso. Una di
queste, tra l’altro, è occupata proprio da Caleb.
Il ragazzo è seduto in maniera scomposta, una gamba
accavallata sull’altra poggiate sul tavolo, le braccia
incrociate dietro la nuca mentre col busto si tiene in equilibrio,
facendo dondolare la sedie su cui si è accomodato solo sulle
due gambe posteriori. Ha un’espressione indolente, come se
essere lì sia la cosa più noiosa del mondo, per
contro tuttavia non sembra affatto spaventato dal fatto di essere stato
appena arrestato e di trovarsi adesso in un commissariato –
il che non può che mandare Jude ancor più su
tutte le furie di quanto già non sia.
Quand’è che quel ragazzo comincerà a
rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni e magari anche a
prendersene carico, eh?
Nel momento in cui si accorge della presenza dell’altro nella
stanza, Caleb sogghigna.
«Cos’è, è arrivato il
principe dall’armatura scintillante a salvarmi?»
commenta allora, con evidente tono canzonatorio.
«Ma falla finita» sbotta Jude, prendendo posto
sull’unica altra sedia disponibile con uno scatto irato, la
voce che suona più ammonitrice del previsto «tu,
piuttosto: si può sapere cos’hai combinato, questa
volta?»
Caleb sbuffa, con quell’espressione di noncuranza che proprio
non ne vuole sapere di scomparire dal suo volto.
«Ma farti i cazzi tuoi?» replica Caleb, con
malcelata irritazione. «Come se non te l’abbiano
già detto…»
«Non fare finta che non te ne freghi niente» lo
riprende Jude. Sta davvero faticando a trattenere la stizza che prova
in quel momento; vorrebbe riempirgli la faccia di sberle, in fondo
però sa già che non lo farà mai:
entrambi cercano sempre di fare i duri ma ormai è innegabile
che ci sia un legame, tra loro. Qualcosa di estremamente complesso da
definire, certo, eppure, superato uno strato superficiale di diffidenze
e rivalità reciproche, pare proprio che abbiano imparato a
volersi bene
– per quanto in un modo strano e tutto loro.
«Non è che non m’importi»
ribatte Caleb, pensieroso «solo che ormai il casino
l’ho combinato, no? Per cui immagino che tu adesso sia qui
per farmi notare quanto sono deficiente e
quant’altro—»
Jude scuote la testa, infastidito.
«Credimi, per quanto mi piacerebbe poterlo fare adesso non ne
abbiamo proprio il tempo materiale» gli fa notare infatti,
cercando di far risultare il suo tono di voce quanto più
neutrale possibile «al momento la nostra priorità
è tirarti fuori di qui…»
«Ah, sì? E come penseresti di fare, di
grazia?» Caleb scoppia a ridere, di un riso amaro e
disilluso. «Jude, so che ti hanno cresciuto facendoti credere
questo, ma lascia che t’insegni una cosa: non è
così che funziona il mondo. Non siamo tutti come te, che ti
basta schioccare le dita per avere tutti ai tuoi piedi. Sai
com’è, ho avuto la sfortuna di nascere Caleb
Stonewall, per cui nulla mi è dovuto. Non ho un padre
ricchissimo alle mie spalle pronto a procurarmi il migliore avvocato su
piazza o disposto a versare qualsiasi cifra esorbitante di cauzione pur
di tirarmi fuori di qui. C’è chi se lo
può permettere e chi no, insomma.»
«Beh» Jude si stringe nelle spalle, a disagio; non
è che gli faccia piacere sentire gli altri rivolgersi a lui
in quel modo, tuttavia comprende che la situazione in cui Caleb si
trova in quel momento non sia delle migliori, per cui decide di
fargliela passare – ma solo per quella volta «forse
tu non hai tutto ciò… ma, come hai detto, io
sì. Senti, sappiamo entrambi che il rapporto tra me e mio
padre non sia propriamente idilliaco, però… forse
posso convincerlo. Gli dirò che tornerò a casa,
che riprenderò ad andare a scuola e la farò
finita con questa vita e che questo sarà l’ultimo
sacrificio che dovrà compiere per me. Forse…
potrebbe pure funzionare. Per cui ascolta, non abbiamo molto tempo a
nostra disposizione—»
«Tks» Caleb lo interrompe, con un verso sprezzante
«non sei il mio legale, è inutile che ti affanni
tanto a preparare una versione dei fatti che potrei usare in mia
difesa. L’hai detto tu, Jude, il rapporto tra te e tuo padre
è disastroso, perciò perché mai
dovrebbe aiutarti? Riempirti la bocca di belle parole non
servirà a nulla: quell’uomo non è uno
stupido, non ci metterà molto a capire che gli stai
raccontando un mucchio di balle. E poi, se anche dovesse decidere di
prendere a cuore la tua causa, il candidato governatore Sharp
potrà pure trovare l’avvocato migliore del mondo,
ciò non toglie tuttavia che gli sbirri mi abbiano beccato
con le mani nel sacco. Sono colpevole, per cui sbrogliarsi da una
situazione del genere sarebbe piuttosto difficile. Piuttosto, visto che
riconosci tu stesso che non abbiamo molto tempo – a quanto
pare, per quanto tu possa andare in giro a ripetere a vanvera di chi
sei figlio, i tuoi fantastici superpoteri hanno un limite –
sarà meglio occuparci di questioni davvero serie: visto che
non credo che uscirò da qui tanto facilmente, dobbiamo
vedere come riorganizzare la banda. In qualità di vice
leader, mi pare ovvio che adesso il comando passerà a te,
per cui—»
A questo punto, Jude non riesce più a trattenersi. Sbattendo
entrambe le mani con veemenza sul tavolo, si rimette in piedi, con uno
scatto improvviso. Quel ragazzo riesce sempre a fargli tirare fuori il
peggio di sé: lui, sempre così tranquillo e
posato, improvvisamente si sente come se non riuscisse più a
controllare le proprie reazioni. Oltretutto, la calma imperturbabile
con cui Caleb continua ad osservarlo, negli occhi perfino una sfumatura
a metà tra la sfida e lo sbeffeggiamento, non può
che farlo infuriare ancora di più.
«Mi prendi in giro? Non riorganizzerai proprio nessuna banda!
Sei tu il capo di questa cosa, e io non ho alcuna intenzione di
prendermi responsabilità che non mi appartengono. Sono
venuto qui con l’unico intento di tendere una mano nella tua
direzione, perché sono tuo amico, perché in fin
dei conti ci tengo a te; hai sbagliato, va bene, questo però
non significa che tu non possa porre rimedio ai tuoi errori. Davvero
credi che mi faccia piacere riempirmi la bocca col nome di mio padre?
Hai ragione, il nostro rapporto fa pena, anzi potrei dire quasi con
assoluta certezza che ormai tutti i ponti tra noi sono
pressoché saltati: io lo odio, con tutte le
mie forze, tuttavia ho preferito tirar fuori il suo nome
perché volevo aiutare te.
Ma visto che non ci arrivi e che, a quanto pare, non desideri ricevere
questo genere di aiuto, i miei sono stati tutti sforzi vani»
sbotta Jude, al limite della collera.
È abbastanza sicuro che Caleb non l’abbia mai
visto così arrabbiato; tuttavia, per qualche strana ragione,
sul volto del ragazzo dal ciuffo castano continua a non essere presente
alcun tipo di inflessione.
Jude si accorge solo in quel momento di star provando un forte dolore
alle palme delle mani. Lancia loro uno sguardo distratto, accorgendosi
solo in quel momento che, al momento dell’impatto con quel
tavolaccio di legno, diverse schegge di legno si sono conficcate nella
sua pelle, formando dei piccoli taglietti in più punti, che
ora sembrano decisamente sul punto di sanguinare. Gli viene quasi da
piangere, finisce tuttavia per ricacciare indietro le lacrime
– sta già facendo una figura ridicola, agli occhi
di Caleb, per cui meglio non renderla ancor più patetica.
«Sì, beh, resta il fatto che stai prendendo un
po’ troppo sottogamba un punto fondamentale della
questione» gli fa notare Caleb, con calma glaciale
«tuo padre non ti aiuterà mai, non dopo che te ne
sei andato di casa e hai smesso di andare a scuola. Inoltre, appena
saprà che sono uno dei delinquenti che vorrebbe tanto
sbattere a marcire per sempre in gattabuia, figurati come si
muoverà in mio soccorso. Si prodigherà e
farà qualsiasi cosa per darmi una mano, certo. A quel punto,
come vorresti convincerlo ad aiutarmi? Promettendogli che ti rimetterai
a studiare e che tornerai a casa da lui? Pensi che non si renderebbe
conto che gli stai raccontando una cazzata dietro l’altra? E
tu, non ti sentiresti in colpa a mentirgli così? Ti ricordo
che non puoi troncare così con la banda. Abbiamo un patto:
tu resti e noi evitiamo di andare in giro a sbandierare ai quattro
venti che il figlio del candidato governatore del Massachusetts, che
tanto si prodiga a estirpare le gang criminali dalla sua tanto amata
città di Boston, in realtà è il primo
a farne parte. Anche un neonato capirebbe lo scandalo enorme che
verrebbe fuori se questa notizia cominciasse a circolare. Visto che,
nonostante tutto l’odio che provi nei suoi confronti, hai
voluto parare il culo al tuo vecchio, vedi bene di non fare
cazzate.»
D’un tratto tutto torna ad essere secondario, per Jude: il
dolore alle mani, l’umiliazione di dover essere ricorso al
proprio cognome pur di entrare là dentro… niente
ha più valore.
Si sente svuotato di ogni certezza. Per quanto possa aver provato a
offrire il proprio aiuto al suo amico, sembra quasi che Caleb abbia
alzato una barricata tra loro, rifiutando con decisione ogni suo
tentativo di mettergli a disposizione una via d’uscita.
Irato, ferito e deluso, Jude si sente totalmente, completamente inutile. Se non
c’è modo di tirare fuori Caleb da lì
– che continua comunque a scartare ogni soluzione che gli
propone – allora la sua permanenza lì è
davvero inutile.
«Benissimo» conclude allora, la voce deformata
dall’avvilente sensazione dell’insuccesso
«visto che la mia presenza qui, a quanto pare, è
totalmente inutile, vedrò di togliere il disturbo.
D’altronde immagino che sarai bravissimo a risolvere tutto
anche da solo, no, Caleb?»
Detto questo, Jude si volta di scatto, raggiungendo l’uscita
della stanza con delle ampie falcate e lasciando che la porta si chiuda
alle sue spalle con un colpo deciso, senza dare a Caleb la
possibilità di replicare.
Nel giro di pochi secondi, David e Joe stanno già accorrendo
nella sua direzione.
«Jude, allora, com’è andata?»
gli domanda il primo, mentre sta ancora percorrendo la distanza che li
separa.
Jude dubita di essere nelle condizioni di poter intrattenere una
discussione del genere, adesso. Sente di nuovo il bisogno di restarsene
un po’ da solo – incredibile come siano aumentati i
momenti del genere, ultimamente.
«M-mi dispiace, non me la sento di
parlarne…» cerca di mormorare, lo sguardo basso e
fisso sul pavimento.
«Ma… perché? È successo
qualcosa che non va?» prova ad insistere David.
Gli occhi di Jude ora saettano da una parte all’altra del
lungo corridoio in cui si trovano, inquieti. Cosa potrebbe dire loro,
d’altronde? Che ha fallito su tutta la linea e che Caleb ha
preferito restarsene in gattabuia, piuttosto che accettare il suo aiuto?
«Scusate, io… non posso» conclude
infine, scansando le braccia di Joe e David, che cercano di trattenerlo.
Prima che possa accorgersene, sta già correndo
giù per le scale, e poi fuori, via da lì, lontano.
「 Southwest
Corridor, Boston, 12th April
h. 11:43
p.m. 」
Perduto. È
tutto perduto, stavolta.
Jude si immerge nelle tenebre della tana di Southwest Corridor fino a
lasciare che il buio gli ferisca gli occhi, restando noncurante anche
quando gli arti iniziano a dolergli, dopo essere rimasto fermo immobile
nella stessa posizione per diverse ore.
È tutto
perduto.
Dopo essere fuggito dal commissariato di polizia è stato
quasi istintivo rifugiarsi lì, per lui. Dopotutto,
è un po’ come se tutto fosse iniziato proprio in
quel luogo: l’incontro con i ragazzi, che l’hanno
trascinato sempre più verso l’abisso della
perdizione.
E adesso che ci si trova
dentro fino al collo, è ormai impossibile riemergerne, per
lui.
Nella mano destra stringe forte il collo di una bottiglia di birra.
È l’unica cosa che si è premurato di
prendere, prima di nascondersi lì. Annegare i dispiaceri
nell’alcol non è mai stato il suo modo preferito
per risolvere le situazioni, questa volta però lo scenario
che ha davanti gli appare talmente drastico che non riesce ad
immaginare di poter ricorrere a soluzioni differenti da quella.
Butta giù un’altra sorsata di quella bevanda
amara, che gli raschia la gola e gli brucia le pareti dello stomaco. In
fin dei conti, però, a Jude quel dolore risulta fin
sopportabile, se solo ripensa invece a quanto male gli abbiano fatto le
parole di Caleb di quel pomeriggio.
Ha rifiutato il suo aiuto, come se tutti i mesi trascorsi insieme di
colpo non valessero più nulla. Era convinto di essere
riuscito a trovare finalmente dei veri amici, invece se Caleb preferiva
per testardaggine e amor proprio restare in prigione anziché
accettare l’aiuto che gli aveva offerto, allora Jude si
chiede se non sia stato lui l’unico stupido ad essersi
affezionato, in tutto quel tempo.
Aveva iniziato a frequentare la banda perché si era sentito
ricattato: se non l’avesse fatto, non solo la sua reputazione
di studente modello sarebbe stata rovinata, inoltre Caleb non avrebbe
esitato un momento prima di mettere in circolazione la voce che il
figlio di un candidato governatore trascorreva buona parte del suo
tempo con dei teppisti.
Sì, aveva preferito salvare il nome di suo padre,
permettergli di avere ancora qualche speranza di vittoria nelle
prossime elezioni, tuttavia così facendo aveva perso tutto
ciò che gli era più caro: la scuola, la famiglia,
gli amici e perfino la persona che amava.
Se si fosse venuto a sapere che il figlio del candidato governatore
Sharp faceva parte di una delle gang criminali che il padre tanto si
era impegnato ad estirpare, nel suo programma elettorale, sarebbe stata
la fine. Così aveva preferito abbandonare la scuola, finendo
per farsi odiare da suo padre, piuttosto che dar vita ad un tale
scandalo. Jude detestava trovarsi sotto la luce dei riflettori, per cui
al pensiero di potersi evitare delle grane aveva subito deciso di
accettare quel compromesso – per quanto disgustoso
continuasse a sembrargli.
Non aveva messo in conto però che, così facendo,
avrebbe perso anche l’unica persona che avesse mai amato
davvero.
Ripensare a Ray è come ricevere una coltellata dritta nello
stomaco, il che costringe Jude a bere subito un altro sorso di birra.
Dicono che l’alcol aiuti a dimenticare, ma la
verità è che non fa altro che renderti la testa
così terribilmente pesante, il che contribuisce a riportarti
alla mente tutti quei pensieri così maledettamente dolorosi
che vorresti dimenticare. Altro che leggerezza.
Jude sblocca il telefono con un gesto rapido, quasi senza nemmeno
accorgersene. Ormai quella per lui è un’azione
talmente naturale che gli viene spontanea compierla.
Una luce fioca invade il seminterrato. Ci sono diverse chiamate da
parte di Joe e David, oltre a qualche messaggio – Jude non ha
nemmeno bisogno di controllare per sapere che anche questi siano loro
– ma per il resto niente di che. Se fosse scomparso un anno
fa, probabilmente adesso si sarebbe ritrovato inondato di telefonate
senza risposta e sms non letti, invece adesso la lista di persone a cui
importa ancora qualcosa di lui è talmente corta che forse
non dovrebbe sorprendersi poi nemmeno così tanto se non lo
cerca più nessuno.
Fino a neanche un mese fa, forse, le chiamate sarebbero state molte di
più: d’altronde, allora c’era ancora Ray
a preoccuparsi per lui…
Altra fitta di dolore,
stavolta al cuore. Altro sorso di birra.
In quel momento un rumore sordo – lo scatto di una serratura
– lo fa sobbalzare sul posto. Istintivamente fa spegnere il
telefono, mentre si rannicchia ancor di più nel suo
nascondiglio dietro al divano. Si rende conto da solo che da
lì è comunque perfettamente visibile, tuttavia
preferisce di gran lunga continuare a cullarsi in quella dolce
illusione, piuttosto che abbandonarsi ancora una volta alla dolorosa
realtà.
Ah, come sono belle le
bugie…
Forse dovrebbe ragionare, dirsi che non c’è
pericolo che qualcuno possa entrare là dentro con
l’intenzione di fargli del male –
d’altronde a chi potrebbe mai venire in mente
un’idea del genere? – ma evidentemente ha
così tanto alcol in corpo che i pensieri razionali non sono
una sua prerogativa, al momento.
Prima che la porta si chiuda del tutto le luci che giungono in
lontananza dalla strada gli permettono di distinguere due figure nel
buio, avvinghiate l’una all’altra. Una di esse
è più alta, una chioma leonina e rossiccia a
troneggiargli sul capo, l’altra è leggermente
più bassa, i lunghi capelli turchini che ondeggiano
nell’aria mentre si abbandona alle effusioni che il suo
amante gli rivolge.
Joe e David. Jude avrebbe dovuto aspettarsi che si sarebbero rifugiati
anche loro lì, dopotutto.
Schiocchi di baci intensi e famelici si susseguono uno dietro
l’altro, con un ritmo serrato. Joe solleva il corpo di David
afferrandolo per i glutei, cogliendo così
l’occasione di stringerli tra le proprie mani. David geme,
mentre sente le labbra di Joe lasciargli baci umidi e furiosi sul
collo. La schiena del turchino cozza e si strofina con violenza contro
il muro grezzo, alcuni tagli si formano sulla pelle color caffellatte
del ragazzo.
Jude sente che in tutta quella situazione c’è
qualcosa di profondamente sbagliato. Non saprebbe nemmeno dire con
certezza da che cosa sia suscitata quella sensazione di indignazione
– perché sì, sa perfettamente che
è d’indignazione che si tratta –, se dal
vedere i suoi amici intenti in atteggiamenti così intimi
mentre un loro compagno è stato arrestato dalla polizia o
dal fatto che si stia limitando a sua volta a restare lì
inerme a guardarli, tuttavia deve ammettere che gli è
davvero difficile tenerla a bada, in quel momento.
Joe scende le scale d’ingresso, con ancora David in braccio,
nel frattempo però non smette di tempestare le labbra e il
collo del ragazzo di baci, così come l’altro non
riesce a fermare i suoi gemiti.
Nel momento in cui arrivano sul divano, Joe sfila senza esitazioni la
maglietta di David, accarezzandogli così tutto il torace.
Questo suscita del ragazzo nuovi tremori e mugolii, mentre si sente
spingere verso i cuscini logori sotto di sé.
Il corpo di Joe lo segue di riflesso, la testa che plana verso il
basso; è solo allora che, tuttavia, si accorge della
presenza di un’altra persona all’interno della
stanza, il suo sguardo che per un momento ne intercetta la figura.
«Chi c’è?» domanda di scatto,
la voce impastata.
Jude sobbalza appena sul posto, facendo attenzione a non farsi sentire.
A giudicare dal tono alticcio di Joe, non deve essere stato
l’unico a ricorrere all’alcol, a quanto pare.
«Shh, Joe, non c’è nessuno…
vedrai che sarà stata solo una tua
impressione…» mormora David, strofinandosi con
impazienza contro il corpo dell’altro. È evidente
che non riesca più a tenere a bada l’eccitazione,
ormai.
«No, c’è qualcuno, ne sono
sicuro…» replica Joe, la voce ebbra
d’alcol che ha lo stesso suono di una catena di metallo
trascinata pesantemente al suolo. «Esci allo scoperto, se non
vuoi vedertela con me…!»
Jude riflette distrattamente che devono essere davvero ubriachi marci,
se non sono riusciti a rendersi conto che, al momento,
l’unica altra persona oltre loro che conosce quel luogo e che
vi può tranquillamente avere accesso è proprio
lui. Così, seppur di malavoglia, si tira su in piedi.
«Joe, David, sono io, Jude» ammette infine, la voce
lenta di chi sta spiegando per l’ennesima volta un concetto
fin troppo semplice ad un bambino testardo, che non vuole recepirlo in
alcun modo.
«Jude! Che ci fai qui?» David ridacchia, la sua
voce è simile ad un trillo di campanelle.
Jude valuta distrattamente che rispondere a quella domanda sia
piuttosto inutile, anche se sono tutti e tre ubriachi:
fondamentalmente, il motivo per cui si trova lì è
esattamente lo stesso degli altri due ragazzi, ossia quello di riuscire
a trovare un po’ di pace, dopo tutte le preoccupazioni che
hanno riempito loro la mente, durante il giorno. Si domanda come David
faccia a non arrivarci, nonostante tutto l’alcol che deve
avere in corpo al momento, alla fine però arriva alla
conclusione che ciò non abbia assolutamente alcuna
importanza.
I suoi pensieri vengono di colpo interrotti nuovamente dalla voce di
David.
«Ehi, Jude, non è che hai voglia di unirti a
noi?» gli domanda infatti, senza riuscire a smettere di
ridere – uno degli effetti collaterali dell’alcol,
valuta in fretta Jude.
La cosa che più lo sorprende è il silenzio che
segue, poco dopo. Stenta a crederci, evidentemente tuttavia i due si
aspettano davvero una risposta da parte sua.
Per un momento Jude s’immagina come potrebbe essere trovarsi
conteso tra quei due fuochi: i corpi dei suoi due migliori amici
premuti contro il proprio, petto contro petto con Joe mentre il torace
di David aderisce perfettamente alla sua schiena; lascia vagare i
pensieri e le fantasie più recondite, le mani dei due
ragazzi che lo sfiorano ovunque, mentre, inginocchiati sul divano
rotto, avverte quelle dita scivolare sotto i suoi pantaloni. Per un
momento le guance di Jude avvampano: forse sarebbe bello, per una
volta, lasciarsi andare a quelle sensazioni così piacevoli,
permettere a Joe d’impossessarsi del proprio corpo mentre lui
fa lo stesso con quello di David. Eppure si rende conto in fretta
– fin troppo
in fretta, per i suoi gusti – che, tuttavia,
tutto ciò non basterebbe a cancellare dalla sua mente quei
brutti pensieri così opprimenti che ultimamente
l’albergano. Sa inoltre che, in fondo al proprio cuore,
continua a desiderare di poter far sì che certe cose
avvengano solo con Ray. Sì, ora lui non
c’è più, però è
passato ancora troppo poco tempo per pensare di tornare a fare
ciò con chiunque altro che non sia lui.
«Per questa volta passo» si decide finalmente a
rispondere, sperando che i due ragazzi siano così ricolmi
d’alcol da non aver fatto caso alla sua esitazione.
David ridacchia di nuovo, al limite dell’ilarità.
«Va bene, la prossima volta però non ti salverai
così facilmente» commenta infatti, stringendo le
braccia attorno al collo di Joe con uno slancio passionale, mentre
attira a sé l’altro ragazzo, inducendolo a
scambiarsi un nuovo bacio pieno d’ardore.
Jude arretra, sempre più in imbarazzo. Per un momento
inciampa, finendo per cadere all’indietro. La bottiglia di
birra che ancora teneva stretta in una mano s’infrange al
suolo, schegge acuminate di vetro che si conficcano nei palmi delle sue
mani, formando dei lievi tagli che iniziano subito a sanguinare. Jude
cerca di non farci troppo caso, ignorando il bruciore cieco che ora
avverte e tirandosi di nuovo subito in piedi. Spera di non aver fatto
troppo trambusto o perlomeno di non aver disturbato eccessivamente i
due ragazzi, a giudicare però dai gemiti accaldati che gli
giungono alle orecchie e dai baci frenetici che stanno continuando a
scambiarsi così non si direbbe. Così ne
approfitta per correre fino alla finestra rotta, dalla parte opposta
della stanza, scavalcando l’intelaiatura di ferro malandato e
arrugginito e lasciandosi cadere al di là di esso. Altre
schegge si piantano nella sua mano, mentre inciampando
sull’asfalto all’esterno si ferisce anche le
ginocchia, tuttavia – nonostante il dolore – si
affretta a scappare via da lì, la mano di Joe che
s’infila dei boxer di David e gli ansimi del turchino che si
fanno sempre più intensi.
「 Roxbury,
Boston, 13th April
h. 01:14
a.m. 」
Non si era nemmeno accorto che avesse cominciato a piovere. Ora che le
gocce di pioggia colpiscono impietose la sua pelle, tuttavia, Jude non
sembra neanche farci troppo caso.
Il rombo dell’acqua sotto di sé attira il suo
sguardo. Il fiume è nero come la notte infausta che sta
attraversando.
Il suo naso percepisce ancora l’odore di birra versata a
terra, mischiata a polvere, sporcizia e vecchi resti di vomito, un mix
tanto orrendo quanto caratteristico della loro tana che ormai nota per
abitudine. Riesce quasi a sentire ancora i gemiti acuti di David nelle
orecchie, diventati ormai la colonna sonora di quella serata da
dimenticare.
Non sa come abbia fatto a ritrovare il ponte di ferro che lui, Caleb,
David e Joe hanno attraversato ormai una vita di tempo fa, in una
fredda notte di settembre, nonostante tutto l’alcol che ha in
corpo. Forse ci saranno passati sopra così tante volte che
ormai la sua memoria ha localizzato alla perfezione quel luogo,
malgrado tutto.
Ricorda ancora l’ebbrezza e la sensazione di
felicità che l’avevano pervaso, là
sopra. Per la prima volta in vita sua s’era sentito vivo,
nonché parte integrante di un collettivo. Aveva sentito di
avere degli amici, e per Jude non c’era stato nulla di
più importante.
Ora, invece, era tutto finito. Non restava altro che il ricordo lontano
delle ruote degli skateboard che giravano veloci, il rumore intenso che
provocavano strisciando su quella superficie metallica.
All’epoca Jude non era riuscito a non trovarlo meraviglioso,
ora invece gli riportava alla mente ricordi di una felicità
che sentiva non avrebbe mai più ritrovato, così
da trovarlo infausto.
Le mani ferite e macchiate di sangue si stringono attorno alle travi
d’acciaio davanti a sé.
L’umidità, assieme alla pioggia e agli spruzzi
d’acqua che giungono da sotto le rendono scivolose, tuttavia
Jude si ritrova a ringraziare il cielo per aver fatto sì che
le sue ferite alle mani si siano già chiuse,
perché altrimenti la sensazione di viscosità
sarebbe stata così eccessiva che, con ogni
probabilità, sarebbe già finito sul letto del
fiume.
Non che la cosa gli sarebbe poi così dispiaciuta, in fin dei
conti: d’altronde, se adesso si trova in piedi, sospeso in
bilico sulle travi d’acciaio che sostengono quel ponte,
è perché in fondo ci ha pensato, a buttarsi
giù.
In fondo, non gli rimane più niente per cui lottare. Ha
perso i suoi amici nel momento in cui Caleb ha rifiutato il suo aiuto,
suo padre lo disprezza per le scelte che ha fatto e non
vorrà mai più rivederlo in vita sua e
Ray… oh, Ray…
Ha deluso perfino l’unica persona di cui gli importasse
davvero qualcosa. Rinunciando agli studi non solo ha perso
l’ultima possibilità che ancora gli rimaneva per
vederlo, inoltre l’ha ferito così tanto che Jude
non si meraviglierebbe se adesso non desiderasse più di
vederlo o se addirittura lo odiasse.
Un’improvvisa folata di vento gelido fa tremare il suo corpo,
che si sbilancia pericolosamente in avanti.
Poi, però, una voce familiare gli giunge alle orecchie.
All’inizio la meraviglia nell’udirla è
così tanta che, per un momento, Jude crede di essersi
immaginato tutto.
Quando però la sente nuovamente capisce che quella non
è altro che la realtà.
«Jude» un timbro cupo e solenne lo fa tremare come
un fuscello squassato dal vento, mentre i suoi occhi si riempiono di
lacrime.
Di riflesso il ragazzo si volta indietro ad osservare la situazione.
Sotto il diluvio universale, alcune macchine sfrecciano lungo il ponte,
incapaci di trattenersi dal suonare il clacson passando accanto ad
un’altra auto, ferma in un punto in cui la
viabilità è decisamente ridotta, lo sportello del
guidatore aperto e nessuno a bordo, mentre la pioggia bagna i sedili.
Jude valuta distrattamente che conosce fin troppo bene
quell’utilitaria nera, perché è
lì che ha ricevuto il suo primo bacio.
Il ragazzo inarca lievemente le sopracciglia, a dir poco sorpreso di
incontrarlo lì.
«Come hai fatto a trovarmi, Ray?» domanda, saltando
a piè pari i convenevoli. Non ha davvero tempo per quelli,
adesso.
«Ha davvero importanza?» replica l’uomo,
tendendo una mano verso di lui. Ha indosso un impermeabile scuro, su
cui la pioggia scivola via veloce. «Jude, Scendi da
lì, adesso, per favore. È pericoloso.»
«N-non posso…» mormora, il corpo sempre
più scosso da tremori «la mia vita non ha
assolutamente alcun senso. Io non ho motivo di
esistere…»
«Sì che ce l’hai, invece.» Ray
si trattiene a stento l’impulso di azzerare la distanza che
lo separa da Jude e trarre in salvo il ragazzo. Deve agire con cautela,
la priorità è essere certi che Jude non finisca
davvero sul fondo del fiume. «Possiamo ancora mettere a posto
tutto, insieme.»
«Non è vero!» Jude si agita sul posto,
inquieto «T-tu mi odi…»
Per un momento Ray si arresta sul colpo, sorpreso.
«Cosa? Odiarti, io? Jude, io ti amo. Se sono rimasto lontano
da te, in questi giorni, è stato perché tu mi hai
chiesto di farlo.» Ray si morde il labbro inferiore, adesso
andare avanti sta diventando difficile persino per lui.
«Dovrei odiarti per il litigio che abbiamo avuto sul terrazzo
in cima all’istituto? Eri fuori di te, comprendo che buona
parte delle cose che mi hai detto quel giorno non le pensassi davvero.
Perciò ehi, ti assicuro che non ce l’ho
assolutamente con te.»
Jude volta il capo di scatto, posando lo sguardo nuovamente sulle acque
in tempesta. Se ci pensa si sente esattamente come quel fiume,
così tormentato…
Perché, perché adesso? Come se non si sentisse
già abbastanza in colpa, ci mancava solo che colui che
dall’alto tesse i fili del suo destino gli inviasse in quel
momento proprio la persona che meno avrebbe voluto che lo vedesse in
quello stato. Sente di essere un fallimento, inoltre se
c’è anche Ray ad avere la sua disfatta davanti
agli occhi, allora il tutto si fa ancor più umiliante.
L’ultima parte razionale di sé gli sta urlando di
scendere da lì, tuttavia sente i propri sensi
così offuscati… ogni cosa è confusa.
Dovrebbe lasciarsi cadere o tornare indietro? Ray sarebbe davvero
disposto a perdonarlo o lo sta dicendo solo per non avere la sua vita
sulla coscienza? Non lo sa, dannazione, Jude giura a se stesso che
davvero non lo sa. Purtroppo, per quanto vorrebbe averne
un’idea, teme che tutto l’alcol e il dolore che ha
in corpo gli impediscano di compiere anche il più piccolo
ragionamento di senso compiuto, al momento.
Il vento gli fischia furioso nelle orecchie, facendo oscillare
pericolosamente il suo corpo verso il vuoto sotto di
sé.
«Jude, posso chiederti un ultimo favore?» la voce
di Ray lo porta nuovamente alla realtà, calma, sicura.
«Cosa c’è ancora?» domanda il
ragazzo, impaziente.
Non può vederlo poiché gli dà le
spalle, tuttavia in questo momento le labbra del suo ex insegnante sono
una linea sottile e tesissima a causa dell’ansia che prova.
«Chiudi gli occhi, per favore. Poi non ti chiederò
mai più nient’altro, te lo prometto»
propone, cercando di non far trasparire l’ansia che prova.
Jude soppesa attentamente quelle sue parole. In fondo è
notte fonda e non vede a un palmo dal suo naso, inoltre è
così probabile che, ormai, il suo equilibrio abbia anche
solo un momento di debolezza e lo faccia volare direttamente
giù nel fiume, per cui perché non dovrebbe
accontentarlo, visto che forse senza la vista a supportarlo
sarà anche più facile cadere?
Così Jude lascia che le palpebre calino sui suoi occhi.
Quasi subito una nuova raffica di vento, più intensa delle
altre, colpisce il suo corpo, facendolo sbilanciare in avanti.
Finalmente,
pensa il ragazzo. È certo infatti che ora
giungerà la fine di tutte quelle sofferenze che da mesi lo
tormentano. Un ultimo, folle volo verso il fiume scuro e poi
più niente, solo acqua gelida che gli riempie i polmoni fino
a farlo soffocare e nient’altro. Non avrebbe potuto
immaginare una fine differente, oltre al fatto che certamente la parte
migliore di quel disperato piano è la cessazione di ogni
preoccupazione, che certamente non tarderà ad arrivare,
assieme alla morte, una volta che quelle acque scure come la notte
avranno accolto il suo corpo.
Ray, tuttavia, non è dello stesso avviso. Prima che la forza
di gravità possa reclamare il ragazzo verso il fiume,
infatti, lo afferra saldamente con una mossa rapida, attirandolo ben
presto sulla terraferma, accanto a sé.
Quel momento è così veloce che Jude non ha quasi
tempo di accorgersene. Per diversi istanti resta infatti con gli occhi
chiusi anche dopo che Ray l’ha tratto in salvo, troppo
confuso per rendersene conto in una situazione del genere. Quando
tuttavia le gocce di pioggia continuano a colpirgli la fronte anche
dopo che, secondo i suoi calcoli, sarebbe dovuto essere finito nel
fiume già da qualche secondo, si costringe ad aprire gli
occhi, alla ricerca di una spiegazione per tutto ciò.
La prima cosa che riesce a mettere a fuoco è il volto del
suo ex insegnante, che lo sovrasta totalmente nel tentativo di
proteggerlo dalla pioggia. Ray gli rivolge un sorriso lieve ma
incredibilmente luminoso, l’acqua che scorre giù
dal cappuccio del suo impermeabile mentre alcuni lunghi capelli castani
sono sfuggiti dalla sua coda di cavallo e ora gli ricadono delicati
sulle guance. Jude valuta distrattamente che quell’uomo
riuscirebbe ad essere in perfetto ordine anche nel bel mezzo
dell’apocalisse.
Ray, nel frattempo, gli accarezza concitatamente le gote; Jude lo
osserva e pensa distrattamente che i suoi occhi piccoli e neri
assomigliano ai ciottoli di un torrente, scuri e levigati nel tempo dal
corso delle acque.
Il suo sguardo
è l’unico fiume in cui vorrebbe annegare.
Sembra accorgersi solo in quel momento che Ray l’ha disteso
sulla superficie metallica del ponte; lo tiene sollevato solo per la
schiena, dietro la quale ha posto una delle sue braccia forti.
La consapevolezza che il suo tentativo di suicidio sia stato sventato
lo colpisce all’improvviso, riportandolo ben presto alla
realtà.
«Perché non mi hai lasciato morire?»
domanda infatti ben presto all’insegnante, nella voce una
nota ben percepibile d’ira.
Ray non riesce a trattenere il sorriso che ben presto fiorisce sulle
sue labbra, facendo innervosire ancor di più Jude.
«Perché ti amo» risponde, con una
spontaneità disarmante «e se pensi che ti
lascerò gettare la tua vita al vento così
facilmente ti sbagli di grosso, Jude.»
Gli occhi del ragazzo si dilatano a dismisura, sorpresi, mentre piccole
lacrime iniziano a formarsi agli angoli delle sue cornee.
«Però non puoi dirmi una cosa del genere
adesso» commenta, la voce commossa.
«Oh, posso eccome, invece» ribatte Ray,
stringendolo istintivamente a sé. «Non piangere,
le tue lacrime mi spezzano il cuore…»
Jude si limita ad affondare il volto contro il petto
dell’uomo, inspirando profondamente il suo profumo. Aveva
dimenticato quanto fosse buono; se solo pensa che ha rischiato di non
poterlo più sentire, giusto fino a pochi istanti prima, non
riesce proprio a perdonarselo.
Ray, nel frattempo, gli accarezza premurosamente i capelli, cercando di
aiutarlo a calmarsi.
«Si può sapere cos’è
successo?» gli domanda, le parole quasi mormorate
nell’orecchio del ragazzo.
Jude tira su col naso, cercando di fare mente locale.
«Caleb è… è stato
arrestato» ammette, le parole che lo trafiggono come lame
«ha rifiutato il mio aiuto per uscirne e io… non
sapevo più che cosa fare. Sta andando tutto a rotoli: prima
il nostro litigio, poi questo…»
Durante tutto quel suo confusionario racconto, Ray non smette nemmeno
per un secondo di accarezzargli gli zigomi. Non riesce ad accettare di
vedere il suo ragazzo così sofferente, né mai ci
riuscirà.
«E questo ti sembra un valido motivo per morire?»
gli domanda, continuando a tenerlo stretto a sé.
«Io… non sapevo cosa fare. Mi
dispiace…» sussurra, mortificato.
«Shh… non c’è niente di cui
tu debba scusarti, Jude» lo rassicura l’altro,
distaccandosi lievemente dal corpo del ragazzo – seppur con
estremo rammarico – per poterlo guardare in volto
«te l’ho detto, siamo insieme. Risolveremo tutto,
te lo prometto…»
Gli occhi del ragazzo continuano a riempirsi di lacrime. Una di queste
inizia a scendere, solcando il volto del giovane, tuttavia le dita
abili dell’uomo la intercettano all’altezza della
guancia.
«Ti amo. Non mi lasciare mai più,
Ray…» mormora il ragazzo, trattenendo un
singhiozzo tra i denti.
Ray solleva il volto del giovane, avvicinandolo impercettibilmente al
proprio. Lascia che per alcuni brevi quanto intensi istanti le loro
labbra si sfiorino, in un contatto tanto intimo quanto dolce. Non
appena si separano, sul volto di entrambi sboccia un sorriso lievissimo.
«Ovvio che non ti lascio più. Ti amo,
Jude» ricambia, il cuore che scoppia di gioia.
Jude sente il proprio corpo venire sollevato da terra, tuttavia non ha
paura, perché sente che con passi sicuri Ray ha preso ad
avviarsi verso la propria autovettura, per mettere entrambi al riparo
da quella maledetta pioggia.
Finalmente al riparo, mentre la pioggia continua a colpire il tetto
dell’auto, i loro corpi si beano della sensazione del calore
dell’altro, così vicino. Dopo tanto tempo, in quel
momento Jude sente finalmente che tutto si sistemerà.
Angolo autrice
Ed eccoci qui, finalmente, con l'ultimo vero ed effettivo capitolo
prima dell'epilogo di questa storia!
Sapete, mi fa un effetto stranissimo dire questa cosa... è
la prima volta che porto a termine un progetto tanto importante. Per me
Dark Necessities è un po' come un figlio, vederla arrivare
alla conclusione dà la stessa soddisfazione che si prova
nell'osservare il proprio unico discendente realizzato, sposato, con
figli ed un lavoro che apprezza-- okay, comincio già a
delirare, perfetto.
Andiamo con ordine: intanto ringrazio mia figlia (chi mi segue su
Twitter sa perché la chiamo così) Gagiord per il suo
– come al solito – ottimo lavoro di betaggio.
Indipendentemente da ciò che dicono gli altri, io sono
estremamente fiera del nostro lavoro di squadra, non potrei chiedere di
meglio.
Volevo ringraziare anche tutti voi lettori che avete seguito la storia.
Non mi aspettavo così tanto sostegno, sarò
sincera.
Mi dispiace che alcune cose siano state percepite come dei
"cliché", sebbene non lo fossero. Se proprio vogliamo andare
a guardare il capello, l'intera storia si basa tutta su un grosso
cliché, o perlomeno su una visione piuttosto stereotipata
della società americana – per la precisione, di una parte della
società americana, ma sorvoliamo.
Tornando a noi, questo capitolo mi ha creato non pochi problemi, in
fase di stesura: sono personalmente molto vicina allo stato emotivo di
Kidou nella terza sezione, ho pianto già solo ad
immaginarla, mi ha fatto tornare alla mente un periodo nient'affatto
felice della mia vita e mi è servito un po' come sfogo,
spero per cui che possiate perdonarmi.
Forse l'ultima parte è leggermente OOC. Se vi dà
fastidio lo segnalo, non lo so.
E niente, credo di aver detto tutto, fondamentalmente perché
credo di non dover spiegare un granché, in questo capitolo.
Ringrazio chiunque leggerà, le anime pie che arriveranno fin
qui e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite. Una recensione,
come al solito, è sempre benaccetta.
Ci vediamo il 27 agosto con l'epilogo
– fa strano dirlo, sì.
A presto
Aria
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