Il
prezzo da pagare
Frequentavo
la sua cabina ogni notte. Dopo l’ultima trasformazione,
scivolavo nella stanza
insieme al sonno e lo guardavo dormire. Era così stanco da
parermi di nuovo
inerme come quel giorno, nudo e freddo dentro la capsula. E nudo lo era
ancora,
sotto le coperte. Lo sapevo ma non mi bastava: desideravo vederlo
ancora una
volta. Desideravo il suo corpo.
Di
giorno (semmai nello spazio esiste il giorno) combattevamo
l’una contro l’altro
fino alle sfinimento. Ma poi passavo notti insonni accanto al suo
letto, senza
permettere nemmeno a lui di riposare davvero.
La mia
brama lo svegliava spesso di soprassalto, dopo che ero riuscita a
rubargli un
bacio tra la mascella e il collo o ne avevo percorso con
l’indice il viso dalla
fronte al mento. All’inizio bastava questo per destarlo, ma
mano a mano che
cresceva la stanchezza, la sua soglia di sopportazione si è
innalzata, e io mi
sono fatta più audace.
Sedevo
sul letto (gli ologrammi mazoniani sono ben più reali di una
semplice immagine
quadridimensionale) e restavo ad ascoltarne il respiro
finché non si faceva
pesante e regolare, poi avvicinavo le labbra alle sue e lasciavo che un
alito
del suo fiato mi entrasse nella bocca. Con baci leggeri lo inducevo a
dischiudere di più le labbra, finché non riuscivo
a introdurre la lingua. A
quel punto, immancabilmente, si ridestava dal sonno.
Mi
piaceva tormentarlo, era un gioco. Un gioco un po’ sadico,
come quello tra due
gatti in amore che si graffiano e mordono prima di lasciarsi montare.
Me ne
andavo appena in tempo per non farmi vedere, ma a volte riuscivo a
scorgerlo mentre
si rigirava nel letto, sprofondando il viso nel cuscino, la mano che
arruffava
i capelli con frustrazione
per non essere
riuscito a cogliere sul fatto il nemico invisibile che lo tormentava.
E io ridevo
fra me mentre la cabina pirata si sfocava e mi ritrovavo sola nella
sala del
trono della Dokras, in quel luogo in cui potevo godere indisturbata dei
miei
successi mentre gustavo il sapore della sua pelle sulle labbra. Nessuno
aveva accesso
a quella sala senza il mio permesso, nessuno poteva distogliermi dal
mio
godimento.
E ogni
notte, immancabilmente, finivo per ripromettermi: “La
prossima volta ci andrò
nuda”.
Ogni notte
si ripeteva lo stesso sogno.
Ogni notte
mi sembrava che lei tornasse a baciarmi
proprio com’era successo poco prima del mio risveglio nella
capsula. Era una
sensazione insopportabile.
Forse
davvero ero sua preda mio malgrado, ogni notte, e
ciò che si confondeva con il sogno non era
nient’altro che realtà celata dalle
tenebre.
A questo
gioco così subdolo non potevo sottrarmi. Dovevo
cercare di dormire, ogni fibra del mio corpo me lo chiedeva, e non
avevo alcun
mezzo per impedirle di entrare, nella mia stanza come nella mia testa,
insinuandosi tra il sonno e la veglia e costringendomi alla sua
compagnia.
Le
sensazioni che provavo erano così vivide che mi pareva
di vederla mentre mi accarezzava, scivolando sulla pelle fino a punti
in cui
mai le avrei consentito di arrivare. Sentivo le sue dita scorrere come
acqua
sopra i muscoli che ancora non riuscivano a rilassarsi, indugiare sul
petto,
sfiorare con l’unghia un capezzolo, scendere lungo
l’addome, disegnare piccoli
cerchi attorno all’ombelico e seguire
un’immaginaria verticale fino al pube.
Quando si
fermava era già troppo tardi: mi svegliavo
cercando di afferrarle la mano, gettavo via le coperte, ma non
c’era più
nessuno.
Desideravo
che quel tormento finisse, e avrei voluto chiedere
a Mime di restare con me a vegliare per l’intera notte, ma
non potevo farlo, lo
sapevo bene.
Così
la lotta continuava, nella mia cabina come sul campo
di battaglia e le sconfitte che le infliggevo con le armi erano sempre
più
fulminee, sempre più feroci, mano a mano che le cedevo
terreno sull’altro
versante. La sospensione dello stato di veglia era un momento che ormai
desideravo e temevo con tutto me stesso, poiché il bisogno
pressante di riposo
si legava inesorabilmente alla sua
presenza.
Ciò
che più spesso riusciva a rubarmi in quei momenti era
il contatto intimo con le mie labbra, ma non erano i baci appassionati
di
un’amante. Possedevano una natura predatoria, assomigliavano
al calare spietato
della sua flotta su di un mondo che non aveva armi per opporsi. Di
notte quel
mondo era il mio corpo, ero io.
La
nostra guerra era ininterrotta, le mie incursioni
sull’Arcadia sempre più
temerarie e assolutamente indisturbate. Costringevo Harlock a
combattere con
armi che non gli erano famigliari: la sua bocca, il petto, ogni parte
più
intima di lui. Non avevo mai goduto tanto nel batterlo. Il
più abile stratega
che la Terra possedesse era del tutto inesperto in questo campo e
soccombeva ad
ogni mio assalto. O forse era soltanto la stanchezza a renderlo tale, e
se i
nostri fossero stati veri preliminari amorosi, probabilmente avrebbe
soddisfatto le mie più alte esigenze.
Ma
anche questo sadico gioco al quale accettava di sottoporsi mi dava
grandi
soddisfazioni. Ormai le mie mani conoscevano ogni centimetro della sua
pelle,
ogni piega dei muscoli, ogni palmo di quel corpo ringiovanito. Mi
mancavano solo
i suoi occhi, che ancora non mi avevano vista, nuda, in quella stanza,
solo per
lui.
Mi
piaceva guardarlo dormire bocconi, quando, dopo avere gettato via le
coperte
con furia per aver avvertito la mia presenza, si riaddormentava
semiscoperto. Ne
baciavo la schiena nuda, seguendo un’invisibile costellazione
maschile,
scendendo giù fino a dove le lenzuola lasciavano
intravvedere la piccola “v”
delle natiche. Talvolta, quando il suo sonno era talmente pesante da
permettermelo, scostavo piano le coperte e accarezzavo il piccolo solco
del
sedere, fermandomi prima che il dito arrivasse a sfiorare i testicoli.
Volevo
guardarlo indisturbata per un poco prima di destarlo di nuovo con
carezze più
audaci, prima di prendermi un altro pezzo di lui.
Ma
l’ultima
notte ho infine abbandonato ogni remora, comparendo accanto al suo
letto con
addosso solo la corona. Volevo che si ricordasse che ero una regina.
Lo
trovai che era di nuovo sdraiato bocconi, un braccio allungato sopra la
testa a
stringere il cuscino.
Mi
sono seduta su di lui, prestando attenzione a non svegliarlo. Il
contatto dei
suoi glutei sodi con il mio sesso glabro mi ha sferzata di piacere. Ho
serrato
le labbra per non ansimare, guardandolo per un istante soltanto, steso
lì sotto
di me. E se in mano avessi avuto una spada? Come sarebbe stato facile
prendermi
la sua testa! Ma quella sera volevo ben altro da lui. Volevo
l’uomo che stava
chiuso dentro le vesti del pirata che tante volte mi aveva combattuta,
e al
posto di un’infinità di baci rubati nel corso di
quelle notti, volevo che fosse
la sua bocca a prendere la mia. Ma soprattutto avrei voluto qualcosa
che non mi
era concesso, qualcosa di inconfessabile.
Lentamente
mi sono stesa su di lui, premendogli i seni contro la schiena. Riuscivo
ad
avvertire la sensazione della sua pelle maschile, più spessa
e ruvida della
mia, e il contrasto del mio petto caldo contro quei muscoli che ormai
si erano
raffreddati, il mio calore che si trasmetteva al suo corpo come in
un’osmosi che
preludeva ad altre intimità.
Riuscii
ad avvertire tutto questo prima che lui si svegliasse.
La sua
reazione non fu veloce come me l’aspettavo, probabilmente
perché perdurava
ancora il dubbio che le mie visite non fossero altro che semplici
sogni. Così si
è sollevato appena su di un braccio, girandosi verso di me,
l’incertezza
dipinta in viso. I nostri occhi si sono incrociati per un breve
istante. Credo
di avergli sorriso con un piccolo cenno. “Sono io”,
volevo dirgli “Sono sempre
stata io, nel lungo stillicidio di queste notti insonni.”
Sono
saltata giù dal letto artigliandogli la schiena giusto in
tempo per non essere
scaraventata a terra, fermandomi a pochi passi di distanza, ritta in
piedi,
nessuna espressione sul viso che potesse tradire le emozioni confuse
che
provavo.
Lui
stava di fronte a me, dall’altro lato del letto, incredulo e
nudo. Mi sono
concessa d’indugiare con lo sguardo su quel corpo che mi ero
così duramente
conquistata, notte dopo notte (meritavo il mio premio!), prima di
lanciarmi
sulla sua spada.
L’avevo
adocchiata fin dalla prima volta. Sapevo dove appendeva il fodero, su
quale
lato della testiera, lì, per avere le armi sempre vicine,
come se il pericolo
potesse sorprenderlo all’improvviso anche in camera da letto.
Non aveva tutti i
torti.
Sono
riuscita ad afferrare l’elsa, ma non a sguainare la lama: me
lo sono ritrovato
addosso senza quasi riuscire a vederlo, veloce come un leone su una
gazzella.
Mi ha cinto ai fianchi con le braccia, gettandomi a terra insieme a lui.
Mi
stava addosso con tutto il suo peso, aderendo con
il corpo al mio. Faceva esattamente ciò che
volevo senza che avessi bisogno di ordinarglielo.
Avvertii
i suoi addominali, duri e tesi, contro il ventre, le ossa del bacino
che
sfioravano le mie anche
e il suo sesso
che scivolava su di me, fra l’inguine e la coscia, mentre si
sollevava un poco
e con un braccio cercava di raggiungere il fodero che ancora stringevo,
tenendolo in alto vicino al petto.
Lo
colpii al viso con la parte della Gravity Saber che fuoriusciva dal
fodero,
costringendolo a distaccarsi da me quel tanto che bastava per sgusciare
un poco
dalla sua presa. Non volevo allontanarmi, dovevamo avere solo
abbastanza spazio
per giocare.
Sono
stata scorretta, lo ammetto: l’ho costretto a partecipare
senza prima
spiegargli le regole. Ma ero sicura che la vita avesse fatto
così con lui già
tante volte che di certo avrebbe fatto in fretta ad imparare. Del resto
in quel
momento la sua insegnante era molto esigente e non gli avrebbe permesso
di
sbagliare nemmeno una mossa.
Ero
quasi in piedi quando ho sentito una mano che mi stringeva la caviglia,
tirandomi di nuovo a terra a strusciare contro la moquette ruvida. In
un attimo
Harlock è stato sopra di me, percorrendo il mio corpo dal
basso verso l’alto
con il suo per avvicinarsi di nuovo a quelle armi che era convito
fossero
davvero la posta in gioco. Non immaginava che, con ognuno dei suoi
tentativi,
mi stava dando proprio ciò che volevo: la vista del suo
corpo sempre più
accaldato, con i muscoli inturgiditi dagli sforzi, e il contatto intimo
delle
nostre persone.
L’unica
cosa che volevo, quella notte, era lui.
Il fatto che
Raflesia in persona fosse nella mia stanza
era impensabile quanto normale.
In fin dei
conti, dopo tutti quegli incubi, non mi
aspettavo altro che di vederla davvero in carne e ossa accanto a me.
Eppure
c’era qualcosa di strano in lei, qualcosa che mi
faceva sospettare che non si trattasse di una presenza reale. Del resto
sarebbe
stato davvero imprudente per la regina di Mazone introdursi nella mia
stanza, tutta
da sola. Pensavo che uno dei suoi sottoposti potesse aver preso le sue
sembianze, o che quello fosse un semplice ologramma.
In entrambi
i casi, chiunque fosse colei che avevo
davanti, ciò che voleva era piuttosto evidente. Almeno,
così pensavo
all’inizio.
La
verità era ben altra e, come una lezione che si impara
solo mano a mano che si segue, l’ho scoperto contatto dopo
contatto,
letteralmente sulla mia pelle.
L’ipotesi
dell’ologramma restava comunque la più
probabile. In certi momenti tra noi avvertivo una tensione quasi
elettrica, una
sorta di corrente elettrostatica che scaturiva soprattutto quando i
nostri
corpi si sfregavano lungamente l’uno contro
l’altro. E ciò accadeva piuttosto
spesso.
Raflesia mi
tratteneva in ogni modo accanto a lei. Addosso
a lei.
M’intrappolava
una gamba fra le sue, si gettava sopra di
me per riprendere il fodero che ero appena riuscito a sottrarle,
strusciava
impudicamente il seno contro il mio petto, si sedeva a cavalcioni sopra
il mio
bacino. Accaldata, sudata, scarmigliata.
Vergognosamente
bella.
E ogni volta
la allontanavo nei modi più bruschi,
gettandola a terra con un colpo di mano che affondava sulle sue nivee
rotondità, o afferrandola per i polsi e ribaltando la
posizione, così da essere
di nuovo sopra di lei. A volte mi sorrideva, incoraggiante. Mi sembrava
di
essere un allievo che ha eseguito bene una mossa prestabilita, che ha
ubbidito
al maestro.
Finché
d’un tratto ha smesso di giocare.
Eravamo di
nuovo a terra, e io la trattenevo premendole
una mano alla gola, mentre con l’altra avevo riconquistato le
armi. Raflesia
aveva entrambe le mani libere.
Le
è stato sufficiente un istante per affondarmene una
fra i capelli, aggrappandosi con l’altra alla mia schiena. Mi
ha tirato
leggermente verso di lei, sollevandosi al contempo verso di me. E le
mie labbra
sono state sue. Suo il mio respiro affannato, ogni angolo della mia
bocca.
E mentre lei
si prendeva ciò che voleva io facevo
altrettanto, dando battaglia alla sua lingua, affondando ripetutamente
in
quella cavità umida. Era un assalto predatorio al quale lei
rispondeva con le
unghie e con i denti, mordendomi le labbra, graffiandomi la schiena.
Trasformandosi
in un rampicante irto di spine.
Le gambe
intrecciate contro il mio sedere, le braccia
strette contro la schiena, è riuscita ad aderire il
più possibile a quel corpo
che si era faticosamente conquistata. Il mio sesso era ormai scivolato
contro
il suo e io riuscivo a percepire con chiarezza la sua calda
intimità. Un
brivido mi scosse a quel contatto. Questa vicinanza piena di ardore e
furia non
era ciò che volevo.
Ubriacato
dai suoi baci, lottai per staccarmi da lei,
sciogliendomi dalle sue spire.
La guardai.
Il suo volto, solitamente sempre pallido, era
arrossato come se su lino candido fosse caduto del vino. Una feroce
voluttà ne aveva
mutato un poco i tratti e il suo sguardo era meno duro, gli occhi meno
fieri,
le labbra più turgide e vermiglie.
Raflesia
sorrise prima di afferrare la spada che era caduta
accanto a lei. Mi colpì a un fianco con forza, facendomi
gridare. Scivolai di
lato, e allungai una mano per afferrarla. Troppo tardi. Lei era
già in piedi
sopra di me.
Non aveva
alcun ritegno, alcuna vergogna nel mostrarsi e
io, che non potevo rischiare di toglierle gli occhi di dosso, non avevo
quasi
più nulla da immaginare di quel corpo.
Sollevò
appena la spada e mi posò l’estremità
sotto al
mento, costringendomi ad alzare di più il viso. Mi
accarezzò con la Gravity Saber.
Era un tocco così freddo sulla pelle troppo accaldata e io
detestai me stesso.
Mi detestai per averla desiderata, e perché la desideravo
ancora.
Afferrai
veloce la lama e la tirai verso di me con uno
strattone deciso.
Raflesia mi
cadde addosso con un grido, una mano che si
appoggiava contro il mio petto, mentre con l’altra si
aggrappava alla schiena,
saliva fino alle spalle e di nuovo le artigliava.
Ignorai il
dolore, mi bastava avere il possesso della
spada.
Ma a lei non
importava. Non gliene era mai importato
niente, fin dall’inizio.
Era stato
anche quello solo un gioco, un gioco che
avevamo condotto da svegli.
E adesso,
che aveva ottenuto ciò che voleva, le bastava
prendere commiato. Così si accomodò fra le mie
gambe, tornando a baciarmi
ancora, facendo scivolare un’ultima volta la destra
giù dal petto e fino al
pube. E mentre ci giocava, con la lingua mi penetrò a fondo
nella bocca,
costringendomi a respingerla di nuovo con la mia.
Ma proprio
nel momento in cui cercavo di liberarmi dai
suoi baci, pensavo a ben altro che a mandarla via. Che pensiero
inconfessabile
fare l’amore con lei!
La Gravity
Saber scivolò a terra e io lasciai che
Raflesia la raccogliesse.
Si
rialzò, stringendola al petto, coccolandola fra i
seni.
Indietreggiò,
un passo dopo l’altro, allontanandosi da
me. Sorrise, un guizzo freddo e divertito negli occhi di giada, prima
di
scomparire nel buio della cabina poco illuminata.
Rimasi a
fissare quel punto mentre anch’io mi rimettevo
in piedi.
Era stato
solo l’inizio, quello. Un assaggio. La prima di
altre notti che non potevo ancora immaginare.
Perché
lei sarebbe ritornata per riportarmi la spada.
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