CAPITOLO 8
…quel disperato sentimento.
Senza tregua continuava a correre verso la stazione della
metropolitana più vicina all’ospedale. Nei suoi occhi rivedeva le frasi
scritte da Holly alla sua Patty, la ragazza che più di ogni cosa al mondo aveva
amato. Perché l’aveva cercata e attirata in quell’incubo che lo tormentava
da tanto tempo? Perché aveva voluto proprio lei? Per la somiglianza? Possibile
che fosse attratto unicamente dai tratti somatici tanto simili tra loro due? Per
quante domande si ponesse, Trish non trovava alcuna risposta plausibile al suo
comportamento tanto meschino. L’aveva usata solo ed unicamente nel ricordo di
un amore tanto disperato quanto irraggiungibile. Desiderava piangere, gridare al
mondo la sua sofferenza, ma ogni benché minimo sibilo cercasse di emettere, le
moriva in gola soffocato dall’angoscia che sempre più la stava attanagliando.
Evitando persone ed ostacoli e stando ben attenta a non
scivolare sull’asfalto reso viscido dalla strada, Trish intravide la stazione
del metrò e scese le scale cercando di accelerare il passo. Dinanzi gli
sportelli d’accesso alle linee obliterò la sua tessera e continuò la sua
corsa frenetica. Desiderava quasi spasmodicamente salire sul primo treno diretto
a Barceloneta e correre da lui in cerca di giustizia. Era completamente
fradicia. I capelli scomposti e roridi le incorniciavano il volto pallido reso
tale dalla spossatezza di un’intensa giornata lavorativa e dagli eventi che si
erano verificati. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse saltar
fuori dal petto. Alcune persone sostavano lungo il marciapiede della linea che l’avrebbe
condotta al porto. Osservò fremente il display che segnalava quanti minuti di
attesa ci fossero fino all’arrivo del treno successivo. Un minuto esatto. In
una mente avvolta in un turbine di pensieri e sensazioni, Trish stava cercando
di costruire un discorso serio e forse non troppo adirato da pronunciare in
presenza di Oliver. Voleva le spiegazioni, le pretendeva e le avrebbe ottenute.
Dopo di che, alterata per il comportamento da lui assunto nei suoi confronti, l’avrebbe
lasciato senza concedergli alcun motivo di giustificazione.
I fari del treno illuminarono il tunnel della metropolitana e
poco dopo essersi fermato, le porte si aprirono automaticamente.
A quell’ora gli uffici e gli edifici scolastici erano
chiusi, quindi non c’era molta gente. Si sedette su una poltrona vicina la
porta automatica e attese che il treno la conducesse verso Barceloneta.
James Hamilton guardava la moglie Mary seduta accanto a lui
sul sedile posteriore del taxi. La pioggia cadeva scrosciante e le strade erano
oramai madide di quelle gocce che incessantemente si stavano riversando dal
primo pomeriggio accompagnate da fulmini e lampi.
- Sei preoccupata? -
- Non la vedo da tempo. Come pensi che possa stare? -
- Secondo me non meritava neppure tutta questa
considerazione da parte nostra. Se ne è andata di casa non volendo lasciare
la benché minima traccia di se. Solo qualche timida e sterile e-mail per
tranquillizzarci. E’ un comportamento inconcepibile il suo. -
- Ma che stai dicendo! E’ pur sempre mia figlia e mi
rendo conto di aver commesso fin troppi errori con lei. Se solo ci fossimo
comportati diversamente, probabilmente adesso saremmo una famiglia felice,
lei sarebbe sposata a qualche rampollo dell’alta borghesia di Chicago e
forse avrei perfino dei nipoti. E invece? E’ fuggita via cercando una sua
vita! -
- Lei la sua vita ce l’aveva a Chicago e questo
bastava. -
- Non dire sciocchezze. Quella era la vita che avevamo
voluto darle noi! Non la sua. Era ben diversa da come era e forse aveva
ragione nel dire che la soffocavamo! -
- E da quando ti sono venuti tutti questi buoni propositi
e sensi di colpa? -
- Da quando hai scoperto dove si trova! - rispose
seccamente ma in estremo disagio.
- Oppure da quando hai letto quell’articolo su Oliver
Hutton? -. La signora Hamilton tacque. Suo marito aveva evidentemente
centrato il bersaglio. Si passò una mano nel caschetto scuro e chiuse per
un attimo gli occhi. Vide quella piccola creatura stretta nelle braccia del
padre, il suo primo giorno di scuola, una giovane adolescente piena di
sogni, una ragazza agonizzante in un letto di ospedale. E ancora rivide la
sua stanza, i testi scolastici e quelli di letteratura straniera che lei
adorava, la fotografia che aveva sul comodino vicino quella scatola a fiori
nella quale custodiva gelosamente il rapporto che la legava a lui. Quel
timido ragazzo che per realizzare il suo sogno era volato dall’altra parte
del mondo. E lei, innamorata, aveva seguito con spasimo ogni suo passo,
vivendo la sua passione, come fosse propria. Un’adolescenza in cui l’aveva
vista correre dietro una sfera a scacchi con l’unico scopo di stare con
lui.
E adesso, dopo quasi dieci anni in cui aveva perso ogni
contatto, non l’aveva più visto estraniandosi da quello che era stato il
mondo di sua figlia, lui era ricomparso nella loro vita. Era stato suo marito a
parlargliene. La nazionale giapponese aveva preso parte ad un torneo a quattro
squadre disputatosi negli Stati Uniti. L’assenza di Oliver Hutton dovuta ad un
incidente era stata subito rilevata dalla stampa e inevitabilmente, James
Hamilton aveva visto la sua foto in prima pagina su un quotidiano. Aveva così
appreso che la grande promessa del calcio internazionale, da anni giocava in una
delle più titolate squadre europee. E poco prima, chissà come, James Hamilton
aveva scoperto che Trish si trovava a Barcellona.
- E’ assurdo. Come può essere che si trovino nello
stesso paese? -
- La forza del destino! - rispose lei pensando quasi
divertita di come due continenti diversi non avevan potuto separarli.
- Adesso sei tu che dici stupidaggini. - ribatté acido
alla moglie.
- Temo proprio di no. -
- Stai forse pensando che….che Trish abbia scoperto
cosa è successo dieci anni fa? - le chiese turbato.
- No. La conosco troppo bene. Se l’avesse scoperto,
sarebbe tornata a casa in cerca di giustizia. Lei è sempre stata fatta
così. Per quanto dolce e carina potesse sembrare, nascondeva un coraggio ed
un orgoglio immensi ereditati da suo padre. Abbiamo sbagliato con lei.
Avremmo dovuto dirle tutto. -
- Ricordati che se le abbiamo tenuto nascosta la verità
è stato unicamente per il suo bene e per farle vivere una vita più
normale. Volevi che continuasse ad andare in giro per il mondo dietro un
pallone? -
- No di certo ma l’abbiamo privata di un’identità. -
- Non ti far prendere dai sensi di colpa. L’abbiamo
fatto unicamente per farla vivere più serenamente. - sentenziò lui
mentendo.
- Come hai avuto il suo indirizzo? - gli chiese aprendo
un po’ il finestrino. Si sentiva mancare l’aria.
- A Chicago. E’ stato un mio amico giornalista. Me l’ha
procurato quando la nazionale nipponica è stata negli Stati Uniti. -
- Capisco. Sei sicuro che la troveremo lì? -
- No, ma se come pensiamo non si sono mai incontrati,
potremo dire a lui di starle alla larga dicendole che ha un equilibrio psico
fisico troppo instabile per poter reggere certe situazioni e soprattutto
provare questi traumi. -
- Non è affatto vero. Questo è quello che crediamo noi.
Lei sta bene. Altrimenti non sarebbe diventata un medico. E poi, lui non ci
aspetta. Magari non sa neppure che vivono nella stessa città. Non vorrei
innescare una bomba senza alcun motivo. -
- L’unica cosa da farsi è parlargli. Di lei non
sappiamo niente e fino a che non la troveremo, non potremo riportarla a
casa. - disse tediato da quella conversazione. Non aveva mai avuto un buon
rapporto con la figlia adottiva e in passato non aveva esitato a
programmarle incontri galanti pur di maritarla a qualche buon partito
statunitense e quindi liberarsi di lei. Guardò suo marito e sospirò. Non l’aveva
mai amata, e forse neanche lei, non quanto il suo primo marito. Lui
spasimava per la figlia, era la sua gioia, il sole che risplendeva ogni
giorno nel suo cuore. E lei aveva ricamato quell’amore in maniera totale.
Adesso James la voleva riportare negli Stati Uniti e lei
sapeva che l’unico motivo era legato alla polizza assicurativa che la
riguardava. Aveva intuito a cosa stesse pensando suo marito. La polizza
assicurativa che al compimento del ventiseiesimo anno di età le avrebbe
fruttato una fortuna non indifferente rivenente da investimenti a lungo termine
fatti a suo nome dal padre. Trish neppure lo sapeva che suo padre aveva pensato
di lasciarle qualcosa per il suo avvenire. E se James Hamilton avesse dimostrato
che non era propriamente capace di intendere e volere, sarebbe divenuto lui il
tutore dei suoi soldi. Afferrò lo specchietto dal beauty-case e si guardò. Lo
stesso taglio degli occhi, le labbra ben proporzionate di un rosso intenso. Cosa
stava facendo a sua figlia? Davvero voleva che suo marito la facesse passare per
un’interdetta sociale buttando così all’aria la sua carriera di medico?
In fondo, cosa aveva fatto Trish per meritare tutto questo?
Lei se ne era andata di casa per non protrarre oltre un rapporto fin troppo
avverso, si era lasciata alle spalle un passato oramai caduto nel dimenticatoio
e cercando di costruire un futuro senza le loro ombre. Desiderava solo essere
libera, indipendente, caratteristica che non aveva mai perso, a prescindere dall’incidente.
Sospirò con un gran patema nel cuore. Era insicura sul da farsi. Il cuore di
madre le suggeriva di aiutare la figlia, ma dall’altra, sapeva che se si fosse
opposta al volere di James, avrebbe perso il marito.
Il taxi continuava inesorabile la sua corsa verso la zona
portuale, districandosi tra le vie trafficate.
Persa nei pensieri che si inseguivano velocemente come
fomentati da un’improvvisa tormenta, i suoi occhi si soffermarono su una
tranquilla scena familiare. Di fronte a lei sedavano un uomo sulla quarantina ed
una adolescente. Lei sorrideva alle sue battute e lo guardava in uno stato di
adorazione verso quella presenza evidentemente rassicurante e che rappresentava
un affetto molto importante. L’aveva chiamato papà!
Quasi fulmineamente, la sua mente cercò in qualche luogo
remoto un’immagine di suo padre. Nulla. Non ricordava niente di quella figura
che sicuramente aveva avuto un ruolo importante nella sua esistenza. Era morto.
Così le aveva detto sua madre, ma senza molte spiegazioni e senza alcuna
nostalgia aveva ricominciato ad amare qualcuno.
- Com’è possibile imparare ad amare un’altra persona
quando si è perduto il padre di tuo figlio? Come avrà fatto mia madre a
dimenticare mio padre così velocemente tanto da cancellarlo anche dai miei
ricordi? Eppure….lo sento…sì, sento di averlo amato molto e guardo
quell’uomo con sua figlia con immensa malinconia. E’ forse questo lo
stesso sentimento che ha spinto Oliver da me? Ha dimenticato la sua Patty?
No, è impossibile. Quando è giunto in ospedale, nel delirio e anche dopo,
ha continuato a cercarla. E poi…i suoi amici. Come posso scordare lo
sguardo di quella ragazza, di Amy Ross. Mi ha chiamata Patty con una tale
sicurezza che per un attimo mi ha fatta ricredere su me stessa. E suo
marito? Anche lui ha reagito nella stessa maniera. Non posso vivere così,
nell’ombra di qualcuno. E nella stessa maniera, lui non potrà mai
ricambiare i miei sentimenti perché vivrà per sempre nel ricordo di lei.
Si può amare così disperatamente? Potrò mai imparare ad amare così? Chi
sono io per essere entrata nelle loro vite rivangando vecchi ricordi e
aprendo ferite mai rimarginate? Perché proprio a me? Non ho forse sofferto
abbastanza? Perché il destino continua ad accanirsi contro di me? Perché
Patty è diventata una presenza ricorrente nella mia vita? Cosa significa
tutto questo? - si chiese cercando ostinatamente di far luce su tutta la
storia ma principalmente sulla sua esistenza.
Vedeva l’immagine di un corpo sinuoso, vacillante sull’orlo
di un dirupo, mentre il vento soffiava furioso tra i lunghi capelli scuri nel
drammatico tentativo di farla librare nel cielo oscuro. Le lacrime silenziose le
avevano annebbiato la vista e lentamente cominciarono a rigare un volto già
troppo provato da tutte quelle emozioni.
Accasciato sulla poltrona in vimini, Holly continuava
imperterrito a guardare il mare mentre il temporale infuriava sulla città. Dopo
l’incontro con Amy e Julian, era andato agli allenamenti ma era tornato a casa
da due ore. Julian e Amy erano nuovamente lì, nello studio di Holly, in attesa
che dal Giappone qualcuno inviasse loro per fax o per e-mail la copia della
cartella clinica di Patricia Gatsby che finalmente avrebbe fatto chiarezza sul
misterioso incidente in cui il padre aveva perso la vita e lei probabilmente
aveva perduto la memoria.
Per tutto il giorno non aveva smesso di pensare a Trish. In
un modo o nell’altro sapeva che inviando quelle lettere, non aveva scatenato
in lei dubbi e incertezze, ma l’aveva ferita. Probabilmente, avrebbe pensato
che lui l’aveva usata per raggiungere lo scopo di avere un’altra Patty. Le
aveva inviato delle rose per dimostrarle che la pensava, che ci teneva a lei, e
forse anche nella speranza che potessero addolcirla dopo la scoperta delle
lettere. Julian ed Amy gli avevan ripetuto che invece la sua sarebbe stata solo
una reazione di curiosità e che gli avrebbe chiesto spiegazioni in merito.
Holly invece sentiva che quello che stava per irrompere in
casa sua non era minimamente paragonabile al temporale che furoreggiava da ore
su Barcellona.
Si sentiva di impazzire nell’impotenza di poter fare
qualcosa per rimediare a quella situazione.
- Come ho potuto farmi trascinare in questa stupida
indagine? Perché ho permesso che qualcuno interferisse nel rapporto che
stava nascendo tra me e Trish? Potevamo mai essere felici, noi due? O il
pensiero di Patty avrebbe continuato a tormentarmi? Perché tutto questo? O
Trish, se solo tu sapessi quanto mi dispiace, io…maledizione…quanto sono
stato stupido! Perché ti ho buttata in questo baratro. Non bastava il mio
tormento! Tu non lo meriti. - si disse cercando una motivazione a quanto
aveva fatto con l’aiuto dei suoi amici.
Scese dalla metropolitana in preda allo sgomento e al
desiderio di giustizia. L’offesa che aveva subito era stata tale da scatenare
in lei l’ira e la rabbia repressa da tempo. L’atto commesso da Oliver l’aveva
fatta sentire controllata e frustrata, in balia di qualche strano complotto
ordito alle sue spalle. Corse sotto la pioggia incessante raggiungendo lo
stabile in cui abitava Oliver. Un uomo stava per richiudersi il portone alle
spalle quando lei lo fermò. La guardò allibito. I capelli scompigliati dal
vento e resi umidi dalla pioggia le incorniciavano il volto preoccupato e teso.
Ansimante si portò dinanzi l’ascensore cercando di riprendere fiato. Nella
fretta aveva lasciato il portone aperto e il vento gelido soffiava senza sosta.
Finalmente l’ascensore raggiunse il piano terra e lei poté entrarvi. Si
guardò allo specchio e si sciolse sulle spalle i capelli oramai scompigliati.
Si tolse gli occhiali da riposo completamente bagnati. Nonostante le condizioni
precarie del suo abbigliamento e della sua acconciatura, era bellissima. Aprì
la borsa e ne estrasse alcune lettere stringendole con fervore nel pugno
sinistro. Quando le porte dell’ascensore si aprirono al piano attico, fece un
respiro profondo alla ricerca di tutto il suo orgoglio e dell’amor proprio.
Sembrava essersi ricaricata. Il pensiero di vederlo ancora una volta e di
chiedere la verità, la fecero avvampare. Incedette con passo lento verso la
porta che la divideva da Oliver. Suonò ripetutamente sperando che quel trillo
potesse sfondargli i timpani e così cominciare ad impartirgli la giusta
punizione.
Senza guardare chi fosse dallo spioncino e preoccupata dal
continuo suonare, Amy andò ad aprire. Si guardarono per un lungo istante. Amy
si portò la mano alla bocca impressionata da quella strana creatura uscita da
chissà quale romanzo noir. Gli occhi erano freddi e glaciali, il suo sguardo
tagliente. Sul volto era dipinta la convinzione di chi pretendeva solo di fare
giustizia. Non l’aveva mai vista così. Si chiese se in fondo l’avesse mai
conosciuta realmente.
- Dov’è? - tuonò senza salutare la signora Ross. Amy
non parlò.
- Allora, dove maledizione si è cacciato quel codardo? -
urlò irosa. Sempre più intimorita e coprendosi la bocca per impedire che i
singhiozzi prendessero il sopravvento, le indicò la porta finestra della
terrazza, al di là della quale c’era Oliver.
Quella mattina, dopo un’intensa notte d’amore, anche lei
si era avvicinata per scorgere le luci dell’alba. Aveva ammirato il paesaggio
e desiderato di restare lì per condividere quel quadro così suggestivo con l’uomo
che aveva amato.
Non ci fu bisogno che lei lo raggiungesse. Attirato dal tono
alto della voce, Holly si era alzato e stava andando nel salone quando la vide.
L’uno di fronte all’altra. La trovò bellissima vestita nella sua più nuda
disperazione.
- Come hai potuto? - gridò additandolo.
- Trish…io posso spiegarti! -
- Cosa…maledetto bastardo…cosa? Cosa pensavi di fare?
Di dar vita a un manichino, di darmi il suo nome? Di farmi rivivere i suoi
ricordi, i vostri momenti, perché io potessi comprendere i sentimenti che
vi legavano? E’ per questo che mi hai inviato le lettere che le hai
scritto? Per questo motivo? - inveì lanciandogli addosso una manciata di
quelle lettere che aveva preso dalla sua borsa.
- Trish calmati! - le disse cercando di indurla ad un
atteggiamento più quieto.
- Non darmi ordini. Non dirmi cosa devo fare. Stammi
lontano, hai capito? Non bastava quanto già avessi sofferto in passato?
Occorreva che mi attirassi nella tua ragnatela e fare di me l’ennesimo
trofeo? Lei non c’è più! Lo vuoi capire? Io sono solo Trish e mi sono
stancata di fare l’ombra di Patty. Cosa vuoi da me? Cosa cerchi? Non ti
basta aver sofferto per lei? Vuoi ripetere gli stessi errori? Io non andavo
bene, vero? Cosa aveva lei di più di me….cosa…? - gridò ancora con le
lacrime che contigue scendevano in rapida successione. Holly era attonito.
Non sapeva cosa dire. Le parole parevan morirgli in gola. Aveva perso tutte
le forze. Lei era lì di fronte nel pieno della sua costernazione. Sempre
più sgomenta lo stava platealmente accusando di averla fatta soffrire. E
aveva ragione. Aveva sbagliato a comportarsi così con lei. Avrebbe dovuto
essere sincero e spiegarle tutto fin dall’inizio.
- Mi dispiace. -
- E’ qui tutto quello che mi sai dire? Mi dispiace?
Puoi andare a farti fottere con le tue scuse! Non so cosa farmene! Mi hai
trascinato a letto e poi mi hai pugnalata. Ed io che ti credevo diverso! -
- Devi lasciarmi spiegare…-
- Per dirmi cosa? Che sono una delle tante che volevi
liquidare in maniera tanto teatrale? E’ così che vi divertite voi giovani
rampolli viziati? -
- Smettila Trish! - tuonò Holly deciso e sonoro. Julian
venne attirato anche lui dalle urla e raggiunse la moglie impugnando un
foglio di carta ancora caldo dopo la ricezione fax. Lei tacque a quel
rimprovero. Finalmente Oliver si stava svegliando. Desiderava che reagisse
ai suoi rimproveri per poter scaricare ancora più tensione e metterlo di
fronte alla mera realtà.
- Non hai capito proprio niente. Non avevo intenzione di
portarti a letto perché tu fossi un trofeo ma perché volevo stare con te,
volevo fare l’amore con te, non sesso e basta. Di quello non so che
farmene. Da quando ti ho incontrata provo di nuovo dei sentimenti d’affetto
e d’amore e questo lo devo solo a te…e lo so che mi ricambi. Se ti ho
inviato quelle lettere è stato unicamente perché speravo che
risvegliassero in te dei ricordi, non perché volevo che tu capissi quanto
ho amato Patty! Ho sbagliato e ti chiedo scusa per questo. - disse con tono
imperioso scandendo ogni singola parola nella speranza che lei potesse
finalmente comprendere le ragioni di quel disperato sentimento.
- Ma fammi il favore…e quali ricordi pensavi che
potessero risvegliare in me le parole dette ad un’altra persona? Non
bastano i flashback e le immagini che mi tormentano da più di un anno?
Dovevi entrare anche tu in questo mio incubo che non finisce mai? -
- Cos’hai detto? Immagini? Flashback? -. Lei annuì non
sapendo il perché di quella domanda. Holly la guardò con occhi diversi,
speranzosi. Ripensò a quanto gli aveva detto il medico. Forse quelle
immagini non erano altri che i ricordi di un passato che stava finalmente
riaffiorando nella sua mente. Le si avvicinò e le afferrò una mano. Lei la
ritrasse subito con un gesto maldestro.
- Non toccarmi…non pensarci neppure! Non voglio avere
più niente a che fare con te….mi hai usata abbastanza! -
- Holly…il fax…- disse timidamente Julian sventolando
il pezzo di carta che tratteneva tra le sue mani. Era il momento più adatto
per darglielo.
- E questo cos’è? - chiese Trish strappandoglielo
dalle mani. - Referto clinico del paziente Patricia Gatsby nata a Fujisawa
il 12 ottobre 1976. Trauma cerebrale con consequenziale coma di ventiquattro
giorni, lussazione alla spalla destra, ferite sparse su tutto il corpo,
perdita della memoria constatata dopo il risveglio. -. Trish tremava come
una foglia al vento. Un’immagine prese forma dinanzi i suoi occhi.
Smosse le palpebre leggermente. Impiegò qualche secondo
prima che finalmente riuscissero ad alzarsi e a permettere alle sue pupille di
farsi strada nella nebbia che le aveva occultato la vista. Quando finalmente
ebbe una visione più chiara, cominciò a delineare i contorni di quella stanza
abbastanza impersonale e asettica per essere quella di una ragazza. Tentò di
muoversi ma i tubi le impedivano il benché minimo movimento. L’infermiera
entrò per controllare l’elettroencefalogramma e l’elettrocardiogramma e la
notò. In preda ad una strana evanescenza corse in corridoio e subito dopo fu
preceduta da un medico e da una donna. La visitarono subito e cominciarono a
farle domande.
- Tesoro, come stai? Sai dove ti trovi? - le chiese la
donna amorevolmente.
- Chi…chi sono…dove sono…- disse sconvolgendo i
presenti. Dopo qualche giorno di inutili tentativi, il primario di neurologia
affermò con dispiacere che Trish aveva perduto la memoria.
Quell’immagine di smarrimento, di perdizione, di malinconia
assoluta, l’assalirono. Lei e Patty accomunate dallo stesso incidente? Erano
forse legate da qualche strano legame? Nate lo stesso giorno ma in città
diverse? Non aveva mai chiesto a sua madre dove fosse nata. Si era ritrovata a
vivere a Chicago, ma nessuno le aveva mai spiegato come mai l’incidente fosse
avvenuto in Giappone. Un pensiero si stava facendo strada dentro di lei. Aveva
sempre più timore di quello che c’era scritto. Continuò a leggere il referto
con la professionalità di un medico oramai esperto, comprendendo benissimo ogni
termine tecnico. Dopo la firma del primario di neurologia del Centro
Traumatologico di Tokyo, che aveva stilato il referto, Trish notò una postilla
che la riportava al termine del foglio.
Impallidì scorgendo quella frase. Si sentì gelare il sangue
nelle vene e comprese che la pressione stava scendendo vertiginosamente.
Cominciò a respirare affannosamente senza staccare gli occhi da quel tremolante
pezzo di carta.
Il suono del campanello parve destarli tutti da quello strano
torpore che all’improvviso era sceso sul loro palcoscenico. Holly guardò le
due figure ferme sulla soglia del suo appartamento e le riconobbe quasi subito.
Il cuore gli batteva talmente forte che il petto gli doleva. Continuava a
guardare Trish persa in uno stato di tranche.
- Si voglia notare che ogni altro eventuale esame che si
dovrà fare sulla paziente, non dovrà essere più ricercato o registrato
sotto il nome di Patricia Gatsby ma come Patricia Hamilton! - lesse ansante
con tono sostenuto.
Quella tremenda verità echeggiò nella stanza in maniera
talmente roboante che l’avrebbe udita ovunque si trovasse. Un brivido la
percorse scotendola da quell’apparente stato di assenza. Si voltò lentamente
verso la coppia appena arrivata, attratta dal tono e dalla voce con cui avevano
salutato i presenti.
Trish guardò Mary Hamilton a pochi metri da lei. La donna
parve commuoversi a quell’incontro così casuale quanto crudele. Fece qualche
passo verso la ragazza che frappose tra loro il suo braccio teso come una
barriera. Fradicia per la corsa sotto la pioggia, spossata da quegli eventi, non
la riconosceva.
- Chi siete? - chiese Amy non comprendendo chi fossero.
- Il signor Hamilton e la madre…di Patty! - esclamò
Holly identificando i due.
Quell’ennesime parole fecero eco nella stanza e colpirono
Trish in pieno volto. Reggendosi al bracciolo del divano, si voltò verso la
donna. Avvertì una fitta al cuore oramai ferito e sanguinante.
- Chi sono io? - le chiese in tono imperturbabile e
distante. Mary aggrottò le sopraciglia e tentò di sorriderle, ma comprese
che Trish era fin troppo adirata, più di quel giorno in cui aveva deciso di
andar via da Chicago.
- Ti ripeto la domanda per un’ultima volta. Chi sono
io? Dov’è mio padre? Cosa è successo dieci anni fa? - domandò scandendo
con precisione le parole.
- Trish…calmati..-
- Perché non glielo dici Mary? - la incitò James
Hamilton.
- Tu taci vigliacco che non sei altro…è un disonore
per me portare il tuo cognome! - gli disse con scherno e repulsione.
- Io…io… Trish…tu hai avuto un incidente. -
- A causa del quale sei incapace di intendere e di
volere. Siamo venuti a riprenderti per portarti di nuovo a Chicago. Non puoi
vivere da sola. Devi essere controllata perché potresti commettere qualche
atto incoercibile dettato dall’istinto. -.
- Ma cosa diavolo stai blaterando? Sono tutte
stupidaggini! Io sto benissimo. Mi sembra di avertelo già detto altre
volte. Se c‘è un infermo mentale…quello sei tu. Mi fai schifo! Taci e
non intrometterti in cose che neppure lontanamente ti appartengono. - gli
urlò contro con ripugnanza. - Non hai risposto alle mie domande….mamma! -
le disse ricordandole il ruolo che aveva nella sua vita. Mary guardò la
figlia, bella, selvaggia e disperata. Dietro di lei c’era Oliver, il
ragazzo che aveva amato intensamente. E poi ancora, i loro amici.
Cosa stava facendo? Davvero voleva riportare a Chicago Trish
facendo sì che un tribunale la bollasse come un’inferma mentale? Cosa sarebbe
stato della sua carriera e dell’amore profondo che provava per Holly? Si
irrigidì e respirò cercando di riprendere il suo autocontrollo. Guardò James
Hamilton, suo marito, il patrigno di sua figlia. Voleva stroncarle la carriera e
la vita affettiva per divenire suo tutore e incassare i notevoli importi
maturati dalle polizze assicurative intestate a Trish. Non poteva
permetterglielo. Nonostante il loro pessimo rapporto, lei era sua figlia e quell’uomo
stava cercando di isolarla dal mondo per sottometterla al suo volere. Ma chi
aveva sposato? Come aveva potuto stare al fianco di un uomo tanto subdolo e
sadico?
- Dieci anni fa c’è stato un incidente. Ti trovavi con
tuo padre…è accaduto il giorno prima che Holly tornasse dal Brasile! -. L’inizio
di quel racconto aveva già alimentato quello che era un dubbio insinuatosi
nella mente di Trish. - Tuo padre morì subito dopo l’arrivo dei soccorsi,
tu invece, entrasti in coma e ti risvegliasti dopo ventiquattro giorni….un
risveglio oscuro..perché nell’incidente perdesti la memoria. -. Si sentì
assalire da un conato di vomito, disgustata dalle bugie e dalle menzogne
tramate alle sue spalle.
- Chi…chi sono io? - chiese con tono quasi sommesso,
oramai senza forze per poter emettere altri suoni. Mary la guardò
sconfortata con un’immane desiderio di abbracciarla e rassicurarla.
- Mi dispiace averti tenuta all’oscuro di tutto questo.
Non lo meritavi. Non ho mai capito quanto fossi straordinaria….
- Dimmi chi sono? - le urlò a gran voce oramai
sopraffatta dal dolore. Mary tacque. Mai come in quel momento avrebbe
desiderato fuggire via. Quello che stava per dire avrebbe cambiato non solo
lo scopo del loro viaggio, ma la vita di sua figlia e delle persone
presenti.
- Patricia…PATRICIA GATSBY! - ammise coprendosi il
volto con le mani. Non si sentiva alcun sibilo se non lo stormire del vento
e i tuoni squarciare il cielo rosso. La sincerità con la quale Mary
Hamilton aveva pronunciato quelle parole lasciava trasparire solo la
verità. Trish continuava a sentire quel nome sillabato nelle sue orecchie e
nella mente. Lei era Patricia Gatsby, la ragazza amata e tanto cercata dal
campione di calcio Oliver Hutton. E lui l’aveva sempre saputo, fin dal
giorno in cui accidentalmente si erano incontrati. L’aveva intuito
immediatamente, aveva cercato di scoprire la verità spinto dai dubbi e dall’amore
incontrastato che aveva sempre provato per la dolce Patty.
Le immagini e i flashback che più volte aveva veduto, che
lei pensava ritraessero Patty, altri non erano che frammenti della sua memoria
passata. Sgomenta si portò le mani al capo. Era incredula. Il dubbio era
diventato una certezza. Nessuno parlava o fiatava. La verità era stata troppo
sconvolgente perché Holly e i suoi amici potessero gioire nell’aver ritrovato
la loro cara amica scomparsa. Troppo truce per lei che non solo adesso doveva
fare i conti con la realtà, ma soprattutto con l’identità di una ragazza
amata e desiderata da tutti. Il confronto sarebbe stato duro e inevitabile.
Senza fiatare si incamminò lentamente verso la porta.
- Aspetta! - le disse Holly riprendendosi da quel mutismo
collettivo. Lei arrestò il passo senza voltarsi per non guardarlo. Cosa
doveva fare? Restare o andare via?
- Non andare via…ti prego! - continuò con tono
supplichevole.
- Non riesci neanche a dire il mio nome….non sai
neppure tu come chiamarmi! Non lo so neanche io! - rispose col capo chino. -
Vedi? Non mi rispondi neppure! Io non ricordo…non sarò mai più la vostra
Patty. - disse andando via e correndo giù per le scale. Julian e Mary
guardarono Holly.
- Cosa aspetti? Fermala. Se dentro di lei serba ancora il
grande amore che aveva per te, solo tu potrai risvegliare la nostra Patty! -
gli disse Mary sotto gli occhi increduli di James. Come smosso da una scossa
ad alto voltaggio, Holly corse verso la porta nel tentativo drammatico di
fermare la sua amata. Sapeva, che se non l’avesse fatto, non l’avrebbe
rivista più e questa volta perché lei aveva intenzione di andar via per
sempre dalle loro vite. Amy piangeva a dirotto tra le braccia del marito.
- E’ colpa nostra. Se non fossimo stati così
inopportuni…se avessimo lasciato che trovassero da soli la strada…
- No, la colpa è unicamente mia! - sentenziò Mary
guardando la giovane donna.
- Ma cosa stai dicendo Mary? -
- Tu stai zitto. L’errore più grande che ho fatto è
stato ascoltare te, fidarmi di una persona così infima…pensi che non
sappia qual è la vera ragione di questo viaggio? Volevi far apparire mia
figlia come un’incapace di intendere e di voler per poter intascare le
polizze assicurative in vece di suo tutore. -. James Hamilton taque. Sua
moglie aveva scoperto tutto. Aggrottò la fronte e storse le labbra. Si
sentiva in trappola.
- Ha ragione lei…fai schifo. L’hai sempre saputo,
vero? Che suo padre le aveva lasciato quelle polizze. Ed è per questo
motivo che hai voluto adottarla prima che andassimo via dal Giappone. Un
piano perfetto. Peccato che abbia visto la busta della compagnia di
assicurazione tra i rifiuti. Il timbro postale che riportava un indirizzo di
Tokyo mi ha insospettita. Ho contattato la compagnia e dicendo loro che
avevo smarrito il contenuto, mi hanno inviato una copia dei documenti via
e-mail. Vattene via, sparisci dalla mia vista e dalla nostra vita. L’unico
contatto che riceverai, sarà quello del mio avvocato che ti chiederà il
divorzio. -
- Sei proprio una stupida…dopo quello che ho fatto per
voi. Vi ho dato una nuova vita e questa è la ricompensa? -
- Se ne vada! - esclamò Julian glaciale. - Lei è di
troppo qui. Esca immediatamente da questa casa e non si faccia più
rivedere. - continuò indicandogli l’uscio. James guardò il calciatore e
poi Mary.
- Come vuoi. Ci rivedremo in tribunale e ti chiederò il
risarcimento. Vedrai se non lo farò! - la intimò prima di andar via.
Senza pensare a non sforzare la gamba incidentata, Holly
continuava nella sua corsa disperata nella speranza di fermare Trish. Non sapeva
esattamente cosa avrebbe potuto dirle per farla restare, ma doveva provarci.
L’androne era vuoto e il portone era spalancato. Venne
investito da una folata gelida che non gli impedì di uscire per strada
incurante del maltempo. Si guardò a destra e manca, poi diritto. Era lì, ferma
in mezzo alla strada con il capo alto verso il cielo e le braccia aperte. Le
nuvole compatte di un tetro rossore, continuavano imperterrite a piangere quasi
come un atto di solidarietà verso quella ragazza che la vita aveva messo a dura
prova.
- Trish! - urlò cercando di attirare la sua attenzione.
- Triiiiiiiish! Togliti dalla stradaaaa! - gridò ancora non ricevendo
alcuna risposta e non notando nessun movimento da parte sua. Sembrava
stordita. Guardava il cielo cercando forse una risposta al senso della sua
vita.
- Perché? Perchéeeeeeeeeeeeeee? - implorava al cielo
sperando forse che qualcuno potesse ascoltarla e risponderle.
Un rumore attirò l’attenzione di Holly. Si girò verso
sinistra e vide l’automobile sfrecciare per la strada nella direzione della
ragazza. Guardò Trish. Ancora immobile. Un pensiero prese forma nella sua
mente. Sentì il sangue fluire veloce nelle sue vene come un torrente in piena.
Il sudore freddo gli ricopriva la fronte.
- Maledizione Trish, togliti dalla stradaaaaaaaa! - urlò
con tutta la voce che aveva in corpo per cercare di risvegliarla dallo stato
di tranche nel quale era caduta. Lei abbassò il capo e lo girò verso di
lui. Era sconvolta, triste, malinconica, smarrita. Poi tornò a guardare in
direzione dell’automobile che inarrestabile continuava la sua corsa.
Una bambina di pochi anni giocava in un giardino in un’assolata
mattina, sotto gli occhi vigili del padre. Una ragazzina con una fascetta rossa
tra i capelli trascinava un coetaneo su per le scale di un tempio. Un’adolescente
in tenuta ginnica sorridente, guardava dei ragazzi rincorrere una palla su un
campo da calcio. La rivide nelle calde braccia di un giovane sullo sfondo di un
aeroporto. Vide un uomo, lo stesso che aveva veduto con la bambina, ma più
adulto, che le sorrideva gentilmente. Insieme nella stessa automobile. Pioveva a
dirotto. Poteva quasi toccare con mano la pioggia che batteva sul parabrezza
della macchina. Nonostante le avverse condizioni meteorologiche, erano contenti.
Lui la guardò, poi i suoi occhi si sbarrarono…sterzò a destra nel tentativo
drammatico di evitare l’impatto frontale con un autotreno. Udì le urla
disperate della ragazza…poi lo schianto e il buio. Velocemente le immagini
della sua vita erano passate dinanzi i suoi occhi come una pellicola
cinematografica. L’auto si avvide della presenza per strada.
- Noooooooooooooo Pattiiiiiiiiiiiiiiiiiiy! - gridò Holly
correndole incontro. Con un salto si buttò sul corpo della donna nel
disperato tentativo di evitarle l’impatto con l’automobile Avvertì lo
spostamento d’aria al passaggio dell’auto e il forte odore di bruciato
alla brusca frenata. Scivolarono sull’asfalto reso viscido dalla pioggia
per poi giacere abbracciati lungo il ciglio della strada completamente
fradici. L’automobile riprese la sua corsa, sfrecciando lungo la via non
prestando alcun soccorso ai due ragazzi.
Si mosse sentendo qualcosa di caldo sotto il suo volto. Quasi
intuendo cosa potesse essere, come scrollato da una scossa, spalancò gli occhi
e la vide. Un rivolo di sangue scivolava dalla tempia. La guardò, priva di
sensi stretta nelle sue braccia. Il volto niveo e innocente, i lunghi capelli
scuri sparsi come fili di seta bagnata sulla sua pelle. L’espressione di
amarezza e sfinimento sul suo volto. Il cuore gli batteva all’impazzata e un
tragico pensiero si concretizzò nella sua mente. Se gli avessero conficcato una
lama nel cuore, non sarebbe uscita neppure una stilla di sangue. Un nodo in gola
gli impediva di parlare. La paura stava velocemente prendendo forma dentro la
sua mente.
- Trish….Trish svegliati…Trish, non mi abbandonare…ti
prego Trish….maledizione! Trish non mi lasciare, non morire, non puoi
farmi questo! - urlò scotendola sperando di risvegliarla da quel sonno,
mentre le lacrime gli annebbiavano la vista e scendevano contigue. La
strinse a se nel timore di perdere ogni singolo respiro. Prese a baciarle il
volto e il collo in una frenesia convulsa.
- Amore mio…ti prego…non lasciarmi da solo…come
potrò fare senza di te…non andare via ancora una volta…ti prego,
rispondimi…se tu muori io mi ammazzo! Ti prego amore rispondimi! -
supplicò angustiato e prostrato da quella tragedia. - Perché? Perché il
destino si accanisce contro di noi! Perché non possiamo stare insieme? -
gridò profondamente affranto mentre le lacrime scendevano repentine lungo
le guance infreddolite.
- Holly! - sibilò timidamente ancora stretta tra quelle
possenti braccia che le avevan salvato la vita. Il calciatore la guardò con
gli occhi sbarrati e l’espressione incredula.
- Amore mio! - esclamò baciandola sul volto con fervore
e delirio. Lei lo fissò stordita dalla caduta e intirizzita dalla pioggia e
dal freddo. - Sei viva…sei viva…non ti lascio..te lo prometto…non ti
lascio più! Perdonami se ti ho fatta soffrire, perdonami! - le disse
stringendola ancora più a se per la gioia.
- Holly! - esclamò ancora lei. - Mi…dispiace. - gli
disse mentre lui cercava di rialzarsi prendendola tra le braccia.
- Dispiacere? Sono io a doverti chiedere scusa per quello
che ti ho fatto…ho tradito la tua fiducia mettendo in discussione i
sentimenti che nutrivo per te. -
- No…è colpa mia…il tuo è stato l’atto disperato
di un uomo innamorato. Ti ho fatto…soffrire tanto. -
- Trish…io…l’ho fatto perché ti amo. - le disse
guardandola dolcemente negli occhi.
Mentre un aereo atterrava, altri due rullavano sulla pista
pronti al decollo. Non aveva avuto il tempo di osservare il continuo andirivieni
degli aeromobili e dei passeggeri, presa dalla sua corsa incessante verso il
cancello di imbarco. Doveva incontrarlo. Un’ultima volta. Lo vide di spalle
mentre si accingeva a solcare il gate. Come se avesse sentito il suo passo
incalzante o il suo richiamo, si voltò e la vide arrivare. Un sorriso di gioia
e felicità si dipinse sul suo volto mentre lei lo raggiungeva affannata dalla
corsa. Gli mostrò una scatoletta azzurra. Un portafortuna per quell’avventura
che stava per cominciare.
Lo guardò ancora in quei profondi e dolci occhi neri resi
ancor più brillanti dalle lacrime. Con la mente disegnò i contorni di quel
volto bagnato dalla pioggia, i capelli arruffati, la sua espressione quieta che
celava la preoccupazione del momento. Schiuse le labbra accennando un timido ma
sincero sorriso. Stava piangendo per lei.
- Lo so amore mio…- gli disse accoccolandosi tra le sue
braccia. - adesso ho capito... -. Oliver la guardò stranito.
- Trish non poteva innamorarsi di qualcun altro. Non
poteva permetterselo perché nel suo cuore, da qualche parte, in un
cantuccio, conservava il grande amore che aveva sempre serbato per il suo
capitano! - gli disse piangendo. Lo baciò sulle labbra, un tocco dolce che
sfiorò prepotentemente i suoi sentimenti. La tirò contro il suo petto e la
avvinse timoroso che potesse scappare.
- Tu….-. Lei chinò il capo in segno di assenso.
- Non ti prometto di tornare quella che ero…Trish non
morirà mai…ma posso provare a restituire a te e a me stessa la Patty che
conoscevamo. -. Holly scosse il capo dissentendo.
- Non mi importa…desidero solo stare con te…Patty o
Trish: vi ho amate in maniera diversa, ma profonda o completa. No, amore…non
hai bisogno di tornare quella che eri. Devi rimanere quella che sei. Ho
amato Patty intensamente senza avere avuto mai la possibilità di dirglielo.
Il destino ha voluto che ci ritrovassimo e che imparassimo ad amarci ancora
una volta. E’ meraviglioso tutto questo. E’ il segno che la nostra
unione è predestinata, che nulla o nessuno potranno mai separarci perché
noi siamo nati per restare insieme. - le disse convinto baciandola con
passione. Si staccò un attimo da lei e si inginocchiò sull’asfalto
mentre la pioggia scendeva con minore intensità.
- Holly…ti senti male? - gli chiese impensierita.
Scrollò il capo e le sorrise.
- Patricia Gatsby Hamilton…vuoi sposarmi? - le chiese
serio prendendo la mano della ragazza tra le sue.
Lo guardò dritto negli occhi, scuri, intensi, profondi,
illuminati dalla luce del loro nuovo amore. In un attimo le sembrò di ricordare
il desiderio spasmodico di un’adolescente di sentir pronunciare quella frase
dal giovane di cui era innamorata. Rimembrò il suo imbarazzo che si manifestava
al solo parlare con il suo capitano. Il lungo abbraccio all’aeroporto il
giorno della sua partenza. Le lettere che gli aveva scritto dal Brasile. Già. L’ultima
lettera nella quale cominciava a manifestare seriamente quelli che erano i suoi
sentimenti. Il desiderio di rivederla. Ma vivida dinanzi i suoi occhi c’era l’immagine
di qualche settimana prima, quando era giunto in ospedale e nel delirio aveva
pronunciato il suo nome. In quel momento ebbe la certezza che Holly non aveva
mai smesso di amarla, che il legame con Trish era nato perché infondo sapeva
che si trattava di Patty. Ne era sicura. Il sentimento che nutriva nei suoi
confronti era talmente immenso, infinito che non avrebbe mai smesso di amarla.
Lei rise di cuore. Non ricordava di averla mai vista così divertita,
sicuramente non nelle spoglie di Trish.
- E’ una domanda così comica? - le chiese quasi
indispettito da quel suo comportamento. Scosse il capo dissentendo.
- Sì, sì e ancora sì…che lo voglio. - gli rispose
disorientata ma felice sotto gli sguardi attoniti di Julian, Amy e Mary
accorsi giù al portone impensieriti dalla loro assenza.
Ritemprato dalla gioia e dal suo consenso, Oliver prese in
braccio Patty e la fece volteggiare in aria in segno di felicità.
- Ci sposiamoooooooo! - gridò più volte sicuro che
qualcuno…adesso lo stesso finalmente ascoltando. - Ti amoooooooooooooo! -
le urlò baciandola ancora per sigillare quel momento tanto atteso e che
finalmente aveva fatto breccia nelle loro vite. Lei si strinse ancora di
più nel suo abbraccio sicura di aver realizzato finalmente il suo più
grande sogno: amare ed essere amata da Oliver Hutton.
“La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa
amare: Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e
percepisca la propria vita. Felice è dunque chi è capace di amare molto.
Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è il desiderio
fattosi saggio; l’amore non vuole avere: vuole soltanto amare.
L’amore non bisogna implorarlo e nemmeno esigerlo. L’amore
deve avere la forza di attingere la certezza in se stesso. Allora non sarà
trascinato, ma trascinerà.”
(Herman Hesse)
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