That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Mirzam - MS.002
- Malleus Maleficarum
Mirzam
Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - maggio 1964
“Guarda,
Sherton! Guarda e impara!”
Mi voltai, in tempo per vedere un tripudio di farfalle variopinte
levarsi dal Lago Oscuro e dirigersi quasi danzando verso di noi. Bella
era seduta scalza sull’erba ancora umida del mattino, con la
bacchetta muoveva leggiadra le farfalle, al suo comando: era
l’unica ragazzina che conoscessi che avesse una notevole
abilità, già a tredici anni, con arti non
propriamente legali, almeno per il Ministero, e che le applicasse alla
ricerca di soddisfazione, per il momento, del suo innato senso
estetico. In quei quasi due anni avevo imparato a conoscerla: era come
l’avevo sempre immaginata, una delle ragazze più
vitali, cariche di energia e d’inventiva che avessi mai
incontrato. Pur mostrandomi sempre distaccato e impeccabile,
com’era richiesto dall’etichetta e dal nostro
rango, sapevo bene di essere perdutamente cotto di lei, e avevo
l’intima convinzione che, pur trattandomi con la stessa
ruvidezza con cui trattava tutti quelli che le si avvicinavano,
soprattutto per ribadire la sua indipendenza e la sua
unicità, io avessi un posto particolare nel suo cuore. Nel
giro di un paio di anni, fantasticavo con una certa
regolarità e con un notevole compiacimento, non sarebbe
stato sconveniente dire a mio padre cosa avevo per la testa ed ero
convinto che la proposta con cui mi sarei presentato a Cygnus Black,
secondo le regole dell’alta società magica,
avrebbe reso particolarmente felici e soddisfatte entrambe le nostre
famiglie. E la stessa Bella.
Sile, seduta sul plaid dietro di me, si mise ad applaudire, non appena
le farfalle si disposero in un disegno geometrico tutte intorno a noi.
Erano molto amiche, lo erano dal primo giorno, dal primo viaggio in
treno fatto oltre un anno prima, tutti insieme nello stesso
scompartimento: oltre a noi tre c’erano Warrington, mio
fedele compagno di avventure, Amycus Carrow e Augustus Rookwood,
entrati a Serpeverde il mio stesso anno e miei compagni di stanza.
Bella, pur più piccola di un anno, si era integrata
facilmente, mostrando una certa complicità, da subito, con
Sile: dal tipo di occhiata ammirata e maliziosa che spesso mi
rivolgevano, ero più che convinto che buona parte delle loro
confidenze riguardassero me. Mi alzai, dopo essermi complimentato con
Bella, intenzionato a correre dietro Rodolphus apparso lungo il
sentiero, con il resto della squadra, diretto allo stadio per i provini
per il nuovo cercatore: la successiva domenica ci sarebbe stata
l’ultima partita con Teddy Lammark, tanto valeva iniziare ad
avere le idee chiare sul prossimo futuro. Io giocavo già dal
secondo anno nel ruolo di cacciatore, con notevole profitto, ma sapevo
di essere nato per essere un cercatore, e non ero l’unico a
pensarla così…
“Vai, Sherton, fatti
onore!”
Sile si avvicinò, stampandomi un bacio sulla guancia, era
molto bella e aveva molto successo presso i miei compagni, ma io non la
notavo quasi per niente, avevo occhi solo per Bellatrix.
“E se vedi un nemico
particolarmente ostico, fammi un fischio…”
L’espressione maliziosa di Bella non prometteva nulla di
buono, come il colpo di bacchetta che voleva simulare una bella
“Imperius”.
“Cercherò di
riuscirci anche senza il tuo aiuto, Black, ma ti terrò
presente…”
Le sorrisi, canzonatorio, ma quando mi stampò a sua volta un
bacio sulla guancia, e odorai il suo profumo di fiori primaverili, per
un attimo persi completamente di vista il motivo per cui dovevo
andarmene da lì e salire su uno stupido bastone invece di
restare su quel prato a farmi baciare da lei…
“Insomma ti muovi!?”
Rodolphus e il suo ghigno mi riportarono con i piedi per terra, non era
la prima volta che mi derideva per la mia capacità di
scordarmi del Quidditch, se c’era di mezzo Bellatrix
Black… Secondo lui, però, se avevo davvero un
qualche genere d’interesse per Bella, dovevo lasciar perdere
regole ed etichette, e farmi avanti, perché quella non era
il tipo di ragazza che pensava solo a compiacere la famiglia, ma
piuttosto ricercava il piacere per se stessa. Io non capivo ancora cosa
intendesse dire, ma guardavo con una certa apprensione al suo ghigno
poco rassicurante, ogni volta che le posava gli occhi addosso. Scacciai
quei pensieri fumosi e sorrisi alle mie ammiratrici, vidi un
incoraggiante sguardo malizioso sul loro viso, io, impeccabile e
galante come sempre, feci un rapido inchino, presi al volo la mia
giacca abbandonata sul plaid e raggiunsi i miei amici, sicuro che quel
pomeriggio avrei fatto un incontro definitivo col mio unico e vero
destino.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - luglio 1964
Meowwwww…fzzzz…
“Mirzam!”
Lasciai immediatamente Sabia, il vecchio gatto di famiglia, e rientrai
di corsa in casa. Mio padre era nello studio del nonno, alla scrivania,
il naso affondato in una marea di documenti, l’espressione un
po’ corrucciata: detestava qualsiasi cosa gli impedisse di
stare all’aperto e, soprattutto, odiava con tutta
l’anima quel genere d’incombenze. Vestiva alla
babbana, con una camicia chiara, semi aperta, e dei jeans scuri, non in
una delle sue stanze, ma in quello che da secoli era uno dei
“Sancta Sanctorum” della nostra famiglia,
circondato da immagini dei nostri avi sobriamente abbigliati con toghe
da mago e da strega, che lo guardavano con disappunto.
“Avevo detto niente dispetti a
gatti, elfi e fratelli, o sbaglio?”
“Ma padre… mi stavo
annoiando…”
“Ti annoi a Herregton? Vuoi
dirmi che hai già visto tutto il castello e scoperto tutti i
suoi segreti? Ammirevole: io, in trentatré anni, ancora non
ho nemmeno capito quante stanze ci sono…”
Mi stampò il suo sguardo d’acciaio addosso, ma
subito l’espressione burbera si dissolse in un sorriso,
sembrava che avesse già perso la voglia di farmi la
ramanzina.
“No, è
che… mi sarebbe piaciuto giocare a Quidditch…
ma…”
Sapevo che era ingiusto che mi lamentassi perché in quei
giorni mi stava ignorando, se avesse potuto, sarebbe stato con me la
maggior parte del tempo. Mi guardò, complice e colpevole.
“Lo so, Mirzam, lo so, lo
preferirei anch’io, ma porta pazienza ancora per un paio di
giorni, questi documenti vanno sistemati per domani. Appena mi
sarò tolto il Ministero da dosso per un po’,
sarò tutto tuo… promesso…”
Mi fece il segno di accomodarmi sul divano di fronte a lui e chiese a
Kreya di portarci qualcosa da bere, amichevole come suo solito: Alshain
Sherton, però, restava sempre mio padre e quel pomeriggio mi
aveva chiamato lì perché doveva riprendermi. Era
arrivato il momento.
“Lo sai, non voglio che tu
faccia stupidi scherzi e infastidisca chi non può
difendersi…”
“Ma padre… Ho solo
provato un incantesimo nuovo sulla coda di Sabia, lo fanno tutti a
scuola…”
“Non m’interessa
cosa fanno gli altri: tu sei mio figlio, nei diritti come nei
doveri… Ti permetto di fare cose che i tuoi amici neppure si
sognano, di contro pretendo che tu non ne faccia altre, anche se per
loro sono normali… Sul divieto di non infastidire chi
è indifeso, io non transigo…”
“Ma …”
“Se questa regola non ti
piace, puoi andare a vivere con chi permette ai figli di torturare il
prossimo, ma poi usa la frusta su di loro anche per le
sciocchezze…”
Stavolta il suo sguardo era severo e mi costrinse ad abbassare gli
occhi. Era vero. A Rodolphus era permesso fare tante cose che i miei
genitori non volevano facessi, però pagava quella maggiore
libertà con le sfuriate ingiustificate di suo padre.
L’ultima volta era successo in primavera: Rodolphus era stato
frustato a sangue perché, secondo il suo vecchio, non
onorava la famiglia come ci si aspettava da lui; in realtà,
non aveva fatto niente di male, solo che, quand’era sbronzo,
suo padre perdeva il controllo. E questo accadeva spesso. Mio padre,
invece, in teoria molto più severo, anche quando sbagliavo,
non alzava mai le mani su di me, e su tanti argomenti, invece di dirmi
solo “NO”, mi spiegava il perché dei
suoi NO, mi faceva capire a quali conseguenze portavano certe scelte,
poi mi lasciava libero di decidere da me, ed io rinunciavo
volontariamente, ormai consapevole della stupidità di quanto
avrei voluto fare.
“Scusami…”
“Non è necessario,
l’importante è che tu capisca l’idea di
rispetto: in questa casa sei amato e rispettato perché per
noi vali come persona, non come proprietà del
casato… Capisci cosa intendo dire?”
Annuii, bastava confrontarmi con Rodolphus per capire che non eravamo
come gli altri e col passare del tempo notavo che questa nostra
diversità comportava vantaggi non indifferenti.
“Molto bene, vorrei che
imparassi a rispettare le altre persone e le altre creature non per
l’importanza sociale che hanno, ma per se stesse
…”
“Ma
padre…”
Mi guardò e sorrise, questa era un’idea
così poco Slytherins, questo era quel genere di discorso su
cui spesso ci scontravamo: era riuscito a smuovere la mia
curiosità e la mia confusione ancora una volta,
perché sapevo che dietro a tutto quello che diceva
c’era sempre un significato importante e nascosto.
“So bene cosa si dice nei
sotterranei di Serpeverde, sulla superiorità dei maghi
Slytherins e Purosangue, e non sarò certo io a negare
un’evidenza, ma posso e voglio dimostrarti che ci guadagni
anche tu, portando rispetto al prossimo. Rifletti: cosa ottieni agendo
con insolenza o violenza? Solo paura e, in chi può
permetterselo, odio: questi sono sentimenti che innalzano
l’ego di chi non ha reale autorità, al contrario,
chi il potere ce l’ha, per sentirsi forte non ha
bisogno della paura di chi lo circonda; rispettare gli altri invece
può diventare conveniente per noi stessi: ottieni rispetto e
devozione, e questo porta a fedeltà assoluta: soprattutto
con gli elfi domestici, ti consiglio di non dimenticarlo
mai…”
“Parli come se dovessimo
temere per il futuro…”
“E’ sempre bene
mettere solide basi per tempo, Mirzam, la nostra storia ci insegna a
non abbassare mai la guardia: sarebbe un problema se un giorno fossimo
in pericolo e ci fosse dinanzi a noi solo una creatura
“inferiore” di cui non possiamo fidarci
perché l’abbiamo sempre maltrattata, magari
proprio un babbano…”
“No quello mai…
chiedere aiuto a un babbano… Mai! Preferirei la
morte…”
M’infervorai subito: su quell’argomento ci
scontravamo, spesso e volentieri.
“Mirzam…”
Mi ero alzato e già mi avviavo alla porta, confuso e
preoccupato e anche arrabbiato. Si alzò anche lui e si
avvicinò, calmo, lo sguardo sicuro puntato sul mio viso a
scrutarmi e capirmi.
“Ti prometto che
lascerò in pace il gatto come vuoi tu e proverò
l’incantesimo su qualcosa d’inanimato… e
mi comporterò bene con gli elfi, per assicurarmi che mi
siano sempre fedeli…”
“Mirzam…”
Mi voltai verso le scale, poi tornai a guardarlo, incapace di
trattenermi eppure incapace di restare. Ogni volta che parlavamo di
quei sudici esseri, mi andava il sangue al cervello… Credevo
che mio padre avesse dimenticato tutto. E al tempo stesso sentivo che i
suoi insegnamenti e il suo atteggiamento erano giusti. Ero confuso e
spaventato… Ora che io ero a scuola e i miei fratelli
così piccoli da non restare turbati, mio padre spesso si
lasciava andare di nuovo ai suoi “hobby” babbani,
nelle sue stanze, lì a Herrengton: io, a volte, avevo
protestato con lui, chiedendo come fosse possibile, ricordandogli che
noi eravamo Sherton, che il nostro stemma diceva “Les
Bien-Aimés”, i prediletti di Salazar…
Mio padre mi ascoltava senza fare una piega, il viso che non tradiva
emozioni, poi m’invitava a sedermi accanto a lui, accendeva
il mangiadischi babbano o mi leggeva un libro e iniziava a spiegarmi:
erano delle storie meravigliose, fatte di amore e odio, passione e
sacrificio, avevano in sé degli importanti insegnamenti ed
io rimanevo affascinato ad ascoltarlo. E pur per brevi attimi, le
parole d’odio di Salazar lasciavano spazio a un sentimento
che non comprendevo appieno, ma che ricordavo di aver provato tanti
anni prima, prima di quell’orrendo giorno di sangue. Accanto
a mio padre, tornavo indietro nel tempo, alla mia prima infanzia,
quando non avevo paura dei babbani e riuscivo a capire dentro di me,
seppur non in modo razionale, cosa ci trovasse mio padre in quel mondo
a me incomprensibile.
“Io non capisco:
perché devi sempre tirarli fuori,
perché?”
“Perché ti devo
insegnare cose più importanti di quelle che ti spiegano a
scuola… perché per il tuo futuro non basta
sapersela cavare col calderone o essere più rapidi con la
bacchetta… perché per farti diventare un uomo non
bastano queste Rune sulla pelle… non sarei tuo padre se non
agissi così…”
Era vicino a me, la sua mano calda sulla spalla e il suo sguardo fisso
nel mio: mi rilassai all’istante, volevo solo stargli
accanto. Mi guidò fuori, su una delle panchine del cortile
delle rose, era una bella giornata di luglio, calda e appena ventilata,
senza nemmeno una nuvola: sotto di noi spaziava fino
all’infinito l’oceano, placido, nel suo color
mercurio appena increspato dalla brezza.
“La vita non è
semplice, Mirzam, il Bene e il Male non si dividono perfettamente a
metà il mondo. La bontà e la cattiveria sono
insiti nel cuore degli esseri viventi, di tutti gli esseri viventi, non
c’è relazione tra onestà, giustizia e
Purezza di Sangue… Altri maghi Purosangue educano
diversamente i figli, lo so, e inorridirebbero a sentirmi parlare
così, ma la nostra prima regola è sopravvivere e
non puoi farlo se non riconosci quello che hai intorno. Per questo
vorrei farti conoscere tutto, come mia madre ha fatto con me, in questo
modo imparerai a ragionare con la tua testa, e sviluppare il tuo senso
critico: a fare le tue scelte in maniera consapevole e soprattutto
indipendente dal volere degli altri…”
“La prima regola è
sopravvivere, ma la seconda è vendicarsi… non
puoi negare quello che ci hanno fatto per secoli… E quello
che hanno fatto alla mamma, a te e a me, pochi anni
fa…”
Sospirò…
“Molti babbani sono malvagi,
Mirzam, inutile negarlo, molti di loro non meritano la nostra fiducia,
ma questo vale non solo per loro, vale anche per gli altri maghi: in
nome della seconda regola dovremmo uccidere metà delle
famiglie che conosciamo, lo capisci Mirzam? O credi davvero che nella
nostra storia abbiamo subito solo gli attacchi dei babbani? E che le
famiglie magiche che si dichiarano nostre amiche oggi, nel corso dei
secoli non abbiano mai guardato a Herrengton con bramosia? Molti di
loro hanno fatto qualcosa per distruggerci, anche in tempi
recenti… Dobbiamo usare senso critico, Mirzam, per fare
distinzioni, sia guardando ai maghi sia guardando ai
babbani… Non serve a niente vendicarsi in maniera
indiscriminata, approfittando della debolezza di chi ci sta di
fronte… Si deve pagare per le proprie azioni, non per quello
che ereditiamo dal passato, o per quello che fanno i nostri
simili… Anche tra i nostri avi ci son stati uomini malvagi,
perché dovresti essere tu o uno dei tuoi fratelli a pagare
per loro?”
“Vuoi dire che non dovremmo
più vendicarci, perché non esiste più
chi ci ha fatto materialmente del male e dovremmo conoscere e
apprezzare il loro mondo? No… No… Io…
D’accordo, è ingiusto toccarli per colpe del
passato, ma perché non dovrei almeno fingere che non
esistano? Perché leggere di loro, sentire di loro, usare le
loro cose? Perché? Perché accettare di essere
loro amico? Noi siamo Sherton, padre, non Grifondoro rinnegati!
Possiamo vivere anche senza di loro… Tu dovresti vivere
senza di loro!”
Lo guardai, quasi con le lacrime agli occhi: era la prima volta che
quasi lo supplicavo di smettere di essere com’era…
“E’ questo che ti
sconvolge, Mirzam? Hai paura per me? O addirittura di me? Temi per la
mia fedeltà a Serpeverde? Hai paura che io sia un
babbanofilo?”
Feci di no con la testa, ma non avevo il coraggio di alzare gli occhi
sul suo viso. Mi prese la mano e seguì con
l’indice le Rune sul palmo, testimonianza del fatto che suo
padre aveva preferito affidare a me Meissa: non avevamo mai parlato di
quel giorno, ma qualcosa nel suo modo di guardarmi mi diceva che avesse
un’idea chiara di quanto c’eravamo detti io e il
nonno. Forse riconosceva nelle mie parole quelle di suo padre.
“Anche questo, per me,
è un segno di forza, Mirzam: io sono sicuro di
ciò che sono, per questo non li temo e non li odio, anzi,
riesco a essere persino amico di alcuni di loro… Si
può vivere senza di loro, hai ragione, ma perché
dovrei limitarmi? Se non leggo una poesia o non sento una musica, o non
bevo un vino, perché l’hanno fatta loro, li privo
di qualcosa, o piuttosto lo nego a me stesso? Rifletti… E
chiediti quando e in che modo questi fatti banali hanno intaccato la
mia natura profonda, la mia natura di Slytherin e di
Purosangue…”
Mi fissava, sereno. Mio padre era chiaramente uno Slytherin, bastava
pensare con quanto ardore combatteva Dumbledore nelle riunioni del
Consiglio ed era molto fermo in certi insegnamenti: diceva sempre che
potevamo essere amici, solo amici, di babbani, Mezzosangue e
SangueSporco, ma che il nostro sangue doveva legarsi solo ed
esclusivamente a chi era come noi. Eppure non era come gli altri,
nessuno di noi era come gli altri.
“E’ tutto
così difficile, ed io a volte non capisco: perché
siamo così diversi dagli altri?”
“Vorresti davvero essere come
gli altri? Magari come i Lestrange?”
“No… no…
quello no… tu e la mamma… voi… siete
migliori dei genitori di Rodolphus…”
“Perché non ti
picchiamo come fanno i Lestrange con i loro figli?”
“Beh…
certo… ma… non è solo per
quello...”
“Noi ci vogliamo bene Mirzam,
siamo una delle poche, se non l’unica famiglia Slyherin
formatasi per scelta e non per contratto, e in cui i figli sono nati
per amore e non per il bene del casato: è questo, non
l’atteggiamento verso i babbani, a farci diversi. Per gli
altri ciò che conta è il prestigio, il nome, da
perseguire a qualsiasi costo, anche sacrificando la felicità
di voi ragazzi… tua madre ed io, invece, vogliamo solo che
siate felici, tranquilli e al sicuro…”
Mi abbracciò.
“Ora vai a cambiarti, tra
dieci minuti ti raggiungo nel patio e nuotiamo un po’: credo
di aver sprecato anche troppo tempo dietro a quelle dannate
carte…”
Sorrisi, avevo l’opportunità di passare il resto
della giornata con lui, a raccontargli per filo e per segno, di nuovo,
com’era stato bello agguantare il boccino in nemmeno due
minuti, durante la selezione per il nuovo cercatore, a maggio: in
autunno sarei stato il nuovo cercatore di Serpeverde. Avrei rivisto la
fiducia e l’orgoglio nei suoi occhi, e questo bastava a
cancellare i babbani, i maghi traditori, le parole del nonno e tutto il
resto… Bastava questo per renderlo orgoglioso di me, la mia
felicità e il mio entusiasmo, mio padre non mi chiedeva
gesti d’odio e prepotenza, non dovevo dimostrare niente a
nessuno… Dovevo solo essere me stesso.
***
Mirzam
Sherton
Londra - 1 settembre 1964
“Lei è Meda, forse
te la ricordi!”
Mi ero separato dai miei genitori davanti al treno, a King’s
Cross, per correre dai miei amici, avevo raggiunto prima Warrington
poi, con lui, mi ero diretto verso Rodolphus e Augustus, quando a un
tratto mi ero sentito tirare per una manica e voltandomi avevo visto
Bella, assolutamente meravigliosa come suo solito, insieme a
un’altra ragazzina, in tutto simile a lei, solo
più piccola: Andromeda Black. Dopo la morte del nonno,
avevamo lasciato Londra per vivere a Herrengton, soprattutto per gli
impegni di mio padre con la Confraternita del Nord e per la mia
preparazione alle Rune, pertanto non eravamo ritornati dai nostri amici
nemmeno durante l’estate. Non vedevo Meda da circa due anni,
da quando l’avevo scambiata per sua sorella, proprio davanti
al treno per Hogwarts: era una ragazzina minuta dai lunghi capelli
castani raccolti in un’alta coda, i lineamenti fieri tipici
di quella famiglia, dei meravigliosi occhi chiari, che al contrario di
quelli di Bella, rivelavano un animo dolce e gentile. Come tutti i
Black, benché fosse solo una ragazzina di appena undici
anni, vestiva già con una seriosa toga da strega, verde
smeraldo, così che fosse chiaro a tutti, a un semplice
sguardo, quanto profondamente nel loro animo fosse incisa la parola di
Salazar.
“Ciao Andromeda Black,
finalmente a Hogwarts anche tu…”
Le diedi la mano e appena lei mi diede la sua, mi chinai a baciarla,
come si conveniva alle nostre famiglie: all’inizio non notai
che il sangue mi stava scorrendo più veloce, quando sentii
il suo calore e il suo profumo, passò parecchio tempo, da
quel giorno, prima che me ne rendessi conto, ma era già
tutto scritto in quell’istante, in quel rapido sguardo, in
quel bacio, in quell’abbraccio tra amici che ci scambiammo
dopo tanto tempo. E c’era già qualcosa anche nello
sguardo di Bella, qualcosa che imparai a riconoscere, a mie spese, solo
molto tempo dopo.
“Vostro zio come
sta?”
“Credevo che lo sapessi tu,
Sherton, ultimamente gli unici ad averlo visto vivo sono zia Walburga e
tuo padre… C’è qualcosa di strano in
questa storia…”
Vidi Meda gettare un’occhiataccia a sua sorella,
probabilmente non pensava fosse educato parlare in quel modo dei loro
parenti davanti a tutti quegli estranei.
“A casa mia ho sentito dire
soltanto che è uscito dal Vaiolo di Drago per il rotto della
cuffia, ma questo ormai quasi un mese fa, non ho notizie più
recenti…”
“Sì, ha avuto il
Vaiolo di Drago, per questo hanno mandato da noi per l’estate
i due marmocchi…”
“Bella!”
Meda ci interruppe di nuovo, pronta a difendere i cugini dalle
insolenze della sorella. Sorrisi.
“… volevo dire i
“principini”…”
Bella ghignò, seguita a ruota dagli ululati derisori di
Rodolphus, che non perdeva occasione per darle spago e sostenerla, pur
di farsi notare da lei: lo consideravo il mio migliore amico, anche
più di Warrington, ma quando si comportava in quel modo con
Bellatrix, lo trovavo viscido e odioso, e gli avrei dato volentieri un
bel pugno sul naso, anche se faceva tanto babbano. Per mia fortuna,
Bella lo metteva sempre in riga da sola, facendogli rapidamente capire
che non provava alcun interesse per lui ed io godevo nel vederlo
ridotto a zerbino e umiliato. No, i miei sentimenti per Lestrange non
erano uguali a quelli che mio padre provava per Orion Black, forse la
nostra amicizia non era poi tanto profonda come mi ero immaginato i
primi tempi. Forse, se avessi messo in chiaro che
m’interessava davvero Bella, lui si sarebbe comportato in
maniera diversa, ma in cuor mio sapevo che la preoccupazione, che mio
padre provava vedendomi tanto legato a quel ragazzo, era in qualche
modo fondata.
“Il Vaiolo non è
uno scherzo, hanno fatto bene i tuoi zii ad allontanare i
figli… per voi Black e per l’intero mondo magico
quei due ragazzini sono troppo importanti: ci sono già
troppe famiglie Purosangue sull’orlo
dell’estinzione!”
Augustus era sempre dannatamente serio e a me non piacevano quei
discorsi, perché mi riportavano a ricordi che non riuscivo a
gestire e spesso si finiva col parlare di argomenti e di progetti che
andavano nella direzione opposta a quanto m’insegnava mio
padre. Perciò colsi l’occasione di allontanarmi da
tutti loro, quando Meda disse di voler tornare dalla sua famiglia e
Bella, come suo solito, si disinteressò a lei, precisando
subito di non volerla accompagnare: per una volta, allontanarmi
volontariamente da Bella non mi fu difficile.
“Emozionata?”
“Un po’…
spaventata più che altro…”
“E di cosa? Tutti i Black, da
sempre, finiscono a Serpeverde, e lì hai una sorella e molti
amici che ti attendono…”
“Speriamo…”
“Beh, se vuoi, puoi
già considerarmi tuo amico… Gli altri…
non penso avrai difficoltà a fartene, gentile e carina come
sei…”
Le sorrisi e lei mi guardò imbarazzata ma anche
più serena, come già spesso era accaduto, da
piccoli, a Grimmauld Place, quando riuscivo in tempo a salvarla da una
caduta o quando, per farmi notare da Bellatrix, intervenivo nelle loro
scaramucce, salvando un giocattolo di Meda o dirottando su di me i
dispetti di Bella. Sì, avevo dei ricordi molto belli dei
nostri pomeriggi insieme e sapevo che, se solo l’avesse
voluto anche lei, non sarebbe stato difficile per noi essere buoni
amici. Quei pensieri carichi di aspettative non dovevano essere solo
miei. Raggiunti i nostri genitori, infatti, fummo accolti da sguardi
particolarmente interessati, soprattutto di sua madre, Druella Rosier
Black.
“Ecco i nostri
ragazzi…. Ma Bellatrix che fine ha fatto?”
“E’ rimasta a
parlare con Lestrange e gli altri, Mirzam si è offerto di
accompagnarmi…”
“Dovete essere proprio
orgogliosi di vostro figlio: è un vero cavaliere, se ha
lasciato gli amici solo per occuparsi di una
bambina…”
Diventai un po’ rosso in viso, tra l’altro a me
Meda non sembrava esattamente una bambina… Non riflettei
ancora a lungo su Meda, però, perché i
complimenti di Cygnus Black mi fecero particolarmente piacere:
immaginavo e speravo che anche quel gesto, che mi era nato spontaneo,
un giorno mi sarebbe tornato utile per fare buona impressione su di
lui, così che avrebbe accolto bonariamente quel certo
discorso che gli avrei fatto su Bellatrix. Sempre con
l’intenzione di farmi notare, salutai galantemente Cissa, un
angelo biondo che aveva raccolto su di sé tutta
l’attenzione di mio fratello, mentre Meissa, non abituata a
tutta la confusione che avevamo intorno, stava attaccata alle gonne
della mamma, sottraendosi come meglio poteva alle attenzioni
asfissianti di Druella. Tutto questo non faceva che inorgoglire i miei,
anche se non era facile per un estraneo accorgersene: avevano entrambi
un’assoluta venerazione per mia sorella, e anch’io
la adoravo, non ero mai stato geloso di Mei, al contrario di Rigel,
forse perché sentivo la responsabilità che avevo
nei suoi confronti.
“Perché non venite
da noi stasera al Manor? Ci saranno anche Walburga e i
ragazzi… è tanto tempo che non passiamo una bella
serata, tutti insieme…”
“Mi spiace, Cygnus, ma appena
il treno sarà partito, noi torneremo a Herrengton, ho
numerosi impegni con la Confraternita. Magari avremo
l’occasione di stare insieme durante le vacanze di
Natale…”
“Lo spero, Alshain, ci mancate
molto… dico davvero…”
Notai l’espressione seriamente delusa di Druella posarsi su
Cissa e Rigel, che nonostante la differenza di età,
sembravano già andare molto d’accordo: mi
bastò quello sguardo carico di aspettative per capire quanto
i miei progetti su Bella avrebbero trovato buona accoglienza presso
Black.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - dicembre 1964
“Lo faccio per
Orion… Solo per Orion…”
“Orion... Orion…
Salazar… Ma dove ha la testa quell’uomo? E
tu… Perché…”
“Per favore…
E’ una brutta storia, lo sai…”
“Qui ci sono i tuoi figli,
Alshain… E se lo sapessero al Ministero? E se lo sapessero
quegli altri? Quanto sei coinvolto stavolta?”
“Io? No…
Io… Io non ho fatto nulla…”
“Quello che hai fatto
è nulla?”
“Ti prego… Ti
chiedo solo di prenderti cura di lei per questa notte… Per
favore… Solo una notte…”
Avevo sentito dei rumori per le scale, avevo riconosciuto la voce di
mio padre, ero sceso… Mancavano pochi giorni a Hogmanay:
dopo Yule, mio padre era stato continuamente nervoso, e quella sera,
quando era arrivato il gufo di Orion Black, era saltato su come una
furia ed era sparito all’improvviso, lasciando mia madre
piuttosto inquieta. Per questo ero rimasto in allerta: avevo finto di
essere andato a dormire, ma avevo atteso in piedi in fondo al letto.
Questa volta dovevo capire. Quando avevo sentito la sua voce per le
scale, ero sgattaiolato nel buio della torre e avevo spiato la scena
dietro alla porta socchiusa: mia madre era in vestaglia nel salone,
ancora più sconvolta di prima, mio padre aveva indosso un
mantello nero, il cappuccio ancora calato sul viso, a dargli un aspetto
inquietante. La mamma si torturava le mani e andava avanti indietro, il
fuoco del caminetto sul viso rivelava l’espressione
corrucciata: era preoccupata e al tempo stesso adirata. Era strano che
si arrabbiasse con mio padre per qualcosa. Papà sembrava
spaventato e stanco, lo vidi sedersi con le mani nei capelli, il
cappuccio e il mantello alla fine gettati su una poltrona,
distrattamente. Non capivo che cosa stesse accadendo, non avevo mai
visto mia madre tanto turbata per qualcosa in cui
c’entrassero mio padre e Orion: di solito
quell’uomo, amico di entrambi e mio padrino, non provocava
tra i miei genitori quel genere di reazioni… Poi
quell’estate era stato male e tutti dicevano che era successo
qualcosa di strano. Nessuno però aveva capito di che cosa si
trattasse.
“Dove si trova
adesso?”
“E’ nel capanno,
giù alla radura dei Thestral: c’è un
incantesimo di disillusione a porte e finestre, se si svegliasse,
penserebbe di essere nella sua stanza, che sia stato solo un brutto
sogno…”
“Salazar... E poi che cosa ne
sarà di lei? Pensa di farle fare la fine della madre?
Mezzosangue o babbana che sia, è solo una
bambina… ed io non ve lo permetterò!”
“Dei…”
“No, Alshain,
ascoltami… se vuoi il mio aiuto, è a questa
condizione: lui e sua moglie non le torceranno un capello… e
nemmeno tu…”
“E’ davvero questo
che pensi di me? Che sarei capace di una cosa simile? Se si trova qui,
è proprio per essere sottratta ai Black… ma
dovranno credere, soprattutto Walburga, che la questione sia stata
chiusa stanotte, o quella ragazzina non avrà
pace… e nemmeno noi... Vieni qua…”
L’abbracciò. Mia madre si nascose tra le sue
braccia, mio padre le accarezzava i capelli, il volto triste…
“Salazar, ti
ringrazio… Ho temuto che fossi impazzito anche
tu…”
“Te lo prometto,
Dei… Ti prometto che alla fine sarà una buona
azione…”
Mia madre si scostò da lui e lo guardò a lungo,
poi rise. Rise di una risata isterica: il fuoco del caminetto
rivelò che aveva le lacrime agli occhi… Di chi
diavolo stavano parlando? Perché Walburga Black doveva
avercela con una ragazzina e che fine aveva fatto sua madre?
“Buona azione? Tu la chiami
buona azione, Alshain? Hai lasciato che le uccidesse la madre,
l’hai rapita e ora… Come fai a parlare di buona
azione? Che cosa diavolo pensi di fare con lei?”
Gemetti, non poteva essere vero! Entrambi si voltarono verso la porta
dietro la quale ero nascosto, allarmati; mio padre si
avvicinò, io mi ritrassi nel buio profondo del sottoscala.
Si affacciò, si guardò attorno ma non mi vide,
tornò indietro e riprese a rassicurarla. Non poteva aver
detto quello che avevo sentito… Non poteva essere
vero… Non poteva averlo fatto davvero…
“Non c’è
nessuno, oltre a noi, Dei… Forza, vestiti e
andiamo!”
“Dovremmo tenerla con
noi… Alshain … qui non la troverebbero
mai…”
“Se fosse possibile, lo farei,
Dei… ma è una Mezzosangue, in pochi giorni qui a
Herrengton si ammalerebbe fino a morire… Devo portarla
all’isola… lì si prenderanno cura di
lei…”
“E quando avrà
undici anni? Quando manifesterà i suoi poteri? Come pensi di
farla sotto il naso a quei babbani? E come pensi di nasconderla al
Ministero nel frattempo?”
“Non manifesterà
più niente, Dei… Lo sai… se
è qui, è proprio perché non deve avere
più poteri da manifestare…”
“Tu non puoi parlare sul
serio… Sarà anche Mezzosangue, ma resta sempre
una strega!”
Vidi la mamma pronta a ribattere, ma mio padre le diede le spalle,
dirigendosi alla porta e chiudendo bruscamente la conversazione; io
corsi veloce su per le scale, fino alla mia stanza, dopo poco sentii
che bisbigliavano litigiosi nella loro camera, il piano sotto al
mio… Poi il silenzio: dovevano essersene andati. Non avevo
capito niente di quel discorso: si erano detti tante cose assurde,
talmente assurde che probabilmente avevo solo sognato… Era
folle pensare che qualcuno, solo restando a Herrengton, potesse perdere
i propri poteri o addirittura morire: era anche vero che avevano
parlato di un Mezzosangue, ma… No, non poteva essere
vero… Andai alla finestra, la notte era completamente
oscura, senza luna e senza stelle, celate alla vista da un folto
tappeto di nuvole cariche di tempesta: ancora non capivo molto di
quello che accadeva a Herrenton, e questo spesso mi lasciava interdetto
ed esasperato. Dovevo avere pazienza: questo mi diceva mio padre, avrei
compreso tutto con il tempo, con il Cammino del Nord e le Rune che
avrei preso di lì a qualche anno. E allora sarei
stato capace anche di indirizzare la mia magia in modo più
consapevole, cosa che spesso, senza bacchetta, ancora non mi riusciva
troppo bene. Ma sapevo che non era quello che mi agitava i sogni.
C’erano altri enigmi, e il più grande di tutti era
come sempre mio padre. Era impossibile che avesse partecipato a un
crimine, lui non faceva male mai nemmeno alle mosche.
Lui mi aveva parlato di rispetto… Lui mi aveva parlato di
giustizia… Lui aveva detto che la seconda regola era
inapplicabile. Com’era possibile che avesse fatto quello che
avevo sentito? Come aveva fatto a uccidere una donna innocente? A meno
che anche lui, non fosse altro che un bugiardo… e che fosse
il nonno, da sempre, ad avere ragione…
... Tuo padre è anche un debole dalle convinzioni deboli...
Possibile che mio padre cambiasse il suo credo secondo le sue
necessità? Che piegasse i dettami del Nord e di Salazar in
nome di una morale superiore, la sua, ma che però lui stesso
disattendeva alla prima occasione?
… Con la sua curiosità, la sua indecisione, la
sua insofferenza, ha messo in pericolo te, tua madre…
Ed era vero che di nuovo, per i suoi giochi e per Orion Black, aveva
messo in secondo piano la sicurezza di mia madre e dei miei fratelli?
No, non poteva essere vero… Non poteva essere
vero… Non poteva…
***
Mirzam
Sherton
Emerson Manor, Inverness, Highlands - 31 dicembre
1964
Odiavo già il pensiero di quella giornata. La odiavo. E
odiavo lui… Mio padre…
Non gli avevo detto nulla, non gli avevo chiesto nulla.
Perché tanto ero sicuro che mi avrebbe imbambolato con uno
dei suoi meravigliosi discorsi. Falsi quanto lui. Era capace di
rigirarmi come voleva, di rigirarci tutti come voleva,
quell’uomo maledetto. Sì, proprio lui, mio padre,
l’uomo che ammiravo e difendevo da una vita. Ormai
però era finita, non ci sarebbe più riuscito, gli
sarei sfuggito, con tutti i mezzi possibili. Fingevo che nulla fosse
successo, non doveva accorgersi di niente, ma non riuscivo a guardarlo
in faccia: in questo modo, negli ultimi giorni, avevo inventato dei
malesseri, per stargli il più lontano possibile, ma Hogmanay
alla fine era arrivata e sapevo che, a casa degli Emerson, ci sarei
dovuto andare e, come suo figlio, sarei dovuto restare al suo fianco.
Hogmenay, festa dell’ultimo dell’anno, doveva
essere celebrata, come Yule, insieme a tutta la Confraternita secondo
gli antichi Riti e, quell’anno, toccava agli Emerson
ospitarci e officiare. Sospirai e assunsi l’atteggiamento
più irreprensibile possibile, anche se, dentro di me, ormai
da giorni, era in atto una tempesta che non riuscivo a domare. Era come
se, quella notte, di colpo, si fossero sciolti tutti i veli che negli
anni mio padre mi aveva messo davanti agli occhi, per ingannarmi.
Eppure, nel profondo, imbavagliata, perché non riuscisse ad
arrivarmi al cuore, c’era una singola voce che sussurrava:
“Stai sbagliando, c’è una spiegazione,
non è come immagini tu…”
Io non volevo più ascoltarla. Gli Emerson erano, come noi,
maghi del Nord, ma di tradizione Corvonero, anche se l’ultimo
matrimonio aveva visto l’amico di mio padre, Donovan Kenneth
Emerson, sposare una Pucey, della nota e straricca famiglia Serpeverde
di Manchester. Avevano procreato un paio di figli prima di separarsi:
William, dell’età di Rigel, e Janine, di un anno
più piccola, entrambi a mio avviso completamente
insignificanti. Me ne andai in giro per la casa, come mio solito, a
Emerson Manor ero considerato di famiglia, lasciando mio padre
impegnato con i suoi amici e mia madre a chiacchierare con le altre
mogli, tutte ammirate da Rigel e Meissa. Giorno per giorno mia sorella
assomigliava sempre di più a nostra nonna, Ryanna Meyer, ma
io speravo, in cuor mio, che la somiglianza fosse solo esteriore,
perché ero convinto che fosse dovuto a quella donna il germe
che aveva reso debole mio padre e quindi la nostra famiglia. Odiavo
sentirmi debole. Nonostante questi turbamenti, quando guardavo mia
madre e mia sorella, trovavo sempre quel senso di serenità e
pace che nient’altro sembrava più riuscire a
darmi; al contrario, ogni volta che posavo gli occhi su quella piccola
peste di mio fratello, mi prendeva l’orticaria. Forse ci
vedevo già tanto di mio padre, in quel "soldo di cacio",
perciò cercavo di stargli alla larga il più
possibile, sicuro che, prima o poi, nonostante fosse così
piccolo, non sarei riuscito a trattenermi e sarei stato capace di
affatturargli la “coda”. Senza accorgermene, preso
dalle mie riflessioni, avevo percorso il bel corridoio fino ad arrivare
alla biblioteca al primo piano, aperta al pubblico: Emerson Manor era
una casa bellissima, ottocentesca, piena di fregi che mi ricordavano
tanto la casa di Essex Street in cui ero nato, a Londra, piena di
decorazioni Corvonero, che all’epoca ammiravo tanto, ma che
ora, riflettendo, mi gettavano in uno stato di profondo sgomento.
Potevo definirmi un vero Serpeverde? Il sangue che mi scorreva nelle
vene era ancora all’altezza della volontà di
Salazar? O gli strani precetti di mio padre mi avevano in qualche modo
rammollito?
Intercettai Lavinius, il piccolo elfo domestico degli Emerson, che si
premurò di portarmi una spremuta di arancia e una fetta di
torta lì nella biblioteca, in attesa che tutti gli ospiti
arrivassero e che finalmente fosse tempo di celebrare i riti. Era uno
dei posti più affascinanti della casa, profumava di tabacco
buono e di legno pregiato, era una stanza contenuta, alle cui pareti
erano addossate delle incisioni e quattro librerie contenenti libri
antichi e preziosi, e non tutti completamente legali: mi avvicinai e
feci scorrere l’indice su quei dorsi di pelle ricamata, su
cui campeggiavano altisonanti scritte latine in caratteri gotici,
impresse in oro, contenenti manoscritti antichissimi, illustrati da
meravigliosi disegni e incisioni. Come tutte le altre volte,
però, ignorai la maggior parte di loro, libri contenenti
incantesimi leggendari e formule per pozioni potentissime, per
lasciarmi calamitare da lui, il libercolo che riluceva tra gli altri
per il suo sulfureo odore di sangue:
Malleus
Maleficarum, 1486 di Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer.
La
bibbia degli inquisitori.
Individuato, mi avvicinai, lo presi in mano e mi lasciai sopraffare da
orrore e dolore e rabbia e odio che fuoriuscivano da pagine, righe e
parole. Poi lo riposi con cautela, senza fermarmi a leggere altro che
alcuni titoli e mi voltai, verso la parete che ospitava la porta
d’ingresso, facendomi travolgere dalle emozioni che
sgorgavano in me quando lasciavo scorrere lo sguardo sulle incisioni
che vi erano appese. Sapevo che Emerson le considerava una specie di
promemoria e impegnava una buona parte del suo tempo e delle sue
risorse per scovarle e impossessarsene, andando incontro alla
perplessità e alla disapprovazione di mio padre. Mi
avvicinai alla parete e iniziai a osservarle una dopo
l’altra, erano una litania di metallo, che si sviluppava
dall’alto verso il basso. In una c’era una giovane
donna vestita con una specie di tonaca e una cuffia sulla testa: era
issata su un palo e data alle fiamme. In un’altra, una
vecchia dalle chiome scarmigliate era legata con una corda, sospesa a
qualche piede da terra e fustigata. In un’altra ancora, il
corpo straziato di una giovane era legato a una strana ruota, e tirata
all’indietro da un uomo dal ghigno feroce e lascivo: quel
ghigno aveva qualcosa di familiare. Era lo stesso di uno degli uomini
che ci avevano aggredito. In tutte quelle immagini ricorrevano
sempre dei particolari che mi facevano contorcere dentro:
c’era sempre almeno una donna indifesa, sottoposta ad atroci
sofferenze, derisa e giudicata, e umiliata; c’erano uomini
dall’aspetto turpe, dagli occhi feroci e lascivi, che
godevano delle sue lacrime, e della sua umiliazione. Infine
c’era il soggetto che odiavo più di tutti, un
giovane dal capo in parte rasato, la tonaca lunga, il crocefisso in
mano, l’aria estatica e invasata, privo di quella
pietà cristiana con cui si riempiva la bocca. E osservando
con attenzione, c’era sempre qualche bambino, in quelle scene
di violenza estrema: quei quadretti ormai li conoscevo a memoria, di
solito i ragazzini facevano parte del gruppo degli aggressori,
dileggiavano la donna e contribuivano a umiliarla, ma osservando con
attenzione, era sempre possibile scovare un bambino in disparte, con
gli occhi sbarrati, che piangeva, conscio della propria
incapacità di aiutare la donna.
Ero convinto che quello fosse il figlio della strega. E in lui non
potevo fare a meno di identificarmi.
***
Mirzam
Sherton
Hogsmeade, Highlands - maggio 1965
“Dagliele, Mirzam!
Dagliele!”
Eravamo su un viottolo secondario della strada per Hogsmeade, lontano
da sguardi indiscreti, serravo la bacchetta con la sinistra e guardavo
con un ghigno sulfureo all’indirizzo di Justin Matheson,
SangueSporco, quinto anno, Tassorosso. Rodolphus, Bella e Sile, come al
solito, erano con me, a far da spettatori e a incitarmi. Non era la
prima volta che facevo a botte. Dall’inverno precedente, a
volte, per me era quasi più urgente che salire sulla scopa.
In genere, Jarvis, l’unico tra noi ad avere un po’
di sale in zucca, mi fermava in tempo prima che riuscissi a fare del
male sul serio a qualcuno o che me ne facessi io, ma quel giorno non
c’era. Era in parte merito suo se, di questa storia, ancora
non ne era venuto a conoscenza né il corpo docente,
né tantomeno mio padre. Anche se le mie vittime preferite,
placidi Tassorosso e qualche Grifone particolarmente impressionabile,
ben si guardavano dal denunciarmi, spesso grazie anche
all’intervento provvidenziale e risolutore degli
“Oblivion” di Lestrange. Lanciai
l’ennesimo “Stupeficium”, Justin
riuscì a salvarsi nascondendosi dietro un albero, ma sapevo
che ormai non aveva più molta resistenza, era una mezzora
buona che lo braccavo. E tutto questo solo perché non ci
aveva dato la precedenza all’uscita da Madama Hockbilden: ero
stanco dell’insolenza e dell’inutilità
di quella feccia… O almeno, a me sembrava insolenza.
“Dai, Mirzam, dai! Che
stavolta impara a stare al suo posto!”
Bella era tutta emozionata, sicura che lo scontro non sarebbe finito
prima che Matheson fosse stato costretto a chiedere pietà;
quel giorno, accanto a lei, non c’era nemmeno la piccola
Meda: era l’unica presenza che riuscisse a farmi desistere
dal commettere qualcuna delle mie bravate, anche se ancora non ne
capivo la ragione. Avanzai lentamente verso gli alberi, cantilenando
una nenia degna dei racconti terrificanti di Lestrange, intenzionato a
scovare la mia preda e finirla una volta per tutte. Dietro di me, si
levavano alte le risate di scherno e le incitazioni dei miei amici.
Potevo mettere fine a quella sceneggiata con un paio di colpi a
tradimento, come facevo spesso quando sentivo
l’incoraggiamento del mio pubblico. Era ciò che
Bella si aspettava da me, ciò che mi aveva permesso di
entrarle ancor più nel sangue. Ora ne ero certo, i suoi
occhi brillavano per me di una luce ancora più intensa, da
quando avevo messo da parte la mia natura fredda e distaccata e avevo
preso a fare giustizia contro Mezzosangue e SangueSporco. Quando
però trovai Justin, terrorizzato, dietro l’albero,
mi risuonarono in testa le parole di mio padre, sul rispetto e la
giustizia e sul non prendersela con chi è indifeso. Mi
maledii per la mia dabbenaggine, inghiottii le maledizioni che mi
salivano alle labbra contro il mio vecchio e abbassai la bacchetta:
anche se provavo un odio cieco per lui e le sue teorie e le sue bugie,
mio padre continuava a infiltrarsi nella mia mente quando meno me
l’aspettavo, portandomi a compiere azioni che non riconoscevo
come mie, così piene di debolezza e misericordia, tanto da
darmi il voltastomaco. Fu così anche in
quell’occasione.
“Cerca di riconoscere il
Valore del Sangue, Matheson, finché sei ancora
tempo… Spero che tu riesca a impararlo da questa
lezione…”
Lo lasciai scappare davanti a me, rimisi la bacchetta alla cintola, mi
pettinai con le dita e mi sistemai camicia e cravattino, tra le risate
dei miei compagni. Tranne di una di loro.
“Ma come? Lo lasci andare
così? È un SangueSporco!”
Bella era infuriata, io la fissai risoluto, poi iniziai a incamminarmi:
non dovevo dare spiegazioni a nessuno, avevo già una ferocia
assurda che mi urlava nel cervello, non c’era bisogno che ci
si mettesse anche lei. Sentivo però il suo sguardo deluso su
di me, come se l’avessi tradita, e le sue urla presto
m’investirono: a volte mi facevano paura tutto
l’odio e la violenza che albergavano in lei.
“Io non me la prendo con chi
non può più difendersi, Black, lo sai, e quello
oramai stava per farsela sotto…”
“Tu e il tuo dannato senso
dell’onore! È solo feccia, lo capisci? Non merita
rispetto!”
“Credo di avergli concesso fin
troppo onore e attenzione…”
“NO! Non è vero!
È che voi Sherton non siete delle vere Serpi, ecco
cos’è… voi… di
voi… si dice…”
La fulminai con lo sguardo, ammutolendo lei e gli altri presenti: per
la prima volta riuscivo a guardarla senza sentire gli effetti del suo
fascino sulla mia mente. In quel momento non era più la
ragazza che mi faceva sognare da anni, era un nemico, un nemico che
dovevo far tacere, un nemico che non avrei avuto difficoltà
a schiacciare. Un nemico da distruggere. Come tutti quelli che
mettevano in dubbio la natura della mia famiglia. Estrassi rapidamente
la bacchetta e senza toglierle gli occhi da dosso, lanciai per la prima
volta nella mia vita una “Cruciatus” colpendo, in
piena schiena, Matheson che non aveva fatto in tempo ad allontanarsi a
sufficienza: rimase svenuto in mezzo al sentiero, Rod e Sile, increduli
e sconvolti, cercarono di far qualcosa per rimetterlo in sesto. Ma non
era ancora abbastanza per me.
“Che
cos’è che si dice degli Sherton, Black?
Avanti…”
Senza neppure rendermene conto, l’avevo ghermita con una mano
e con l’altra le puntavo la bacchetta alla gola,
costringendola contro un albero: mi guardava inorridita, incapace di
disarmarmi, probabilmente temeva che fossi impazzito. Ghignai e
abbassai la bacchetta, continuando però a tenerla stretta a
me, arpionandola con forza: sentivo il respiro di Bella mozzarsi nel
dolore, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime, non sapevo se di
sofferenza, di rabbia o di paura. E mi scoprii a godere nel vederla
così, Merlino se mi piaceva sentirmi così
forte…
“Che
cos’è che si dice degli Sherton, Black?
Avanti… E soprattutto... chi è che lo
dice?”
Tremava. Soddisfatto, le lasciai il braccio e le diedi le spalle,
sicuro, continuando poi per la mia strada, da solo. L’avevo
ammutolita, li avevo ammutoliti tutti. Nessuno di loro si aspettava che
riuscissi a fare una cosa del genere. Nessuno di loro avrebbe
più provato a usare quegli argomenti con me, almeno non in
mia presenza. Sapevo anche, però, che non sarei
più riuscito a guardare e pensare a Bella senza rivedere la
sua espressione mentre le facevo del male: non c’era solo la
paura in quello sguardo, come mi aspettavo. C’era anche una
strana, assurda, folle, soddisfazione. Lei per prima, molto prima della
mia famiglia, dei miei più cari amici e di me stesso, aveva
scorto e riconosciuto la vera natura della mia anima. E questo,
più di ogni altra cosa, del mio nome, del mio sangue, della
mia richezza, l’aveva compiaciuta.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti,
recensito ecc ecc.
Valeria
Scheda
Immagine
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