Resen-Lhaw 9
Carissimi
lettori, adoratissime lettrici,
siamo
giunti alla fine dell’ennesimo mappazzone.
Devo
a tutti voi un grandissimo ringraziamento, per avermi seguito,
incoraggiato, consigliato e commentato, per avermi comunicato le
vostre idee e le vostre impressioni e per avermi dato i vostri
suggerimenti.
Come
dico sempre, una storia non esiste in sé, prende vita se qualcuno la
legge.
Quindi
grazie a tutti voi per aver dato vita alla mia storia.
Capitolo
9
Il
principe Dewrich spronò il suo roano con un colpo di tacco che
spinse l'animale a sgroppare infastidito. “Buono,” gli ingiunse,
stringendo le ginocchia e raddrizzando la schiena. Rinsaldò la presa
sulle redini e il destriero arcuò il collo portando le orecchie
all'indietro. “Buono!” ripeté il principe a voce più alta.
Investita
in pieno dal sole della tarda mattinata, Dyat era come una bella
donna che si mostrava ma poi era restia a concedersi. Il palazzo
reale letteralmente scintillava, candido e splendente nella luce
tersa; spinti dal vento, i suoi rossi vessilli si torcevano in volute
sensuali.
Strinse
i denti: aveva passato la vita a prepararsi per essere un giorno il
signore di quel palazzo e di tutto il Daishrach. Aveva percorso la
Via della Spada, consacrandosi a Jechen, e aveva sparso sudore,
lacrime e sangue, perché la Via non era mai stata facile. Non appena
aveva avuto l'età giusta, aveva cominciato a seguire il padre in
ogni missione, in ogni incontro diplomatico e in ogni celebrazione.
Su sua concessione, aveva esercitato la giustizia su feudi lontani o
ricondotto all'obbedienza nobili recalcitranti. Era stato
inflessibile in quelle circostanze, perché così ci si aspettava che
dovesse essere un re, e suo padre l'aveva ogni volta avvallato, anche
quando i cortigiani mormoravano sulla sua mano pesante o sulla sua
mancanza di pietà.
Non
era stato facile resistere a quelle ondate di biasimo, sostenere
quegli sguardi di muta accusa, ma ogni volta si era imposto di
riuscirci.
Non
si era mai mostrato debole, tentennante o pavido, nemmeno quando in
realtà era spaventato a morte o non sapeva che fare.
Aveva
sopportato qualsiasi cosa, in vista del futuro ruolo di sovrano.
E
poi era arrivata una stupida cerimonia, una faccenda da comari che
fanno e tolgono il malocchio, e in un istante tutto era svanito: il
prescelto
era suo fratello, a lui non sarebbe rimasto altro che qualche
miserabile ruolo secondario a corte, o magari, se suo fratello si
fosse dimostrato buono,
il comando di una parte dell'esercito. Non di tutto, naturalmente,
per scongiurare il rischio di rivolte.
Lui,
il maggiore, il più forte, il guerriero consacrato, avrebbe dovuto
ritirarsi in buon ordine di fronte a un moccioso che aveva paura
della propria ombra, debole, inetto e irresoluto. L'acciaio avrebbe
dovuto cedere il passo alle piume, il leone al coniglio.
Si
chiese se Dras fosse compiaciuto di quel raffinato scherzo, se
dall'alto del suo trono celeste se ne stesse godendo gli effetti.
Rivolse al cielo uno sguardo di sfida.
Tornò
poi a fissare la città: c'era una sola strada per arrivare a Dyat,
ovvero quella che attraversava le Cascate Grandi. C'erano anche altre
entrate, naturalmente, che lui conosceva perché fin da giovanissimo
si era posto l'obbligo di sapere tutto
della città in cui avrebbe dovuto regnare, ma che senza dubbio il
suo stupido fratellino, perso nei libri di epica e nelle
giaculatorie, ignorava completamente.
Quella
considerazione gli fece per l’ennesima volta rivolgere il pensiero
all’identità dell'uomo che lo stava accompagnando. Per quanto ci
si fosse arrovellato, non era riuscito a giungere a una conclusione.
Non gli risultava che qualcuno, tra gli uomini che aveva scelto per
scortarlo, gli fosse particolarmente affezionato. Herich aveva
chiesto che alla spedizione fosse aggregato quel soldato di mezz'età
che si chiamava Res, o qualcosa del genere, ma si trattava di un
inetto, un mezzo scemo che forse gli era piaciuto proprio per la sua
aria da grosso orso stupido.
Un
As'vaan, forse? Magari Jeisym in persona? Possibile che Herich fosse
stato in grado di contrattare la propria salvezza promettendogli una
ricompensa se fosse riuscito a riappropriarsi del trono?
Abbandonò
quelle considerazioni con una smorfia di fastidio. Qualsiasi cosa
fosse successa, la certezza era una: chi avrebbe dovuto uccidere
Herich non l'aveva fatto, e ora suo fratello, assistito da un
misterioso accompagnatore, stava arrivando a rompergli le uova nel
paniere, a togliergli quello che gli spettava per diritto di nascita,
a fare di lui un miserabile subalterno in quello che a tutti gli
effetti sarebbe dovuto essere il suo
regno, il regno di Dewrich il Terribile, signore del Daishrach.
Fermò
il cavallo su un'altura e da lì rimase a contemplare le Cascate
Grandi, di cui anche a quella distanza percepiva il rombo cupo. Fissò
di nuovo la strada che conduceva alla città, e questa volta non lo
fece con l'occhio colmo di nostalgia e risentimento dell'amante
defraudato, ma con quello distaccato e preciso del condottiero che
deve elaborare una strategia.
§
Herich
gettò uno sguardo all'Edayr, di cui la strada seguiva il corso, e la
vista del grande fiume gli comunicò una sorda sensazione di disagio.
Con
un gesto quasi inconsapevole si trovò a voltarsi indietro, verso la
strada che avevano percorso, e percepì nei confronti di essa
un'acuta fitta di nostalgia. Come già gli era successo in vista di
Perechyra, rimpiangeva il rassicurante limbo del viaggio, nel quale
si aspetta qualcosa che comunque accadrà dopo,
e quasi si può fare finta che quel qualcosa non esista.
Teoricamente
avrebbe dovuto essere contento: stava per tornare a casa, dove il re
suo padre sarebbe impazzito di gioia nel rivederlo e tutti gli
avrebbero fatto festa. Era certo che sarebbero stati proclamati
dodici giorni di festeggiamenti, così come erano stati senza dubbio
proclamati dodici giorni di lutto alla notizia della sua morte, e poi
sarebbe cominciata la sua istruzione in vista dei nuovi compiti a cui
sarebbe stato destinato: niente più studi da chierico, ma arte della
guerra e del buon governo.
Ma
invariabilmente, quando pensava al futuro, ricomparivano i dubbi e le
preoccupazioni: sarebbe stato in grado di governare? Sarebbe riuscito
ad avere la giusta inflessibilità, il giusto distacco? Sarebbe
riuscito a essere imparziale o in ogni occasione avrebbe seguito le
emozioni momentanee a scapito della ragione e del calcolo?
Si
voltò verso Res, di cui percepiva con la coda dell'occhio la
massiccia presenza. Dalla notte nel tempio non avevano scambiato che
poche parole, perlopiù inerenti il viaggio o altre faccende
pratiche. Sentiva che qualcosa si era incrinato fra loro e forse,
nell'imminenza dell'arrivo e di tutto quello che sarebbe seguito, era
giunto il momento di chiarirsi. “Res,” disse.
Il
soldato si voltò e alzò gli occhi su di lui. “Principe?”
Herich
si morse irresoluto il labbro inferiore, poi mormorò: “Res... io
volevo dirti che mi dispiace per quello che ti ho detto. Erano cose
che non pensavo, le ho dette in un momento di rabbia, perdonami.”
“Non
hai bisogno di scusarti con me, principe,” fu la distaccata
risposta.
“Invece
sì,” insisté il ragazzo, alzando leggermente la voce. “Ti ho
offeso senza motivo, quindi ti chiedo scusa.”
Il
soldato non replicò, lui dopo un po' riprese: “Forse ero nervoso.
Cioè, lo sono. E sono spaventato, anche. Finché eravamo lontani,
era come se certe cose non esistessero, ma adesso non posso più
ignorarle, non credi?”
“No,
non puoi, principe.”
Herich
emise un sospiro, poi disse: “Già, è quello che temevo. Tu cosa
pensi che succederà quando arriveremo?”
“Nella
migliore delle ipotesi, principe, entreremo in città e tu andrai a
presentarti a Sire Evertas.”
Il
ragazzo deglutì mentre un'oscura sensazione di minaccia lo
pervadeva. “E nella peggiore?”
“Ci
sarà da combattere.”
Herich
non replicò. Quella notte aveva fatto un sogno che l'aveva lasciato
turbato e inquieto, forse anche più del pensiero di quello che
sarebbe successo una volta giunto a Dyat. Era cominciato come sempre:
aveva visto il Leone Rosso di spalle, mentre fissava sdegnoso il
golfo di Brielar dalle acque arrossate di sangue. Come sempre gli si
era avvicinato e l'aveva chiamato, e lì era accaduto il fatto che
l'aveva turbato: a differenza delle altre volte, egli si era voltato
verso di lui mostrandogli finalmente il volto.
Ricordava
molto bene il sogno che aveva fatto presso i templi di Os'lak, alla
viglia della cerimonia. Allora l'eroe era rimasto di spalle, ma una
voce aveva detto: Si
rivelerà nel momento del bisogno.
Alzò
di nuovo lo sguardo su Res, aprì la bocca con l'idea di
parlargliene, ma poi la richiuse senza aver proferito verbo. Dopo
quello che era successo nel tempio, era certo che ciò che aveva da
dire l'avrebbe fatto infuriare e preferì rimanere in silenzio.
§
“Torniamo
indietro, mio signore,” propose per l'ennesima volta Therved.
Jeisym
aggrottò caparbio le sopracciglia e rispose: “Ti ho detto di no.
Sul pantano abbiamo guadagnato parecchio terreno, l'ho visto dalle
tracce. Possiamo ancora riprenderli, o almeno possiamo dare man forte
a Den'en e Nys, e poi tornare indietro tutti insieme.”
“Tornare
indietro dopo aver ucciso il principe ereditario del Daishrach alle
porte di Dyat, mio signore? Come pensi che fuggiremo?”
“I
nostri cavalli sono più veloci.”
“Ma
sono anche stanchi per tutti questi giorni di viaggio, mio signore,
inoltre noi saremo venti contro mille.” Fece una pausa, quindi in
tono conciliante soggiunse: “Dammi retta, torniamo indietro finché
abbiamo la possibilità di farlo.”
“No,”
ringhiò il giovane Khan, quindi spronò il cavallo distaccandolo di
alcune lunghezze.
Therved
scosse la testa. Rivide Jeisym da piccolo: un bimbo pallido,
riottoso, con un orgoglio smisurato. Ricordò che una volta era
caduto da cavallo e si era rotto un braccio, ma non aveva detto
niente per paura che il padre lo considerasse un debole. Se l'era
steccato alla meglio, con le competenze che poteva avere un bambino
di dieci anni, e sarebbe rimasto così per chissà quanto se lui non
si fosse accorto della maldestra medicazione. Aveva dovuto lottare
per portarlo dal guaritore, rimediando morsi e calci.
Poteva
entro certi limiti capirlo: suo padre, Ezrym Khan, era un potente
sovrano, rispettato e temuto da tutti gli altri Khan. Per tutta la
vita, il ragazzo aveva dovuto lottare per essere all'altezza delle
sue immense aspettative, per non deluderlo e per non deludere
chiunque altro: il figlio di Ezrym Khan non poteva rivelarsi di
levatura minore rispetto al genitore.
Spronò
il cavallo e di nuovo gli si affiancò. “Dimmi cos'hai in mente,
mio signore,” gli chiese.
“Voglio
raggiungerli, mi sembra ovvio.”
“E
poi?”
Jeisym
si voltò di scatto verso di lui, i suoi occhi d'ambra fiammeggiavano
come illuminati dall'interno. “E poi uccido quel tuo demone di
Vurar e mi riprendo il ragazzo.”
Therved
dapprima lo fissò attonito, quindi in tono duro gli disse: “Te lo
riprendi,
mio signore? Non ti è bastata la prima volta? Vuoi esporti di nuovo
al rischio di fallire?”
“Questo
non è il modo di rivolgersi a me!” lo rampognò Jeisym in tono
aspro, “Io sono il tuo signore, non dimenticarlo.”
“Halmaikah
mi è testimone, mio signore, io parlo così solo per il tuo bene.
Già una volta hai sbagliato lasciandolo in vita, non farlo la
seconda.” Stava anche per chiedergli come mai improvvisamente
avesse deciso di riprendersi quel ragazzino pallido e magro, ma di
nuovo Jeisym spronò il cavallo e se lo lasciò alle spalle.
Therved
sospirò rassegnato. Diede un'occhiata ai dintorni: nonostante l'ora
ormai avanzata, la strada era quasi deserta. Solo qualche carro o
qualche viaggiatore a piedi la percorreva lento. Probabilmente la
notizia della morte dell'erede al trono si era diffusa e secondo le
credenze del Daishrach entrare a Dyat prima di un certo tempo avrebbe
portato sfortuna. Tese l'orecchio: il rombo delle Cascate Grandi
cominciava a farsi sentire come un mormorio cupo, il corso dell'Edayr
si era fatto più veloce e impetuoso. La città di pietra bianca,
nitida sullo sfondo dei monti Kelis, gli diede l'idea di essere un
sepolcro in attesa.
§
Herich
strinse le dita sulle redini e si guardò intorno vagamente
intimidito. Ormai erano entrati nell'enorme semicerchio delle Cascate
Grandi ed egli aveva l'impressione di essere precipitato di colpo in
un altro mondo. Il rombo dell'acqua copriva ogni altro rumore e tutti
quei piccoli suoni come il tinnire dei finimenti, il battere degli
zoccoli e tutto il resto, che di solito davano all'ambiente un
sottofondo noto e rassicurante, erano scomparsi. L'aria era fredda,
pervasa di un'umidità densa e opaca, nella quale i raggi del sole
diventavano corporei come creature e sembravano seguirlo dritti e
rigidi come le zampe di un immenso ragno. Tutto era imperlato
d'acqua, il selciato acquisiva strane traslucenze come di pietre
dure, che spuntavano qua e là tra le chiazze di muschio color
smeraldo.
Tutt'intorno,
immense cateratte di ogni colore dal blu cupo al bianco, passando per
tutti i toni del verde, si precipitavano verso il basso, andando a
infrangersi in un ribollire di spuma candida.
Di
quando in quando, un tronco raggiungeva il salto e precipitava
nell'abisso: lo si vedeva allora immobile per un lunghissimo istante,
stagliato contro un cielo azzurro pallido, poi subito dopo
scompariva, inghiottito dai gorghi impetuosi, conteso dalle onde come
una preda in un branco di lupi.
Alzando
la voce per farsi sentire, chiamò: “Res!”
“Principe?”
chiese il soldato.
“Res,
andiamo più in fretta, per favore. Non mi piace questo posto.”
L'altro
scosse la testa. “Non possiamo, principe. Questi ponti sono
scivolosi, e...” non riuscì a finire la frase: un dardo gli si
piantò nella spalla, sbalzandolo di sella. Il cavallo, spaventato,
fuggì sgroppando.
“Res!”
urlò Herich, faticando per mantenere il controllo della propria
cavalcatura. Il soldato si rialzò e afferrò l'asta che gli spuntava
dal corpo, quindi la strappò via con un gesto deciso. Lasciò cadere
il dardo, che scomparve nelle cascate, quindi gli ordinò: “Vattene!”
“Ma
io...”
“Va'
via!”
Un
secondo dardo passò sibilando, Res sguainò la spada. “Va' via!”
ripeté, “Qui mi crei solo impiccio!”
Senza
replicare, Herich fece girare il cavallo. Mentre l'animale si
voltava, colse con la coda dell'occhio una figura alta e robusta, con
lunghi capelli scuri, vestita di un'armatura di ferro blu.
“Dewrich,”
mormorò. Lo scroscio delle cateratte era talmente forte che non
sentì la sua stessa voce.
Forse
avrebbe dovuto allontanarsi al galoppo, ma non riuscì a fare altro
che pochi passi. Raggiunse uno slargo della strada, una specie di
terrazza panoramica che permetteva di ammirare la terribile
magnificenza delle cascate, e smontò di sella. Si passò una mano
tra i capelli umidi, deglutì faticosamente cercando di dominare il
tremito che l'aveva pervaso e cercò di concentrarsi su una preghiera
da rivolgere a Dras, ma nonostante Cresdan gliene avesse fatte
imparare a memoria delle decine, in quel momento non gliene veniva in
mente nessuna.
Strinse
gli occhi: Cresdan ormai era lontanissimo e annebbiato come i
dintorni che stava osservando in quel momento. Era una figura
indistinta, della quale a malapena ricordava la bonomia e l'imponenza
fisica.
Fissò
l'attenzione a quello che si stava svolgendo più avanti e vide Res e
Dewrich che si fronteggiavano.
Si
appoggiò al fianco del cavallo e rimase immobile, incapace di
distogliere lo sguardo.
Res
cercò di fare il vuoto nella mente. Sentiva il sangue scorrergli
lungo il torace, in rivoli caldi che gli inzuppavano gli abiti e
glieli appesantivano. La ferita al fianco pulsava, ma ormai ci aveva
fatto l'abitudine.
Respirò
adagio, concentrandosi sul peso della spada che stringeva in pugno e
sulla grana leggermente ruvida del cuoio che ne rivestiva
l'impugnatura. L'acciaio lucente della lama era appannato da una
corposa nebbia d'acqua.
“Sei
stanco, uomo?” lo provocò Dewrich, “Hai paura?”
Lasciò cadere la balestra con cui l’aveva colpito.
Il
soldato alzò lo sguardo su di lui: egli camminava con la grazia
letale di un predatore, spavaldo ma attento a ogni sua mossa. Portava
l'armatura senza apparente fatica e quando sguainò la spada lo fece
con la scioltezza languida di chi è in grado di maneggiare una lama
come un'estensione del proprio corpo.
Dewrich
inarcò le sopracciglia quando lo vide in faccia. “Sei proprio tu?”
gli chiese incredulo. “Sei quello che ha difeso il povero bambino
maltrattato sulla piazza d’armi, non è vero? Che cos’hai fatto
ai templi, ti sei nascosto da qualche parte per salvarti la pelle?”
Fece una breve risata, poi soggiunse: “Lascia stare, non mi
interessa, tanto tra un po’ ti manderò dai tuoi dei, se ne hai, e
poi mi occuperò del moccioso.”
“Sempre
se non sarò io a mandare te dai tuoi dei,” replicò con calma Res.
“Ma
davvero?” ghignò Dewrich. “Il peggior marmittone di tutto
l’esercito di Dyat che minaccia un guerriero di Jechen? Sei forse
pazzo, uomo?”
Res
non rispose.
“Fatti
sotto, allora,” disse il principe. Usò un tono quasi di scusa,
come se fosse dispiaciuto di doverlo abbattere.
Il
soldato rimase immobile. Per un attimo gli passarono davanti agli
occhi immagini di una mischia feroce, risentì le urla, rivide
l'acqua tinta di rosso, nel naso gli parve di avere ancora una volta
l'odore ferrigno e acre di corpi aperti. Il suo solito tremore
minacciò di invaderlo, ma egli strinse i denti imponendosi di nuovo
e con maggiore decisione il distacco.
“Non
vuoi farti sotto?” lo irrise Dewrich. “Vuoi il vantaggio di
vedermi colpire per primo?” Fece una breve risata. “Ma sì, te lo
lascio, vecchio marmittone. Così almeno il divario fra noi sarà un
po' meno ampio e ti ammazzerò senza che Jechen mi disprezzi troppo.”
Balzò
in avanti, fintò una punta al petto di Res, ma all'ultimo istante
con un mezzo giro del polso gli tirò un tondo dritto. Evitò di
proposito di toccarlo, poi con un movimento agile scattò di nuovo
all'indietro. Dalla nuova posizione rimase a fissarlo con un
sorrisetto di scherno. “Ebbene?” gli chiese.
“Certo,
molto bravo,” concesse Res, “Rapido e preciso.” Poi, in tono
grave: “Ma io passerò, principe, con il tuo consenso o no. Tu hai
tradito tuo fratello e la tua stirpe, giustizia vuole che ora il
principe Herich riprenda il suo legittimo posto di erede al trono.”
Dewrich
ebbe una risata sprezzante. “Giustizia, dici? Di che giustizia stai
parlando? Io sono stato defraudato del ruolo che mi spettava di
diritto in quanto figlio maggiore.”
“È
un ruolo che evidentemente non meritavi, se Dras ha scelto il
principe Herich.”
“Non
mi venire a raccontare delle favole, Dras non c'entra niente in
questa faccenda. L'erede al trono sono io, e intendo riconquistare
con le armi il mio diritto a regnare!” Di nuovo abolì la distanza,
questa volta sferrando un fendente alto. Non fu un colpo finto come
il precedente: fu portato a pieno e con tutta la forza. Res dovette
faticare per riuscire a pararlo e la sollecitazione della spalla
ferita gli strappò un grugnito di dolore. Si fece indietro ansante e
rimase a studiare torvo quel giovane guerriero che non sembrava avere
punti deboli.
Dewrich
gettò indietro i capelli con uno scatto del capo e prese a girargli
intorno lentamente. “Da che parte ti colpirò?” lo canzonava
frattanto, “Da dove arriverà il colpo di grazia?”
Res
si limitò a fare perno sui piedi in modo da mantenersi sempre faccia
a faccia con lui. Agganciò il suo sguardo mentre con la visione
periferica continuava a tenere sotto controllo la scena, poi
d'improvviso scattò in avanti con uno stretto tondo rovescio.
Dewrich aggrottò le sopracciglia e si fece indietro, la spada superò
comunque la sua guardia e si udì il clangore del ferro
sull'armatura. Un paio di scintille baluginarono per un istante e
poi si dissolsero nella nebbia.
“Molto
bravo,” commentò Dewrich sarcastico. “O, più probabilmente,
molto fortunato, non è vero? Ora tocca a me, però.”
Fece
un affondo talmente rapido che Res quasi non lo vide arrivare e non
poté fare altro che arretrare in modo precipitoso, scomponendo la
sua guardia. Il principe allora lo colpì dal basso verso l’alto
procurandogli un profondo taglio sul torace. Il soldato gemette e si
fece indietro barcollando. Per un istante dovette appoggiare un
ginocchio a terra, ma riuscì a balzare indietro prima che Dewrich
potesse incalzarlo con un altro assalto.
“Res!”
urlò Herich sentendosi venire meno. Il soldato barcollava grondando
sangue e sembrava che anche solo tenere la spada puntata contro
Dewrich gli costasse un’enorme fatica.
Si
fece avanti adagio, il cavallo sempre tenuto per le redini, incapace
di distogliere gli occhi dai due contendenti.
Dewrich
lo vide arrivare, gli rivolse un sorriso cattivo e disse qualcosa.
Egli non l’afferrò, nel fragore delle cascate che li circondavano
da ogni parte, ma immagino che fosse una promessa di morte.
Deglutì
ma si impose di non indietreggiare.
Dewrich
attaccò di nuovo, Res sottrasse bersaglio e con un fendente rovescio
riuscì a colpirlo in faccia, costringendolo a indietreggiare con una
mano premuta sulla fronte e rivoli di sangue che filtravano fra le
dita. Subito dopo il soldato lo incalzò, ma l’altro riuscì a
riprendere il controllo.
Sotto
gli occhi inorriditi di Herich, la spada di Dewrich si immerse nel
petto di Res come un coltello rovente nel burro, poi gli uscì dalla
schiena, sotto la scapola. Il soldato si irrigidì, la bocca gli si
spalancò in un grido muto, ma egli non cadde. Afferrò invece
saldamente il principe per una spalla, quindi lasciò cadere la
spada, che produsse sulle pietre un sinistro clangore, ed estrasse
dalla cintura il pugnale. La lama baluginò per un istante, come
investita da un fugace raggio di luce, quindi si immerse
completamente nel collo di Dewrich.
Il
principe spalancò gli occhi e barcollò all’indietro mentre dalla
bocca un fiotto di sangue scendeva ad arrossargli l’armatura.
Crollò al suolo con un lamento gorgogliante, si contrasse in un
assurdo tentativo di strapparsi di dosso la lama letale, poi si
afflosciò e giacque immobile. La mano che stringeva l’elsa della
spada si aprì e il soldato, la lama ancora infissa nel corpo, rotolò
da una parte.
Herich
corse a inginocchiarsi accanto a lui. “Res!” gridò,
sollevandogli la testa. “Res, parlami, ti prego!”
L’uomo
aprì lentamente gli occhi, che a Herich parvero più azzurri e
limpidi che mai. Abbozzò un pallido sorriso che però subito subito
si trasformò in una smorfia di dolore. “Principe...” mormorò a
fatica.
Angosciato,
il ragazzo gridò: “Res! Res, che cosa devo fare? Come posso
aiutarti?”
“Mi
hai già aiutato, principe. Grazie a te ho… pagato il mio debito.”
“Tu
non hai nessun debito!” Herich si buttò ad abbracciarlo. “Non
voglio che tu muoia, Res! Voglio che tu stia sempre con me!” Si
accorse di ansimare come in preda al terrore, mentre il cuore gli
batteva come se avesse voluto scoppiargli nel petto. “Res, ti
prego! Lo sai cos’ho visto in sogno? Il Leone Rosso si è girato a
guardarmi, ed eri tu! Eri tu, capisci? Questo è un segno di Dras,
non puoi lasciarmi!”
Res
inspirò stentatamente e quando fece uscire il fiato un rivolo rosso
lo accompagnò. “Io… devo andare,” mormorò, con voce così
debole che quasi si perse nel rombo folle delle cateratte. “Devo
andare, la mia missione è finita.”
“La
tua missione è appena cominciata, soldato!” gridò Herich, con le
lacrime che gli offuscavano la vista e un artiglio di ghiaccio che
gli serrava il petto. “Mi devi insegnare tutto, voglio diventare
come te!”
Ancora
una volta, l’uomo sollevò lo sguardo su di lui e Herich vide
spegnersi il suo fulgore nel momento in cui la vita lo abbandonava.
Rimase
immobile a fissarlo per lunghi minuti, forse nella speranza che anche
quello fosse un sogno, infine adagiò con delicatezza il corpo ormai
inerte sul selciato umido e col viso tra le mani prese a singhiozzare
disperatamente.
Passò
un tempo imprecisato. A un tratto, pur coperti quasi del tutto dal
fragore delle cascate, a Herich parve di sentire dei rumori in
avvicinamento. Abbassò le mani con cui si era coperto il volto e
alzò esitante lo sguardo.
Gli
si gelò il sangue: la strada era occupata da una torma di predoni di
As’del.
Rimase
immobile. Non avrebbe avuto senso cercare di scappare, ovviamente, né
in giro c’era qualcuno che avrebbe potuto intervenire in sua
difesa.
Dal
gruppo si staccò Jeisym Khan, che smontò da cavallo, affidò le
redini dell’animale a uno dei suoi uomini e a passo lento gli si
fece incontro. “Eccoti qui,” gli disse ironico. “Ci
ritroviamo, finalmente.”
“Non
ti avvicinare,” mormorò Herich, arretrando precipitosamente.
L’altro
si limitò a una breve risata. “E perché non dovrei avvicinarmi?
Non mi sembra che il tuo amico sia in grado di impedirmelo, ormai.”
Fece
girare lo sguardo sprezzante sui due corpi riversi, ma appena i suoi
occhi si posarono sul volto di Res, egli sbiancò in viso e si
immobilizzò. “Generale,” mormorò poi stranito. “Com’è
possibile?”
“Cosa?”
chiese Herich, ma lui non gli badò nemmeno. Apparentemente dimentico
di tutto si chinò accanto al corpo e rimase a fissarlo in silenzio
per un tempo che al ragazzo parve interminabile. Alla fine si alzò
bruscamente in piedi, si pose la destra chiusa a pugno sul petto e
solennemente disse: “Sono dolente di rivederti in una circostanza
così triste, generale. Non posso restituirti la vita che un tempo mi
hai donato, ma posso almeno portare a termine la tua missione.” Si
voltò verso Herich, che lo stava fissando ammutolito dallo stupore,
e in tono severo gli disse: “Bada, non mentire: era lui che ti
accompagnava?”
Il
ragazzo chinò la testa. “Sì.” Le lacrime ripresero a scorrergli
sulle guance.
“Alzati
in piedi,” gli ordinò allora l’As’vaan, “rimonta in sella, e
mantieni un contegno dignitoso davanti al generale.” Si voltò
verso i suoi uomini e chiamò: “Therved!”
L’uomo
si fece avanti. “Cosa comandi, Khan?”
“Therved,
scortate Sua Altezza come si conviene a un principe. Accompagnatelo
fino alle porte di Dyat e badate che non gli accada nulla. Quando
sarà al sicuro dentro le mura, tornate qui da me. Io non verrò con
voi: ho qualcosa da fare qui.”
“Come
tu comandi, Khan,” disse l’altro inchinandosi, poi diede un paio
di ordini nella lingua di As’del e gli uomini si disposero in una
guardia d’onore. Tutti presentarono le armi a Res, passando, e poi
si fermarono in due file parallele. Herich capì che stavano
aspettando lui e si portò alla testa della colonna.
Jeisym
lo fissò negli occhi e gli fece un muto cenno di assenso con la
testa, poi si disinteressò di lui e tornò a voltarsi verso il corpo
di Res. Rimase a contemplarlo in silenzioso raccoglimento.
Ancora
frastornato da tutto quello che era successo, incapace di parlare,
Herich mise il cavallo al passo lungo la strada che portava a Dyat.
Alle sue spalle, muti e solenni, cavalcavano venti predoni di As’del.
§
Quando
un corteo reale guidato da re Evertas in persona raggiunse il ponte,
tutti ammutolirono dallo stupore.
Con
lo sfondo maestoso delle Cascate Grandi, Res giaceva a lato della
strada su un manto scarlatto, composto come un antico eroe. Uno
stendardo con un leone rosso rampante copriva le sue ferite e ai suoi
piedi, come un trofeo, c’era la spada del principe Dewrich. Le sue
mani, posate sul petto, stringevano due splendide spade di fattura
As’vaan dall’elsa incrostata di gemme.
Egli
aveva un’espressione nobile e severa, che rendeva il suo volto
singolarmente bello.
Herich
abbandonò la propria cavalcatura e corse a inginocchiarglisi
accanto. Sollevò poi la testa verso il genitore e disse: “Padre,
voglio esequie solenni per lui. Dovrà essere sepolto nel Mausoleo
degli Eroi, in un sarcofago tutto d’oro...” Mentre parlava, in
tono sempre più urgente, con le parole che si accavallavano l’una
sull’altra, le lacrime ricominciarono a scendergli lungo le guance.
Di nuovo scoppiò in singhiozzi.
A
quel punto, accompagnato dal generale Xarey, smontò da cavallo anche
il re, gli si avvicinò e a sua volta fissò le spoglie di Res. “È
stato un uomo coraggioso,” disse in tono conciliante, “ti ha
riportato qui incolume.”
Herich
non replicò. Tra i singhiozzi si limitò a ripetere che voleva
esequie solenni. Il generale si sporse a guardare, sollevò stupito
le sopracciglia e si scoprì il capo in segno di rispetto, quindi
disse: “Principe, con il tuo permesso, io non credo che vorrebbe
riposare qui a Dyat.”
§
In
sella a uno stallone di razza Yereian, seguito dalla Guardia d’Onore,
re Herich percorreva la strada per il golfo di Brielar. Al suo
fianco, in sella a un pony di dimensioni proporzionare alle sue,
cavalcava suo figlio.
Eccitato
da tutte le novità del viaggio, il bambino si rizzò sulle staffe e
con voce argentina chiese: “Quando arriviamo, padre?”
“Manca
meno di un’ora, Tjeran.”
“Un’ora?
Ma è tantissimo!” protestò il principino, continuando a
mantenersi in equilibrio sulle staffe. “Io sono stanco.”
Il
re sorrise. “Vuoi dirmi che non riesci a stare in sella per così
poco tempo? Ma lo sai che il Leone Rosso poteva cavalcare per un
giorno intero?”
Il
bambino si sedette di nuovo. Come tutte le volte che lui parlava di
Resen-Lhaw, lo fissò con gli occhi sgranati, poi chiese: “Io mi
chiamo come lui, vero?”
“Certo,
Tjeran, come Tjeran Sonse. Porti il suo nome perché era un grande
eroe.”
“Anch’io
diventerò così?”
“Quando
diventerai grande.”
“Ma
quando diventerò grande?”
“Quando
mangerai tutto quello che hai nel piatto senza fare storie.”
Continuarono
a scambiarsi domande e risposte fino a che la strada non sbucò in
uno spiazzo che dall’alto dominava l’azzurra immensità del mare,
in quel momento accarezzata dalla luce calda del tardo pomeriggio.
“Ci
siamo,” disse il sovrano. Il bambino avrebbe voluto domandare
qualcos’altro, ma intimidito dall’aria di solennità che
d’improvviso il genitore aveva assunto, non osò proferire verbo.
Il
re smontò da cavallo e aiutò il figlio a fare altrettanto, quindi
lo prese per mano e si incamminò con lui lungo un viottolo che
saliva serpeggiando.
Raggiunsero
un secondo spiazzo più piccolo, dal quale si poteva abbracciare con
la vista l’intero golfo di Brielar. Esso era contornato da duri
arbusti costantemente agitati dal vento e ospitava una semplice tomba
di pietra grigia sulla cui lapide era inciso un leone rosso rampante.
Re
Herich si inginocchiò davanti al sepolcro, giunse le mani e chinò
la testa in segno di rispettoso raccoglimento. “Vieni anche tu,”
disse al bambino. “Se sarai buono, ti racconterò la storia
dell’ultima battaglia di Resen-Lhaw.”
“Quando
lui ti ha salvato?”
Il
re emise un sospiro. “Sì.”
Quando
si alzarono, il sole stava calando e la luce calda del tramonto
accendeva ogni cosa di un sontuoso rosso aranciato.
Re
Herich si avvicinò al bordo dello spiazzo e da lì rimase a
contemplare le onde. Esse erano vermiglie, ma non più di sangue.
Si
voltò verso la tomba, anch’essa accarezzata dai caldi raggi, e ne
sfiorò la superficie con la mano. “Grazie, Res,” sussurrò.
“Che
cosa dici, padre?” volle sapere il bambino.
“Niente,
Tjeran. Dico che è ora di tornare indietro, perché giù ci stanno
aspettando.”
Prese
il figlio per mano e si incamminò lungo il sentiero. Alle sue
spalle, Resen-Lhaw rimase a vegliare in eterno sulle acque del golfo
di Brielar.
|