Gente, ecco fatto: abbiamo finito
anche questo mappazzone!^^
Un
grazie a tutti quelli che mi hanno seguito, ricordato o preferito. Un
ringraziamento particolare a tutto coloro che mi hanno lasciato un
parere!
Capitolo
3
MacFarland
appoggiò una mano a un tronco e si passò il dorso dell’altra
sulla fronte. Il sudore gli scendeva a gocce dalle sopracciglia,
dalla punta del naso e dai capelli, gli scorreva giù per il collo,
gli inzuppava la maglietta. Staccò la mano dall’albero e torse un
lembo dell’indumento, facendone colare gocce lattiginose. Abbassò
gli occhi sui propri pantaloni, incrostati fino a sopra le ginocchia
di un fango tenace, che li appesantiva e li rendeva viscidi sulla
pelle.
A
quel punto si passò anche la mano sulla schiena, dove pulsava un
dolore sordo e intenso, tastando cautamente alla ricerca di lesioni.
Forse i Charlie non gli avevano bucato un polmone, forse era stato
soltanto un colpo di striscio.
Si
pulì la mano sui pantaloni e realizzò che il palmo si era lasciato
dietro nel movimento una strisciata rossa.
Alzò
le spalle. Non che gli importasse, per la verità.
L’unica
cosa di cui gli importava era far fuori il maggior numero possibile
di quei bastardi.
Portò
la mano alla tasca in cui conservava la mappa della zona, ma una
sensazione di allarme lo pervase, facendo sì che il movimento
rimanesse a metà. Si guardò intorno, cercò di cogliere qualche
variazione nei suoni e nei movimenti che lo circondavano. Si rifugiò
in una macchia di felci e di nuovo raccolse foglie fradice e fango da
passarsi addosso.
Si
appiattì e attese.
Silenziosi
come ombre, sopraggiunsero due uomini: erano snelli, piccoli, dalla
muscolatura nervosa. Si guardavano intorno come animali selvatici,
sembrava stessero addirittura fiutando l’aria. I lineamenti
orientali conferivano ai loro volti affilati un’espressione tesa e
dura.
Per
quanto fosse stato attento a non lasciare segni di sé, MacFarland
era consapevole che non avrebbe potuto far perdere le sue tracce a
Vietcong nati e cresciuti nella foresta. Estrasse lentamente il
pugnale.
I
due continuavano a guardarsi intorno. Non parlavano fra loro, ma si
scambiavano rapidi segni, indicandosi l’un l’altro ciò che
ritenevano significativo.
Immobile
e coperto di fango, il soldato non li perdeva d’occhio. Se i
Charlie erano arrivati fin lì, esattamente dietro il suo culo, era
chiaro che sapevano o perlomeno intuivano dove si trovava.
Probabilmente non l’avevano ancora visto solo perché era riuscito
ad accorgersi in tempo del loro arrivo, ma la base era ancora
lontana, e anche se fossero andati via, di sicuro non avrebbe avuto
per la terza volta la fortuna di sentirli arrivare in tempo.
Li
osservò attentamente: gente esperta, che sapeva come muoversi.
Borracce completamente piene, armi cariche. Niente che sbattesse o
producesse rumore nelle sacche che avevano a tracolla.
Diede
una seconda occhiata alle borracce e si leccò le labbra.
Uno
dei due Charlie si avvicinò, si piegò con le sopracciglia
aggrottate. Fece un gesto per chiamare il compagno, che subito fu al
suo fianco.
I
due si scambiarono brevi cenni, poi uno fece l’atto di aggirare il
cespuglio nel quale MacFarland era nascosto.
Il
soldato balzò in avanti, rovesciando all’indietro il più vicino
dei due Vietcong. Questi si divincolò come un felino ed egli se lo
vide sgusciare fra le dita. Lo riafferrò per un lembo della casacca,
se lo tirò contro. Colse il baluginare di una lama ed evitò per un
soffio un fendente al collo. “Figlio di puttana,” ringhiò. Colpì
a sua volta con il più pesante Ka-Bar, poi venne sbilanciato in
avanti dall’attacco del secondo Charlie. Si girò rapido, senza
abbandonare la presa sugli abiti del primo, colpì prima con un
fendente e poi dal basso verso l’alto, strappandogli un gemito
soffocato e mandandolo a rotolare a terra con le mani premute sul
ventre.
Il
primo vibrò un’altra pugnalata, la lama gli strisciò sul costato
producendogli un taglio. Si fece indietro, il Charlie lo incalzò con
un altro colpo, egli sottrasse bersaglio saltando di lato, quindi
impugnò l’arma con una presa rovescia e gliela calò sulla schiena
dall’alto verso il basso, facendola penetrare fino all’impugnatura.
Il
Charlie cadde a terra faccia in avanti, lui gli puntò il piede sul
dorso e fece forza per estrarre il Ka-Bar, quindi tornò dall’altro,
che nel frattempo aveva smesso di muoversi. Ad ogni buon conto, lo
afferrò per i capelli, gli tirò indietro la testa e gli tagliò la
gola.
Si
rialzò ansimante e con una smorfia di dolore si toccò il costato,
dove il coltello l’aveva ferito. Ne ritrasse la mano sporca di
sangue.
Frugò
i due corpi alla ricerca di qualcosa di utile, ammucchiando da una
parte le due borracce, qualche pacchetto di medicazione, un involto
con dentro un po’ di riso, due M-16 e relativi caricatori.
Tracannò
il contenuto di una delle borracce fino all’ultima goccia, si
applicò un pacchetto di medicazione sulla ferita e se ne ficcò un
altro paio in tasca, mangiò il riso e scelse il migliore dei due
M-16. Estrasse il caricatore all’altro e se lo mise in tasca
assieme al resto della roba, quindi tolse l’otturatore e lo lanciò
più lontano che poteva.
A
quel punto, tirò da una parte i due corpi e l’equipaggiamento
rimasto e ricoprì tutto di terra e foglie, poi si mise la borraccia
ancora piena a tracolla e il fucile a spall’arm. Controllò ancora
una volta la sua posizione con la bussola e riprese la marcia.
Era
ormai l’imbrunire quando si accorse che tra le radici contorte di
un immenso ficus si trovavano le vestigia di un edificio. Si avvicinò
cauto: mangiata dai licheni e dalle intemperie, coperta di muschio,
vi era una costruzione di pietra grigia in cui si vedevano ancora i
resti di sculture e decorazioni. Si distingueva una figura femminile
in piedi a lato della porta, sembrava vestita con un abito lungo e
teneva qualcosa fra le mani. Dall’altro lato dell’ingresso doveva
essercene una uguale, ma le radici secolari l’avevano probabilmente
già da tempo sbriciolata.
Erano
ancora visibili gli architravi scolpiti dell’edificio, pareti
coperte di bassorilievi e un pavimento di pietre ormai affogato sotto
uno strato di foglie e detriti. Più oltre si vedevano altre
costruzioni, così coperte di muschio e rampicanti da sembrare, nella
luce che ormai andava scemando, non più che scuri cumuli di terra.
Su altre erano cresciuti enormi alberi e le radici, grigie e
contorte, si confondevano con gli elementi architettonici.
L’M-16
imbracciato, MacFarland prese a camminare adagio tra gli antichi
edifici. Il cielo stava sbiadendo verso il tramonto, l’aria si
faceva meno calda. Rasoterra si stava raccogliendo una lieve nebbia.
Il frusciare di ali membranose rompeva il silenzio estatico che stava
calando ovunque.
Il
soldato raggiunse una specie di cortile rettangolare, al centro del
quale si trovava una fossa che un tempo doveva essere stata una
piscina, punteggiata di innumerevoli fiori di loto bianchi e rosa.
Sull’acqua scura si rifletteva un edificio solenne, con un’alta
torre centrale e due laterali più piccole. La vegetazione ne
ricopriva la maggior parte, ma qua e là si coglievano ancora i
sorrisi remoti dei Buddha che guardavano ai quattro punti cardinali.
Passo
dopo passo, meravigliato dall’insolito spettacolo, il soldato si
avvicinò all’imponente costruzione. La porta principale gli
rivolgeva un muto invito.
Egli
la oltrepassò ed entrò in un piccolo cortile. Il rigoglio della
giungla sembrava aver risparmiato il luogo, liane e rampicanti
pendevano dagli edifici che circondavano lo spiazzo, ma lasciavano
libero il selciato.
Entrò
in una delle stanze che si aprivano sul cortile. Il vano era vuoto,
ovviamente, ma era comunque appartato rispetto all’immensità della
giungla. Egli si sedette in un angolo dal quale avrebbe potuto tenere
d’occhio la porta, quindi appoggiò la schiena contro la parete,
poggiò accanto a sé l’M-16, emise un lungo sospiro e chiuse gli
occhi.
Si
svegliò tempo dopo con la sensazione di non essere più solo. Si
guardò intorno, cercando di scorgere qualcosa nella penombra che
ormai cancellava ogni particolare, e identificò alcune sagome umane.
La sua mano scattò a recuperare l’M-16.
“Non
c’è bisogno di quello,” disse una voce conosciuta.
MacFarland
si addossò maggiormente alla parete. “Carver?” mormorò. “Ma
tu non puoi
essere vivo. Io ho visto quello che ti hanno fatto i Charlie. Non
puoi essere vivo.”
“Infatti
non lo sono.” Il padrone della voce si fece avanti e MacFarland
dovette faticare per non distogliere lo sguardo.
“E
allora… allora cosa ci fai qui?” Il soldato deglutì
faticosamente. “Non dovresti essere qui.”
“Volevo
vederti.”
MacFarland
deglutì. In quella penombra vagamente nebbiosa, lo spettacolo
offertogli dal suo commilitone era ancora più orribile. Con voce
roca, gli disse: “Mi dispiace per quello che è successo, ok?”
Carver
fece un gesto di noncuranza. “Ah, lascia perdere, non è stata
colpa tua.”
“Ma
io non ero al mio posto quando sono arrivati i Charlie, non sono
riuscito ad avvertirti.”
“Eri
a trasportare le munizioni del mortaio, dico bene?”
“Come
fai a saperlo?”
Carver
alzò le spalle in un gesto che poteva significare molte cose.
MacFarland mantenne lo sguardo rivolto a terra, perché ogni volta
che lo alzava su di lui era invaso dall’orrore. Infine chiese:
“Cosa fai qui, Bobby?”
L’altro
fece una risata, che dato il modo in cui era ridotto uscì
stranamente liquida e gorgogliante. “Volevamo vederti,” disse.
“Ci siamo tutti. Io, Sam, Dave, Harry… Harry fa un po’ fatica.
È finito su una mina, se ti ricordi.” Fece un’altra risata.
Alle
sue spalle nel frattempo andava addensandosi una folla macilenta e
sanguinante. A qualcuno mancavano pezzi, altri erano sfigurati.
“State
lontano,” balbettò MacFarland. Cercò di indietreggiare, ma era
già con la schiena contro il muro. Si alzò lentamente in piedi come
per scappare, ma era circondato.
“Volevamo
solo dirti di non metterti a ronfare così in mezzo alla giungla,”
lo informò Sam. “Charlie ti fotte di brutto, se ti becca a
ronfare.”
Si
fece avanti un altro soldato coperto di sangue, con spuntoni di bambù
piantati ovunque. “Esatto,” confermò. “Come me, vedi?”
“Johnny!”
esclamò MacFarland fissandolo inorridito.
“Proprio
io,” rispose l’altro con aria soddisfatta.
“Va’
via. Andate via, per favore!” Si coprì il volto con le mani.
“Perché?
Non ci vuoi più bene? Non siamo più i tuoi compagni di plotone?”
“Andate
via, vi prego!”
Si
ristabilì il silenzio. MacFarland riabbassò le mani e vide solo una
stanza vuota e polverosa, fiocamente illuminata dai raggi della luna
che filtravano attraverso i rami.
Fuori
c’era un uccello che emetteva un richiamo lungo e triste, gli
insetti ronzavano e frinivano. Si udì poco lontano lo schiocco di un
geco in cerca di preda.
Il
soldato emise un sospiro e si rannicchiò nuovamente alla base della
parete, in una zona d’ombra. Estrasse la pistola dalla fondina e se
la pose sulle ginocchia.
§
L’alba
arrivò con una luce lattiginosa e priva di colore. La foschia
ammantava ogni cosa, strisciava sul terreno e rendeva vaghe e
indistinte le cime degli alberi.
MacFarland
fece qualche passo nell’erba intrisa di rugiada e si strofinò il
viso con le mani. Il fango con cui le aveva coperte, ormai ridotto a
polvere, gli fece bruciare gli occhi. Il soldato osservò la patina
brunastra e screpolata che ormai lo ricopriva ovunque ed ebbe quasi
l’impressione che essa lo stesse impregnando come faceva l’acqua
su un terreno poroso.
La
giungla ti entrava dentro e non usciva più.
Ti
rimaneva dentro per tutta la vita.
Tirò
fuori la mappa e la studiò, riconobbe i templi in cui aveva
trascorso la notte. La cosa lo rincuorò, perché gli dava
un'ulteriore conferma di aver scelto la direzione giusta. Dalle
rovine alla base non c'era molta distanza, ma entro un paio di
miglia la foresta avrebbe ceduto il posto alle risaie. La cosa non
gli piacque per nulla: risaie significava villaggi, quindi gente. Se
nel corso delle missioni SAD aveva imparato a nascondersi nella
giungla come i Charlie, nello spazio aperto dei campi coltivati non
sarebbe stato altrettanto facile evitare di essere visto.
Non
toccò la medicazione sul costato, che probabilmente si era già
appiccicata al taglio che ricopriva, né si occupò della ferita che
aveva sulla schiena. Ci avrebbe pensato, se mai, una volta giunto a
destinazione. Soppesò la borraccia ancora piena, riguardò sulla
mappa la distanza da percorrere, svitò il tappo del recipiente e
bevve fino a che si non fu dissetato, quindi abbandonò il resto.
Controllò
la pistola e l'M-16, si accertò che il Ka-Bar fosse facilmente
raggiungibile, quindi riprese la marcia.
Non
ci volle molto perché la vegetazione cominciasse a cambiare. Gli
alberi si fecero più radi, il sottobosco meno fitto. I versi di
animali diminuirono.
Non
più schermato dal tetto verde della foresta, il sole picchiava.
Anche
l'aria aveva cambiato odore: al sentore greve di acqua stagnante e
foglie morte si sostituiva un vago aroma di fiori ed erba tagliata,
screziato qua e là di fumo di legna. A un certo punto gli parve di
sentire anche l'eco lontana di un gridare di bambini.
I
villaggi non dovevano essere distanti.
Raggiunse
il limitare della boscaglia, si appiattì tra le fronde di un
cespuglio e da lì rimase per lunghi minuti a osservare le risaie di
un verde intenso, attraversate qua e là da sentieri rossicci di
terra battuta. Di tanto in tanto il sole baluginava sull'acqua
sottostante, dando l'idea che qualcosa di prezioso fosse nascosto
sotto i folti steli del riso.
MacFarland
ghignò. L'unica cosa che poteva essere nascosta lì sotto era una
mina antiuomo, esattamente come quella che aveva fatto saltare le
gambe al povero Harry Williams.
Vide
passare in lontananza un paio di contadini che conducevano un bufalo
d'acqua. Più oltre si levava un esile filo di fumo. Nell'aria
immobile si coglieva un remoto vibrare di pale d'elicottero.
Mantenendosi
sul margine della boscaglia, si mise in marcia. Si impose di non
farsi prendere dalla fretta: era proprio in vicinanza dell'obiettivo
che si facevano le maggiori stronzate, quelle che facevano saltare
gambe e braccia, o quelle che attiravano proiettili di mortaio e
frotte di Charlie incazzati.
Si
chiese, a proposito di Charlie, se quelli dei tunnel avessero capito
cos'aveva preso. Fece mente locale: probabilmente i Viet si erano già
accorti dei due che aveva ammazzato nella giungla. Data la posizione
in cui ciò era accaduto, non dovevano averci messo molto a capire
quale fosse la sua destinazione.
Si
chiese che idea si fossero fatti di lui: lo credevano semplicemente
un povero grugno disperso che tentava di raggiungere il suo reparto o
avevano intuito che era riuscito a mettere le mani su qualcosa di
importante?
Meccanicamente
si palpò la tasca in cui aveva infilato la mappa dei tunnel, quindi
fece scorrere di nuovo lo sguardo sulle risaie: tranquilli campi, in
apparenza, che però potevano contenere trappole mortali.
Le
radio le avevano anche i Charlie, e se davvero avevano capito che
cosa aveva trovato, da lì in poi sarebbe stato l'inferno.
I
rumori di elicottero si erano fatti più intensi e frequenti, non
doveva mancare molto alla base.
Di
nuovo si immobilizzò: il villaggio di cui aveva scorto il fumo era
emerso dalla vegetazione. Si vedeva la gente che svolgeva le faccende
quotidiane, c'erano un paio di bambini che giocavano. Un battere
ritmico faceva pensare che qualcuno stesse preparando pali di legno
per edificare una capanna.
Sempre
che non li stessero preparando per impalare qualche americano: quando
avevano trovato Carver avevano scoperto che i Charlie erano capaci
anche di quello.
Si
ributtò nel folto della macchia.
Procedette
adagio per un po’, acquattandosi a ogni rumore sospetto,
imponendosi l'attenzione e la lentezza laddove l'istinto gridava di
coprire l'ultimo tratto che lo separava dalla meta il più in fretta
possibile.
D’improvviso
echeggiò non lontana una raffica di M-16. Alla prima ne seguì
un’altra e poi una cacofonia di spari e urla. Un'esplosione diffuse
ovunque l'odore caratteristico del Comp B.
Si
mosse in quella direzione e quasi subito vide una nuvola di fumo
allargarsi tra le piante del sottobosco. Sentì qualcuno urlare.
Una
sagoma verde gli passò davanti agli occhi. Si girò in quella
direzione e vide un marine con i gradi di caposquadra cadere a terra
prono. Il corpo sussultò e poi rimase immobile, una pozza rossa gli
si allargò sotto con impressionante velocità. Altri sparavano nella
boscaglia, ma sembravano presi dal panico a tal punto che rischiavano
quasi di colpirsi a vicenda.
Al
riparo di un tronco, MacFarland li osservò: reclute. Gente appena
arrivata, probabilmente, che fino a quel momento aveva visto Charlie
solo nei documentari di propaganda.
Un
biondino aveva perso l’elmetto e assurdamente lo cercava, più
preoccupato di ritrovare quello che del Viet che gli stava puntando
contro un AK-47.
Il
soldato si lanciò in avanti estraendo nel movimento la Colt 1911,
afferrò il ragazzo e lo buttò a terra, quindi si rigirò fulmineo e
sparò al Vietcong. Non perse tempo a controllare le condizioni del
marine, saltò in piedi e urlò: “Ripiegare, ripiegare!”
Afferrò
un'altra recluta per la collottola, la strappò indietro. Un altro
colpo di pistola, poi cilecca. Abbandonò l’arma scarica, si fece
scivolare dalla spalla l’M-16, sventagliò una raffica nella
boscaglia. Si udirono delle urla.
“Ripiegare!”
ripeté.
Pur
nel panico, i ragazzi sembrarono dargli retta. Gli si strinsero
intorno, uno addirittura gli chiese: “Cosa facciamo, signore?”
“Ripiegare,
ho detto!” ripeté MacFarland, poi il suo udito allenato colse un
rimbalzo metallico. “A terra!” urlò con quanto fiato aveva in
gola, si gettò addosso al ragazzo che gli aveva parlato per ultimo e
lo buttò all’indietro con il proprio peso.
L’esplosione
gli risucchiò l’aria dai polmoni, l'onda d'urto lo colpì come un
poderoso maglio. Un nugolo di schegge arroventate gli straziò il
corpo.
“Signore?”
chiese una voce incerta. Una mano tremante gli infilò una sigaretta
accesa fra le labbra.
MacFarland
aspirò il fumo, tossì e una fitta di dolore gli attanagliò il
torace. Era sdraiato da qualche parte, c’era il rumore di un
motore. Sopra la sua testa scorrevano i rami degli alberi. “Devo
raggiungere la base,” mormorò con voce roca. “La base, subito.”
Una
mano gli strinse appena il braccio. “È là che stiamo andando,
signore. Lei ha bisogno di cure.”
Il
soldato sbatté gli occhi infastidito dalla luce che filtrava
attraverso le foglie, di nuovo tossì, poi debolmente rispose:
“Fanculo le cure, ho informazioni importanti da comunicare.”
“Ma
signore...”
“E
non chiamarmi signore, sono un grugno come te. Devo consegnare una
mappa al comandante della base.”
Il
cielo si fece azzurro, le fronde erano finite. “Stiamo uscendo
dalla giungla, signore,” lo informò premuroso uno dei ragazzi.
MacFarland
riuscì quasi ad abbozzare un pallido sorriso. “Una
volta che ci sei entrato, dalla giungla non esci più. Ti rimane
dentro.”
Chiuse
gli occhi.
§
Immobile
sull’attenti, Morley Hatfield – il biondino – abbassò lo
sguardo, un po’ per proteggersi dal sole, ma un po’ anche perché
aveva gli occhi lucidi e non voleva che gli altri se ne accorgessero.
Cerò
di concentrarsi sulle parole del comandante della base: “...atto di
coraggio e ardimento a rischio della propria vita e al di là del
richiamo del dovere mentre impegnato in uno scontro con un nemico
degli Stati Uniti...”
Niente
sacco nero per quel soldato: avevano fatto venire una bara apposta da
Saigon.
Avevano
messo ovunque bandiere a stelle e strisce, ma mancava il vento e
tutte quante pendevano come stracci bagnati.
“...Medaglia
d’Onore del Congresso...”
Hatfield
si morse un labbro. Rivide il momento in cui quel soldato coperto di
fango, con gli occhi azzurri che brillavano nel volto sudicio, era
balzato fuori dalla boscaglia e aveva salvato la vita a lui e a tutta
la squadra.
Sbatté
di nuovo le palpebre e deglutì cercando di vincere il groppo che gli
serrava la gola.
Il
comandante finì il discorso. Fu suonato il silenzio, tutti si
irrigidirono nel saluto militare mentre il feretro veniva sollevato e
deposto sul pianale di uno Huey.
Le
pale dell’elicottero cominciarono a girare, dapprima lentamente e
poi sempre più veloci. Si alzò la polvere, le bandiere si
animarono. Dal palco del comandante frusciarono via i fogli del
discorso.
Lo
Huey si sollevò traballando, prese quota.
Il
biondino sentì una lacrima rotolargli lungo la guancia. Girò lo
sguardo e si accorse che anche i suoi compagni di squadra stavano
faticando a trattenere la commozione.
L'elicottero,
ormai alto nel cielo azzurro, si allontanava velocemente. La polvere
sollevata dalle pale aleggiava ancora intorno, le bandiere pendevano
di nuovo immote.
Silenziosa,
la giungla aspettava.
|