Wednesday
Eric
What
Lies Behind
Aveva
creduto che fosse la cosa migliore da fare.
Per
diversi motivi, molti ripensamenti e altrettanti sensi di colpa.
Non era giusto lasciare da sola sua madre, si era detto. Anche
se Joshua l’aveva avvertita, conoscendola doveva
essere comunque molto preoccupata.
Per quello
non si era fatto troppi problemi nel prendere la sua roba,
ringraziare Joshua alle cinque del mattino seguente –
ma quel ragazzo non dormiva mai? – e tornarsene
a casa.
Ma
ora, chiuso in camera sua con le serrande abbassate a fissare il soffitto, non
era più così tanto sicuro della sua benevola pensata.
La prima
persona che aveva visto, al contrario di ogni
aspettativa, era stato suo padre. E le cose non erano
andate come si aspettava.
Gli aveva
aperto la porta, sì, gentile da parte sua. Lo aveva guardato... poi, senza dire
una parola, aveva girato i tacchi lasciando la porta aperta ed era tornato in
cucina.
Niente
saluti, niente parole d’apprensione, niente scuse.
Niente di niente.
Solo sua
madre era corsa ad abbracciarlo mentre suo fratello, chissà perché già in
piedi, lo guardava come se dovesse bruciare su un rogo.
In quei
momenti... non poté far altro che chiedersi come fosse finita così. Che strada avevano intrapreso per far sì che una cosa simile succedesse?
Si morse
il labbro inferiore, portandosi l’avambraccio sugli occhi. C’era penombra nella
camera, e improvvisamente anche quella pochissima luce sembrava disturbarlo.
Non
sarebbe andato a lezione nemmeno quel giorno. Nessuno della famiglia era uscito
di casa, dunque anche Alex saltava scuola, probabilmente.
Magari
avevano da fare a casa; tipo rispondere alle incessanti telefonate che suo
padre riceveva da ormai due ore, spiegando a buona parte di quelli che
chiamavano della sua “reazione allo stress accumulato”, causa ufficiosa del suo
comportamento poco adeguato ad un adulto.
Ma
Eric aveva pensato subito che quella fosse una balla bene architettata per non
mandare a picco l’importantissima, vitalissima squadra di basket giovanile di
suo padre. Si dovevano rassicurare i genitori in un qualche modo, ed
effettivamente lo stress è una delle cause più comuni
di un gran numero di comportamenti inconsulti.
Ma la
realtà dei fatti era una sola: suo padre aveva intenzione di fare esattamente
quello che aveva fatto.
Anzi, se
avesse potuto si sarebbe spinto oltre.
A quel
pensiero un brivido gli scese lungo la schiena. Aveva frammentari ricordi del
braccio alzato del padre, levato come per colpirlo, e di Joshua
che si frapponeva tra lui e quel colpo.
Joshua, che aveva sibilato parole che suo
padre aveva temuto.
Ma quali? Cosa gli aveva
sussurrato all’orecchio?
Non lo
sapeva. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avesse spaventato così tanto
suo padre, in quel frangente.
A pensarci
bene... era da un po’ che rifletteva sul ragazzo. Non era la prima volta che
pensava di qualcuno che fosse strano, o diverso dagli altri... ma Joshua Archer scatenava in lui
una sorta di istinto represso, che a tratti gli
consigliava di stargli lontani, altre volte invece ne sembrava follemente
attratto.
Soprattutto
per i suoi occhi. Sembravano saper incantare chi li osservava troppo a lungo.
E non
si comportava nemmeno come gli altri ragazzi della loro età.
Posato,
tranquillo, gentile. Magari si sforzava di assumere un comportamento comune, ma
in rari momenti non gli riusciva affatto.
Lui non lo
aveva toccato. Mai. Nemmeno per sbaglio. Per tutto il tempo in cui erano rimasti insieme nel suo appartamento, Joshua gli era stato sì vicino, ma mai abbastanza per
sfiorare o essere sfiorato, anche inavvertitamente.
Così vicino da sentirne il profumo, particolare e incomparabile anche
al più gradevole degli odori, ma mai abbastanza.
Si ritrovò
d’improvviso a pensare come fosse al tatto la sua pelle.
Sapeva che
era fredda. Se lo ricordava da quando l’altro gli
aveva appoggiato la mano sulla fronte, in facoltà... ma non sapeva altro.
Più che altro perché non ci aveva mai pensato. Più che altro perché non ci
doveva nemmeno pensare, santi numi! Joshua era un
ragazzo! Non si fanno certe considerazioni su un coetaneo maschio, per Dio!
Però...
Già. Non
poteva non ammettere che tutti i suoi pensieri finivano
per vorticare intorno ad Archer. Sempre e comunque, Joshua era il fine
ultimo di ogni ragionamento che cominciava. Aveva attirato la sua attenzione come
solo il nuoto era riuscito a fare.
Era un maledetto fissato, doveva ammetterlo con se stesso.
Fu un
rumore consuetudinario ad attirare la sua attenzione, distraendolo dal filo di
pensieri che aveva cominciato a popolargli la mente. Dei
passi, per la precisione, pesanti e cadenzati.
Qualcuno
saliva le scale. Ed era sicuro di chi fosse, dato il
rumore che faceva.
Si preparò
psicologicamente, sospirando pacato e togliendosi il
braccio dagli occhi; fu questione di pochi istanti prima che, bussando, Trent non si presentasse sulla porta della sua camera.
Nessuno
dei due disse nulla. L’uomo si limitava a fissare un punto qualsiasi del
parquet della camera mentre Eric aspettava che l’altro parlasse, che dicesse
qualcosa. Lui aveva bussato, dopotutto.
Quando finalmente
Trent si decise, erano
passati talmente tanti minuti che sentire la sua voce fu una sorta di sorpresa.
« Eric... » chiamò, tuttavia senza ancora
guardarlo.
Oh, wow...
si ricordava persino il suo nome.
« Mi dispiace. E’
stato un comportamento... beh, non dovevo farlo » aggiunse, cercando parole che, a
giudicare dall’instabilità della voce, non trovava.
Tacque, ed
Eric non poté fare a meno di rispondere ciò che il padre si aspettava.
Nonostante
non credesse al suo pentimento - pensò che fosse un’insistente trovata di sua
madre – non riuscì a dire altro che quello.
« Va bene, non preoccuparti ».
Non era
quello che avrebbe voluto dire. Avrebbe preferito domandare perché lo avesse
fatto, o perché fosse così spudorato nel mentirgli a quel modo. O anche se era diventato uso comune, quello di malmenare i propri
figli in pubblico.
Ma qualcosa gli diceva che comunque il padre non avrebbe risposto e, anzi, con quelle parole non
avrebbe fatto altro che farlo arrabbiare.
« Bene » pronunciò l’uomo, girandosi nell’evidente
intenzione di lasciare la stanza. Ma si fermò con la
mano sulla maniglia e un piede sulla porta, proprio in procinto di uscire.
« Conosci da molto quel ragazzo? Joshua... Archer?
» domandò poi, e la variazione del
tono faceva intuire che la recita era finita, e adesso agiva solo per se
stesso.
Eric ne fu
sorpreso solo perché non si aspettava un approccio così diretto a
quell’argomento.
« Da un po’ » fu la semplice risposta che fornì.
Non sapeva come avrebbe reagito suo padre, praticamente
il ritratto della serietà e del rispetto delle regole, se gli diceva di avere
passato la notte da una persona conosciuta sì e no settantadue ore prima.
Trent
sembrò pensieroso per un qualche istante, ma si girò finalmente a guardarlo
quando si rese conto che la sua risposta era prettamente insoddisfacente. Però non commentò, né si preoccupò di farglielo notare con
il suo solito tono saccente. Anzi, rimase in silenzio.
« Non mi piace » esordì poi: « preferirei che non lo frequentassi
» disse, e la sua voce aveva l’intonazione
di un ordine ben nascosto nonostante le parole fintamente cordiali.
Non
rispose, preferendo di nuovo il silenzio al mare di insulti
che si sentiva sulla punta della lingua, pronti ad uscire.
« Eric » chiamò di nuovo l’uomo,
fermamente: « non devi frequentare quel ragazzo » chiarì, facendo risuonare
l’imposizione per ciò che era.
Non seppe
se fu il ficcare il naso nella sua vita privata quello che lo fece innervosire,
oppure il pensiero di evitare Joshua da lì in avanti.
Non riusciva a sopportare né l’uno né l’altro, e la cosa non lo aiutò a tenere
la bocca chiusa e ad ignorarlo come si era prefissato di fare.
« Non sapevo che il mio giro di amicizie fosse improvvisamente affar tuo » disse ironicamente, distogliendo
per la prima volta completamente lo sguardo dal soffitto per fissarlo sul volto
del padre. Poteva vedere la rabbia inasprirgli i lineamenti del volto, ma anche
il tentativo ostinato di non infuriarsi ancora.
Dal canto
suo, Eric non riusciva a capire cos’era quell’ostilità
nei confronti di Joshua.
Era di
sicuro il più serio e il più posato di tutte le persone che conosceva, e
l’unica cosa particolare che aveva visto fargli era stato fumare una sigaretta,
la prima sera che lo aveva incontrato fuori dal Rock Theatre. Era meglio di tutti i suoi amici messi insieme,
persino responsabile nel venire ad avvisare sua madre su dove si trovasse, e
questa nuova fissazione di suo padre trovava che fosse
priva di fondamento.
Al suo
silenzio, Trent ripeté di nuovo il suo ordine: « non voglio che lo frequenti. Viene
nella tua stessa università e non puoi di certo non incontrarlo, ma evitarlo sì
» continuò: « fallo » concluse infine.
Continuò a
non rispondere. Nonstante stesse per esplodere di
rabbia non voleva provocarlo, no, era l’ultima cosa che voleva. Per rispetto a
sua madre, che doveva essere distrutta nonostante si sforzasse di riportare
tutto alla normalità, e per suo fratello.
Forse Trent prese il suo silenzio come un assenso. Fatto sta che
sembrò soddisfatto, per il momento, e prima di uscire gli comunicò
l’orario del pranzo.
Quando
la porta si fu richiusa, e l’uomo tornò rumorosamente al piano di sotto, Eric
si rese improvvisamente conto che non sarebbe rimasto in quella casa una notte
di più.
Guardò
l’orologio sul comodino: le dieci e mezzo del mattino. Robert probabilmente era
all’università – ancora non riusciva a capire come riuscisse a frequentare, con
tutti i neuroni che la cocaina gli fotteva – ma Doug
lavorava in un’officina meccanica, e probabilmente era reperibile.
Allungò malamente la mano sul comodino, afferrando il cellulare ed
aprendolo con un rapido gesto della mano. Subito scorse i numeri in rubrica,
non faticando a trovare “Douglas” in mezzo a tutti gli altri.
Spinse il
tasto verde e si attaccò l’oggetto all’orecchio, ascoltandolo squillare. Fu
solamente al sesto squillo che dall’altra parte
qualcuno rispose, urlando un “pronto?” per sovrastare il rumore di un motore al
massimo dei giri in sottofondo.
« Doug, sono Eric » disse lui, alzando la voce per
farsi sentire.
« Pronto? » ripeté l’altro.
« SONO ERIC! » sbottò dunque, quasi urlando a sua
volta.
« Ah, Er! » rispose infine l’altro, come al solito fin troppo entusiasta: « che fine avevi fatto, è una mezza
esistenza che non ti sento! »
« Venerdì sera non è una mezza
esistenza, Doug » precisò lui, ghignando anche se
l’altro non poteva di certo vederlo.
« Sono solo dettagli! » ribatté il ragazzo, allontanandosi
dal motore in revisione a giudicare dal progressivo
scemare del rumore. « Allora, cosa posso fare per te? » chiese poi.
Eric sospirò.
« Volevo sapere se avete qualcosa in
programma per stasera » chiese poi, rimanendo attentamente
in ascolto.
Chiedere a
loro dei loro programmi voleva dire posti ambigui con fiumi di
alcool e polvere bianca spacciata
quasi in libera vendita. Ma, si disse, probabilmente
era proprio quello che gli serviva.
Ci fu
della reticenza da parte di Douglas, e poteva chiaramente sentirsi dalla sua
risposta tutt’altro che rapida come al solito.
« E’ mercoledì, Er » si lamentò poi, ma si sentiva dal
tono che era una sorta di cover story:
« io lavoro domani e Rob ha lezione » aggiunse.
Cominciava
a seccarsi. Ma con chi credeva di parlare, con un
idiota? « Non mi pare che sia mai stato un
problema per voi uscire fra settimana. Dunque perché
non mi dici la verità ed eviti di farmi incazzare, Doug? Te ne sarei grato,
dato che ultimamente non mi gira molto bene » sbottò, iracondo nonostante volesse evitarlo con tutto se stesso.
« ...ho sentito » disse poi Douglas dopo un istante
di silenzio: « tu stai bene? » domandò dunque.
A volte
dimenticava di questo lato di Douglas. Ovvero quello
che sapeva preoccuparsi degli altri, quando non era assopito dal livello
d’alcool disciolto nel suo sangue.
Sospirò. « Ho bisogno di uscire di qui » disse semplicemente, racchiudendo
in quella frase il suo stato d’animo attuale. Era ormai da qualche minuto che
si era pentito di aver lasciato il silenzioso appartamento di Joshua per tornare a ficcare il piede della tana dei leoni.
Dall’altro
capo del telefono udì Douglas sospirare, forse ponderando una sua decisione.
Infine parlò: « io e Rob
non volevamo dirtelo, dato la situazione che hai a
casa. Ma abbiamo trovato un locale che vorremo vedere
e avevamo in programma di andarci stasera » disse infine.
« Io non guido, ho bisogno di alcool »
rivelò, arrendendosi all’evidenza di avere la necessità impellente di una
sbronza fatta per bene.
« Non guida nessuno » esordì però Douglas, riuscendo a
sorprenderlo: « non è lontano, andiamo a piedi. Ma ti avverto che è un po’... particolare, ecco » tentò di spiegarsi.
Eric,
ovviamente, non capì un accidente. « In che senso? » domandò infatti.
« E’ molto libero, mi segui? » commentò, e dal tono Eric si immaginò un ghigno sadica stampato su quella faccia a
luna d’agosto.
« No cazzo, non ti seguo » ribatté lui seccato.
Dall’altra
parte provenne un suono di disappunto che sembrava un ringhio. « Santo Dio come sei ignorante
quando vuoi » commentò Doug, ma non gli diede il
tempo di rispondergli per le rime: « è molto riservato, ok? Rob ci ha messo mesi
per farsi il giro giusto che ci permettesse di entrare
in quel pub. Ci va la gente che vuole... svagarsi senza impegni, capisci ora? Che vuole divertirsi e
non gli importa con chi o dove »
tentò di fargli capire.
Ci mise
poco, questa volta, a collegare tutti i pezzi di puzzle.
« Un bordello?! » sbottò, tappandosi subito la bocca
con la mano sperando che dal piano di sotto non lo avessero sentito. Ma i
rumori soffusi dello padellare della madre ancora
arrivava alle sue orecchie, segno che non si erano fermati ad ascoltare, e che
dunque non lo avevano sentito. «
Un bordello! Ma siete deficienti?! » sbottò, effettivamente incredulo
davanti a ciò che quei due potevano arrivare a fare. Giocare agli alcolizzati e
ai cocainomani spacciatori non era abbastanza? Ora anche sul sesso dovevano
buttarsi?
« Non è esattamente un bordello! » esclamò a sua volta Douglas,
premurandosi di tenere bassa la voce nel caso i suoi
colleghi avessero le orecchie troppo sensitive: « è un pub, ok? Tu puoi entrare e limitarti a bere e a
ballare. Dico solo che se non sei interessato alla musica, c’è anche la
possibilità di un altro tipo di intrattenimento, ok? Ma non è gente del locale. Chi ne ha voglia lo fa con chi
vuole, punto, e tutti vengono da fuori. Non è un covo di puttane e non è un
bordello, è solo... un servizio in più » spiegò, parlando come se dovesse cospirare chissà quale attentato
terroristico.
Ci pensò
sopra. La descrizione di un posto simile non lo attirava affatto, ma ancor meno
lo faceva l’idea di dover passare almeno altre venti ore facendo finta che fra
lui e suo padre non fosse successo niente.
Sentiva di
non farcela a fingere di non capire le sue frecciatine, di non vedere la sua
espressione disgustata quando lo guardava e a non accorgersi delle sue plateali
finte in favore dello status quo.
« Ci sono » decretò ad alta voce: « quanto ci vuole? » chiese poi, sperando di avere
abbastanza soldi da parte.
« Quaranta bigliettoni » rispose lui. « Ma,
Eric... tutti vanno con tutti, ok? Non ti garantisco che sia
una cosa integralmente eterosessuale... o di coppia. Dicono che sia quello il
bello del locale » rivelò.
« Immagino » fu il suo semplice commento. Al
momento non gliene fragava niente, voleva solo uscire
di li.
Ci avrebbe
pensato poi, alle conseguenze della sua scelta.
Non era un
posto che attirava tanto l’attenzione.
Una
facciata normalissima e un’insegna anonima, il Scarlet Moonlight aveva tutto quello che si
doveva ad un pub e al contempo non aveva niente a che fare con gli altri
locali.
Non si
sentiva la musica dell’interno, ad esempio; non c’erano spazi all’aperto e
nessuno fuori a fumare. C’era solo un’insegna sopra ad una porta anonima, incassata
in un muro più che normale, con un mastino di minimo un quintale a fare la
guardia fuori dalla porta.
Se
l’insegna non avesse specificato “pub” sotto al nome,
lo avrebbe volentieri scambiato per un covo di mafiosi.
« Ci siamo, ci
siamo! » esclamò Robert esaltato con un
sorriso da orecchio ad orecchio. Douglas annuì con la stessa felicità mentre
Eric si limitò ad un sorrisetto poco convinto. Stava considerando che non fosse
stata un’idea geniale, ma ormai era troppo tardi, e non avrebbe
fatto la figura dello stupido dicendo ai suoi amici che se ne tornava a
casa.
Così si
arrese all’evidenza che sì, avrebbe aspettato al bancone che Douglas si facesse
qualsiasi essere deambulante nel locale e Robert spacciasse la roba che si era
portato dietro. Figurati se in un locale del genere ti
controllavano prima di lasciarti entrare...
Arrivarono
all’ingresso in pochi istanti, e subito il buttafuori ebbe la cortezza di
squadrarli da capo a piedi.
« Nome? » chiese,
minaccioso.
« Lista Wang
» rispose subito Robert: « Robert e due amici » precisò.
L’armadio
si girò verso una cartelletta attaccata al muro, osservandone i nomi per
qualche istante. Quando arrivò a quello pronunciato da
Robert, fece un rapido accenno con il capo e gli aprì la porta.
« Wang? » domandò Eric una volta
all’interno, dove furono accolti dalla ragazza della biglietteria e dal suo
ghigno compiaciuto.
« Oppiomane » spiegò brevemente Robert: « è lo spacciatore più quotato di questo posto, ci ho messo settimane per convincerlo a
metterci in lista » completò, estraendo i quaranta
dollari dalla tasca dei jeans e passandoli alla ragazza, che gli stampò un
timbro sulla mano destra.
Eric non
stette a guardare cosa rappresentava il timbro; era
deciso a ricordare meno roba possibile di quel posto e non voleva altro che
raggiungere il bancone, ordinare il drink più alcolico in menù e sedersi.
Evitò con
cura lo sguardo affamato della ragazza, seguendo gli amici giù per una lunga
scalinata. Sembrava che la sala vera e propria fosse
nel semi-interrato, o addirittura in una sorta di cantina; forse era per quel
motivo che la musica, da fuori, non si sentiva.
Cominciò a
sentirla a metà delle scale, e una volta arrivato alla
loro fine si trovò davanti il locale più stravagante che avesse mai visto.
Assomigliava
tantissimo ad un ritrovo di vampiri degli action
movie che guardava con Alex quando non aveva niente da fare. Era in
penombra, con luci soffuse a volte rosse altre bianche, disseminato di corpi
che si muovevano a ritmo di musica. Niente sedie o tavoli, solo divanetti che
ovunque si guardasse erano occupati da persone intente
a fare di tutto fuorché prestare attenzione al mondo attorno a loro. Fra loro,
un uomo in completo elegante aveva inginocchiato fra
le gambe un giovane in convers e jeans impegnato con
la bocca a fare qualcosa di così ovvio, che Eric non ebbe nemmeno lo stimolo di
rimanerci male.
« Bel posto... » sussurrò ironico, individuando con
gli occhi la porta di un privè. Beh, almeno i rapporti
sessuali veri e propri si riservavano di non farli davanti a tutti gli altri,
nonostante non si prestasse una generale attenzione alla “zona divanetti”.
Non
ascoltò la risposta degli altri, limitandosi a passare in rassegna la stanza.
Individuò il bancone, ma nel farlo incrociò lo sguardo di una donna –
probabilmente sulla trentina a giudicare dal volto – così eloquentemente diretto
a lui che improvvisamente si pentì di avere indossato quella camicia bianca
quasi trasparente e quei jeans chiari un po’
stracciati. Era un abbigliamento fin tropo sexi per
un posto in cui attiravi l’attenzione anche con un
cappotto addosso.
« Vado al bar » decise poi, dicendolo ad alta voce
per avvertire gli amici. Senza aspettare le loro risposte – e lo loro raccomandazioni, si disse – si diresse a passo
svelto verso il bancone senza più incrociare nemmeno uno sguardo; fissò le
piastrelle per tutto il tragitto finché non si fu seduto.
Ordinò un
Long Island. Non era uno dei drink più alcolici, ma considerato il suo grado di
resistenza era più che sufficiente.
Solo
quando ebbe il bicchiere fra le mani – e ne ebbe
bevuto tre quarti come fosse acqua – alzò lo sguardo, puntandolo sulle persone
in pista.
Non poteva
non ammettere di essere affascinato dal loro strusciarsi sincopato. Alcuni
seguivano semplicemente la musica, ignari del mondo e delle persone contro cui andavano inevitabilmente a sbattere; ma alcuni di loro
erano intenti ad esplorare i corpi d’altri con le mani, facendole scivolare
lentamente sotto le magliette, o all’interno delle vertiginose minigonne. Notò
un paio di ragazze guardarsi con espressione particolarmente languida, poi
decidere con un cenno del capo di dileguarsi in direzione dei
privè.
Ordinò un
altro Long Island, finendo in un unico sorso quel poco rimasto nel bicchiere.
Cominciò molto presto a sentire il famigliare effetto di leggerezza portato
dall’alcool, unito al calore diffuso lungo tutto il corpo. Bevve ancora.
Aveva
sentito molte volte la frase “bere per dimenticare”, ma non ci aveva mai
creduto. L’alcool dava effettivamente un primo momento di sollievo, come se i
problemi scomparissero in una nube di fumo, ma non si potevano evitare per
sempre. Era quando quel senso di leggerezza svaniva che essi ripiombavano fra
capo e collo più pesanti di prima.
Lui aveva
la brutta abitudine di saltare tutta la prima parte. Forse
perché pensava troppo.
Era sempre
preda di quelle che si chiamavano “sbronze tristi”, in cui avrebbe avuto voglia
di pensare e ripensare continuamente a tutto ciò che lo atterriva per far sì
che potesse sotterrarlo nella depressione ancora di più.
Il barman
gli portò la seconda ordinazione, e lui ne bevve un’altra metà senza nemmeno
prendere fiato. Sentiva che stava per dargli alla testa, ma non si sarebbe comunque fermato. Aveva deciso di ubriacarsi per bene, a
costo di stare una merda la mattina dopo, ma voleva disperatamente avere
qualche ora di sollievo per dimenticarsi di tutto e tutti.
Di suo
padre, per esempio. Dei suoi scatti d’ira e delle bugie che gli rifilava come sante verità.
Sentì un
moto di disgusto e bevve di nuovo, finendo il bicchiere.
Non ci
volle molto prima che l’effetto dell’etanolo di facesse sentire appieno,
facendogli provare la sensazione di galleggiare in mezzo ad una piscina. Quasi
sorrise a se stesso; nonostante non fosse esattamente ubriaco, e riuscisse
ancora a fare ragionamenti abbastanza coerenti, riusciva a sentire l’euforia
tipica di un’overdose alcolica.
Ordinò un
terzo drink e, nell’attesa, tornò con lo sguardo alla pista.
Ora tutti
quei corpi, quello strusciarsi e quei toccamenti avevano un effetto
completamente diverso. L’inibizione stava finalmente andando per altri lidi e
riusciva a trovare quei movimenti sensuali stranamente eccitanti.
Per quel
motivo non evitò le occhiate decisamente invadenti che
un ragazzo, un biondo con i capelli a spazzola e una camicia nera aperta per
metà su un petto ben allenato, gli lanciava.
Prima
sporadicamente, poi sempre più insistentemente finché non guardò lui e solo
lui.
Poteva rifiutarlo, pensò. Poteva semplicemente smettere di guardarlo come se fosse
la cosa più interessante in quel posto e l’altro se ne sarebbe fatto un motivo,
scegliendo qualcun altro per il suo palese gioco di seduzione.
Invece
no, continuò a fissarlo. E fece scattare, negli occhi
dell’altro, quell’ingranaggio che decretava la differenza fra predatore e
preda. E di certo era Eric la preda, tra i due.
Poco male.
Bevve
qualche sorso del terzo drink, cedendo fin troppo facilmente al cenno del capo
del biondo, che gli indicava un divanetto libero dall’altro lato dell’enorme
stanza. Robert e Douglas non erano già più in vista, e questo gli diede quel
pizzico di coraggio necessario ad annuire, alzandosi dallo sgabello del
bancone.
Stava
facendo una cazzata, e il suo cervello glielo stava urlando in svariate lingue.
Ma al contempo ne era consapevole e, anzi, non vedeva
l’ora.
Si sentiva
improvvisamente in grado di fare sesso con un ragazzo, uno sconosciuto, in un
locale dalla fama ambigua con almeno un 30% di alcool
nel sangue. Non era minorenne, non ci sarebbe stata
alcuna violenza... ma la soddisfazione di presentarsi davanti a suo padre e
descrivere punto per punto quell’esperienza era divenuta in pochissimi istanti
una prospettiva fantastica.
La
speranza che a Trent prendesse un infarto sul momento era un ottimo incentivo per perseguire lo scopo. Cosa che fece, raggiungendo l’altro in poco tempo.
« Ti ho notato, al bar... » attaccò subito quello, scostando
lo sguardo lungo tutto il suo corpo. Lo studiava, si vedeva, e si leccò le
labbra quando arrivò in zona glutei. « Non sei male, veramente. Anzi... »
aggiunse, prendendo posizione sul divanetto e invitandolo ad accomodarsi al suo
fianco.
Sorvolò
sul gesto. Fosse stato per lui, in quel momento poteva anche decidere di
spogliarlo e farselo davanti a tutti che non gli sarebbe
cambiato il mondo. Meglio: più testimoni a confermare la storia a suo padre,
che sarebbe veramente schiattato con un attacco di
cuore in piena regola.
« Onorato » rispose ai complimenti, prendendo
posto accanto a lui. Aveva gli occhi scuri, notò.
« Senti, mettiamo subito le cose in chiaro dolcezza, ok? » esordì l’altro, avvicinandosi talmente tanto che nell’aria aleggiò
per un istante l’odore forte di fumo di sigaretta: « tu mi sembri un tipo che va al
sodo, dunque sarò sincero. Ho la ragazza, ma mi piace scopare anche uomini.
Stanotte ho scelto te » disse, piegando le labbra in un
sorrisetto malizioso. « Niente pippe
di nessun tipo, del tuo nome non me ne può fregare di meno. Staremo
qui cinque minuti, giusto per galanteria, poi ho tutta l’intenzione di
farti arrivare in una delle camere di quel privè. Se
ci stai ripensando sei in ritardo, dovevi rifletterci meglio prima » terminò, anticipando nel suo
egocentrico discorso tutto quello che voleva dire.
Da quella
mania di comparare le persone a giocattoli, poteva quasi intuire che fosse qualche figlio di papà troppo annoiato dalla vita
facoltosa che faceva, per divertirsi con film e pop-corn.
Ghignò, in
rimando alla sua uscita. Il pensiero di non voler trovarsi lì gli sfiorò la
coscienza per un attimo, ma poi si perse nella nebbia con cui i Long Island
avevano contribuito a formare nel suo cervello.
« E’ un peccato... » sussurrò, fissando il biondo
direttamente negli occhi: « avevo calcolato di trovarmi nudo
in tre minuti. Beh, vorrà dire che porterò pazienza » pronunciò.
Lo stava
sfidando. Lo stava fottutamente sfidando a fare di lui quello che più gli
aggradava.
Era un idiota, si stava comportando come un imbecille patentato. Ma è difficile controllarsi quando una porcheria alcolica te
la fa sembrare un’idea meravigliosa.
La
risatina che il ragazzo si lasciò sfuggire aveva un qualcosa di malefico... o
malato. Ma ovviamente non era abbastanza vigile per
dare importanza a quel fatto.
« Ho fatto un’ottima scelta,
davvero... » sussurrò, più a se stesso che ad
Eric, non perdendo tempo in ulteriori chiacchiere: la
sua mano arrivò velocemente sul suo collo, cominciando a scendere lungo il
busto da sopra la stoffa della camicia bianca, saggiando ogni centimetro di
pelle che riusciva a finire sotto il suo tocco.
Fu un
ragionamento malsano, il suo, ma non riuscì ad impedirselo. Mentre la mano
dello sconosciuto scivolava più in basso, posandosi con energia sulla patta dei
suoi jeans, Eric cominciò a pensare a come sarebbe stato, se quella mano che lo
toccava così impudentemente fosse stata di Joshua.
E non
riuscì a stupirsi del fatto che lo trovasse... piacevole.
Certo,
probabilmente sarebbe stato diverso.
Innanzi
tutto più gentile. Il moro non aveva l’aria di essere un tipo irruento o
frettoloso, lui non sarebbe arrivato a toccarlo subito; era quasi convinto che
avrebbe preso tempo, mettendo in atto tutti quei
preliminari che di solito si fanno, anche con le donne.
Sì, aveva
proprio quell’impressione.
E poi,
la temperatura della sua pelle. L’unica cosa che sapeva con certezza, era che Joshua aveva la pelle fredda. Le sue mani lungo il torace
dovevano essere come acqua fredda, e sarebbero scese
sempre più in basso, sempre più oltre...
« Hai già avuto altre esperienze? » fu quella la voce che lo riportò
alla realtà.
La
risposta, chissà perché, fu però abbastanza veloce: « solo con delle donne » ribatté sincero.
« Ooooh...
» esclamò il biondo, estasiato da
quella rivelazione: « non avendo avuto prima rapporti
con altri uomini, questo ti rende un verginello...
non posso credere a così tanta fortuna » disse, scivolando distrattamente con la mano sul
suo interno coscia per poi tornare su, saggiandogli le labbra con il
pollice: « spero mi permetterai di baciarti » domandò retorico.
« Perché,
ti serve chiedere? » ribatté Eric, il tono scocciato
sia per il nomignolo affibbiatogli che per
l’interruzione che era stato obbligato a subire.
L’altro
non fece altro che ghignare, leccandosi di nuovo le labbra: « Sai, credo che raggiungeremo
un luogo più appartato in meno tempo del previsto... »
« Io credo di no ».
Se
Eric non fosse stato convinto di esserselo solamente immaginato, probabilmente
sarebbe sobbalzato per la sorpresa. Certo, avrebbe riconosciuto la voce di Joshua ovunque; ma pensare che comparisse improvvisamente
in un locale simile era fuori discussione persino per il suo cervello in
stand-by.
Ma quando
il ragazzo che lo aveva adescato si voltò verso destra con l’espressione
scocciata di chi è stato interrotto – la stessa che aveva assunto lui qualche istante prima – capì che quella voce che aveva
sentito, la sua, non era frutto di
un’allucinazione uditiva.
In piedi
accanto a loro c’era veramente Joshua Archer, fasciato in tutta la sua letale bellezza da un paio
di jeans neri e una camicia di seta del medesimo colore. Accostati ai capelli
corvini, poi, i suoi occhi color del ghiaccio risaltavano ancora di più.
« Scusa, tu saresti? » domandò il ragazzo, fissando il
moro come se dovesse prenderlo a pugni a seconda della
risposta che avesse fornito.
Ma fu
nell’istante in cui Joshua voltò lo sguardo in sua
direzione, fissandolo con quegli occhi che solo Dio sa come glieli abbia dati, che
il biondo tacque e ritirò le mani da Eric.
E un
brivido scese lungo la spina dorsale di quest’ultimo, svegliandolo da quella
sorta di trance.
Stava per
farsi scopare da un uomo appena incontrato. E, allo
stesso tempo, stava pensando che non sarebbe stato male se fosse stato Joshua, invece, l’autore dell’atto.
Se si
vergognò come un cane non seppe dirlo; era troppo
impegnato a fronteggiare lo sguardo apparentemente scocciato - o deluso? - di Archer, che sembrava chiedere
mutualmente a lui cosa stesse facendo e bruciare vivo con gli occhi il biondo
adescatore contemporaneamente.
« Andiamo » fu il suo semplice ordine, unito
alla sua mano fredda che si stringeva sul polso e lo trascinava lontano da quei
divanetti rossi.
Tempo due
minuti, e l’aria fresca della notte gli investì il viso. Gli sembrava di essere appena uscito da un forno, e col senno di poi la
metafora non era affatto sbagliata.
Camminarono
per un po’, in silenzio, percorrendo un marciapiede stranamente poco affollato.
Quella strada correva quasi parallela ad Heaven’s Park, dunque in lontananza potevano vedersi le
ombre frondose degli ippocastani del sentiero a ovest del parco.
Joshua
non parlava, non si girava a guardarlo, non faceva assolutamente nulla. Camminava
di qualche passo avanti ad Eric, che ogni tanto faticava a tenere un’andatura
diritta.
« Hai intenzione di evitare di
parlarmi per tutta la sera? »
sbottò il castano d’improvviso, fermandosi in mezzo al marciapiede.
Odiava
dover stare al fianco di una persona che conosceva senza riuscire nemmeno a
parlarci, e il testardo mutismo di Joshua non lo
stava assolutamente aiutando.
A sua
volta, il moro si fermò. Si girò in sua direzione non con il solito sguardo
cortesemente gentile, ma con l’espressione seria di chi ha
visto fare qualcosa che non è di suo gusto e nessuno vi ha ancora posto
rimedio. Esattamente come se fosse un nobile deluso dal comportamento di uno
dei suoi servi.
Eric si
sentì in colpa, per un istante.
« Cosa c’è?
» disse poi: « non sono affari tuoi dove passo la
serata e cosa faccio » completò, anticipando o inuendo dallo sguardo a cosa Joshua
stesse pensando. Glii sembrava di stare parlando con
suo padre, e quella era un’immagine che più di molte altre non voleva accostare
a Joshua.
Archer
non rispose subito, rimanendo semplicemente fermo a guardarlo. Non sembrava
particolarmente arrabbiato, così non appariva toccato dalle parole appena
sentite; ma c’era come un’ombra di dubbio sul suo volto, e la sua mente
sembrava occupata a sbrigliare qualche intricato pensiero di chissà quale tipo.
Dopo altri
istanti di silenzio, alla fine Eric riuscì a sentire
la sua voce: « è vero » gli concesse: « ma stai attento a dove porti il
culo, prima di pentirti di quello che fai » lo avvertì, ma nella voce non aveva il tono di un genitore
apprensivo, o quello preoccupato di un amico fidato. Era un avvertimento puro e
semplice, disinteressato, come quelli dei poliziotti o dei professori.
Per un
qualche motivo che non riuscì ad inquadrare, si sentì uno stupido.
All’improvviso
si era reso conto che Joshua non aveva particolari
considerazioni per lui. E, in tutta sincerità, non
sapeva nemmeno cosa si aspettasse lui.
Che
cosa voleva che fosse? Cosa desiderava che facesse? Che fosse suo amico dopo solo alcuni giorni che si
conoscevano? Che gli volesse bene, magari?
Non poteva
illudersi così. Stava solamente cercando doppi significati dietro ad un gesto,
come quello di tirarlo fuori da quel locale, che non
ne aveva.
Jshua Archer non sarebbe stato niente più di Joshua
Archer. Per
chiunque.
E lui
era... disperatamente affezionato. E non se ne era
nemmeno accorto.
« Vattene a fanculo...
» sibilò ferito, abbassando lo
sguardo e oltrepassandolo con il passo più stabile che fu capace di racimolare.
Non sentì Joshua chiamarlo – perché se lo stava
aspettando, allora? – né fermarlo in un qualche modo.
Semplicemente, quando si girò vinto dalla curiosità, l’altro non c’era più.
Sparito.
Per
qualche minuto, guardò una piastrella particolarmente normale sotto la luce del
più vicino dei lampioni. Non pensava a nulla, solo al silenzio, ma non riusciva
a muovere un solo passo per andarsene da quel luogo.
Forse
sperava di vederlo riapparire. Forse voleva
che lo facesse.
Forse
perché vedeva in Joshua il solo aiuto possibile per
passare lontano da casa ancora qualche ora,
prolungando il suo vagare notturno per non dover guardare ancora negli occhi
suo padre e affrontare la situazione in cui era finito. La mano bianca del moro
era l’unica tesa in sua direzione, l’unica che aveva già afferrato una volta, e
ora non riusciva a vederne altre se non quella.
Voleva
afferrarla ancora. E voleva che Joshua
tenesse stretta la sua.
Perché era rassicurante e... perché era un maledetto egoista.
Chiuse gli
occhi, dandosi mentalmente del ridicolo. Tanto valeva tornare a casa, dato che altri quaranta dollari per rientrare al locale non
aveva motivo di spenderli.
Ma da
qualche parte il destino si era riservato qualcosa di particolare, per quella
sera.
« Oh, finalmente ti ripesco, dolcezza » sentì da poco distante, e solo il pronunciare dell’ultima
parola fu sufficiente a fargli venire alla mente con chi aveva a che fare.
Non era
possibile che fosse incappato in un fissato...
I suoi
occhi si posarono su quelli scuri del ragazzo biondo incontrato al locale, a loro volta fissi sui suoi. Un sorrisetto strano
incurvava le labbra sottili, e adesso era sufficientemente vigile per riuscire
a percepire la pericolosità di quell’espressione.
Non si era arreso, glielo si poteva leggere in faccia.
Voleva
lui.
Ghignò, chissà
perché spinto dal suo istinto. Per la seconda volta si ritrovava a sfidare quel
ragazzo, e per un qualche strano motivo si divertiva anche. « Com’è piccolo il mondo » disse dunque, senza però muoversi
di un passo.
Era deciso
a parlarci civilmente. Erano esseri umani, se gli spiegava che gli era passata
la mania di protagonismo si sarebbe risolto tutto in pochi istanti.
Ma
ovviamente una visione talmente ottimista non poteva essere nemmeno
lontanamente possibile...
« Piccolissimo, infatti » rispose l’altro, avvicinandosi a
lui in pochi passi finchè non gli fu ad una distanza decisamente
troppo ravvicinata, per i suoi gusti. « Spero che tu non abbia intenzione di lasciare in sospeso il nostro
“discorso” » gli disse, sorridendo malizioso: « cominciavo a divertirmi, sei un tipino interessante... » sussurrò, abbassando la voce man mano che anche la sua mano
ricominciava a scendere lungo il suo corpo.
Eric la
fermò prima che potesse avvicinarsi alla cintura.
« Desolato, ma mi sono ricordato di
avere altri impegni » ribatté: « sarebbe un peccato se i miei amici
non mi vedessero arrivare per colpa di una scopata... e poi il locale è pieno
di gente, no? Sono sicuro che... »
« Tu non hai capito, ragazzino » lo interruppe però il ragazzo,
distogliendo la mano dalla sua presa e afferrandogli il mento: « sono io che faccio le regole qui,
e se decido di fottermi qualcuno non lo lascio
scappare. Tu sarai sotto di me stanotte, volente o nolente » concluse,
stringendo la sua mascella con la mano.
Aveva
molta forza, ma non era paragonabile alla sua. Il nuoto lo aveva fortificato, e
il basket aveva limato i suoi muscoli.
Fu facile
liberarsi con uno strattone.
« Spiacente, dovrai scoparti qualcun
altro » decretò, la voce ferma e decisa
nel rifiutarlo di nuovo.
Ma il
biondo non sembrò particolarmente deluso, anzi. Il suo sorriso prese una nota
di sadico divertimento mentre faceva un cenno a qualcuno alle sue spalle,
nascosto nell’ombra del lampione.
Spuntarono
fuori altre tre persone, ed Eric sentì all’improvviso la sensazione di essere
veramente nei guai.
« Ti presento i miei amici, dolcezza
» gongolò il biondo, incrociando le
braccia al petto: « sono persone con gusti molto
particolari, sai... per le violenze sessuali vanno matti ».
Ebbe quasi
la sensazione di aver sentito il proprio cuore mancare di un battito nello
stesso istante in cui la paura gli bloccava la bocca dello stomaco. Non
riusciva esattamente a vedere i volti dei suoi tre “amici”, ma di sicuro vedeva
le loro spalle robuste e i loro bicipiti decisamente
troppo grossi per stare nelle magliette che portavano.
Nonostante
anche lui non fosse messo male a forza, non arrivava a quel livello; e comunque, tre contro uno era una prova troppo grande per le
sue minime esperienze di street fight.
Senza
accorgersene, cominciò a respirare più velocemente. Cominciava ad avere
sinceramente paura.
Non si
mosse mentre i tre gli si avvicinavano, coprendogli buona parte della visuale.
Avrebbe potuto correre, sicuramente sarebbe stato più veloce di loro... ma
dietro di lui c’era il parco, e nemmeno nei suoi più masochistici pensieri si sarebbe infilato in un parco così grande inseguito da un
maniaco sessuale figlio di papà e i suoi tre scagnozzi. Era come invitarli a
cena con te stesso come portata principale.
Eppure
non aveva altre possibilità. Combattere con loro voleva dire farsi sbattere a
terra nel giro di venti secondi.
E
allora addio fichi.
Si mise in
posizione di difesa, i pugni alti come gli aveva
insegnato suo padre quando tiravano arie migliori. Li vide ridere di lui, ma
non si demoralizzò.
Quando il
primo di loro gli prese il polso con forza, la sua reazione istintiva fu quella
di tirargli un dritto direttamente sul naso. Ci mise
tutta la forza di cui era capace, lanciando in avanti con il pugno anche la
spalla, ed effettivamente l’uomo lo sentì, perché lo lasciò andare coprendosi
il naso con la mano. Ma subito il secondo gli fu
addosso, e nonostante fosse riuscito con una certa difficoltà a liberarsi anche
di lui non vide il terzo, la cui mano scattò veloce andando a colpirlo allo
stomaco con un pugno.
Gli mancò
il respiro e sentì in pochi secondi un dolore sordo concentrato nel punto in
cui era stato colpito.
Tossì e,
privo di fiato, si piegò su se stesso finchè non fu inginocchiato a terra; lì
fu poi bloccato, disteso sul cemento finché le spalle non furono a pieno
contatto con esso e immobilizzato a dovere con le mani
sopra il capo.
« Ottimo lavoro » ridacchiò il biondo, che in tutta
l’azione era rimasto in disparte: « e non avete colpito il viso, siete stati molto bravi... ora
tenetelo... » ordinò in un sussurrò
borioso, mostrando in un istante la sua faccia dilaniata dal desiderio di
chinarsi e usarlo come meglio preferiva.
Tentò di
liberarsi ma fu inutile, i tre che lo trattenevano erano come catene, forti del
loro vantaggio numerico.
Stava per
essere violentato come un ragazzino imbecille. Stava per
essere... non riusciva nemmeno a pensarlo.
Tutto perché voleva fare il fenomeno. Tutto perché non aveva dato
ascolto all’istinto e aveva deciso di spegnere il suo cervello versandoci sopra
dell’alcool.
Tremò, si
morse il labbro inferiore... ma non diede la soddisfazione al biondo, ormai
sopra di lui, di piangere.
Non sapeva
più quantificare quanta paura provasse ma mai, mai avrebbe dato la soddisfazione a
qualcuno come quel figlio di puttana di vederlo piangere.
E lui
sorrideva, da quella posizione dominante in cui si sentiva sicuramente così
bene. Ghignava sadico, famelico, probabilmente pregustandosi il momento. Erano
in mezzo ad una strada ma in giro non c’era nessuno... non era possibile che
fosse così sfigato...
Ripensò a Joshua. Se ne era andato perché
lui non voleva ammettere la ragione delle sue parole. Non aveva niente da
spartire con uno che aveva conosciuto si e no da
qualche giorno, così se ne era andato. Magari aveva controllato che riuscisse a
reggersi in piedi... e se ne era andato.
Strinse i
denti a sentire le dita rudi del ragazzo slacciargli uno ad uno i bottoni della
camicia, infilarsi sotto la cintola dei jeans e
carezzare la pelle del bassoventre...
Chiuse gli
occhi, aspettandosi il peggio.
Ma il
peggio non arrivò.
Sentì i
respiri trattenuti delle persone che ancora lo tenevano fermo, una sorta di rantolo
e la sensazione che l’aria attorno a lui si fosse fatta improvvisamente più
fredda. Poi le tre persone lo lasciarono andare, gridando, e scapparono via.
Quando
riaprì gli occhi, una delle scene più strane e rivoltanti gli si presentò nuda
e cruda davanti agli occhi.
Joshua
era in piedi alle spalle del ragazzo dai capelli biondi, ancora a cavalcioni
sopra di lui. Una delle sue mani era conficcata nella schiena dell’altro, che
aveva sul volto un’espressione a metà fra il più orribile dei dolori e l’incoscienza:
i suoi occhi scuri erano vitrei nonostante la smorfia della bocca facesse
presagire un urlo nascosto in gola.
Eric
rimase letteralmente paralizzato dal terrore.
Scostò lo
sguardo su Joshua, cercando in esso
una qualsiasi spiegazione, ma non ne ottenne. Anzi...
notò con orrore che gli occhi del ragazzo non erano più del particolarissimo
colore azzurro chiaro che tanto lo aveva attirato, no. Erano proprio...
bianchi. Erano bianchi.
Osservava
la sua stessa mano affondare dentro il torace del ragazzo senza la minima
inflessione emotiva. Non sorrideva, non ne era
disgustato, non... faceva niente. Era come se quella fosse prassi, abitudine, e
si sa: la normalità non da altro che noia.
« E’ a causa di gente come te che
gli esseri umani mi fanno schifo » pronunciò poi, alzando appena il capo e guardando la testa bionda
della sua vittima – perché altro non poteva essere! – dall’alto in basso. Voltò
poi lo sguardo in direzione di Eric... e il contatto
diretto con quegli occhi così anormali provocò in lui una nuova scarica di puro
terrore.
Ogni fibra
del suo corpo gli diceva di scappare, di nascondersi da Joshua,
o da qualunque accidenti di cosa fosse. Perché, dai! Quell’affare
non era umano!
Joshua
non disse nulla, però. Si limitò a lanciargli una semplice occhiata prima di
tornare alla nuca della sua vittima. « Non ho mai strappato un’anima da un corpo con le mani, le nostre
regole ce lo vietano... sono proprio curioso di vedere
se fa veramente male come dicono » spiegò incolore, come se il ragazzo biondo potesse sentirlo.
E
probabilmente poteva: perché deformò la bocca in un’espressione strana
nonostante i suoi occhi fossero comunque vuoti ed
inespressivi.
Ma non
fiatò. Probabilmente non aveva più la voce necessaria per farlo.
Il
cervello di Eric non riuscì a pensare a niente, al
contempo. Vedeva solo la faccia contorta dal dolore della persona che stava per
violentarlo, e la persona a cui si sentiva assurdamente più affezionato
guardarlo come un Dio che per gli uomini prova solo puro disprezzo.
Non
collegò il cervello quando, girando la mano, l’urlo del ragazzo finalmente
proruppe fra le sue labbra. Non si curò di dare peso alle parole appena
sentite, quando Joshua prese ad estrarre con lentezza
la mano dal suo corpo, come se ne tirasse fuori
qualcosa.
“Gli sta strappando
il cuore con le mani”, pensò per assurdo. Ma non c’era sangue, e l’altro non
sarebbe stato ancora vivo, se veramente fosse stato
così.
No, non
era il cuore... ma qualcosa sì.
Qualcosa di oscuro, che riluceva paradossalmente di una luce nera.
Aveva la forma di un cristallo al cui centro stava una
piccola scintilla luminosa che brillava di nero.
La mano di
Joshua non era insanguinata, sulla
schiena del ragazzo non vi erano ferite. Ma lui l’aveva tirata fuori dal suo corpo, lo aveva visto farlo.
Il corpo
del biondo divenne improvvisamente rigido, cadde al
suo fianco e... non si rialzò più. Era morto, e nonostante lui non avesse mai
visto dei cadaveri non si faticava a crederlo.
Spaventato,
terrorizzato a morte, guardò Joshua ancora una volta:
fissava il cristallo scuro con l’aria di chi non ha visto altro per l’intera
vita e odia con tutto se stesso l’oggetto che tiene fra le mani.
L’altro si
voltò poi in sua direzione.
Eric
sobbalzò, facendosi istintivamente più indietro con i gomiti sull’asfalto.
Probabilmente
il moro notò la sua espressione, che doveva essere decisamente
impaurita. Forse fu una punta di tristezza quella che gli attraversò gli occhi
– erano bianchi davvero! – in quel
momento... ma, se anche era stato, Eric lo ignorò e Joshua
tentò di non darlo a vedere.
Però
parlò. Un consiglio sussurrato come se fosse un incentivo di rassegnazione.
« Torna a casa ».
Un modo
più gentile per dire “fuggi e salvati la vita”.
Eric non
se lo fece ripetere due volte e, dando finalmente sfogo all’istinto, si
allontanò il più possibile da Joshua Archer.
Corse così
veloce che non guardò nemmeno dove si stava dirigendo. Così, dopo cinque minuti
di corsa sfrenata, si ritrovò suo malgrado a sei
isolati da casa.
Troppo
sconvolto per pensare ad altre possibili tappe, decise di farvi ritorno.
Aveva
bisogno di pensare, di riflettere. Perché quello che aveva
visto fare a Joshua
non poteva essere vero... qualunque cosa fosse.
Era stato
sicuramente un sogno, o un’allucinazione. Poteva avere immaginato tutto in
preda ad una sbronza epica, perché no?
Ma non
ci credeva nemmeno lui. Sentiva ancora il dolore nel punto in cui era stato
colpito, e anche considerando la sua poca resistenza alle bevande alcoliche con
tre Long Island non si arrivava a sbronze da allucinazione.
No. Quello
che aveva visto era... vero. O almeno lo sembrava.
Non
c’erano prove a dimostrare il contrario.
Si portò
una mano alla bocca, appoggiandosi con le spalle al primo muro disponibile. Se
veramente no si era immaginato tutto... Joshua aveva... ucciso un uomo.
Era un
assassino. Lo era... davvero?
Non c’era
sangue, non c’era niente; e l’altro poteva essere solo svenuto, no? Era
talmente spaventato che poteva aver visto male, dopotutto.
Però...
era prettamente sicuro di quello che aveva visto. Il biondo era
morto davvero, non respirava neppure.
E
cos’era quella cosa che aveva in mano Joshua? Cos’era
quella luce nera?
Gli
tornarono improvvisamente in mente le sue parole prima di estrarre il
cristallo, e rimase a bocca aperta nel contemplare quell’assurdità.
Aveva
parlato di anima.
Anima? Com’era possibile?
Non poteva
essere.
... o sì? Esistevano esseri umani in grado di staccare l’anima
dal corpo?
Ma... Joshua era un essere umano?
« Non è possibile » pronunciò a se stesso ad alta
voce, riprendendo a camminare in direzione di casa.
Ovviamente
non era possibile. Doveva essere stato tutto uno scherzo.
...ma chi era così malato dei suoi amici da organizzare un tiro
simile? Chiedendo la partecipazione di Joshua,
persino! Proprio di quel ragazzo che, a parte lui, l’intera università ancora
non aveva avvicinato!
Non
sembrava possibile nemmeno con una considerevole dose di creatività.
Scosse il
capo, ormai in vista di casa sua. Era così scosso, che al momento aveva
solamente la necessità di farsi una doccia e infilarsi sotto le coperte, a
dormire. A schiarire i neuroni dall’alcool, magari, così che
domani mattina avrebbe potuto ragionare meglio sull’accaduto.
Sì, sì...
avrebbe fatto proprio così. Avrebbe aspettato la mattina.
Una volta
all’ingresso prese la chiave di scorta da sotto il vaso sulla destra. La infilò
nella toppa, girò un paio di volte e fece scattare la maniglia. Ma si accorse troppo tardi che la luce della cucina era
accesa, segno che i suoi genitori non erano ancora andati a dormire.
Strano.
Erano le undici e quarantacinque; solitamente andavano in camera non più tardi
delle dieci e mezzo.
Cercando
di calmare il proprio cuore impazzito, tolse la chiave dalla toppa, portandola
in casa con sé. Non aveva la forza di rimetterla a posto, adesso.
Richiudendosi
la porta alle spalle, però, ebbe l’impressione di non essere al sicuro quando
suo padre si presentò sulla porta.
Quello
sguardo non gli piaceva.
Dietro di
lui sua madre, racchiusa tremante nella sua vestaglia, e Alex in pigiama che lo
guardava in piedi a fianco della donna.
Ma
Eric sorrise, vedendoli. Sorrise come da molto non faceva,
sorrise con gratitudine. Perché si era reso
conto di avere una famiglia da cui tornare, e questo era quanto.
Perché
poteva succedergli di tutto, la fuori, ma lui avrebbe
sempre avuto un padre, una madre e un fratello minore al suo fianco. Genitori
che magari non lo accoglievano in casa con un sorriso, o con uno scherzo, ma
che comunque non gli avrebbero mai fatto del male.
« Papà, io... » cominciò, deciso a raccontargli
tutto. Magari poteva consigliargli cosa fare.
« Dove sei stato? » lo interruppe però l’uomo, il tono
duro e severo, ruvido come granito.
Eric perse
il filo, inquietato dagli occhi iracondi del padre. « Io... » balbettò: « fuori con Robert e Douglas » rispose poi, sorpreso di tutta
quell’agitazione.
« Ah sì? » ironizzò Trent:
« e avevi intenzione di dircelo
quando, domani mattina? » domandò di nuovo, la voce che
cominciava a palesare l’irritazione che sicuramente provava.
Se
possibile, Eric rimase ancora più spiazzato da quelle parole.
« Io l’ho detto ad Alex » si difese, spostando lo sguardo
dal padre al fratello minore: «
voi due eravate usciti ed io l’ho detto ad Alex! » esclamò, fissando ora lo sguardo sul fratellino.
« Strano, perché lui non lo sapeva » infierì il padre ed Eric, con suo grande disappunto, vide formarsi un sorrisetto sulle labbra
di Alex.
Lo aveva
fatto apposta. Non glielo aveva comunicato di proposito.
Per
cos’era quella punizione, ora? Che cosa gli aveva
fatto?
Sentì il
panico crescere in lui. In circostanze normali sarebbe riuscito a mantenere la
calma, ma quella sera i suoi nervi avevano avuto un
sovraccarico e non ci riusciva, a fare il serafico.
Osservò il
padre con un moto di panico negli occhi, ripetendo inutilmente la sua difesa: « Ma è vero! Io gliel’ho detto, lui ha mentito! » esclamò.
« VILE! » sbottò di colpo suo padre, e
quello che non successe in piscina ebbe luogo fra le mura domestiche.
Lo colpì.
Un
manrovescio di una forza di cui non lo credeva in grado, che bruciò sulla pelle
come se fosse stata una lingua di fuoco incandescente a colpirgli la guancia.
Avvertì
appena sua madre trattenere rumorosamente il respiro, mentre l’espressione di Alex passava dal gaudio alla sorpresa.
« VILE! » ripeté il padre: « NON SCARICARE LA COLPA SU TUO
FRATELLO! »
« Non sto mentendo! » cercò di difendersi, ma il
risultato fu quello di avere una replica del colpo precedente.
E
anche quello bruciò come l’Inferno.
« TRENT! » urlò sua madre, ma la sua voce
impaurita e distrutta non fu sufficiente a fermare la furia del marito, che
afferrò Eric per il colletto della camicia e avvicinò il viso del figlio al
suo.
« Puzzi d’alcool » constatò:
« che vergogna... non credevo di
avere cresciuto una persona così cafona ed irresponsabile... » considerò amaramente, lasciandolo
andare senza riguardo.
Eric stava
per aggiungere qualcosa, qualsiasi. Voleva difendersi, ripetere per l’ennesima
volta che lui non centrava nulla in tutto quello, che era stata un’idea di Alex e che aveva... passato la serata più schifosa della
sua esistenza.
Avrebbe
voluto pregarlo almeno di starlo a sentire... ma le parole che udì dopo gli bloccarono il fiato e la voce in gola.
« A volte mi chiedo per quale
sfortunata serie di eventi Dio mi abbia punito con un
figlio come te. Alex bastava e avanzava ».
Fu sicuro
di aver sentito qualcosa rompersi, da qualche parte.
Forse era
un cristallo come quello che Joshua aveva estratto
dal corpo del ragazzo biondo... forse ne aveva uno
anche lui, e si era rotto...
Non capì
più nulla. Non sentì le urla della madre, o del fratello che finalmente faceva
la sua mossa per risolvere quella situazione caduta nell’assurdo.
Tutto
quello che vide fu la porta, la sua mano che l’apriva e la notte.
Per il
resto, i suoi piedi lo portarono il più lontano possibile.
_________________________________________________________________________________________
Capitolo
super lungo… *si accascia a suolo in trauma post-correzione*.
Vi do il
permesso di linciare Trent Everald.
Bene,
siccome non ho nulla da aggiungere passiamo alle risposte per le recensioni!
Shichan: I tuoi rapporti drammatici con le
descrizioni sono anche i miei, dunque sì, lo so XD e per quanto riguarda Marcus, io te e Gioielle dovremo formare un fanclub. Questo
capitolo è stato decisamente più movimentato, ma siccome
tutte le mie impressioni sul caso te le ho comunicate in separata sede, non mi
ripeterò.
Dico solo
che Alex mi sta peggiorando. Poverino, e all’inizio mi stava anche simpatico
(il classico esempio di persona che si flasha anche
quanti nei ha un suo personaggio).
Spero che
sia stato di tuo gradimento, al limite della decenza
XP.
angel15: Se
quello era un capitolo avvincente, io potevo tranquillamente farmi suora XD
anzi, meno male che ti è piaciuto, altrimenti sai che spreco di tempo?
In ogni caso, ti ringrazio molto per il commento; eh sì, Joshua/Abrahel comincia a farsi
prendere un po’ la mano… chissà, magari scopriremo che negli shinigami si celano emozioni come in tutto il resto del
genere umano (come se non si fosse già capito).
Gioielle: Shichan
mi fa pubblicità XD e che recensione lunga =ç= *gode
immensamente* …vediamo di rispondere a tutto con
calma.
Allora,
intanto i personaggi. Sono felice che Abrahel ti
piaccia, davvero XD solitamente i personaggi così negativi non hanno molto
seguito. E se sei fan della coppia è una cosa buona e giusta, prosegui dritto
lungo la via U____U.
Ebbene sì,
Marcus fa la sua uscita anche qui XD ce l’avevo lì che non faceva niente, poverino, ho pensato di
utilizzarlo. Così avrai più sfaccettature per visualizzarti il personaggio
anche su Rinnega, no?
Infine, ti
ringrazio (mi sto ripentendo, vero?) anche per i vari apprezzamenti sullo
stile. Ho una paura sacrosanta di peggiorare, ora ç____ç
…farò del mio meglio.
P.S. mi
dispiace di averti tenuto sveglia fino a tardi X°DDDD
E con
questo si chiude anche questo capitolo: meno tre alla fine!
Alla
prossima <3