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Autore: Yoko Hogawa    11/09/2009    4 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Wednesday

Wednesday

 

Eric

What Lies Behind

 

 

Aveva creduto che fosse la cosa migliore da fare.

Per diversi motivi, molti ripensamenti e altrettanti sensi di colpa.

Non era giusto lasciare da sola sua madre, si era detto. Anche se Joshua l’aveva avvertita, conoscendola doveva essere comunque molto preoccupata.

Per quello non si era fatto troppi problemi nel prendere la sua roba, ringraziare Joshua alle cinque del mattino seguente – ma quel ragazzo non dormiva mai? – e tornarsene a casa.

Ma ora, chiuso in camera sua con le serrande abbassate a fissare il soffitto, non era più così tanto sicuro della sua benevola pensata.

La prima persona che aveva visto, al contrario di ogni aspettativa, era stato suo padre. E le cose non erano andate come si aspettava.

Gli aveva aperto la porta, sì, gentile da parte sua. Lo aveva guardato... poi, senza dire una parola, aveva girato i tacchi lasciando la porta aperta ed era tornato in cucina.

Niente saluti, niente parole d’apprensione, niente scuse. Niente di niente.

Solo sua madre era corsa ad abbracciarlo mentre suo fratello, chissà perché già in piedi, lo guardava come se dovesse bruciare su un rogo.

In quei momenti... non poté far altro che chiedersi come fosse finita così. Che strada avevano intrapreso per far sì che una cosa simile succedesse?

Si morse il labbro inferiore, portandosi l’avambraccio sugli occhi. C’era penombra nella camera, e improvvisamente anche quella pochissima luce sembrava disturbarlo.

Non sarebbe andato a lezione nemmeno quel giorno. Nessuno della famiglia era uscito di casa, dunque anche Alex saltava scuola, probabilmente.

Magari avevano da fare a casa; tipo rispondere alle incessanti telefonate che suo padre riceveva da ormai due ore, spiegando a buona parte di quelli che chiamavano della sua “reazione allo stress accumulato”, causa ufficiosa del suo comportamento poco adeguato ad un adulto.

Ma Eric aveva pensato subito che quella fosse una balla bene architettata per non mandare a picco l’importantissima, vitalissima squadra di basket giovanile di suo padre. Si dovevano rassicurare i genitori in un qualche modo, ed effettivamente lo stress è una delle cause più comuni di un gran numero di comportamenti inconsulti.

Ma la realtà dei fatti era una sola: suo padre aveva intenzione di fare esattamente quello che aveva fatto.

Anzi, se avesse potuto si sarebbe spinto oltre.

A quel pensiero un brivido gli scese lungo la schiena. Aveva frammentari ricordi del braccio alzato del padre, levato come per colpirlo, e di Joshua che si frapponeva tra lui e quel colpo.

Joshua, che aveva sibilato parole che suo padre aveva temuto. Ma quali? Cosa gli aveva sussurrato all’orecchio?

Non lo sapeva. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avesse spaventato così tanto suo padre, in quel frangente.

A pensarci bene... era da un po’ che rifletteva sul ragazzo. Non era la prima volta che pensava di qualcuno che fosse strano, o diverso dagli altri... ma Joshua Archer scatenava in lui una sorta di istinto represso, che a tratti gli consigliava di stargli lontani, altre volte invece ne sembrava follemente attratto.

Soprattutto per i suoi occhi. Sembravano saper incantare chi li osservava troppo a lungo.

E non si comportava nemmeno come gli altri ragazzi della loro età.

Posato, tranquillo, gentile. Magari si sforzava di assumere un comportamento comune, ma in rari momenti non gli riusciva affatto.

Lui non lo aveva toccato. Mai. Nemmeno per sbaglio. Per tutto il tempo in cui erano rimasti insieme nel suo appartamento, Joshua gli era stato sì vicino, ma mai abbastanza per sfiorare o essere sfiorato, anche inavvertitamente.

Così vicino da sentirne il profumo, particolare e incomparabile anche al più gradevole degli odori, ma mai abbastanza.

Si ritrovò d’improvviso a pensare come fosse al tatto la sua pelle.

Sapeva che era fredda. Se lo ricordava da quando l’altro gli aveva appoggiato la mano sulla fronte, in facoltà... ma non sapeva altro.

Più che altro perché non ci aveva mai pensato. Più che altro perché non ci doveva nemmeno pensare, santi numi! Joshua era un ragazzo! Non si fanno certe considerazioni su un coetaneo maschio, per Dio!

Però...

Già. Non poteva non ammettere che tutti i suoi pensieri finivano per vorticare intorno ad Archer. Sempre e comunque, Joshua era il fine ultimo di ogni ragionamento che cominciava. Aveva attirato la sua attenzione come solo il nuoto era riuscito a fare.

Era un maledetto fissato, doveva ammetterlo con se stesso.

Fu un rumore consuetudinario ad attirare la sua attenzione, distraendolo dal filo di pensieri che aveva cominciato a popolargli la mente. Dei passi, per la precisione, pesanti e cadenzati.

Qualcuno saliva le scale. Ed era sicuro di chi fosse, dato il rumore che faceva.

Si preparò psicologicamente, sospirando pacato e togliendosi il braccio dagli occhi; fu questione di pochi istanti prima che, bussando, Trent non si presentasse sulla porta della sua camera.

Nessuno dei due disse nulla. L’uomo si limitava a fissare un punto qualsiasi del parquet della camera mentre Eric aspettava che l’altro parlasse, che dicesse qualcosa. Lui aveva bussato, dopotutto.

Quando finalmente Trent si decise, erano passati talmente tanti minuti che sentire la sua voce fu una sorta di sorpresa.

« Eric... » chiamò, tuttavia senza ancora guardarlo.

Oh, wow... si ricordava persino il suo nome.

« Mi dispiace. E’ stato un comportamento... beh, non dovevo farlo » aggiunse, cercando parole che, a giudicare dall’instabilità della voce, non trovava.

Tacque, ed Eric non poté fare a meno di rispondere ciò che il padre si aspettava.

Nonostante non credesse al suo pentimento - pensò che fosse un’insistente trovata di sua madre – non riuscì a dire altro che quello.

« Va bene, non preoccuparti ».

Non era quello che avrebbe voluto dire. Avrebbe preferito domandare perché lo avesse fatto, o perché fosse così spudorato nel mentirgli a quel modo. O anche se era diventato uso comune, quello di malmenare i propri figli in pubblico.

Ma qualcosa gli diceva che comunque il padre non avrebbe risposto e, anzi, con quelle parole non avrebbe fatto altro che farlo arrabbiare.

« Bene » pronunciò l’uomo, girandosi nell’evidente intenzione di lasciare la stanza. Ma si fermò con la mano sulla maniglia e un piede sulla porta, proprio in procinto di uscire.

« Conosci da molto quel ragazzo? Joshua... Archer? » domandò poi, e la variazione del tono faceva intuire che la recita era finita, e adesso agiva solo per se stesso.

Eric ne fu sorpreso solo perché non si aspettava un approccio così diretto a quell’argomento.

« Da un po’ » fu la semplice risposta che fornì. Non sapeva come avrebbe reagito suo padre, praticamente il ritratto della serietà e del rispetto delle regole, se gli diceva di avere passato la notte da una persona conosciuta sì e no settantadue ore prima.

Trent sembrò pensieroso per un qualche istante, ma si girò finalmente a guardarlo quando si rese conto che la sua risposta era prettamente insoddisfacente. Però non commentò, né si preoccupò di farglielo notare con il suo solito tono saccente. Anzi, rimase in silenzio.

« Non mi piace » esordì poi: « preferirei che non lo frequentassi » disse, e la sua voce aveva l’intonazione di un ordine ben nascosto nonostante le parole fintamente cordiali.

Non rispose, preferendo di nuovo il silenzio al mare di insulti che si sentiva sulla punta della lingua, pronti ad uscire.

« Eric » chiamò di nuovo l’uomo, fermamente: « non devi frequentare quel ragazzo » chiarì, facendo risuonare l’imposizione per ciò che era.

Non seppe se fu il ficcare il naso nella sua vita privata quello che lo fece innervosire, oppure il pensiero di evitare Joshua da lì in avanti. Non riusciva a sopportare né l’uno né l’altro, e la cosa non lo aiutò a tenere la bocca chiusa e ad ignorarlo come si era prefissato di fare.

« Non sapevo che il mio giro di amicizie fosse improvvisamente affar tuo » disse ironicamente, distogliendo per la prima volta completamente lo sguardo dal soffitto per fissarlo sul volto del padre. Poteva vedere la rabbia inasprirgli i lineamenti del volto, ma anche il tentativo ostinato di non infuriarsi ancora.

Dal canto suo, Eric non riusciva a capire cos’era quell’ostilità nei confronti di Joshua.

Era di sicuro il più serio e il più posato di tutte le persone che conosceva, e l’unica cosa particolare che aveva visto fargli era stato fumare una sigaretta, la prima sera che lo aveva incontrato fuori dal Rock Theatre. Era meglio di tutti i suoi amici messi insieme, persino responsabile nel venire ad avvisare sua madre su dove si trovasse, e questa nuova fissazione di suo padre trovava che fosse priva di fondamento.

Al suo silenzio, Trent ripeté di nuovo il suo ordine: « non voglio che lo frequenti. Viene nella tua stessa università e non puoi di certo non incontrarlo, ma evitarlo sì » continuò: « fallo » concluse infine.

Continuò a non rispondere. Nonstante stesse per esplodere di rabbia non voleva provocarlo, no, era l’ultima cosa che voleva. Per rispetto a sua madre, che doveva essere distrutta nonostante si sforzasse di riportare tutto alla normalità, e per suo fratello.

Forse Trent prese il suo silenzio come un assenso. Fatto sta che sembrò soddisfatto, per il momento, e prima di uscire gli comunicò l’orario del pranzo.

Quando la porta si fu richiusa, e l’uomo tornò rumorosamente al piano di sotto, Eric si rese improvvisamente conto che non sarebbe rimasto in quella casa una notte di più.

Guardò l’orologio sul comodino: le dieci e mezzo del mattino. Robert probabilmente era all’università – ancora non riusciva a capire come riuscisse a frequentare, con tutti i neuroni che la cocaina gli fotteva – ma Doug lavorava in un’officina meccanica, e probabilmente era reperibile.

Allungò malamente la mano sul comodino, afferrando il cellulare ed aprendolo con un rapido gesto della mano. Subito scorse i numeri in rubrica, non faticando a trovare “Douglas” in mezzo a tutti gli altri.

Spinse il tasto verde e si attaccò l’oggetto all’orecchio, ascoltandolo squillare. Fu solamente al sesto squillo che dall’altra parte qualcuno rispose, urlando un “pronto?” per sovrastare il rumore di un motore al massimo dei giri in sottofondo.

« Doug, sono Eric » disse lui, alzando la voce per farsi sentire.

« Pronto? » ripeté l’altro.

« SONO ERIC! » sbottò dunque, quasi urlando a sua volta.

« Ah, Er! » rispose infine l’altro, come al solito fin troppo entusiasta: « che fine avevi fatto, è una mezza esistenza che non ti sento! »

« Venerdì sera non è una mezza esistenza, Doug » precisò lui, ghignando anche se l’altro non poteva di certo vederlo.

« Sono solo dettagli! » ribatté il ragazzo, allontanandosi dal motore in revisione a giudicare dal progressivo scemare del rumore. « Allora, cosa posso fare per te? » chiese poi.

Eric sospirò. « Volevo sapere se avete qualcosa in programma per stasera » chiese poi, rimanendo attentamente in ascolto.

Chiedere a loro dei loro programmi voleva dire posti ambigui con fiumi di alcool e polvere  bianca spacciata quasi in libera vendita. Ma, si disse, probabilmente era proprio quello che gli serviva.

Ci fu della reticenza da parte di Douglas, e poteva chiaramente sentirsi dalla sua risposta tutt’altro che rapida come al solito.

« E’ mercoledì, Er » si lamentò poi, ma si sentiva dal tono che era una sorta di cover story: « io lavoro domani e Rob ha lezione » aggiunse.

Cominciava a seccarsi. Ma con chi credeva di parlare, con un idiota? « Non mi pare che sia mai stato un problema per voi uscire fra settimana. Dunque perché non mi dici la verità ed eviti di farmi incazzare, Doug? Te ne sarei grato, dato che ultimamente non mi gira molto bene » sbottò, iracondo nonostante volesse evitarlo con tutto se stesso.

« ...ho sentito » disse poi Douglas dopo un istante di silenzio: « tu stai bene? » domandò dunque.

A volte dimenticava di questo lato di Douglas. Ovvero quello che sapeva preoccuparsi degli altri, quando non era assopito dal livello d’alcool disciolto nel suo sangue.

Sospirò. « Ho bisogno di uscire di qui » disse semplicemente, racchiudendo in quella frase il suo stato d’animo attuale. Era ormai da qualche minuto che si era pentito di aver lasciato il silenzioso appartamento di Joshua per tornare a ficcare il piede della tana dei leoni.

Dall’altro capo del telefono udì Douglas sospirare, forse ponderando una sua decisione. Infine parlò: « io e Rob non volevamo dirtelo, dato la situazione che hai a casa. Ma abbiamo trovato un locale che vorremo vedere e avevamo in programma di andarci stasera » disse infine.

« Io non guido, ho bisogno di alcool » rivelò, arrendendosi all’evidenza di avere la necessità impellente di una sbronza fatta per bene.

« Non guida nessuno » esordì però Douglas, riuscendo a sorprenderlo: « non è lontano, andiamo a piedi. Ma ti avverto che è un po’... particolare, ecco » tentò di spiegarsi.

Eric, ovviamente, non capì un accidente. « In che senso? » domandò infatti.

« E’ molto libero, mi segui? » commentò, e dal tono Eric si immaginò un ghigno sadica stampato su quella faccia a luna d’agosto.

« No cazzo, non ti seguo » ribatté lui seccato.

Dall’altra parte provenne un suono di disappunto che sembrava un ringhio. « Santo Dio come sei ignorante quando vuoi » commentò Doug, ma non gli diede il tempo di rispondergli per le rime: « è molto riservato, ok? Rob ci ha messo mesi per farsi il giro giusto che ci permettesse di entrare in quel pub. Ci va la gente che vuole... svagarsi senza impegni, capisci ora? Che vuole divertirsi e non gli importa con chi o dove » tentò di fargli capire.

Ci mise poco, questa volta, a collegare tutti i pezzi di puzzle.

« Un bordello?! » sbottò, tappandosi subito la bocca con la mano sperando che dal piano di sotto non lo avessero sentito. Ma i rumori soffusi dello padellare della madre ancora arrivava alle sue orecchie, segno che non si erano fermati ad ascoltare, e che dunque non lo avevano sentito. « Un bordello! Ma siete deficienti?! » sbottò, effettivamente incredulo davanti a ciò che quei due potevano arrivare a fare. Giocare agli alcolizzati e ai cocainomani spacciatori non era abbastanza? Ora anche sul sesso dovevano buttarsi?

« Non è esattamente un bordello! » esclamò a sua volta Douglas, premurandosi di tenere bassa la voce nel caso i suoi colleghi avessero le orecchie troppo sensitive: « è un pub, ok? Tu puoi entrare e limitarti a bere e a ballare. Dico solo che se non sei interessato alla musica, c’è anche la possibilità di un altro tipo di intrattenimento, ok? Ma non è gente del locale. Chi ne ha voglia lo fa con chi vuole, punto, e tutti vengono da fuori. Non è un covo di puttane e non è un bordello, è solo... un servizio in più » spiegò, parlando come se dovesse cospirare chissà quale attentato terroristico.

Ci pensò sopra. La descrizione di un posto simile non lo attirava affatto, ma ancor meno lo faceva l’idea di dover passare almeno altre venti ore facendo finta che fra lui e suo padre non fosse successo niente.

Sentiva di non farcela a fingere di non capire le sue frecciatine, di non vedere la sua espressione disgustata quando lo guardava e a non accorgersi delle sue plateali finte in favore dello status quo.

« Ci sono » decretò ad alta voce: « quanto ci vuole? » chiese poi, sperando di avere abbastanza soldi da parte.

« Quaranta bigliettoni » rispose lui. « Ma, Eric... tutti vanno con tutti, ok? Non ti garantisco che sia una cosa integralmente eterosessuale... o di coppia. Dicono che sia quello il bello del locale » rivelò.

« Immagino » fu il suo semplice commento. Al momento non gliene fragava niente, voleva solo uscire di li.

Ci avrebbe pensato poi, alle conseguenze della sua scelta.

 

Non era un posto che attirava tanto l’attenzione.

Una facciata normalissima e un’insegna anonima, il Scarlet Moonlight aveva tutto quello che si doveva ad un pub e al contempo non aveva niente a che fare con gli altri locali.

Non si sentiva la musica dell’interno, ad esempio; non c’erano spazi all’aperto e nessuno fuori a fumare. C’era solo un’insegna sopra ad una porta anonima, incassata in un muro più che normale, con un mastino di minimo un quintale a fare la guardia fuori dalla porta.

Se l’insegna non avesse specificato “pub” sotto al nome, lo avrebbe volentieri scambiato per un covo di mafiosi.

« Ci siamo, ci siamo! » esclamò Robert esaltato con un sorriso da orecchio ad orecchio. Douglas annuì con la stessa felicità mentre Eric si limitò ad un sorrisetto poco convinto. Stava considerando che non fosse stata un’idea geniale, ma ormai era troppo tardi, e non avrebbe fatto la figura dello stupido dicendo ai suoi amici che se ne tornava a casa.

Così si arrese all’evidenza che sì, avrebbe aspettato al bancone che Douglas si facesse qualsiasi essere deambulante nel locale e Robert spacciasse la roba che si era portato dietro. Figurati se in un locale del genere ti controllavano prima di lasciarti entrare...

Arrivarono all’ingresso in pochi istanti, e subito il buttafuori ebbe la cortezza di squadrarli da capo a piedi.

« Nome? » chiese, minaccioso.

« Lista Wang » rispose subito Robert: « Robert e due amici » precisò.

L’armadio si girò verso una cartelletta attaccata al muro, osservandone i nomi per qualche istante. Quando arrivò a quello pronunciato da Robert, fece un rapido accenno con il capo e gli aprì la porta.

« Wang? » domandò Eric una volta all’interno, dove furono accolti dalla ragazza della biglietteria e dal suo ghigno compiaciuto.

« Oppiomane » spiegò brevemente Robert: « è lo spacciatore più quotato di questo posto, ci ho messo settimane per convincerlo a metterci in lista » completò, estraendo i quaranta dollari dalla tasca dei jeans e passandoli alla ragazza, che gli stampò un timbro sulla mano destra.

Eric non stette a guardare cosa rappresentava il timbro; era deciso a ricordare meno roba possibile di quel posto e non voleva altro che raggiungere il bancone, ordinare il drink più alcolico in menù e sedersi.

Evitò con cura lo sguardo affamato della ragazza, seguendo gli amici giù per una lunga scalinata. Sembrava che la sala vera e propria fosse nel semi-interrato, o addirittura in una sorta di cantina; forse era per quel motivo che la musica, da fuori, non si sentiva.

Cominciò a sentirla a metà delle scale, e una volta arrivato alla loro fine si trovò davanti il locale più stravagante che avesse mai visto.

Assomigliava tantissimo ad un ritrovo di vampiri degli action movie che guardava con Alex quando non aveva niente da fare. Era in penombra, con luci soffuse a volte rosse altre bianche, disseminato di corpi che si muovevano a ritmo di musica. Niente sedie o tavoli, solo divanetti che ovunque si guardasse erano occupati da persone intente a fare di tutto fuorché prestare attenzione al mondo attorno a loro. Fra loro, un uomo in completo elegante aveva inginocchiato fra le gambe un giovane in convers e jeans impegnato con la bocca a fare qualcosa di così ovvio, che Eric non ebbe nemmeno lo stimolo di rimanerci male.

« Bel posto... » sussurrò ironico, individuando con gli occhi la porta di un privè. Beh, almeno i rapporti sessuali veri e propri si riservavano di non farli davanti a tutti gli altri, nonostante non si prestasse una generale attenzione alla “zona divanetti”.

Non ascoltò la risposta degli altri, limitandosi a passare in rassegna la stanza. Individuò il bancone, ma nel farlo incrociò lo sguardo di una donna – probabilmente sulla trentina a giudicare dal volto – così eloquentemente diretto a lui che improvvisamente si pentì di avere indossato quella camicia bianca quasi trasparente e quei jeans chiari un po’ stracciati. Era un abbigliamento fin tropo sexi per un posto in cui attiravi l’attenzione anche con un cappotto addosso.

« Vado al bar » decise poi, dicendolo ad alta voce per avvertire gli amici. Senza aspettare le loro risposte – e lo loro raccomandazioni, si disse – si diresse a passo svelto verso il bancone senza più incrociare nemmeno uno sguardo; fissò le piastrelle per tutto il tragitto finché non si fu seduto.

Ordinò un Long Island. Non era uno dei drink più alcolici, ma considerato il suo grado di resistenza era più che sufficiente.

Solo quando ebbe il bicchiere fra le mani – e ne ebbe bevuto tre quarti come fosse acqua – alzò lo sguardo, puntandolo sulle persone in pista.

Non poteva non ammettere di essere affascinato dal loro strusciarsi sincopato. Alcuni seguivano semplicemente la musica, ignari del mondo e delle persone contro cui andavano inevitabilmente a sbattere; ma alcuni di loro erano intenti ad esplorare i corpi d’altri con le mani, facendole scivolare lentamente sotto le magliette, o all’interno delle vertiginose minigonne. Notò un paio di ragazze guardarsi con espressione particolarmente languida, poi decidere con un cenno del capo di dileguarsi in direzione dei privè.

Ordinò un altro Long Island, finendo in un unico sorso quel poco rimasto nel bicchiere. Cominciò molto presto a sentire il famigliare effetto di leggerezza portato dall’alcool, unito al calore diffuso lungo tutto il corpo. Bevve ancora.

Aveva sentito molte volte la frase “bere per dimenticare”, ma non ci aveva mai creduto. L’alcool dava effettivamente un primo momento di sollievo, come se i problemi scomparissero in una nube di fumo, ma non si potevano evitare per sempre. Era quando quel senso di leggerezza svaniva che essi ripiombavano fra capo e collo più pesanti di prima.

Lui aveva la brutta abitudine di saltare tutta la prima parte. Forse perché pensava troppo.

Era sempre preda di quelle che si chiamavano “sbronze tristi”, in cui avrebbe avuto voglia di pensare e ripensare continuamente a tutto ciò che lo atterriva per far sì che potesse sotterrarlo nella depressione ancora di più.

Il barman gli portò la seconda ordinazione, e lui ne bevve un’altra metà senza nemmeno prendere fiato. Sentiva che stava per dargli alla testa, ma non si sarebbe comunque fermato. Aveva deciso di ubriacarsi per bene, a costo di stare una merda la mattina dopo, ma voleva disperatamente avere qualche ora di sollievo per dimenticarsi di tutto e tutti.

Di suo padre, per esempio. Dei suoi scatti d’ira e delle bugie che gli rifilava come sante verità.

Sentì un moto di disgusto e bevve di nuovo, finendo il bicchiere.

Non ci volle molto prima che l’effetto dell’etanolo di facesse sentire appieno, facendogli provare la sensazione di galleggiare in mezzo ad una piscina. Quasi sorrise a se stesso; nonostante non fosse esattamente ubriaco, e riuscisse ancora a fare ragionamenti abbastanza coerenti, riusciva a sentire l’euforia tipica di un’overdose alcolica.

Ordinò un terzo drink e, nell’attesa, tornò con lo sguardo alla pista.

Ora tutti quei corpi, quello strusciarsi e quei toccamenti avevano un effetto completamente diverso. L’inibizione stava finalmente andando per altri lidi e riusciva a trovare quei movimenti sensuali stranamente eccitanti.

Per quel motivo non evitò le occhiate decisamente invadenti che un ragazzo, un biondo con i capelli a spazzola e una camicia nera aperta per metà su un petto ben allenato, gli lanciava.

Prima sporadicamente, poi sempre più insistentemente finché non guardò lui e solo lui.

Poteva rifiutarlo, pensò. Poteva semplicemente smettere di guardarlo come se fosse la cosa più interessante in quel posto e l’altro se ne sarebbe fatto un motivo, scegliendo qualcun altro per il suo palese gioco di seduzione.

Invece no, continuò a fissarlo. E fece scattare, negli occhi dell’altro, quell’ingranaggio che decretava la differenza fra predatore e preda. E di certo era Eric la preda, tra i due.

Poco male.

Bevve qualche sorso del terzo drink, cedendo fin troppo facilmente al cenno del capo del biondo, che gli indicava un divanetto libero dall’altro lato dell’enorme stanza. Robert e Douglas non erano già più in vista, e questo gli diede quel pizzico di coraggio necessario ad annuire, alzandosi dallo sgabello del bancone.

Stava facendo una cazzata, e il suo cervello glielo stava urlando in svariate lingue. Ma al contempo ne era consapevole e, anzi, non vedeva l’ora.

Si sentiva improvvisamente in grado di fare sesso con un ragazzo, uno sconosciuto, in un locale dalla fama ambigua con almeno un 30% di alcool nel sangue. Non era minorenne, non ci sarebbe stata alcuna violenza... ma la soddisfazione di presentarsi davanti a suo padre e descrivere punto per punto quell’esperienza era divenuta in pochissimi istanti una prospettiva fantastica.

La speranza che a Trent prendesse un infarto sul momento era un ottimo incentivo per perseguire lo scopo. Cosa che fece, raggiungendo l’altro in poco tempo.

« Ti ho notato, al bar... » attaccò subito quello, scostando lo sguardo lungo tutto il suo corpo. Lo studiava, si vedeva, e si leccò le labbra quando arrivò in zona glutei. « Non sei male, veramente. Anzi... » aggiunse, prendendo posizione sul divanetto e invitandolo ad accomodarsi al suo fianco.

Sorvolò sul gesto. Fosse stato per lui, in quel momento poteva anche decidere di spogliarlo e farselo davanti a tutti che non gli sarebbe cambiato il mondo. Meglio: più testimoni a confermare la storia a suo padre, che sarebbe veramente schiattato con un attacco di cuore in piena regola.

« Onorato » rispose ai complimenti, prendendo posto accanto a lui. Aveva gli occhi scuri, notò.

« Senti, mettiamo subito le cose in chiaro dolcezza, ok? » esordì l’altro, avvicinandosi talmente tanto che nell’aria aleggiò per un istante l’odore forte di fumo di sigaretta: « tu mi sembri un tipo che va al sodo, dunque sarò sincero. Ho la ragazza, ma mi piace scopare anche uomini. Stanotte ho scelto te » disse, piegando le labbra in un sorrisetto malizioso. « Niente pippe di nessun tipo, del tuo nome non me ne può fregare di meno. Staremo qui cinque minuti, giusto per galanteria, poi ho tutta l’intenzione di farti arrivare in una delle camere di quel privè. Se ci stai ripensando sei in ritardo, dovevi rifletterci meglio prima » terminò, anticipando nel suo egocentrico discorso tutto quello che voleva dire.

Da quella mania di comparare le persone a giocattoli, poteva quasi intuire che fosse qualche figlio di papà troppo annoiato dalla vita facoltosa che faceva, per divertirsi con film e pop-corn.

Ghignò, in rimando alla sua uscita. Il pensiero di non voler trovarsi lì gli sfiorò la coscienza per un attimo, ma poi si perse nella nebbia con cui i Long Island avevano contribuito a formare nel suo cervello.

« E’ un peccato... » sussurrò, fissando il biondo direttamente negli occhi: « avevo calcolato di trovarmi nudo in tre minuti. Beh, vorrà dire che porterò pazienza » pronunciò.

Lo stava sfidando. Lo stava fottutamente sfidando a fare di lui quello che più gli aggradava.

Era un idiota, si stava comportando come un imbecille patentato. Ma è difficile controllarsi quando una porcheria alcolica te la fa sembrare un’idea meravigliosa.

La risatina che il ragazzo si lasciò sfuggire aveva un qualcosa di malefico... o malato. Ma ovviamente non era abbastanza vigile per dare importanza a quel fatto.

« Ho fatto un’ottima scelta, davvero... » sussurrò, più a se stesso che ad Eric, non perdendo tempo in ulteriori chiacchiere: la sua mano arrivò velocemente sul suo collo, cominciando a scendere lungo il busto da sopra la stoffa della camicia bianca, saggiando ogni centimetro di pelle che riusciva a finire sotto il suo tocco.

Fu un ragionamento malsano, il suo, ma non riuscì ad impedirselo. Mentre la mano dello sconosciuto scivolava più in basso, posandosi con energia sulla patta dei suoi jeans, Eric cominciò a pensare a come sarebbe stato, se quella mano che lo toccava così impudentemente fosse stata di Joshua.

E non riuscì a stupirsi del fatto che lo trovasse... piacevole.

Certo, probabilmente sarebbe stato diverso.

Innanzi tutto più gentile. Il moro non aveva l’aria di essere un tipo irruento o frettoloso, lui non sarebbe arrivato a toccarlo subito; era quasi convinto che avrebbe preso tempo, mettendo in atto tutti quei preliminari che di solito si fanno, anche con le donne.

Sì, aveva proprio quell’impressione.

E poi, la temperatura della sua pelle. L’unica cosa che sapeva con certezza, era che Joshua aveva la pelle fredda. Le sue mani lungo il torace dovevano essere come acqua fredda, e sarebbero scese sempre più in basso, sempre più oltre...

« Hai già avuto altre esperienze? » fu quella la voce che lo riportò alla realtà.

La risposta, chissà perché, fu però abbastanza veloce: « solo con delle donne » ribatté sincero.

« Ooooh... » esclamò il biondo, estasiato da quella rivelazione: « non avendo avuto prima rapporti con altri uomini, questo ti rende un verginello... non posso credere a così tanta fortuna » disse, scivolando distrattamente con la mano sul suo interno coscia per poi tornare su, saggiandogli le labbra con il pollice: « spero mi permetterai di baciarti » domandò retorico.

« Perché, ti serve chiedere? » ribatté Eric, il tono scocciato sia per il nomignolo affibbiatogli che per l’interruzione che era stato obbligato a subire.

L’altro non fece altro che ghignare, leccandosi di nuovo le labbra: « Sai, credo che raggiungeremo un luogo più appartato in meno tempo del previsto... »

« Io credo di no ».

Se Eric non fosse stato convinto di esserselo solamente immaginato, probabilmente sarebbe sobbalzato per la sorpresa. Certo, avrebbe riconosciuto la voce di Joshua ovunque; ma pensare che comparisse improvvisamente in un locale simile era fuori discussione persino per il suo cervello in stand-by.

Ma quando il ragazzo che lo aveva adescato si voltò verso destra con l’espressione scocciata di chi è stato interrotto – la stessa che aveva assunto lui qualche istante prima – capì che quella voce che aveva sentito, la sua, non era frutto di un’allucinazione uditiva.

In piedi accanto a loro c’era veramente Joshua Archer, fasciato in tutta la sua letale bellezza da un paio di jeans neri e una camicia di seta del medesimo colore. Accostati ai capelli corvini, poi, i suoi occhi color del ghiaccio risaltavano ancora di più.

« Scusa, tu saresti? » domandò il ragazzo, fissando il moro come se dovesse prenderlo a pugni a seconda della risposta che avesse fornito.

Ma fu nell’istante in cui Joshua voltò lo sguardo in sua direzione, fissandolo con quegli occhi che solo Dio sa come glieli abbia dati, che il biondo tacque e ritirò le mani da Eric.

E un brivido scese lungo la spina dorsale di quest’ultimo, svegliandolo da quella sorta di trance.

Stava per farsi scopare da un uomo appena incontrato. E, allo stesso tempo, stava pensando che non sarebbe stato male se fosse stato Joshua, invece, l’autore dell’atto.

Se si vergognò come un cane non seppe dirlo; era troppo impegnato a fronteggiare lo sguardo apparentemente scocciato - o deluso? - di Archer, che sembrava chiedere mutualmente a lui cosa stesse facendo e bruciare vivo con gli occhi il biondo adescatore contemporaneamente.

« Andiamo » fu il suo semplice ordine, unito alla sua mano fredda che si stringeva sul polso e lo trascinava lontano da quei divanetti rossi.

 

Tempo due minuti, e l’aria fresca della notte gli investì il viso. Gli sembrava di essere appena uscito da un forno, e col senno di poi la metafora non era affatto sbagliata.

Camminarono per un po’, in silenzio, percorrendo un marciapiede stranamente poco affollato. Quella strada correva quasi parallela ad Heaven’s Park, dunque in lontananza potevano vedersi le ombre frondose degli ippocastani del sentiero a ovest del parco.

Joshua non parlava, non si girava a guardarlo, non faceva assolutamente nulla. Camminava di qualche passo avanti ad Eric, che ogni tanto faticava a tenere un’andatura diritta.

« Hai intenzione di evitare di parlarmi per tutta la sera? » sbottò il castano d’improvviso, fermandosi in mezzo al marciapiede.

Odiava dover stare al fianco di una persona che conosceva senza riuscire nemmeno a parlarci, e il testardo mutismo di Joshua non lo stava assolutamente aiutando.

A sua volta, il moro si fermò. Si girò in sua direzione non con il solito sguardo cortesemente gentile, ma con l’espressione seria di chi ha visto fare qualcosa che non è di suo gusto e nessuno vi ha ancora posto rimedio. Esattamente come se fosse un nobile deluso dal comportamento di uno dei suoi servi.

Eric si sentì in colpa, per un istante.

« Cosa c’è? » disse poi: « non sono affari tuoi dove passo la serata e cosa faccio » completò, anticipando o inuendo dallo sguardo a cosa Joshua stesse pensando. Glii sembrava di stare parlando con suo padre, e quella era un’immagine che più di molte altre non voleva accostare a Joshua.

Archer non rispose subito, rimanendo semplicemente fermo a guardarlo. Non sembrava particolarmente arrabbiato, così non appariva toccato dalle parole appena sentite; ma c’era come un’ombra di dubbio sul suo volto, e la sua mente sembrava occupata a sbrigliare qualche intricato pensiero di chissà quale tipo.

Dopo altri istanti di silenzio, alla fine Eric riuscì a sentire la sua voce: « è vero » gli concesse: « ma stai attento a dove porti il culo, prima di pentirti di quello che fai » lo avvertì, ma nella voce non aveva il tono di un genitore apprensivo, o quello preoccupato di un amico fidato. Era un avvertimento puro e semplice, disinteressato, come quelli dei poliziotti o dei professori.

Per un qualche motivo che non riuscì ad inquadrare, si sentì uno stupido.

All’improvviso si era reso conto che Joshua non aveva particolari considerazioni per lui. E, in tutta sincerità, non sapeva nemmeno cosa si aspettasse lui.

Che cosa voleva che fosse? Cosa desiderava che facesse? Che fosse suo amico dopo solo alcuni giorni che si conoscevano? Che gli volesse bene, magari?

Non poteva illudersi così. Stava solamente cercando doppi significati dietro ad un gesto, come quello di tirarlo fuori da quel locale, che non ne aveva.

Jshua Archer non sarebbe stato niente più di Joshua Archer. Per chiunque.

E lui era... disperatamente affezionato. E non se ne era nemmeno accorto.

« Vattene a fanculo... » sibilò ferito, abbassando lo sguardo e oltrepassandolo con il passo più stabile che fu capace di racimolare. Non sentì Joshua chiamarlo – perché se lo stava aspettando, allora? – fermarlo in un qualche modo. Semplicemente, quando si girò vinto dalla curiosità, l’altro non c’era più.

Sparito.

Per qualche minuto, guardò una piastrella particolarmente normale sotto la luce del più vicino dei lampioni. Non pensava a nulla, solo al silenzio, ma non riusciva a muovere un solo passo per andarsene da quel luogo.

Forse sperava di vederlo riapparire. Forse voleva che lo facesse.

Forse perché vedeva in Joshua il solo aiuto possibile per passare lontano da casa ancora qualche ora, prolungando il suo vagare notturno per non dover guardare ancora negli occhi suo padre e affrontare la situazione in cui era finito. La mano bianca del moro era l’unica tesa in sua direzione, l’unica che aveva già afferrato una volta, e ora non riusciva a vederne altre se non quella.

Voleva afferrarla ancora. E voleva che Joshua tenesse stretta la sua.

Perché era rassicurante e... perché era un maledetto egoista.

Chiuse gli occhi, dandosi mentalmente del ridicolo. Tanto valeva tornare a casa, dato che altri quaranta dollari per rientrare al locale non aveva motivo di spenderli.

Ma da qualche parte il destino si era riservato qualcosa di particolare, per quella sera.

« Oh, finalmente ti ripesco, dolcezza » sentì da poco distante, e solo il pronunciare dell’ultima parola fu sufficiente a fargli venire alla mente con chi aveva a che fare.

Non era possibile che fosse incappato in un fissato...

I suoi occhi si posarono su quelli scuri del ragazzo biondo incontrato al locale, a loro volta fissi sui suoi. Un sorrisetto strano incurvava le labbra sottili, e adesso era sufficientemente vigile per riuscire a percepire la pericolosità di quell’espressione.

Non si era arreso, glielo si poteva leggere in faccia.

Voleva lui.

Ghignò, chissà perché spinto dal suo istinto. Per la seconda volta si ritrovava a sfidare quel ragazzo, e per un qualche strano motivo si divertiva anche. « Com’è piccolo il mondo » disse dunque, senza però muoversi di un passo.

Era deciso a parlarci civilmente. Erano esseri umani, se gli spiegava che gli era passata la mania di protagonismo si sarebbe risolto tutto in pochi istanti.

Ma ovviamente una visione talmente ottimista non poteva essere nemmeno lontanamente possibile...

« Piccolissimo, infatti » rispose l’altro, avvicinandosi a lui in pochi passi finchè non gli fu ad una distanza decisamente troppo ravvicinata, per i suoi gusti. « Spero che tu non abbia intenzione di lasciare in sospeso il nostro “discorso” » gli disse, sorridendo malizioso: « cominciavo a divertirmi, sei un tipino interessante... » sussurrò, abbassando la voce man mano che anche la sua mano ricominciava a scendere lungo il suo corpo.

Eric la fermò prima che potesse avvicinarsi alla cintura.

« Desolato, ma mi sono ricordato di avere altri impegni » ribatté: « sarebbe un peccato se i miei amici non mi vedessero arrivare per colpa di una scopata... e poi il locale è pieno di gente, no? Sono sicuro che... »

« Tu non hai capito, ragazzino » lo interruppe però il ragazzo, distogliendo la mano dalla sua presa e afferrandogli il mento: « sono io che faccio le regole qui, e se decido di fottermi qualcuno non lo lascio scappare. Tu sarai sotto di me stanotte, volente o nolente » concluse, stringendo la sua mascella con la mano.

Aveva molta forza, ma non era paragonabile alla sua. Il nuoto lo aveva fortificato, e il basket aveva limato i suoi muscoli.

Fu facile liberarsi con uno strattone.

« Spiacente, dovrai scoparti qualcun altro » decretò, la voce ferma e decisa nel rifiutarlo di nuovo.

Ma il biondo non sembrò particolarmente deluso, anzi. Il suo sorriso prese una nota di sadico divertimento mentre faceva un cenno a qualcuno alle sue spalle, nascosto nell’ombra del lampione.

Spuntarono fuori altre tre persone, ed Eric sentì all’improvviso la sensazione di essere veramente nei guai.

« Ti presento i miei amici, dolcezza » gongolò il biondo, incrociando le braccia al petto: « sono persone con gusti molto particolari, sai... per le violenze sessuali vanno matti ».

Ebbe quasi la sensazione di aver sentito il proprio cuore mancare di un battito nello stesso istante in cui la paura gli bloccava la bocca dello stomaco. Non riusciva esattamente a vedere i volti dei suoi tre “amici”, ma di sicuro vedeva le loro spalle robuste e i loro bicipiti decisamente troppo grossi per stare nelle magliette che portavano.

Nonostante anche lui non fosse messo male a forza, non arrivava a quel livello; e comunque, tre contro uno era una prova troppo grande per le sue minime esperienze di street fight.

Senza accorgersene, cominciò a respirare più velocemente. Cominciava ad avere sinceramente paura.

Non si mosse mentre i tre gli si avvicinavano, coprendogli buona parte della visuale. Avrebbe potuto correre, sicuramente sarebbe stato più veloce di loro... ma dietro di lui c’era il parco, e nemmeno nei suoi più masochistici pensieri si sarebbe infilato in un parco così grande inseguito da un maniaco sessuale figlio di papà e i suoi tre scagnozzi. Era come invitarli a cena con te stesso come portata principale.

Eppure non aveva altre possibilità. Combattere con loro voleva dire farsi sbattere a terra nel giro di venti secondi.

E allora addio fichi.

Si mise in posizione di difesa, i pugni alti come gli aveva insegnato suo padre quando tiravano arie migliori. Li vide ridere di lui, ma non si demoralizzò.

Quando il primo di loro gli prese il polso con forza, la sua reazione istintiva fu quella di tirargli un dritto direttamente sul naso. Ci mise tutta la forza di cui era capace, lanciando in avanti con il pugno anche la spalla, ed effettivamente l’uomo lo sentì, perché lo lasciò andare coprendosi il naso con la mano. Ma subito il secondo gli fu addosso, e nonostante fosse riuscito con una certa difficoltà a liberarsi anche di lui non vide il terzo, la cui mano scattò veloce andando a colpirlo allo stomaco con un pugno.

Gli mancò il respiro e sentì in pochi secondi un dolore sordo concentrato nel punto in cui era stato colpito.

Tossì e, privo di fiato, si piegò su se stesso finchè non fu inginocchiato a terra; lì fu poi bloccato, disteso sul cemento finché le spalle non furono a pieno contatto con esso e immobilizzato a dovere con le mani sopra il capo.

« Ottimo lavoro » ridacchiò il biondo, che in tutta l’azione era rimasto in disparte: « e non avete colpito il viso, siete stati molto bravi... ora tenetelo... » ordinò in un sussurrò borioso, mostrando in un istante la sua faccia dilaniata dal desiderio di chinarsi e usarlo come meglio preferiva.

Tentò di liberarsi ma fu inutile, i tre che lo trattenevano erano come catene, forti del loro vantaggio numerico.

Stava per essere violentato come un ragazzino imbecille. Stava per essere... non riusciva nemmeno a pensarlo.

Tutto perché voleva fare il fenomeno. Tutto perché non aveva dato ascolto all’istinto e aveva deciso di spegnere il suo cervello versandoci sopra dell’alcool.

Tremò, si morse il labbro inferiore... ma non diede la soddisfazione al biondo, ormai sopra di lui, di piangere.

Non sapeva più quantificare quanta paura provasse ma mai, mai avrebbe dato la soddisfazione a qualcuno come quel figlio di puttana di vederlo piangere.

E lui sorrideva, da quella posizione dominante in cui si sentiva sicuramente così bene. Ghignava sadico, famelico, probabilmente pregustandosi il momento. Erano in mezzo ad una strada ma in giro non c’era nessuno... non era possibile che fosse così sfigato...

Ripensò a Joshua. Se ne era andato perché lui non voleva ammettere la ragione delle sue parole. Non aveva niente da spartire con uno che aveva conosciuto si e no da qualche giorno, così se ne era andato. Magari aveva controllato che riuscisse a reggersi in piedi... e se ne era andato.

Strinse i denti a sentire le dita rudi del ragazzo slacciargli uno ad uno i bottoni della camicia, infilarsi sotto la cintola dei jeans e carezzare la pelle del bassoventre...

Chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio.

Ma il peggio non arrivò.

Sentì i respiri trattenuti delle persone che ancora lo tenevano fermo, una sorta di rantolo e la sensazione che l’aria attorno a lui si fosse fatta improvvisamente più fredda. Poi le tre persone lo lasciarono andare, gridando, e scapparono via.

Quando riaprì gli occhi, una delle scene più strane e rivoltanti gli si presentò nuda e cruda davanti agli occhi.

Joshua era in piedi alle spalle del ragazzo dai capelli biondi, ancora a cavalcioni sopra di lui. Una delle sue mani era conficcata nella schiena dell’altro, che aveva sul volto un’espressione a metà fra il più orribile dei dolori e l’incoscienza: i suoi occhi scuri erano vitrei nonostante la smorfia della bocca facesse presagire un urlo nascosto in gola.

Eric rimase letteralmente paralizzato dal terrore.

Scostò lo sguardo su Joshua, cercando in esso una qualsiasi spiegazione, ma non ne ottenne. Anzi... notò con orrore che gli occhi del ragazzo non erano più del particolarissimo colore azzurro chiaro che tanto lo aveva attirato, no. Erano proprio... bianchi. Erano bianchi.

Osservava la sua stessa mano affondare dentro il torace del ragazzo senza la minima inflessione emotiva. Non sorrideva, non ne era disgustato, non... faceva niente. Era come se quella fosse prassi, abitudine, e si sa: la normalità non da altro che noia.

« E’ a causa di gente come te che gli esseri umani mi fanno schifo » pronunciò poi, alzando appena il capo e guardando la testa bionda della sua vittima – perché altro non poteva essere! – dall’alto in basso. Voltò poi lo sguardo in direzione di Eric... e il contatto diretto con quegli occhi così anormali provocò in lui una nuova scarica di puro terrore.

Ogni fibra del suo corpo gli diceva di scappare, di nascondersi da Joshua, o da qualunque accidenti di cosa fosse. Perché, dai! Quell’affare non era umano!

Joshua non disse nulla, però. Si limitò a lanciargli una semplice occhiata prima di tornare alla nuca della sua vittima. « Non ho mai strappato un’anima da un corpo con le mani, le nostre regole ce lo vietano... sono proprio curioso di vedere se fa veramente male come dicono » spiegò incolore, come se il ragazzo biondo potesse sentirlo.

E probabilmente poteva: perché deformò la bocca in un’espressione strana nonostante i suoi occhi fossero comunque vuoti ed inespressivi.

Ma non fiatò. Probabilmente non aveva più la voce necessaria per farlo.

Il cervello di Eric non riuscì a pensare a niente, al contempo. Vedeva solo la faccia contorta dal dolore della persona che stava per violentarlo, e la persona a cui si sentiva assurdamente più affezionato guardarlo come un Dio che per gli uomini prova solo puro disprezzo.

Non collegò il cervello quando, girando la mano, l’urlo del ragazzo finalmente proruppe fra le sue labbra. Non si curò di dare peso alle parole appena sentite, quando Joshua prese ad estrarre con lentezza la mano dal suo corpo, come se ne tirasse fuori qualcosa.

“Gli sta strappando il cuore con le mani”, pensò per assurdo. Ma non c’era sangue, e l’altro non sarebbe stato ancora vivo, se veramente fosse stato così.

No, non era il cuore... ma qualcosa sì.

Qualcosa di oscuro, che riluceva paradossalmente di una luce nera. Aveva la forma di un cristallo al cui centro stava una piccola scintilla luminosa che brillava di nero.

La mano di Joshua non era insanguinata, sulla schiena del ragazzo non vi erano ferite. Ma lui l’aveva tirata fuori dal suo corpo, lo aveva visto farlo.

Il corpo del biondo divenne improvvisamente rigido, cadde al suo fianco e... non si rialzò più. Era morto, e nonostante lui non avesse mai visto dei cadaveri non si faticava a crederlo.

Spaventato, terrorizzato a morte, guardò Joshua ancora una volta: fissava il cristallo scuro con l’aria di chi non ha visto altro per l’intera vita e odia con tutto se stesso l’oggetto che tiene fra le mani.

L’altro si voltò poi in sua direzione.

Eric sobbalzò, facendosi istintivamente più indietro con i gomiti sull’asfalto.

Probabilmente il moro notò la sua espressione, che doveva essere decisamente impaurita. Forse fu una punta di tristezza quella che gli attraversò gli occhi – erano bianchi davvero! – in quel momento... ma, se anche era stato, Eric lo ignorò e Joshua tentò di non darlo a vedere.

Però parlò. Un consiglio sussurrato come se fosse un incentivo di rassegnazione.

« Torna a casa ».

Un modo più gentile per dire “fuggi e salvati la vita”.

Eric non se lo fece ripetere due volte e, dando finalmente sfogo all’istinto, si allontanò il più possibile da Joshua Archer.

 

Corse così veloce che non guardò nemmeno dove si stava dirigendo. Così, dopo cinque minuti di corsa sfrenata, si ritrovò suo malgrado a sei isolati da casa.

Troppo sconvolto per pensare ad altre possibili tappe, decise di farvi ritorno.

Aveva bisogno di pensare, di riflettere. Perché quello che aveva visto fare a Joshua non poteva essere vero... qualunque cosa fosse.

Era stato sicuramente un sogno, o un’allucinazione. Poteva avere immaginato tutto in preda ad una sbronza epica, perché no?

Ma non ci credeva nemmeno lui. Sentiva ancora il dolore nel punto in cui era stato colpito, e anche considerando la sua poca resistenza alle bevande alcoliche con tre Long Island non si arrivava a sbronze da allucinazione.

No. Quello che aveva visto era... vero. O almeno lo sembrava.

Non c’erano prove a dimostrare il contrario.

Si portò una mano alla bocca, appoggiandosi con le spalle al primo muro disponibile. Se veramente no si era immaginato tutto... Joshua aveva... ucciso un uomo.

Era un assassino. Lo era... davvero?

Non c’era sangue, non c’era niente; e l’altro poteva essere solo svenuto, no? Era talmente spaventato che poteva aver visto male, dopotutto.

Però... era prettamente sicuro di quello che aveva visto. Il biondo era morto davvero, non respirava neppure.

E cos’era quella cosa che aveva in mano Joshua? Cos’era quella luce nera?

Gli tornarono improvvisamente in mente le sue parole prima di estrarre il cristallo, e rimase a bocca aperta nel contemplare quell’assurdità.

Aveva parlato di anima.

Anima? Com’era possibile?

Non poteva essere.

... o sì? Esistevano esseri umani in grado di staccare l’anima dal corpo?

Ma... Joshua era un essere umano?

« Non è possibile » pronunciò a se stesso ad alta voce, riprendendo a camminare in direzione di casa.

Ovviamente non era possibile. Doveva essere stato tutto uno scherzo.

...ma chi era così malato dei suoi amici da organizzare un tiro simile? Chiedendo la partecipazione di Joshua, persino! Proprio di quel ragazzo che, a parte lui, l’intera università ancora non aveva avvicinato!

Non sembrava possibile nemmeno con una considerevole dose di creatività.

Scosse il capo, ormai in vista di casa sua. Era così scosso, che al momento aveva solamente la necessità di farsi una doccia e infilarsi sotto le coperte, a dormire. A schiarire i neuroni dall’alcool, magari, così che domani mattina avrebbe potuto ragionare meglio sull’accaduto.

Sì, sì... avrebbe fatto proprio così. Avrebbe aspettato la mattina.

Una volta all’ingresso prese la chiave di scorta da sotto il vaso sulla destra. La infilò nella toppa, girò un paio di volte e fece scattare la maniglia. Ma si accorse troppo tardi che la luce della cucina era accesa, segno che i suoi genitori non erano ancora andati a dormire.

Strano. Erano le undici e quarantacinque; solitamente andavano in camera non più tardi delle dieci e mezzo.

Cercando di calmare il proprio cuore impazzito, tolse la chiave dalla toppa, portandola in casa con sé. Non aveva la forza di rimetterla a posto, adesso.

Richiudendosi la porta alle spalle, però, ebbe l’impressione di non essere al sicuro quando suo padre si presentò sulla porta.

Quello sguardo non gli piaceva.

Dietro di lui sua madre, racchiusa tremante nella sua vestaglia, e Alex in pigiama che lo guardava in piedi a fianco della donna.

Ma Eric sorrise, vedendoli. Sorrise come da molto non faceva, sorrise con gratitudine. Perché si era reso conto di avere una famiglia da cui tornare, e questo era quanto.

Perché poteva succedergli di tutto, la fuori, ma lui avrebbe sempre avuto un padre, una madre e un fratello minore al suo fianco. Genitori che magari non lo accoglievano in casa con un sorriso, o con uno scherzo, ma che comunque non gli avrebbero mai fatto del male.

« Papà, io... » cominciò, deciso a raccontargli tutto. Magari poteva consigliargli cosa fare.

« Dove sei stato? » lo interruppe però l’uomo, il tono duro e severo, ruvido come granito.

Eric perse il filo, inquietato dagli occhi iracondi del padre. « Io... » balbettò: « fuori con Robert e Douglas » rispose poi, sorpreso di tutta quell’agitazione.

« Ah sì? » ironizzò Trent: « e avevi intenzione di dircelo quando, domani mattina? » domandò di nuovo, la voce che cominciava a palesare l’irritazione che sicuramente provava.

Se possibile, Eric rimase ancora più spiazzato da quelle parole.

« Io l’ho detto ad Alex » si difese, spostando lo sguardo dal padre al fratello minore: « voi due eravate usciti ed io l’ho detto ad Alex! » esclamò, fissando ora lo sguardo sul fratellino.

« Strano, perché lui non lo sapeva » infierì il padre ed Eric, con suo grande disappunto, vide formarsi un sorrisetto sulle labbra di Alex.

Lo aveva fatto apposta. Non glielo aveva comunicato di proposito.

Per cos’era quella punizione, ora? Che cosa gli aveva fatto?

Sentì il panico crescere in lui. In circostanze normali sarebbe riuscito a mantenere la calma, ma quella sera i suoi nervi avevano avuto un sovraccarico e non ci riusciva, a fare il serafico.

Osservò il padre con un moto di panico negli occhi, ripetendo inutilmente la sua difesa: « Ma è vero! Io gliel’ho detto, lui ha mentito! » esclamò.

« VILE! » sbottò di colpo suo padre, e quello che non successe in piscina ebbe luogo fra le mura domestiche.

Lo colpì.

Un manrovescio di una forza di cui non lo credeva in grado, che bruciò sulla pelle come se fosse stata una lingua di fuoco incandescente a colpirgli la guancia.

Avvertì appena sua madre trattenere rumorosamente il respiro, mentre l’espressione di Alex passava dal gaudio alla sorpresa.

« VILE! » ripeté il padre: « NON SCARICARE LA COLPA SU TUO FRATELLO! »

« Non sto mentendo! » cercò di difendersi, ma il risultato fu quello di avere una replica del colpo precedente.

E anche quello bruciò come l’Inferno.

« TRENT! » urlò sua madre, ma la sua voce impaurita e distrutta non fu sufficiente a fermare la furia del marito, che afferrò Eric per il colletto della camicia e avvicinò il viso del figlio al suo.

« Puzzi d’alcool » constatò: « che vergogna... non credevo di avere cresciuto una persona così cafona ed irresponsabile... » considerò amaramente, lasciandolo andare senza riguardo.

Eric stava per aggiungere qualcosa, qualsiasi. Voleva difendersi, ripetere per l’ennesima volta che lui non centrava nulla in tutto quello, che era stata un’idea di Alex e che aveva... passato la serata più schifosa della sua esistenza.

Avrebbe voluto pregarlo almeno di starlo a sentire... ma le parole che udì dopo gli bloccarono il fiato e la voce in gola.

« A volte mi chiedo per quale sfortunata serie di eventi Dio mi abbia punito con un figlio come te. Alex bastava e avanzava ».

Fu sicuro di aver sentito qualcosa rompersi, da qualche parte.

Forse era un cristallo come quello che Joshua aveva estratto dal corpo del ragazzo biondo... forse ne aveva uno anche lui, e si era rotto...

Non capì più nulla. Non sentì le urla della madre, o del fratello che finalmente faceva la sua mossa per risolvere quella situazione caduta nell’assurdo.

Tutto quello che vide fu la porta, la sua mano che l’apriva e la notte.

Per il resto, i suoi piedi lo portarono il più lontano possibile.

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

Capitolo super lungo… *si accascia a suolo in trauma post-correzione*.

Vi do il permesso di linciare Trent Everald.

Bene, siccome non ho nulla da aggiungere passiamo alle risposte per le recensioni!

 

Shichan: I tuoi rapporti drammatici con le descrizioni sono anche i miei, dunque sì, lo so XD e per quanto riguarda Marcus, io te e Gioielle dovremo formare un fanclub. Questo capitolo è stato decisamente più movimentato, ma siccome tutte le mie impressioni sul caso te le ho comunicate in separata sede, non mi ripeterò.

Dico solo che Alex mi sta peggiorando. Poverino, e all’inizio mi stava anche simpatico (il classico esempio di persona che si flasha anche quanti nei ha un suo personaggio).

Spero che sia stato di tuo gradimento, al limite della decenza XP.

 

angel15: Se quello era un capitolo avvincente, io potevo tranquillamente farmi suora XD anzi, meno male che ti è piaciuto, altrimenti sai che spreco di tempo?

In ogni caso, ti ringrazio molto per il commento; eh sì, Joshua/Abrahel comincia a farsi prendere un po’ la mano… chissà, magari scopriremo che negli shinigami si celano emozioni come in tutto il resto del genere umano (come se non si fosse già capito).

 

Gioielle: Shichan mi fa pubblicità XD e che recensione lunga =ç= *gode immensamente* …vediamo di rispondere a tutto con calma.

Allora, intanto i personaggi. Sono felice che Abrahel ti piaccia, davvero XD solitamente i personaggi così negativi non hanno molto seguito. E se sei fan della coppia è una cosa buona e giusta, prosegui dritto lungo la via U____U.

Ebbene sì, Marcus fa la sua uscita anche qui XD ce l’avevo lì che non faceva niente, poverino, ho pensato di utilizzarlo. Così avrai più sfaccettature per visualizzarti il personaggio anche su Rinnega, no?

Infine, ti ringrazio (mi sto ripentendo, vero?) anche per i vari apprezzamenti sullo stile. Ho una paura sacrosanta di peggiorare, ora ç____ç …farò del mio meglio.

P.S. mi dispiace di averti tenuto sveglia fino a tardi X°DDDD

 

E con questo si chiude anche questo capitolo: meno tre alla fine!

Alla prossima <3

   
 
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