Thursday
Parte
2
Eric
Human I want
to be
C’era
qualcosa che lo teneva stretto, dolcemente protetto in un abbraccio
gentile.
Così
si svegliò quel giovedì pomeriggio, quando ormai
l’orologio sul mobile segnava
le tre e cinque; con la schiena unita al petto di Joshua che, dietro di
lui,
aveva la fronte appoggiata alla sua nuca e un braccio intorno alla sua
vita.
Era
fresca, la sua pelle. Esattamente come l’aveva immaginata la
sera prima, e
sentita quella mattina. Ma nonostante ciò non provava
fastidio, così come non
sentiva freddo e non ne aveva sentito.
Era
stato... bello. Non sapeva come altro definirlo.
La
calma e la gentilezza con cui Joshua lo aveva toccato, sfiorando con le
mani
ogni centimetro di pelle su cui potesse posare sguardo, era stato
talmente
eccitante e delicato da creare un contrasto particolare.
Qualcosa
che non aveva mai sentito, un’eccitazione che non aveva mai
provato.
Quelle
mani fresche su tutto il corpo, la sua bocca a baciare la pelle sottile
del
collo e la lingua a saggiare quella del ventre... le sue labbra avevano
pienamente sopperito all’impossibilità di
baciarsi, dedicandosi con attenzione
ad ogni suo piccolo desiderio, quasi come fossero state create solo per
quel
motivo.
La
lentezza, e l’aspettativa... un misto di sensazioni
incredibile, sentire il
fuoco nelle vene ma il silenzio nelle orecchie, interrotto solo ogni
tanto (e
sempre più spesso) da gemiti che si accorse solo dopo essere
suoi.
Joshua
aveva sfiorato, e carezzato, e toccato, e morso, e graffiato... ogni
parte di
lui, ogni suo segreto, finché non si erano finalmente uniti,
dando sfogo
all’eccitazione e all’impetuosità che
quella passione aveva pian piano fatto
nascere in lui, disinibendo ogni suo controllo.
Il
moro era scivolato dentro di lui con calma, quasi avesse paura di
fargli del
male. E il dolore vi era stato, sì, ma solo per un attimo
prima che fosse
sostituito dal piacere. Prima che lui fosse attratto non più
dal male, ma dal
ritmo crescente delle spinte, e dall’espressione presa di
Joshua; le labbra schiuse
e ansimanti dallo sforzo, le gote arrossate... una visione che non si
sarebbe
mai dimenticato, quella dell’altro che chiude gli occhi
lasciandosi andare alla
pura eccitazione fisica, che intreccia le dita delle loro mani, che si
china
per baciargli la fronte, non potendo baciare le labbra...
Tutte
cose che non aveva mai sentito, prima. Sensazioni che non avrebbe
potuto
percepire durante un rapporto normale, con uomo o donna che fosse,
avuto
semplicemente per gioco o per convenienza.
Invece
no. Stranamente, l’unica entità (si poteva
definire uno Shinigami “persona”?)
che degli esseri umani non avrebbe dovuto conoscere nulla, in
realtà aveva
dimostrato di saper amare meglio di quegli stessi umani.
E
adesso, stretto al suo corpo con le gambe intrappolate in un groviglio
di
lenzuola, sentiva che per nulla al mondo avrebbe rimpianto il momento
in cui
aveva deciso di mettere piede in quella casa.
O,
nonostante la fine a cui era destinato – un brivido lo scosse
al pensiero – non
avrebbe mai smesso di ringraziare chi di dovere per avergli permesso di
incontrare Joshua.
Anche
se non era normale. Anche se non sarebbe durata.
«
Sei sveglio? »
Fu
proprio la voce del moro a distrarlo dai suoi pensieri, facendolo
sorridere
tristemente. Il bello dell’essere voltati di schiena,
pensò incoerentemente,
era quello che l’altro non poteva vederlo in viso.
Non
voleva mostrargli la paura, o la preoccupazione per ciò che
sarebbe avvenuto dopo. Anche se
poteva sembrare un
controsenso pensarlo, era quasi convinto che l’altro avrebbe
vacillato sin
troppo se lo avesse visto preoccupato, o impaurito solo la
metà di quanto lo
era davvero alla prospettiva di chiudere gli occhi e di non aprirli mai
più.
Prese
un respiro, rispondendo: «
Sì. E tu da quanto
sei sveglio? »
domandò.
«
Io non dormo »
ribatté il moro,
sussurrando con le labbra attaccate alla pelle del suo collo, che si
premurò di
baciare.
Eric
arrossì appena, improvvisamente imbarazzato del gesto. Che
enorme controsenso,
dopo quello che c’era stato tra loro...
O
forse era proprio per quello?
«
Chissà che noia »
commentò. Ormai non
riusciva più a stupirsi per cose che riguardavano Joshua.
«
Relativamente »
rispose ancora il
moro: «
russi, lo sai? »
aggiunse, sempre in
un sussurro data la vicinanza fra loro.
«
No, non è vero »
ribatté scuro Eric,
portando la mano sopra quella di Joshua ed intrecciandone le dita.
Sentì
le labbra dell’altro stirarsi in un sorriso sulla propria
pelle: «
e come fai ad
esserne sicuro? »
domandò
strafottente, posando un nuovo bacio appena sotto l’orecchio.
«
Lo so e basta! »
esclamò il castano,
girandosi di scatto quando il gioco prese il sopravvento sul suo
autocontrollo.
E
si ritrovarono fin troppo vicini, perché le loro menti non
fossero attraversate
contemporaneamente dallo stesso pensiero.
Un
bacio. Uno solo. Ne avevano bisogno, lui più
dell’altro.
Era
incredibile quanto il loro piccolo mondo andasse a rovescio rispetto
alla
realtà; solitamente è il rapporto,
l’unione fisica, ciò che si aspetta con
ansia.
Invece
per loro no, era l’opposto. Per loro era il bacio, era il
proibito sfiorarsi di
labbra l’oggetto della mancanza.
E
dal sorriso di Joshua vide che anche per l’altro valevano le
stesse identiche
cose.
«
Non è consigliabile
per te venirmi così vicino... »
disse, e Dio solo sapeva quanto sentire il fiato sulle
proprie labbra non spingesse Eric a fregarsene, e a baciarlo in quel
momento
esatto.
L’autocontrollo
vinse... almeno quella volta.
Si
morse il labbro inferiore, portando lo sguardo da quelle labbra sottili
ai suoi
occhi nivei: «
lo sai che è una
tortura, vero? »
sussurrò appena,
sicuro che comunque Joshua lo avrebbe sentito.
Il
moro annuì, portando la mano destra a carezzargli la
guancia. Non aggiunse
altro però, preferendo tacere su ciò che entrambi
loro conoscevano
perfettamente.
Perché
ormai tutti e due sapevano a cosa avrebbe portato il bacio che prima o
poi si
sarebbero sicuramente scambiati. La mezzanotte di venerdì,
in cui avrebbero
finalmente unito le loro labbra, sarebbe stata anche l’ultima.
Tutte
le volte in cui ci pensava, un brivido freddo non poteva evitare di
scivolargli
lungo la schiena. Aveva paura, non poteva evitarselo, e
l’idea sembrava
diventare ogni volta un peso sempre più grande.
Colto
in fallo da quelle stesse sensazioni, chiuse gli occhi.
Portò la mano a cercare
quella di Joshua, ancora sulla sua gota, stringendola fra le sue.
Sentì quella
mano chiudersi sulla sua prima di essere attirato contro il petto
dell’altro in
un abbraccio, caldo e rassicurante nonostante la temperatura corporea
del moro
non superasse i trenta gradi.
Gli
si fece incontro, sospirando. Quanto doveva essere strana la sua vita,
se
trovava pace fra le braccia di colui che, in un modo o
nell’altro, era motivo e
causa dei suoi guai?
Era
Joshua l’incaricato di ucciderlo, era Joshua che lo avrebbe
fatto. Eppure lui non
fuggiva, non cercava di salvarsi.
No,
lui... lo abbracciava. E ci faceva l’amore insieme, e ci
parlava, e si fidava.
Lo amava.
Era
possibile amare
la Morte.
Di
quell’amore che provano gli amanti... quello era
ciò che sentiva per Joshua,
per quel ragazzo non umano che era entrato nella sua vita nemmeno una
settimana
prima e l’aveva rubata, con l’intenzione letterale
di portarsela via.
«
Eric »
si sentì poi
chiamare, e per dare prova di stare sentendo mosse appena il viso
contro il suo
collo. «
Non ci pensare ora »
aggiunse il moro,
portando le dita fra i capelli in una carezza sulla sua nuca.
Possibile
che fosse un libro aperto?
«
Una cosa facile,
eh? »
ironizzò il
castano, ma cercò seriamente di seguire il suo consiglio.
Quello che voleva, al
dì là di tutto, era rendere indimenticabili gli
ultimi due giorni (ormai uno e
mezzo) che aveva rimasto da vivere.
«
Josh? »
questa volta fu lui
a chiamarlo.
«
Mh? »
rispose l’altro,
senza lasciarlo.
«
Tu... puoi amare? »
domandò.
Si
potevano leggere molte cose fra le righe di quella domanda. Palesi e
non, ma
c’era molto di più sotto quel semplice quesito.
E
suonava quasi egoista, da parte sua. Così come poteva essere
un riflesso di ciò
che provava lui, nonostante fosse passato così poco tempo da
quando lo aveva
conosciuto, e dell’altro non sapesse granché.
Joshua
non rispose subito. Passò alcuni istanti in silenzio,
ponderando probabilmente
la risposta da dargli.
«
Non lo so »
esordì poi.
Fu
quasi sicuro che il suo cuore avesse dolorosamente mancato un battito.
«
Non fraintendermi »
aggiunse però
subito: «
non ho detto che
non ti amo. Ma non ho nessun punto di riferimento per fare un
confronto. Io... »
una pausa, un altro
pensiero fugace: «
non sono abituato,
ad essere umano. Non credo di riuscire a capire cosa sia
l’amore »
disse.
Eric
si sentì quasi sollevato, nel sentire quelle parole.
«
Io credo che
nemmeno gli esseri umani capiscano realmente cosa sia
l’amore. Non sei diverso
da noi »
rispose lui,
sorridendo lievemente ad un pensiero tutto suo.
Joshua
era tutt’altro che l’entità maligna che
veniva dipinta nei libri di storia e
folklore. Se poteva provare affezione per qualcuno – e i suoi
gesti, a dispetto
delle parole, lo dimostravano ampiamente – allora non era
cattivo... non
credeva che potesse esserlo.
Un
piacevole odore di pancetta e uova si diffuse nell’aria dopo
la doccia,
ricordandogli che, effettivamente, sembrava passata
un’eternità dall’ultima
volta che aveva mangiato qualcosa.
Infilandosi
gli abiti della sera prima – solo quelli aveva a disposizione
al momento - uscì
dal bagno attraversando la sala e dirigendosi al cucinotto; Joshua, di
spalle
rispetto a lui, stava probabilmente rigirando le uova di cui sentiva
solamente
lo sfrigolare nella padella.
«
Dove hai imparato a
cucinare se passi così poco tempo nel nostro mondo? »
domandò retorico,
raggiungendolo e appoggiandosi di schiena al ripiano di fianco al
fornello.
«
Non ci vuole una
laurea per cuocere due uova »
fu la risposta dell’altro, che sorrise appena a
sentire la sua risatina divertita.
Lo
osservò per un attimo, soffermandosi particolarmente sulla
quantità di cibo che
aveva cotto: «
suppongo che tu non
mangerai »
esordì poi,
tornando con gli occhi su quelli dell’altro, di nuovo color
del ghiaccio grazie
alla magia delle lenti a contatto.
«
Più tardi »
rispose quello con
un sorriso cortese, che ormai Eric aveva imparato a decifrare come
“è roba da
Shinigami e credimi, non ti piacerebbe saperlo”.
Scostò
con la paletta le uova in un piatto, aspettando che anche la pancetta
si
rosolasse ben bene. L’odore che emanava era fin troppo buono
per Eric, che si
sentiva l’acquolina in bocca.
Si
accorse che Joshua lo stava osservando solo quando i suoi occhi
tornarono sul
viso del moro. «
Che c’è? »
chiese curioso,
sorridendogli.
Vide
il moro alzare una mano in direzione della sua guancia destra,
sfiorando con le
nocche la pelle fresca. «
Non si vede più
nulla »
osservò: «
fa ancora male? »
domandò poi,
gentilmente.
Eric
negò con il capo, ricordandosi solo in quel momento degli
schiaffi ricevuti dal
padre solo la sera prima... anche se ormai sembrava quasi
un’eternità.
L’altro
annuì appena con il capo, togliendo anche la pancetta dal
fuoco per poi
porgergli il piatto. «
Le posate sono sul
tavolo »
integrò, indicando
dietro di sé con un cenno del capo.
Il
castano andò a sedersi, cominciando lentamente a mangiare.
Joshua aveva
ragione: non serve una licenza speciale per cuocere due uova e una
striscia di
pancetta... ma, ora che sapeva,
persino il cibo prendeva un sapore diverso, quasi più buono
del solito.
Già...
le sue ultime uova e pancetta.
Cercò
di non pensarci, sospirando appena. Aveva delle cose da fare prima che
fosse
l’ora, e doveva farle quel pomeriggio. Aveva tutta
l’intenzione di passare la
giornata di venerdì con Joshua... e poi quella sera era
l’occasione migliore di
rinfacciare a suo padre tutto ciò che l’uomo aveva
sempre rinfacciato a lui.
Sì,
non poteva aspettare oltre.
«
Josh »
chiamò dunque,
attirando l’attenzione dell’altro.
«
Mh? »
si fece sentire il
moro, ancora impegnato a sistemare le varie cose usate per cucinare.
«
Oggi pomeriggio ho
bisogno di qualche ora. Devo... fare dei giri »
disse, quasi aspettandosi di sentire
una negazione provenire dall’altro. Magari una qualche regola
che impediva alle
vittime di stare lontane dallo Shinigami assegnato nelle quarantotto
ore prima
del bacio, che ne sapeva?
Ma
l’altro non disse nulla del genere. «
Puoi andare dove vuoi »
gli comunicò
solamente, non aggiungendo altro.
Era
normale, pensò poi Eric; se il dio della morte sapeva sempre
e comunque come
rintracciarlo, che gli fosse stato lontano o vicino non faceva
differenza.
«
Grazie »
ringraziò lui: «
se non ti secca, vieni
stasera intorno alle nove al Palazzetto dello Sport in centro.
Sarò lì... poi
tornerò a casa con te »
aggiunse, smettendo
di mangiare per sentire l’eventuale risposta.
«
Non mi secca »
rispose l’altro,
appoggiandogli una mano sulla testa: «
fai quello che devi, stasera ci sarò »
disse, con un tono
che sembrava una pacata promessa.
Chissà
perché, ma Eric aveva l’impressione che, al di
là del suo “lavoro”, le promesse
di Joshua fossero di quelle - rare - che valevano veramente qualcosa.
Rientrare
a casa non fu difficile a quell’ora del pomeriggio, in cui
nessuno avrebbe
dovuto esserci. Suo padre al lavoro, sua madre a far spesa e suo
fratello al
doposcuola; la situazione ideale per lui, dato che non avrebbe
incontrato
verosimilmente nessuno di loro.
Si
chinò a prendere la chiave di scorta sotto al vaso,
ritrovandola al solito
posto di sempre. Infilandola nella toppa, e girando due volte, essa si
aprì
senza sforzo.
Strano
che suo padre non avesse già provveduto a sostituire le
serrature.
Beh,
magari non aveva ancora avuto tempo, ecco.
Appoggiò
la chiave sul mobile all’entrata, richiudendosi la porta alle
spalle.
Attraversò il salotto a passo svelto, salendo rapidamente le
scale fino ad
arrivare in camera sua, disordinata esattamente come l’aveva
lasciata il
pomeriggio precedente. Si tolse jeans e camicia gettandoli da qualche
parte sul
letto, estraendo dal cassetto dell’armadio biancheria pulita
e vestiti più
comodi: un altro paio di jeans, questa volta scuri, maglietta di cotone
e una
delle sue felpe a cerniera. Raggiunse il borsone della piscina,
svuotandolo
dell’occorrente per il nuoto per poi cominciare a riempirlo
con abiti a caso.
Non
gli sarebbero serviti a molto, ma credeva fosse molto meglio che a casa
pensassero che se ne fosse andato. Se avesse lasciato tutti i vestiti
in
camera, probabilmente avrebbero pensato che non fosse poi molto
lontano, o che
avesse intenzione di ritornare.
Cosa
che non sarebbe comunque mai successa.
Perciò
non voleva dare false speranze almeno a sua madre, obiettivo di quella
piccola
recita.
Nella
foga che mise nel riempire il borsone con tutto quello che gli capitava
sotto
mano, improvvisamente la mano afferrò il portafoto sul
comodino, in cui era
incorniciata la foro di famiglia di quasi sei anni prima.
Si
fermò, pensieroso, aggrottando le sopracciglia.
Cosa
stava... facendo?
Alzò
lo sguardo alla parete sopra al letto, osservando le varie foto
incorniciate
sulla mensola. Vi si avvicinò, osservandole una per una.
La
squadra di basket di quando era ancora bambino, la prima volta che
giocò in
campionato. Le divise rosse con lo stemma davanti, le facce sorridenti,
il
pallone in mano al playmaker... e suo padre, là
nell’angolo del gruppo, con una
mano appoggiata alla sua spalla, in piedi lì di fianco.
Quella
dopo: la fotografia di gruppo della squadra di nuoto. Il coach in piedi
al
centro della fila posteriore, con un braccio intorno alle spalle di
Satler al
suo fianco, e lui inginocchiato appena sotto di loro, accanto ai suoi
compagni.
La
terza, infine, scattata in un pub con Robert e Douglas quando ancora il
loro
gruppo era numeroso ed includeva altri compagni delle scuole superiori.
Strano
come sembrasse lontano quel periodo, nonostante non fosse stato
più in là di
tre anni. Non riusciva quasi più a ricordare i loro
caratteri, o anche i loro
volti al di là dalle espressioni sorridenti della foto.
Sospirando
mestamente, lasciò perdere. Non era il caso di farsi il
sangue amaro per
niente, e comunque non in quel momento.
Fu
nel dare un’ulteriore occhiata sommaria alla stanza che lo
sguardo gli capitò
sulla porta, sulla quale una persona stava in piedi, ferma ed in
silenzio. Suo
fratello Alex, per essere precisi.
Lo
guardò a sua volta, ma proprio mentre stava per pronunciare
il suo nome, anche
solo come saluto, si trattenne.
Ciò
che gli aveva fatto la sera prima meritava anche solo un saluto,
dopotutto?
No.
Si
limitò dunque alle domande di rito, tornando con una ben
recitata noncuranza a
scegliere sommariamente i vestiti da mettere in borsa, facendo una
selezione
prettamente casuale e disinteressata.
«
Non dovevi essere a
scuola? »
chiese dunque, tono
di sufficienza.
Alex
non rispose, e con la coda dell’occhio Eric appurò
che seguiva ogni suo
movimento. Aveva uno sguardo indeciso, le sopracciglia non proprio
arcuate, la
fronte leggermente aggrottata.
«
Te ne stai andando?
»
domandò infine il
fratello minore, tenendo le braccia dritte come fusi lungo i fianchi e
i pugni
chiusi.
Eric
sospirò, lasciando scivolare la mano sulla stoffa
dell’ennesima maglietta senza
afferrarla. Perché non riusciva mai ad ignorare nessuno,
lui? Perché doveva
interessarsi ad ogni essere umano che arrivava con la vocina rotta e
un’espressione sulla soglia delle lacrime?
Non
era un santo... ma forse era uno stupido.
Ritornò
con gli occhi a quelli del fratello, scoprendo le carte in tavola. Era
inutile
tenere sul volto la maschera del cattivo ragazzo menefreghista, se in
realtà
non lo era nemmeno da lontano e con tanta fantasia. «
Sì »
rispose perciò,
semplicemente.
Negli
occhi di Alex passò l’ombra di quella sensazione
di inadeguatezza che si prova
quando si viene feriti. Sembrava nel panico anche se gli occhi non
lasciavano
mai i suoi, ed Eric si aspettava quasi che scappasse giù per
le scale come
quando erano piccoli e l’altro perdeva a carte.
Non
scappò... ma nonostante i suoi quattordici anni non
riuscì a non piagnucolare: «
è colpa mia... se
tu e papà avete litigato è colpa mia! »
esclamò, e le lacrime furono troppe per
poterle trattenere.
Scoppiò
a piangere in un modo che sarebbe sembrato quasi ridicolo, se il
discorso
trattato non fosse stato così schifosamente serio.
Il
castano sospirò, coprendo con calma i pochi passi che lo
separavano dal
fratello. Si avvicinò finché non poté
appoggiargli una mano sulla testa e
attirarla a sé, facendo sì che appoggiasse la
fronte alla sua spalla.
Alex
gli cinse la vita con le braccia, aggrappandosi con le mani alla stoffa
della
felpa, singhiozzando più forte. Eric gli accarezzava i
capelli lentamente,
cercando di tranquillizzarlo, ma dentro di sé si sentiva
quasi... colpevole.
Odiava
vedere le persone piangere, e suo fratello non faceva di certo
eccezione. Molte
volte era una carogna, ma questo non significava che dovesse
– o volesse –
odiarlo. Era solo uno dei
tanti fratelli minori.
«
Alex, non è colpa
tua se io e papà litighiamo »
gli disse quando sembrò che il pianto si fosse un
po’
calmato: «
a dire il vero,
credo che non sia colpa di nessuno »
aggiunse, appoggiandosi affettuosamente
con la guancia sulla testa del fratello, il cui volto era ancora
nascosto
nell’incavo fra la sua spalla e il collo.
«
Però... »
piagnucolò l’altro,
rimanendo però abbracciato al maggiore: «
io non ti ho aiutato, non gli ho detto che
eri uscito, e... è solo che fai sempre arrabbiare
papà, e dopo lui è sempre agitato,
e se la prende con la squadra... »
balbettò, cercando inutilmente di spiegare
il perché avesse taciuto, mettendo Eric nei guai. «
Non pensavo che ti
avrebbe picchiato, scusami! »
esclamò d’un tratto, riprendendo a singhiozzare.
Eric
sorrise, cingendogli le spalle con l’altro braccio. Per
quanto ne dicesse, o
per quanto cercasse di dimostrarsi forte e adulto, Alex rimaneva un
mocciosetto
di quattordici anni che andava in crisi con un nonnulla.
«
Non mi ha fatto
niente, ok? Vedi? »
domandò
retoricamente, scostando il fratello dalla propria spalla per potergli
mostrare
la guancia colpita la sera precedente. Nulla si vedeva, come Joshua
aveva detto
qualche ora prima, a parte un piccolo alone rossastro.
Alex
la guardò con gli occhi lucidi e la punta del naso rossa.
Annuì appena in
risposta al fratello, passandosi la manica della maglietta sugli occhi
per
asciugarseli.
Eric
gli spettinò i capelli, sorridendo gentilmente. Pian piano
però il sorriso si
spense, lasciando posto ad una sorta di espressione malinconica.
«
Alex... »
chiamò poi,
cercando di stirare le labbra in un sorriso non propriamente
convincente. Non
doveva dirglielo, non doveva. Non avrebbe dovuto proprio.
L’attenzione
del fratello minore era tutta per lui.
Non
seppe trattenersi: «
a te piace giocare
a basket? »
domandò,
consapevole che all’altro sembrasse una domanda saltata fuori
dal nulla.
Cosa
che non era, nella sua testa.
«
Sì »
rispose infatti
Alex: «
perché? »
chiese subito dopo.
«
E lo fai
volentieri? »
domandò nuovamente,
guardandolo negli occhi con sguardo gentile.
Sperava
solo che non arrivasse subito al significato nascosto di quelle parole.
Così
come sperava di non dare troppo a vedere che, dopo quei pochi minuti
che
avrebbero ancora passato insieme, probabilmente non lo avrebbe rivisto
mai più.
Ma
doveva essere sicuro che Alex non diventasse per loro padre il nuovo
“Eric”.
Doveva accertarsi delle intenzioni del fratellino, e lasciare tutti i
consigli
che poteva nel breve tempo che gli rimaneva.
Il
minore sembrò pensarci sopra per un momento, prima di dargli
la sua risposta.
Annuì, racchiudendo il tutto nella frase: «
a papà fa piacere, e a me piace ».
Eric
sospirò, decisamente sollevato. Se Alex lo faceva
volentieri, allora era tutto
a posto. Avrebbe vissuto un’adolescenza meno stressante della
sua di sicuro.
«
Bene, ora mi sento
meglio con me stesso »
gli rivelò quasi
allegramente, tornando all’armadio per prendere
l’ultima cosa, l’unica che gli
sarebbe servita veramente.
Da
sotto un telo di plastica da lavanderia, appesa ad una crocetta di
ferro, la
sua divisa della squadra di basket rivide la luce dopo un anno in cui
aveva
respirato solo plastica e anti-tarme.
La
osservò, sfiorando con le dita il tessuto in cotone e lycra
intrecciati di cui
erano composte le sue maglie. Il rosso, colore della squadra locale,
con il
cognome “Everald” sulla schiena sopra al 23, il suo
numero da sempre.
Il
primo numero di Michael Jordan, guardia tiratrice proprio come lui.
Non
la indossava da un anno, e non gli mancava. C’era un motivo
se aveva preferito
il nuoto al basket, e nonostante suo padre ne avesse fatto fin
dall’inizio una
questione personale non c’entrava assolutamente niente con
l’uomo.
Voleva
gareggiare da solo. Voleva vedere un mondo in cui non esistevano urla,
o
incitazioni, o musica, o balletti da cheer leader, o mascotte, o
tamburi, o
sudore...
La
vasca era un paradiso ovattato di rumori lontani solo vagamente
percepibili da
sotto la cuffia di lattice. Un mondo in cui il termine
“squadra” era una parola
vana, utilizzata solo per portare i colori della città di
provenienza.
Ma
una volta in acqua, sei da solo. Una volta tuffato non c’e
nessuno che ti
sospinge, o ti tira verso la fine della corsia. Dal tuffo
all’arrivo, se tu
contro te stesso.
E
non hai responsabilità se non per te stesso.
Il
basket non avrebbe mai potuto essere così. Mai.
«
A cosa ti serve
quella? »
domandò Alex con un
sussurro, ancora sulla porta.
Eric
sorrise. «
Mi serve »
rispose solo,
riponendola nello zaino.
Lasciare
suo fratello si era rivelata una cosa particolarmente difficoltosa da
fare,
alla fine.
Avrebbe
volentieri ammesso che fosse tutto a causa delle lacrime di Alex,
riprese poco
prima che lui arrivasse alla porta d’ingresso; oppure
dell’abbraccio in cui lo
aveva bloccato, o delle preghiere imploranti che gli aveva rivolto...
ma la
realtà era che lui non si era tirato indietro.
Era
solo che... aveva pensato improvvisamente che quella era
l’ultima volta. Che
entro qualche minuto sarebbe uscito dalla porta di casa e non
l’avrebbe mai più
riaperta. Che non avrebbe mai più rivisto Alex, o sua madre,
o le foto di
famiglia in sala, o i fiori finti sul tavolinetto in salotto...
E
si era sentito perso. Come se galleggiasse in un vuoto che non poteva
colmare
nemmeno con i propri pensieri, così persistenti e
consistenti da poter riempire
anche il silenzio delle notti in cui non riusciva a dormire.
Era
come stare in piedi sulla cima di un burrone di cui non vedeva il
fondo, mano
nella mano con Joshua, sapendo che sarebbe stato proprio
l’altro a dargli la
spinta che lo avrebbe fatto precipitare.
Per
la prima volta, aveva preso in considerazione l’idea di
fuggire. Di cercare di
salvarsi.
Ma
aveva cancellato subito quel pensiero, calmando il suo cuore mentre
cercava di
lenire il pianto del fratello attaccato nuovamente alla sua felpa.
Non
voleva essere un codardo, così come non voleva essere un
traditore. Aveva dato
la sua parola, promettendo a Joshua che sarebbe tornato indietro, e da
lui
sarebbe effettivamente andato.
Aveva
perciò baciato la fronte di suo fratello, spettinandogli
affettuosamente i
capelli. Si era voltato e aveva varcato la porta di casa, camminando
lungo il
vialetto senza mai voltarsi indietro.
Aveva
sentito subito lo stomaco chiudersi, e gli occhi riempirsi di lacrime.
Aveva
resistito stoicamente fino ad Heaven Park, che ora stava attraversando
a passo
svelto, diretto verso l’università.
Il
borsone lo aveva nascosto in garage. Nessuno si sarebbe mai accorto che
era lì,
almeno per un po’ di tempo.
A
lui non serviva tutta quella roba. Il cambio d’abiti e di
biancheria che aveva
nello zaino insieme alla divisa erano più che sufficienti,
per un giorno.
Arrivò
nei giardini della facoltà in breve tempo, dirigendosi quasi
subito in verso il
centro sportivo. Erano ormai le cinque del pomeriggio... se non aveva
fatto
male i suoi conti, probabilmente avrebbe trovato Timoty in vasca.
Aveva
pensato molte volte che Timoty Satler non avesse una vita sociale. Si
allenava
al mattino prima delle lezioni, Nuotava alla sera prima
dell’allenamento
collettivo, partecipava a quest’ultimo e molte volte si
tratteneva anche dopo.
Quando
non era in piscina, era quasi sicuramente in biblioteca.
Non
aveva mai capito perché la sua vita fosse per la maggior
parte racchiusa all’interno
delle mura universitarie. Cioè, comprendeva che fosse un
ottimo nuotatore, e
che magari avesse tutte le possibilità per arrivare a gare
di livello
abbastanza alto... ma tutti hanno bisogno di amici, o di mettere piede
fuori
dalla piscina in luoghi che non fossero pieni di libri di testo.
Poi,
con il tempo, probabilmente aveva capito il perché del suo
comportamento.
Satler
era un ragazzo cordiale, ma in pratica non esprimeva nulla
all’infuori di
quella stessa, fredda cordialità con cui si rivolgeva a
tutti quelli che gli
stavano intorno. Non parlava se non interpellato, non esprimeva la
propria
opinione se non gli veniva esplicitamente chiesto, non chiedeva mai ad
altri di
uscire, o di unirsi ad essi quando erano loro che organizzavano
un’uscita di
gruppo.
Aveva
capito che non era che Timoty Satler fosse solo; Timoty Satler voleva rimanere solo.
Per
quel motivo, adesso che poteva, desiderava chiedergli il
perché. Per lui,
Timoty era un compagno di squadra sempre disponibile, che lo aveva
aiutato parecchio
nei primi momenti, quando ancora non aveva legato con nessuno e passava
il suo
tempo a provare e riprovare virate e tuffi.
E
non voleva credere... che nella sua esistenza l’altro non
avesse nulla d’importante
per cui valesse la pena vivere, e non limitarsi a sopravvivere.
Glielo
avrebbe chiesto. Come regalo d’addio che faceva a s stesso,
avrebbe sciolto
l’intricato mistero che si celava dietro quei vuoti occhi blu.
Arrivò
in piscina poco dopo e, con un cenno del capo alla receptionist, si
diresse verso
le tribune. Subito il classico caldo afoso della vasca lo
investì, togliendogli
il respiro per un attimo, ma molto presto l’abitudine prese
il sopravvento
sulla sensazione di soffocamento.
Non
si passano sei giorni su sette in piscina se non ci si può
acclimatare in pochi
secondi al clima amazzonico che regna là dentro.
Si
fermò in fondo alle tribune, appoggiando le mani sulla
balaustra in metallo e
sporgendosi verso la vasca. Lo scrosciare dell’acqua sui
bordi era un ottimo
compagno per l’odore pressante di cloro di cui tutto
l’ambiente era intriso, e
in mezzo a tutte quelle braccia che si muovevano nell’acqua
fu inizialmente
difficile individuare Satler... ma non impossibile.
C’era,
infatti: stava nuotando a dorso in corsia cinque, una di quelle
più vicine alle
tribune, e dopo una virata perfetta stava ora per completare i
cinquanta metri
in velocità.
Eric
aspettò che arrivasse in fondo, prima di alzare una mano in
sua direzione e
farsi notare. Non si disturba un nuotatore mentre nuota... si
è persi completamente
in un mondo proprio, è traumatico quanto risvegliare un
sonnambulo.
Timoty
lo notò solo dopo qualche istante, osservandolo quasi
stranito per qualche
secondo. Si tolse poi gli occhialini, guardando bene in sua direzione,
prima di
stirare le labbra in un sorriso cordiale e avvicinarsi alla scaletta.
Salì,
mettendo in mostra il suo fisico asciutto bagnato
dall’acqua... che subito
Eric, involontariamente, associò a quello di Joshua per un
confronto.
Magari
era una decisione deviata dai sentimenti, ma lui preferiva quello del
dio della
morte – senza nulla togliere al rosso, che comunque non se la
cavava affatto
male.
Scosse
il capo velocemente, attendendo che il ragazzo mettesse
l’accappatoio e si
avvicinasse a lui. I capelli rossi erano completamente bagnati
nonostante la
cuffia e si attaccavano come tentacoli al collo bianco e sottile
dell’altro.
«
Everald »
salutò Timoty,
asciugandosi una guancia con la manica dell’accappatoio blu: «
ti avevamo dato per
disperso »
ironizzò
galantemente, non aggiungendo toni di pesante ironia o anche solo di
scherzosità nella voce.
Era,
sì... come parlare ad un robot che simula la cortesia umana.
Lo notava bene solo ora.
«
Già, sono stato
impegnato »
rispose il castano
sfoggiando un sorrisetto colpevole.
Se
per “impegnato” veniva sottointeso “mi
hanno quasi stuprato, mio padre mi ha
cacciato da casa e mi sono innamorato di un dio della morte che ha il
compito
di uccidermi”...
Timoty
perse subito il sorriso, acquistando un cipiglio serio che Eric
riconobbe come
una delle rare espressioni genuine del rosso. «
Come va con tuo padre? »
chiese di seguito,
abbassando la voce di un’ottava, probabilmente in modo molto
inconsapevole.
Che
bisogno c’era di abbassare la voce se ogni singola persona
che passava
dall’università, anche per caso, sapeva quello che
era accaduto nell’atrio del
centro sportivo?
Si
sforzò di continuare a sorridere, ma gli occhi raccontavano
sempre di più del
voluto. «
Beh, che vuoi... ci
sono alti e bassi »
rimase sul vago,
fissando qualcosa altrove per qualche istante.
Non
riusciva a guardare le persone negli occhi quando queste gli ponevano
domande
serie. Era uno dei talloni di Achille che si era accorto di avere un
giorno,
così, e che nonostante la sua consapevolezza non era mai
stato in grado di
correggere.
«
Mi dispiace »
ribatté Timoty, ed
Eric fu totalmente sicuro di aver sentito la voce dell’altro
tornare a vibrare
sulla lunghezza d’onda della pacata gentilezza.
Ormai
ne era sicuro: era tutta una maschera.
«
Scusa se ti ho
disturbato durante i tuoi esercizi pre-allenamento... »
cominciò dunque,
riempiendo un silenzio imbarazzante che sembrava alle porte: «
ma devo chiederti
un favore... e farti una domanda »
concluse, tornando con gli occhi su di lui
in attesa di una qualsiasi risposta.
Timoty
lo osservò per qualche istante, indeciso probabilmente su
come doveva prendere
il tono con cui Eric aveva pronunciato quella strana richiesta. Ma alla
fine
annuì, facendo sì che la sua cortesia vincesse
sull’istinto.
Eric
annuì a sua volta riconoscente, deglutendo. Andava fatto.
Avrebbe comunque
rinunciato a quel sogno, in un modo o nell’altro, e preferiva
farlo con una
scusa piuttosto che nel silenzio.
«
Devi dire al coach
che io non posso più partecipare alle selezioni. E che non
potrò più
presenziare agli allenamenti... nemmeno far parte della squadra »
disse a fatica,
chiudendo gli occhi durante quel discorso per poi riaprirli alla fine.
Satler
non mosse un muscolo, fissandolo solo. Non sembrava né
sorpreso, né turbato,
né... niente. Lo guardava e basta, come si guarda un treno
passare sui binari
della stazione ferroviaria.
Poi,
finalmente, fece risentire la sua voce: «
c’è qualcosa sotto, non è vero? Tuo
padre
non c’entra »
esordì e sì, Eric
ci rimase malissimo.
«
Come hai...? »
«
Ti si legge in
faccia »
ribatté: «
hai degli occhi sin
troppo sinceri ».
Il
castano non seppe esattamente come accogliere
quell’improvvisa affermazione da
parte del compagno di squadra.
Certo,
anche Joshua gli aveva detto che i suoi occhi esprimevano molto
più di ciò che
pensava... ma non credeva fosse così facile leggerci dentro
qualcosa.
Doveva
essere allenato a farlo, allora. Solo chi ha una capacità
d’osservazione
elevata può riuscire a dire esattamente quanto e quanto in
fondo riesce a
leggerti l’animo attraverso gli occhi.
Joshua
era un dio della morte, e magari era normale... ma Timoty?
Decise
di scoprirlo: «
se sempre stato
così bravo a “leggere” le persone? »
domandò, e la serietà ironica con cui lo
disse fece intuire all’altro che il tono della conversazione
era
improvvisamente cambiato.
Dopotutto,
era stato proprio il rosso il primo a portarlo su un livello
più privato.
Il
rosso annuì appena, lentamente, nobilmente. Sembrava
decisamente lo stesso
Timoty di sempre, eppure c’era qualcosa di diverso in quel
modo di porsi che
ora aveva assunto nei suoi confronti.
Si
stava difendendo. Da qualche parte, la mente del rosso aveva alzato un
muro a
difesa dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Poteva quasi vederlo
nella
staticità dei gesti dell’altro, in piedi immobile
davanti a lui.
Era
giunto il momento della domanda.
«
Tu hai sempre... »
«
Non andare oltre »
lo interruppe però
il nuotatore, alzando la mano destra in sua direzione e chiudendo
nuovamente
gli occhi. «
Tu sei una persona
attenta Everald, sin troppo, e non sono sorpreso che tu abbia notato
qualcosa
di me che non ti torna »
cominciò a dire,
riaprendo gli occhi. Nelle iridi blu brillava ora una luce diversa,
sicura, che
dava per la prima volta una certa inquietudine a quello sguardo.
«
Ma non risponderai
alla mia domanda »
continuò per lui
Eric.
«
...scusami »
disse il rosso: «
ma spiegarlo a te
vorrebbe dire fidarmi... e io non voglio. Non sono più
capace di fare queste
cose »
aggiunse, senza che
la voce tremasse, o venisse a mancare.
Eric
rimase stupito per un momento, ma poi annuì con un sorriso.
Lungi da lui essere
pedante e ficcare il naso.
«
Conosco un’altra
persona che non si fida degli altri »
esordì lui, ridacchiando appena al
pensiero dello sguardo burbero di Joshua che insultava la razza umana: «
anche se credo che
il suo sia proprio un problema di mal sopportazione
dell’intera specie umana.
Chissà, magari è un trauma infantile »
scherzò, per alleggerire la tensione.
«
Ha tutta la mia
stima »
rispose a sua volta
Timoty, ritornando al solito tono cortese che sembrava fatto di vetro.
Ad
essere sincero con sé stesso, ancora non riusciva a capire
il perché Satler
avesse deciso di stare rinchiuso nella sua solitudine. Potevano,
chissà, una
delusione, o un passato lugubre, minare così tanto una
persona da impedirle la
minima fiducia nell’altro?
Era
solitudine anche quella. Una solitudine fatta di vetro. Poteva quasi
vedere Timoty
rinchiuso dentro una bolla trasparente, attraverso la quale vedeva gli
altri
senza poter essere visto. Una visione simile aveva, in un qualche modo,
il
sentore asettico dell’impersonale stanza di un ospedale.
Sentiva
di... compatirlo.
O
forse lo faceva solo perché lui, ora, aveva qualcuno da
definire “importante”.
Ora la sua vita, per quanto breve l’avesse riscoperta,
sembrava essere meno
vuota, meno... asettica, per l’appunto.
E
non capiva come una persona potesse decidere liberamente di rimanere
chiusa in
un ambiente completamente privo di stimoli e stare lì,
immobile, lasciando
passare il tempo senza provare a viverlo.
Probabilmente
il suo volto espresse chiaramente i suoi pensieri, o semplicemente ci
pensarono
solo i suoi occhi; ma fu comunque sufficiente per Timoty e per la sua
acutezza.
«
Tu non mi capisci »
affermò,
prendendolo in una sorta di contropiede: «
ma è normale. Anzi, ti auguro di non arrivare
mai a capirmi, Everlad »
aggiunse,
sorridendo in sua direzione.
Non
poteva dire di aver compreso l’augurio nella sua interezza,
ma in un certo
senso poteva percepire la profondità insita in quelle
pochissime parole.
Erano
le frasi di chi vedeva la sua vita già ad una fine, e che
non faceva nulla per
cambiarla.
Era
così ingiusto... chi aveva ancora a disposizione il tempo di
un’intera
esistenza si considerava già morto.
«
Ok, Satler, per me
è il momento di andare »
aveva un’altra cosa
da fare. L’ultima, e poi sarebbe tornato da Joshua a passare
con lui gli ultimi
momenti che gli rimanevano: «
salutami il coach e gli altri »
aggiunse
completando il saluto.
Il
rosso non rispose subito. Rimase per qualche istante a guardarlo negli
occhi,
prima di parlare di nuovo: «
ho come l’impressione che non ti rivedrò
più, perciò
sappi che vincerò quella medaglia d’oro »
pronunciò con una sorta di solennità nello
sguardo; serietà che non gli aveva mai visto prima.
Che
fosse riuscito a far breccia, in un qualche modo insolito, nella
perfetta
corazza adamantina di Timoty Satler?
Ridacchiò
allegro. «
Ci conto »
ribatté solamente,
avviandosi a passo lento oltre la tribuna.
Gli
rimaneva un solo posto, e poi avrebbe potuto sentirsi soddisfatto.
Il
Palazzetto dello Sport non era mai stato facilmente accessibile.
Era
in un altro quartiere rispetto a quello in cui abitavano, o rispetto
all’università, e non era poi così raro
che dovesse prendere l’autobus per
arrivarci.
Accadde
anche quella volta.
Avrebbe
potuto andare a piedi, e sprecare mezz’ora di viaggio... ma
era più che
convinto che l’ora più opportuna per presentarsi
in campo era a partita
iniziata, e non poteva rischiare di arrivare quando stava per
concludersi.
Aveva
bisogno di tempo, per il suo piano.
Forunatamente,
a giudicare dai fischi e dal tifo da stadio che già da fuori
si poteva sentire
non era arrivato in ritardo rispetto ai suoi piani. Un momentaneo
sguardo
all’orologio da polso gli rivelò di essere in
perfetto orario, così percorse a
passo svelto l’ingresso, entrando direttamente negli
spogliatoi.
Da
lì poteva sentire il tifo delle tribune sopra di lui,
così come i ritmici
rimbalzi della palla arancione di cuoio e lo stridere delle suole delle
scarpe
contro il parquet. Se si concentrava, al di sopra delle urla della
gente la
voce di suo padre sembrava quasi riconoscibile; il tono arrabbiato con
cui
urlava alla sua squadra di marcare bene, oppure al playmaker di passare
all’ala.
Sorrise
sornione, aprendo lo zaino con una veloce tirata di zip.
Era
ormai abituale che suo padre giocasse con la squadra di prima divisione
il
giovedì sera. Era sempre stata una persona amante della
pianificazione, e il
giovedì era uno dei due giorni in cui la squadra non aveva
allenamento.
Tuttavia,
nonostante stagioni brillanti in cui avevano sfiorato la vittoria del
campionato per due volte consecutive, quell’anno la prima
divisione non se la
stava cavando bene. E, chissò perché –
sì, in senso ironico – suo padre
attribuiva questo disequilibrio della squadra al fatto che lui se ne
fosse
andato.
Il
che, di base, non sussisteva. Lui se ne era andato già
l’anno prima, e i
risultati non erano stati terribili.
Ma
era lì per un altro motivo, quella sera. Ed infilandosi la
tuta rossa poté
chiaramente sentirsi nel sangue la sfrontatezza necessaria per fare
quello che
andava fatto.
Suo
padre credeva di non avere bisogno di lui. Si era convinto di essere
schifosamente superiore alle cavolate come i legami famigliari per
ammettere
semplicemente che gli manca, avere lui in squadra.
Sì,
si era sempre voluto illudere che fosse così. Ma ora si era
ricreduto.
Il
basket, per Trent Everald, era un ottimo effetto placebo per compensare
la
mancanza di altre qualità che lo rendessero un buon padre.
O, in definitiva, un
padre e basta.
Lui
non aveva mai fatto per lui quelle cose che di solito un padre fa. Come
allearsi con lui contro le sgridate della madre,
dargli consigli sulle ragazze.
Tutto
quello che lui ricordava di Trent, indietro nell’infanzia,
non erano altro che
una serie di fermo immagine nei cui fotogrammi compariva sempre e
comunque una
palla da basket.
E
tutto ciò faceva... male. Un male fottuto.
Avrebbe
pagato, però. Lui non voleva vendetta, no, non era caduto
così in basso...
voleva solo che il padre si rendesse conto del suo valore, che lo
riconoscesse
come qualcuno degno di essere trattato come un essere umano ogni tanto,
non
come un cane ammaestrato che si rifiuta di dare la zampa al comando del
padrone.
Sospirando
profondamente, uscì dallo spogliatoio.
Le
luci dal campo da gioco non erano mai state così luminose. E
probabilmente il
motivo era che non si era mai fatto presente di quanto possano essere
forti,
puntate addosso ad una persona.
Dietro
di lui la confusione del pubblico, davanti a lui il lucido parquet del
campo.
Due squadre di due diversi colori si fronteggiavano, mescolandosi in
corsa,
gemendo per la fatica e ringhiando per la frustrazione di non essere
riusciti a
prendere bene il canestro.
Respirò
profondamente, ritrovando una serie di odori che pensava di aver
finalmente
dimenticato. Così come i fischi, le indicazioni urlate da
entrambi gli
allenatori, la trepidazione di chi seguiva il gioco dalla panchina...
Tutte
cose che nel nuoto non aveva, ma questo non voleva dire che provasse
nostalgia
per esse. Il Palazzetto dello Sport era per lui come una casa, ed era
questa
forma di insano attaccamento che aveva cercato di combattere.
Lui
ce l’aveva una casa, aveva pensato ad un certo punto: e non
era un campo da
pallacanestro.
Si
voltò alla sua sinistra, posando prima lo sguardo sul
tabellone, poi su suo
padre.
Poteva
capire perché fosse così agitato ed incazzoso:
stavano perdendo. Dai Pidgeons.
La squadra che per due anni aveva loro impedito di vincere la coppa di
campionato, facendo sì che arrivassero costantemente secondi.
Erano
sotto di otto punti, con ancora quindici minuti di gioco. Poco male.
Quando
finalmente suo padre incrociò il suo sguardo, avrebbe potuto
dire che fosse
preda di un infarto. Oppure che pensasse di essere vittima di
un’allucinazione,
dato lo sguardo da pesce lesso che aveva assunto.
Probabilmente,
vederlo con indosso il buon vecchio 23 gli aveva fatto un certo
effetto. Così
come lo fece ai compagni di squadra seduti in panchina, improvvisamente
ammutoliti ed affetti da una paralisi facciale che li aveva bloccati
con la
bocca spalancata.
Internamente,
cercò di calmare il battito impazzito del suo cuore con un
sospiro. Da qualche
parte sentiva la pressante sensazione di voler fare retro-front ed
uscire di
lì, ma la ragione gli diceva che era troppo tardi.
Ormai
era in ballo, conveniva ballare.
A
passo appositamente moderato, si avvicinò lentamente alla
propria panchina –
anche se non era proprio parte della squadra, ma erano insignificanti
dettagli
tecnici – fermandosi esattamente davanti al padre.
L’uomo
non ebbe nemmeno la reazione psicologica di argomentare una qualche
forma di
saluto, o di domanda. Lo fissava semplicemente, probabilmente cercando
di
decretare se quello poteva considerarsi il giorno più felice
della sua vita o
una qualche sorta di scherzo di cattivo gusto.
Spiacente
papà,
purtroppo per te è la seconda
pensò interiormente, fissando il padre
dritto negli occhi.
«
Fammi entrare »
disse, sicuro di sé
come mai avrebbe pensato di essere: «
ti mostrerò che la “sfortunata serie di
eventi” non è accaduta quando mi avete messo al
mondo, ma quando hai deciso di
perdermi »
completò,
attendendo.
Non
si stupì troppo quando Trent non rispose. Era sempre stato
una persona che
preferisce agire prima di pensare a quello che fa, e forse era per
quello che
era venuto su così. Esattamente per quel motivo, senza una
parola, Trent
Everald chiamò il cambio della sua guardia tiratrice,
indicando all’arbitro che
sarebbe salito lui al posto del numero 13 che ora scendeva, richiamato
in
panchina.
Lo
squadrarono tutti, dal primo all’ultimo genitore in panchina
come dal primo
all’ultimo giocatore in squadra. Fortunatamente, erano tutti
suoi ex compagni.
La cosa da un cero punto di vista lo mise quasi a suo agio.
«
Eric? »
domandò stupito il
capitano in campo, attuale playmaker.
«
Dylan »
rispose lui in
saluto.
«
Cosa cavolo ci fai
qui? »
domandò l’ala
destra, Curt, arrivando di corsa come il resto degli altri giocatori.
Sorrise
inconsapevolmente a quella domanda. «
Ho fatto un breve ritorno sulle scene »
decise di
rispondere, senza però lasciare il tempo a nessun altro di
porre domande
inutili: il tempo scorreva e non era il momento di giocare al rimpatrio.
Si
girò in direzione del capitano: «
ehi, ricordate qualcuno dei vecchi schemi? »
domandò ansioso,
esibendosi in un sorrisetto colpevole. D’altronde gli stava
scombinano tutta la
partita, con quella sua apparizione...
«
Scherzi? »
rispose con un
sorriso Dylan, porgendogli la mano in un cinque: «
praticamente giochiamo solo su
quelli! »
rivelò scherzoso.
Eric
accettò il cinque, ricambiandolo con forza. Dylan era
diventato capitano
proprio per la sua capacità di non mollare mai e poi mai, e
di trovare il lato
positivo ad ogni cosa. A lui non interessava se un vecchio compagno
rispuntava
dal nulla pronto a portare scompiglio nello schema di gioco; si
dimostrava più
che disponibile ad adattare il game al nuovo arrivato, se era una
persona di
cui si fidava: «
Dimmi Eric, con che
schema vuoi che ti faccio volare a canestro? »
domandò poi, e la sua esagerata
fiducia contagiò anche i rimanenti compagni di squadra,
tutti con un ghigno
compiaciuto stampato in faccia.
Eric
non poté fare a meno di assumere un sorrisetto simile. Era
quella la complicità
che aveva lasciato, e nonostante fosse scappato anche da loro sentiva
la
nostalgia per momenti come quello che stava rivivendo.
«
A tua scelta, Dylan
»
ribatté lui,
stirandosi appena le braccia come se dovesse prepararsi alla battaglia.
«
Ok ragazzi, andiamo
con il B12. Fate arrivare sotto canestro Everald senza rotture di
scatole e
glieli mettiamo in culo quegli otto punti! »
sentì dire a Dylan, seguito dalle risatine
sarcastiche del resto del team.
L’arbitro
fischiò la ripresa, e come per magia la contesa della palla
finì subito
favorevole a loro.
Vedeva
la palla passare di mano in mano fra le ali ed il playmaker, mentre i
difensori
si mantenevano dietro di loro nel caso avessero perso il possesso di
palla.
Sfilavano fra le divise grigie dei Pidgeons scivolando a destra e a
sinistra
come topi che gabbano il gatto passandogli fra le zampe.
Erano
bravi, dovette notare; migliorati moltissimo da quando giocava lui. O
forse era
semplicemente che loro ancora si allenavano su schemi e passaggi tutte
le sere
mentre lui cercava di tenere i 400 metri misti senza farsi venire
un’aritmia.
Non
fu però così difficile arrivare sotto canestro;
una volta che gli altri si
furono posizionati dove dovevano, lui mise in pratica quello che
ricordava e
penetrò da sinistra, trovandosi il canestro proprio nella
posizione favorita.
Fu
a quel punto che, fedele ai vecchi schemi, Dylan fece una finta che
mandò in
pappa il cervello del difensore intenzionato a marcarlo, e gli
passò la palla.
Tutto
era perfetto intorno a lui, ogni uomo marcato a dovere. La sua
possibilità di
andare a canestro poteva essere interrotta solo da un atleta di salto
in alto
che avesse fermato il tiro prendendo la palla al volo, cosa che
verosimilmente
non sarebbe successa.
Si
avvicinò di un passo poi, mettendosi velocemente in
posizione, tirò. La palla
picchiò sul lato interno del cerchio, ma andò
dentro facilmente.
I
sui primi due punti della partita vennero aggiunti al tabellone, e la
palla
subito rimessa in campo. I compagni gli diedero pacche sulle spalle,
alcuni
addirittura gli diedero il bentornato («
non sono tornato! »)...
ma quello che
più lo rese felice, in un certo senso, fu rivedere il
sorriso di suo padre
rivolto a lui.
Cercò
di ignorarlo. Evidentemente, lui poteva andare bene in quel mondo solo
con una
palla in mano.
Il
gioco riprese velocemente, più volte, e più volte
lui andò a canestro seguendo gli
schemi che il playmaker decideva. Segnò altri due punti, poi
altri due Dylan, e
infine due Curt, l’ala piccola.
Quando
mancavano ormai cinque minuti alla fine, suo padre chiamò il
time out dalla
panchina.
«
Bravi ragazzi,
bravi! »
esclamò Trent,
battendo pacche sulle spalle a tutti quelli che gli capitavano sotto
mano. Eric
si assicurò di non andargli troppo vicino. «
Ancora poco e possiamo dire di essere
ancora in gara col campionato. Rimanete concentrati, concentrati! »
li spronò,
ripetendo sempre le stesse parole che Eric aveva sentito per anni.
Quando
a giocare si divertiva, possiamo dire.
«
Coach, ma da dove
l’ha tirato fuori suo figlio? »
esordì però Dylan, prendendo un lungo sorso
d’acqua
dalla sua borraccia per poi passarla ad Eric: «
lo teneva sotto tormalina per
occasioni come queste? »
rise.
Lui
e suo padre si guardarono negli occhi, muti. Per parecchio entrambi
loro
avevano evitato quel contatto così diretto, capace di
mandare nel panico Eric.
La
quadra si ammutolì. Probabilmente Dylan aveva dimenticato
anche solo per in
istante le voci che erano circolate negli ultimi giorni, ma in partita
succede,
l’adrenalina di quando si sta per vincere cancella ogni altra
cosa... tuttavia
gli altri erano ancora ben consapevoli del rapporto che c’era
fra loro,
altrimenti non sapeva come spiegarsi quell’improvviso e
pesante silenzio.
Ma
fu un quel frangente che Trent riuscì a stupirlo.
Allungò una mano sulla sua
testa, poggiandogliela sui capelli, e con un tono misto fra orgoglio e
dolcezza
pronunciò un «
ben fatto, figliolo
».
Non
seppe cosa fece più male.
Se
il fatto di sentirlo pronunciare “figliolo” quando
solo ventiquattro ore prima
lo aveva chiamato “vile”, oppure che quel
complimento fosse sempre e comunque
collegato al basket. Forse a bruciare era la consapevolezza che, al di
fuori
del campo di gioco, per Trent Everald lui non sarebbe mai valso nulla.
La
sua reazione arrivò di conseguenza. Si spostò
dalla mano del padre, facendo due
passi indietro.
«
Finiamo questa
partita, comincia a venirmi fame »
borbottò appena, e fu veramente grato del
fatto che Dylan non fosse una cima d’intelligenza quando si
trattava leggere
l’atmosfera. Il playmaker infatti stette al gioco,
rallegrando il resto della
squadra, e molto presto l’attenzione generale si
spostò sul prossimo schema di
gioco piuttosto che su loro due.
Basta,
voleva andarsene da lì. In fretta. Avrebbe messo la giusta
distanza fra la loro
squadra e i Pidgeons con un tiro da tre punti, in modo che non
potessero più
recuperare nei pochi minuti che rimanevano.
L’arbitro
fischiò la fine del time out, e dopo l’urlo
ritornarono in campo.
Si
poteva chiaramente sentire la tensione, e non appena il gioco riprese
tutti si
accorsero che i Pidgeons erano corsi ai ripari; marcavano molto
più stretto ed
Eric se ne trovò addosso addirittura due.
Così
era impossibile.
Anche
Curt se ne accorse, e con una mossa alquanto sfrontata mandò
la palla fuori
gioco. Ci vollero alcuni istanti perché gli arbitri ne
prendessero un’altra dal
tavolo della giuria, così che Dylan ebbe il tempo di
avvicinarsi a lui.
«
Andiamo con la Luna
nel Pozzo »
gli rivelò
all’orecchio, stringendogli la spalla con la mano.
Non
poté dire di esserci rimasto male, ma leggermente sorpreso
sì. La Luna nel
Pozzo era uno schema di gioco decisamente poco consigliabile: impegnava
tutta
la squadra in attacco, e la strategia stava nel non tenere la palla per
più dei
tre rimbalzi necessari, continuando a passarsela in uno schema a
mezzaluna che
avrebbe man mano chiuso tutta la difesa avversaria sotto il proprio
canestro. A
quel punto, aspettandosi l’entrata all’interno per
un tiro da due, gli
avversari si sarebbero trovati fuori tempo quando la palla sarebbe
stata
passata all’esterno dell’area di tiro, dove il
giocatore designato avrebbe
tentato il tiro da tre.
Ma
era rischioso, perché se anche uno solo degli altri si
accorgeva della cadenza
dello schema di gioco poteva recuperare la palla e partire in
contropiede,
mossa che gli avrebbe permesso di tirare indisturbato.
«
Non avevamo ancora
finito di provarla la Luna nel Pozzo »
dissentì Eric con calma, pensando che su
tutti i lati quella non era affatto una buona idea.
«
Noi sì »
ribatté complice
Dylan – cosa aveva mai da essere sempre così
schifosamente allegro?! –
prestando relativa attenzione all’arbitro che tornava con la
palla: «
tu fatti trovare
nel punto giusto per il tiro, al resto pensiamo noi »
esordì, lasciandolo
in piedi come uno stoccafisso.
Non
ci fu tempo per commentare, o cercare di fargli cambiare idea: la palla
tornò
rapidamente in gioco e lui poté solo fidarsi dei suoi
compagni di squadra.
Procedette
tutto bene, nonostante pensasse che quella fosse una pazzia: dopo un
breve
possesso di palla da parte dei Pidgeons uno di loro riuscì a
recuperarla, e
velocemente si mise in azione lo schema. Si passavano fra loro la palla
così
velocemente che lo speaker non riusciva a stare dietro
all’azione, sbagliando a
più riprese i nomi di chi aveva in mano la palla. La squadra
avversaria
sembrava disorientata quanto bastava perché non si
accorgesse di essere chiusa
mentre dalle panchine, si accorse con un tuffo al cuore, suo padre
stava
incitando a gran voce tutti loro.
Nel
momento in cui si trovò al suo posto, e vide la palla
arrivare a lui dalla
“mezzaluna”, tutto sembrò rallentare.
Percepì la sorpresa dei Pidgeons finalmente
consapevoli della rete in cui erano caduti, così come li
vide scattare in sua
direzione anche se marcati stretti da tutti gli altri. Lui era libero,
lo
schema aveva funzionato, e il poco tempo rimanente gli dava tempo
sufficiente
per in solo tiro.
Si
concentrò. Era stato nominato guardia tiratrice
perché aveva il miglior score
di tiri di tutta la squadra, non poteva sbagliare un semplice lancio da
tre.
Non poteva fallire, ne andava del suo orgoglio nel far capire a suo
padre chi stesse perdendo.
Saltò
da fermo, alzando le braccia mentre la palla si staccava dalle sue mani
in
direzione del canestro. Entrò diritta, linearmente, muovendo
la rete e
rimbalzando a terra.
I
tre punti vennero attribuiti alla sua squadra poco prima che la sirena
suonasse, decretando la fine della partita.
Avevano
vinto.
La
folla esplose. Magliette e sciarpe rosse volarono per tutto lo stadio,
così
come tutti i suoi ex compagni si riversarono su di lui in
un’ammucchiata.
Sentiva urla di gioia da ogni parte, nemmeno avessero già il
campionato in
tasca – anche se ne erano ben lontani – e subito le
cheerleaders attaccarono
con il balletto della vittoria, muovendo all’aria i pon pon
rossi.
Alzò
lo sguardo sulle tribune, cercando con lo sguardo gli occhi che aveva
così
tanto desiderio di incrociare. Li trovò accanto alle scale,
ed un sorriso gli
comparve istintivamente in volto.
Joshua
era venuto. Aveva mantenuto la promessa.
Lo
salutò con la mano, lievemente, senza rendere eclatante il
gesto. Fu sicuro che
bastò anche solo quel piccolo movimento quando Joshua
piegò l’angolo della
bocca in un lieve sorriso, indicando con il capo le scale.
Lui
annuii, dando segno di aver capito il messaggio. Probabilmente al moro
non
piaceva la confusione, per quel motivo lo avrebbe aspettato fuori.
Lo
seguii con gli occhi mentre scompariva lungo le scale della tribuna,
tornando
poi con lo sguardo al padre.
Lo
stava guardando. Solo che sembrava indeciso, non sapeva se sorridere o
no.
Gli
riservò il ghigno migliore che potesse ponderare di
dipingersi in faccia. Una
volta lasciatolo nel più profondo dei dubbi, poi, si diresse
a passo calmo
verso gli spogliatoi, intenzionato a tutto fuorché
festeggiare quella vittoria.
Non
era sua, dopotutto. Aveva utilizzato quella partita come mero vicolo
per
stoccare suo padre, non si sentiva in grado di festeggiare con gli
altri
compagni di squadra.
Fu
per questo che approfittò della confusione per sgattaiolare
negli spogliatoi,
lasciando le festività ai propri compagni. Conoscendoli,
sarebbero rimasti in
palestra anche dopo che tutti se ne fossero andati. E poi solitamente
la
squadra vincente faceva una fotografia a fine partita per i giornali
locali,
amanti di ogni cosa potesse riempire le pagine dedicate allo sport dei
loro
quotidiani.
Si
cambiò velocemente, abbandonando la sua divisa sulla
panchina senza nemmeno
prendere in considerazione di portarla con sé. Aveva finito
il suo compito, e
il legame affettivo era stato ampiamente surclassato dal comportamento
non
esattamente costante del padre.
Lo
aveva letteralmente schifato, ecco.
Una
volta rivestitosi chiuse lo zaino energicamente, ignorando i capelli
ancora
umidi di sudore così come la pelle del collo e della
schiena. Avrebbe
approfittato di nuovo della doccia a casa di Joshua; al momento voleva
solo
mettere una notevole distanza fra lui e il Palazzetto dello Sport.
Uscì
dallo spogliatoio intenzionato a raggiungere subito l’esterno
dell’edificio.
Sentiva ancora parecchia confusione in campo e sugli spalti, il che
probabilmente significava che i festeggiamenti per la vittoria non
erano ancora
giunti al termine... aveva abbastanza tempo per confondersi fra la
massa ed
uscire, mettendo finalmente fine alle cose che si era ripromesso di
fare prima
di... beh... prima di venerdì notte.
Ma,
ovviamente, i suoi piani non andarono per niente come aveva pensato che
andassero. Non lo fecero perché suo padre, che era
tutt’altro che stupido,
riuscì ad intercettarlo proprio mentre stava richiudendo la
porta dello
spogliatoio.
Si
guardarono.
L’uomo
aveva in volto una sorta di sguardo perso, come se si stesse sforzando
di
capire le intenzioni del figlio senza chiedere a lui direttamente.
Eric,
dal canto suo, si limitava a guardarlo pacatamente, cercando dentro di
sé la
tranquillità necessaria a mantenere un disinteressato
stoicismo.
«
Sei stato bravo,
oggi »
commentò poi
l’uomo, ed Eric non poté fare a meno di lasciarsi
scappare uno sbuffo deluso.
Non era quella la prima cosa che avrebbe desiderato sentire, nonostante
il tono
profondo del padre fosse calmo e quelle parole avessero un complimento,
nascosto in esse.
«
Già, a quanto pare
ricordo ancora come si fa »
fu la sua
conseguente risposta, decisamente stizzita in confronto alle sue buone
intenzioni di mantenere fredde le animosità.
Seguì
un istante di pesante silenzio. Eric non aggiunse nulla e, vedendo che
anche
suo padre non ne aveva intenzione, fece retro-front e
cominciò ad incamminarsi
verso l’uscita lungo il corridoio in penombra.
Ma
Trent non gradì il gesto, Eric lo capì dal tono
in cui gli chiese dove stesse
andando.
Il
ragazzo non rispose, dandogli le spalle. Non aveva nemmeno il minimo
desiderio
di informare il padre sui suoi spostamenti, nemmeno di metterlo al
corrente di
dove avrebbe passato la notte o di cosa avrebbe fatto il giorno dopo.
La base
di tutto ciò era una: a casa non sarebbe tornato; ma Trent
Everald avrebbe
dovuto capirlo da solo, quando tornando per cena avrebbe trovato la
camera del
figlio maggiore mezza vuota.
Per
trovare tracce di lui, avrebbe come minimo dovuto mettere a soqquadro
la casa.
O girarsi a piedi mezza città.
«
Eric »
sbottò suo padre, e
il castano riuscì a riconoscere in quel tono l’ira
che ormai da un anno
caratterizzava tutti i loro discorsi.
Si
voltò, sfidandolo apertamente. Fortunatamente il corridoio
era vuoto, ma era
convinto che suo padre avesse calcolato anche questo. Non avrebbe mai
più fatto
l’errore di rivolgersi a lui con cattiveria in un luogo
pubblico, se non
potevano garantirsi una sorta di privacy da orecchie indiscrete o
passanti
casuali.
Rimase
zitto, però, fissandolo.
Voleva
che capisse. Voleva veramente che capisse.
Desiderava
fargli comprendere che sarebbe bastata una parola, uno
“scusami” detto in modo
sincero, e sarebbe tornato a casa con lui. Avrebbe passato le poche ore
che gli
rimanevano con loro, con la sua famiglia, perché nel
profondo del cuore sentiva
che era lì che doveva stare.
Per
non lasciarli troppo... soli.
Ma
Trent non capì, il suo sguardo non cambiò.
Poteva
quasi sentire il suo stesso cuore perdere un altro frammento. Anche se
Joshua
era riuscito, chissà come, a tenerlo insieme, la freddezza
che il padre
sembrava dimostrargli aveva la potenza distruttiva di un uragano.
Si
girò di nuovo, sempre muto nei confronti
dell’uomo. E sperò vivamente di
riuscire a scappare, questa volta.
Cosa
che non successe.
Trent
coprì la distanza che li separava in due falcate; lo prese
per il polso,
strattonandolo finché non se lo ritrovò davanti
al volto. Eric cercò di
liberarsi, ma era inutile: il padre era sempre stato più
forte fisicamente, e
non perdeva occasione per sfruttare quella forza a suo vantaggio.
Lo
osservò direttamente negli occhi, uguali ai suoi se non per
la rabbia che
riflettevano, parlandogli talmente vicino che il castano poteva sentire
il suo
fiato sul viso.
«
Dove credi di
andare? »
sibilò.
Eric
percepì un brivido scivolare freddo lungo la schiena. Era
sempre suo padre, dopotutto...
non avrebbe smesso di fargli paura quando faceva così.
Ma
resistette stoicamente, impuntandosi. Non aveva più dieci
anni, delle minacce
non se ne faceva niente.
«
Ovunque tranne che
qui »
fu infatti la
risposta che diede, soffiando a sua volta.
Ma
mentre il padre sembrava una tigre a digiuno Eric poteva al massimo
sembrare un
gatto randagio fra le grinfie dell'acchiappa-animali.
Trent
lo osservò in silenzio, la stretta al polso che non si
indeboliva. Faceva male,
ma Eric non se ne lamentò per orgoglio, continuando
imperterrito a rispondere
allo sguardo del padre.
«
Stai da lui, vero? »
disse poi l’uomo: «
Archer »
aggiunse,
pronunciando quel nome quasi come se ringhiasse. «
Ti ho già detto che non mi sta bene!
»
aggiunse sgarbato,
scotendogli il polso con veemenza.
Il
castano digrignò i denti sotto le labbra.
«
Perché, c'è
qualcosa della mia vita che ti sta bene? »
non poté esimersi dal ribattere, soffiando
fra i denti e inclinando le labbra in un sorrisetto sghembo.
Imposizioni
insensate come quella non smettevano mai di farlo incazzare. Al diavolo
lo status quo.
Il
corridoio degli spogliatoi era vuoto, e in lontananza la musica delle
cheerleaders
riempiva ancora lo stadio.
«
Lui no »
fu però la risposta
del padre: «
ha qualcosa... di
strano. Lo sai cosa mi ha detto in piscina? Che saresti stato suo. Ma
l'ha
detto in un modo che non presagiva niente di buono e mi dispiace, ma
non
lascerò che la tua stupidità ti spinga nei guai »
disse d'un fiato il padre,
aumentando la presa sul suo polso man mano che la sua rabbia cresceva.
Oh,
se lo immaginava... quasi riusciva a vedere cosa aveva visto suo padre
negli
occhi di Joshua, fin troppo strani nonostante l'aiuto delle lenti a
contatto. Una
luce di cattiveria, un brillio di sfida incastonato in quelle iridi
color del
ghiaccio, fin troppo inquietanti per non sentire almeno una briciola di
paura
nel cuore. E poi il sussurro, le sue parole... "Suo figlio
sarà
mio"... poteva quasi sentirlo mormorare al suo fianco mentre se lo
immaginava, la voce profonda e il tono maliziosamente minaccioso.
Sorrise
beffardo, socchiudendo gli occhi. «
Papà, io sono già suo »
pronunciò
chiaramente, senza però perdere la nota di sfida con cui
aveva intriso il suo
tono di voce.
Trent
trattenne il fiato, colpito se non sorpreso dalle parole del figlio, e
fu
quello il momento in cui finalmente Eric riuscì a liberarsi
della sua presa con
un secco strattone. «
Addio papà »
sussurrò infine,
girandosi finalmente per l’ultima volta e abbandonando gli
spogliatoi.
Quando
finalmente riuscì ad uscire, facendo slalom fra la massa di
parenti che
attendevano l’uscita dei figli, poté finalmente
godersi la frescura dell’aria
sul viso ancora accaldato.
Il
cuore gli batteva all’impazzata e, per una qualche confusione
di motivi che
ancora non riusciva a mettere esattamente in ordine, percepiva il
bisogno
fisico di piangere.
Era
stress, oppure nervosismo. Anche tristezza, e sentiva da qualche parte
persino
la rabbia e l’insoddisfazione.
Ma
si trattenne. Era un uomo ormai, non si sarebbe messo a frignare.
Alzò
lo sguardo quel tanto che bastava per individuare Joshua, appoggiato di
schiena
al muro del caseggiato di fronte, e con viso basso gli passò
velocemente a
fianco, incamminandosi senza dire una parola.
Si
sentiva veramente sull’orlo delle lacrime, e non voleva che
Joshua lo vedesse
così. Non sapeva perché, ma non voleva.
Forse
desiderava apparire forte. Forse aveva paura che l’altro lo
avrebbe preso in
giro, o si fosse stancato di lui, nel vederlo così
dannatamente... debole.
Ma
il dio della morte non disse nulla, limitando ad incamminarsi dietro di
lui e a
seguirlo, a qualche passo di distanza.
Un
distanziamento che Eric ebbe il coraggio di mantenere appena per
qualche
minuto.
Si
fermò poi sul marciapiede vuoto, ormai inghiottito dalla
notte, aspettando.
Joshua,
il suo passo sempre pacato e tranquillo, lo oltrepassò con
calma e si fermò un
passo avanti a lui. Rimase girato di schiena, le mani nelle tasche del
cappotto
nero, e l’unica cosa che Eric poté sentire da quel
momento fu la sua voce: «
puoi piangere, se
vuoi. Io non guardo ».
Era
la seconda volta che sentiva quelle parole provenire dal moro. Era la
seconda
volte che si accorgeva, con sua sorpresa, che chissà
perché nei momenti
difficili Joshua era sempre lì, a dirgli che poteva piangere
e che lui non si
sarebbe girato a guardarlo.
Non
si trattenne più. Pianse, lasciando che le lacrime salate
scivolassero lungo le
sue guance e che il respiro si rompesse in silenziosi singhiozzi e
sospiri. «
Puoi... guardare »
acconsentì poi,
borbottando come un bambino che tenta inutilmente di dimostrarsi grande
e di
non piangere di fronte alle difficoltà.
Lo
vide voltarsi, poi osservarlo. Lo vide avvicinarsi piano, poi,
finché non fu
abbastanza vicino da permettergli di appoggiare la fronte sulla sua
spalla, e
di stringere fra le mani la stoffa del suo cappotto.
Non
sapeva con certezza per cosa piangesse, ma la cosa non importava.
Joshua non
diceva nulla e stava semplicemente lì, in silenzio, non
facendogli sentire
altro che la propria presenza... preziosa, più importante di
parole randomiche
buttate al vento.
Come
faceva a dire di non essere umano, se era capace di così
tanto? Come riusciva
ad essere più sensibile di qualsiasi altro? Come faceva un
suo abbraccio ad
essere così protettivo, se era stato mandato sulla terra per
ucciderlo?
Era
un controsenso.
______________________________________________________________________________________
Capitolo
a dir poco lungo. Dovrei smetterla, dato che poi correggerli
è una faticaccia.
Chiedo
oltremodo scusa per l’immane ritardo
dell’aggiornamento; purtroppo riprendere
l’università mi sballa gli orari, e cercare di
incastrare il tempo necessario
per scrivere si fa un po’ complicato. In ogni caso eccomi di
ritorno, e... -2
capitoli alla fine!
Ora
qualche risposta ai commenti, poi vi lascio riprendere l’uso
della vista XD
Alla
prossima!
Shichan:
il fatto che io
trovi abbastanza semplice muovere Eric ogni tanto mi inquieta.
Soprattutto se
assomiglia così tanto allo standard di “anima
candida” (e, a sentire dalle
recensioni, ci assomiglia proprio XD). Enma... Enma si ama SOLO per il
sadismo,
suvvia! Mi sono divertita da matti a scrivere quelle scene
X°DDDD
E
beh, la lemon è la lemon U.u anche se sono ancora convinta
che poteva venirmi
meglio. Quei due, se non ci sto attenta, cadrebbero in un livello di
pucchosità
fuori dal comune... e già nel prossimo capitolo saranno
melensi, figurati se
perdo la stretta.
Spero
che ti sia piaciuto anche questo =*
Dea73:
grazie
ç___ç ero convinta
che, per come l’ho scritta, la lemon fosse avvincente quanto
un mattone *una
persona incapace di scrivere lemon volgari*. Per quanto riguarda
l’atmosfera,
beh... direi che dipende anche molto dalla piega che sta prendendo in
carattere
di Joshua/Abrahel. Anche se ogni tanto mi sfugge di mano
^^’’’
Ti
ringrazio molto per la recensione, e anche per i complimenti sullo
stile di
scrittura ^^ mi fa piacere che si legga bene.
Gioielle:
tralasciando
gli
orari a cui scrivi i commenti, sappi che tutte le volte che trovo il
tuo papiro
mi diverto troppo XD
Allora,
andiamo con ordine: sono felice che Enma ti piaccia, davvero XD quel
poveretto
è sottovalutato. Così come sono felice che Joshua
sia uno dei tuoi personaggi
preferiti °____° poverino, nella mia immaginazione non
gode di molta simpatia,
purtroppo. Eric... Eric è adorabile, dopo aver letto qualche
commento mi tocca
ammetterlo.
Lungi
da me far si di interrompere il sonno di tua sorella! X°DDD e,
mi ripeto, sono
felice che la lemon ti piaccia. Non riuscendo a scriverle volgari
quanto vorrei
mi sembrano sempre troppo “soft”... anche se per
questi due, forse,
effettivamente stava meglio così.
Infine
grazie molte per i commenti sullo stile, sui pg... beh, su tutto, dato
che
praticamente mi hai scritto una valanga di complimenti
>//< spero che
questo capitolo non ti abbia annoiata troppo <3
|