Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Yoko Hogawa    26/11/2009    5 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Thursday
Parte 2
 
Eric
Human I want to be
 
 
C’era qualcosa che lo teneva stretto, dolcemente protetto in un abbraccio gentile.
Così si svegliò quel giovedì pomeriggio, quando ormai l’orologio sul mobile segnava le tre e cinque; con la schiena unita al petto di Joshua che, dietro di lui, aveva la fronte appoggiata alla sua nuca e un braccio intorno alla sua vita.
Era fresca, la sua pelle. Esattamente come l’aveva immaginata la sera prima, e sentita quella mattina. Ma nonostante ciò non provava fastidio, così come non sentiva freddo e non ne aveva sentito.
Era stato... bello. Non sapeva come altro definirlo.
La calma e la gentilezza con cui Joshua lo aveva toccato, sfiorando con le mani ogni centimetro di pelle su cui potesse posare sguardo, era stato talmente eccitante e delicato da creare un contrasto particolare.
Qualcosa che non aveva mai sentito, un’eccitazione che non aveva mai provato.
Quelle mani fresche su tutto il corpo, la sua bocca a baciare la pelle sottile del collo e la lingua a saggiare quella del ventre... le sue labbra avevano pienamente sopperito all’impossibilità di baciarsi, dedicandosi con attenzione ad ogni suo piccolo desiderio, quasi come fossero state create solo per quel motivo.
La lentezza, e l’aspettativa... un misto di sensazioni incredibile, sentire il fuoco nelle vene ma il silenzio nelle orecchie, interrotto solo ogni tanto (e sempre più spesso) da gemiti che si accorse solo dopo essere suoi.
Joshua aveva sfiorato, e carezzato, e toccato, e morso, e graffiato... ogni parte di lui, ogni suo segreto, finché non si erano finalmente uniti, dando sfogo all’eccitazione e all’impetuosità che quella passione aveva pian piano fatto nascere in lui, disinibendo ogni suo controllo.
Il moro era scivolato dentro di lui con calma, quasi avesse paura di fargli del male. E il dolore vi era stato, sì, ma solo per un attimo prima che fosse sostituito dal piacere. Prima che lui fosse attratto non più dal male, ma dal ritmo crescente delle spinte, e dall’espressione presa di Joshua; le labbra schiuse e ansimanti dallo sforzo, le gote arrossate... una visione che non si sarebbe mai dimenticato, quella dell’altro che chiude gli occhi lasciandosi andare alla pura eccitazione fisica, che intreccia le dita delle loro mani, che si china per baciargli la fronte, non potendo baciare le labbra...
Tutte cose che non aveva mai sentito, prima. Sensazioni che non avrebbe potuto percepire durante un rapporto normale, con uomo o donna che fosse, avuto semplicemente per gioco o per convenienza.
Invece no. Stranamente, l’unica entità (si poteva definire uno Shinigami “persona”?) che degli esseri umani non avrebbe dovuto conoscere nulla, in realtà aveva dimostrato di saper amare meglio di quegli stessi umani.
E adesso, stretto al suo corpo con le gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola, sentiva che per nulla al mondo avrebbe rimpianto il momento in cui aveva deciso di mettere piede in quella casa.
O, nonostante la fine a cui era destinato – un brivido lo scosse al pensiero – non avrebbe mai smesso di ringraziare chi di dovere per avergli permesso di incontrare Joshua.
Anche se non era normale. Anche se non sarebbe durata.
« Sei sveglio? »
Fu proprio la voce del moro a distrarlo dai suoi pensieri, facendolo sorridere tristemente. Il bello dell’essere voltati di schiena, pensò incoerentemente, era quello che l’altro non poteva vederlo in viso.
Non voleva mostrargli la paura, o la preoccupazione per ciò che sarebbe avvenuto dopo. Anche se poteva sembrare un controsenso pensarlo, era quasi convinto che l’altro avrebbe vacillato sin troppo se lo avesse visto preoccupato, o impaurito solo la metà di quanto lo era davvero alla prospettiva di chiudere gli occhi e di non aprirli mai più.
Prese un respiro, rispondendo: « Sì. E tu da quanto sei sveglio? » domandò.
« Io non dormo » ribatté il moro, sussurrando con le labbra attaccate alla pelle del suo collo, che si premurò di baciare.
Eric arrossì appena, improvvisamente imbarazzato del gesto. Che enorme controsenso, dopo quello che c’era stato tra loro...
O forse era proprio per quello?
« Chissà che noia » commentò. Ormai non riusciva più a stupirsi per cose che riguardavano Joshua.
« Relativamente » rispose ancora il moro: « russi, lo sai? » aggiunse, sempre in un sussurro data la vicinanza fra loro.
« No, non è vero » ribatté scuro Eric, portando la mano sopra quella di Joshua ed intrecciandone le dita.
Sentì le labbra dell’altro stirarsi in un sorriso sulla propria pelle: « e come fai ad esserne sicuro? » domandò strafottente, posando un nuovo bacio appena sotto l’orecchio.
« Lo so e basta! » esclamò il castano, girandosi di scatto quando il gioco prese il sopravvento sul suo autocontrollo.
E si ritrovarono fin troppo vicini, perché le loro menti non fossero attraversate contemporaneamente dallo stesso pensiero.
Un bacio. Uno solo. Ne avevano bisogno, lui più dell’altro.
Era incredibile quanto il loro piccolo mondo andasse a rovescio rispetto alla realtà; solitamente è il rapporto, l’unione fisica, ciò che si aspetta con ansia.
Invece per loro no, era l’opposto. Per loro era il bacio, era il proibito sfiorarsi di labbra l’oggetto della mancanza.
E dal sorriso di Joshua vide che anche per l’altro valevano le stesse identiche cose.
« Non è consigliabile per te venirmi così vicino... » disse, e Dio solo sapeva quanto sentire il fiato sulle proprie labbra non spingesse Eric a fregarsene, e a baciarlo in quel momento esatto.
L’autocontrollo vinse... almeno quella volta.
Si morse il labbro inferiore, portando lo sguardo da quelle labbra sottili ai suoi occhi nivei: « lo sai che è una tortura, vero? » sussurrò appena, sicuro che comunque Joshua lo avrebbe sentito.
Il moro annuì, portando la mano destra a carezzargli la guancia. Non aggiunse altro però, preferendo tacere su ciò che entrambi loro conoscevano perfettamente.
Perché ormai tutti e due sapevano a cosa avrebbe portato il bacio che prima o poi si sarebbero sicuramente scambiati. La mezzanotte di venerdì, in cui avrebbero finalmente unito le loro labbra, sarebbe stata anche l’ultima.
Tutte le volte in cui ci pensava, un brivido freddo non poteva evitare di scivolargli lungo la schiena. Aveva paura, non poteva evitarselo, e l’idea sembrava diventare ogni volta un peso sempre più grande.
Colto in fallo da quelle stesse sensazioni, chiuse gli occhi. Portò la mano a cercare quella di Joshua, ancora sulla sua gota, stringendola fra le sue. Sentì quella mano chiudersi sulla sua prima di essere attirato contro il petto dell’altro in un abbraccio, caldo e rassicurante nonostante la temperatura corporea del moro non superasse i trenta gradi.
Gli si fece incontro, sospirando. Quanto doveva essere strana la sua vita, se trovava pace fra le braccia di colui che, in un modo o nell’altro, era motivo e causa dei suoi guai?
Era Joshua l’incaricato di ucciderlo, era Joshua che lo avrebbe fatto. Eppure lui non fuggiva, non cercava di salvarsi.
No, lui... lo abbracciava. E ci faceva l’amore insieme, e ci parlava, e si fidava. Lo amava.
Era possibile amare la Morte.
Di quell’amore che provano gli amanti... quello era ciò che sentiva per Joshua, per quel ragazzo non umano che era entrato nella sua vita nemmeno una settimana prima e l’aveva rubata, con l’intenzione letterale di portarsela via.
« Eric » si sentì poi chiamare, e per dare prova di stare sentendo mosse appena il viso contro il suo collo. « Non ci pensare ora » aggiunse il moro, portando le dita fra i capelli in una carezza sulla sua nuca.
Possibile che fosse un libro aperto?
« Una cosa facile, eh? » ironizzò il castano, ma cercò seriamente di seguire il suo consiglio. Quello che voleva, al dì là di tutto, era rendere indimenticabili gli ultimi due giorni (ormai uno e mezzo) che aveva rimasto da vivere.
« Josh? » questa volta fu lui a chiamarlo.
« Mh? » rispose l’altro, senza lasciarlo.
« Tu... puoi amare? » domandò.
Si potevano leggere molte cose fra le righe di quella domanda. Palesi e non, ma c’era molto di più sotto quel semplice quesito.
E suonava quasi egoista, da parte sua. Così come poteva essere un riflesso di ciò che provava lui, nonostante fosse passato così poco tempo da quando lo aveva conosciuto, e dell’altro non sapesse granché.
Joshua non rispose subito. Passò alcuni istanti in silenzio, ponderando probabilmente la risposta da dargli.
« Non lo so » esordì poi.
Fu quasi sicuro che il suo cuore avesse dolorosamente mancato un battito.
« Non fraintendermi » aggiunse però subito: « non ho detto che non ti amo. Ma non ho nessun punto di riferimento per fare un confronto. Io... » una pausa, un altro pensiero fugace: « non sono abituato, ad essere umano. Non credo di riuscire a capire cosa sia l’amore » disse.
Eric si sentì quasi sollevato, nel sentire quelle parole.
« Io credo che nemmeno gli esseri umani capiscano realmente cosa sia l’amore. Non sei diverso da noi » rispose lui, sorridendo lievemente ad un pensiero tutto suo.
Joshua era tutt’altro che l’entità maligna che veniva dipinta nei libri di storia e folklore. Se poteva provare affezione per qualcuno – e i suoi gesti, a dispetto delle parole, lo dimostravano ampiamente – allora non era cattivo... non credeva che potesse esserlo.
 
Un piacevole odore di pancetta e uova si diffuse nell’aria dopo la doccia, ricordandogli che, effettivamente, sembrava passata un’eternità dall’ultima volta che aveva mangiato qualcosa.
Infilandosi gli abiti della sera prima – solo quelli aveva a disposizione al momento - uscì dal bagno attraversando la sala e dirigendosi al cucinotto; Joshua, di spalle rispetto a lui, stava probabilmente rigirando le uova di cui sentiva solamente lo sfrigolare nella padella.
« Dove hai imparato a cucinare se passi così poco tempo nel nostro mondo? » domandò retorico, raggiungendolo e appoggiandosi di schiena al ripiano di fianco al fornello.
« Non ci vuole una laurea per cuocere due uova » fu la risposta dell’altro, che sorrise appena a sentire la sua risatina divertita.
Lo osservò per un attimo, soffermandosi particolarmente sulla quantità di cibo che aveva cotto: « suppongo che tu non mangerai » esordì poi, tornando con gli occhi su quelli dell’altro, di nuovo color del ghiaccio grazie alla magia delle lenti a contatto.
« Più tardi » rispose quello con un sorriso cortese, che ormai Eric aveva imparato a decifrare come “è roba da Shinigami e credimi, non ti piacerebbe saperlo”.
Scostò con la paletta le uova in un piatto, aspettando che anche la pancetta si rosolasse ben bene. L’odore che emanava era fin troppo buono per Eric, che si sentiva l’acquolina in bocca.
Si accorse che Joshua lo stava osservando solo quando i suoi occhi tornarono sul viso del moro. « Che c’è? » chiese curioso, sorridendogli.
Vide il moro alzare una mano in direzione della sua guancia destra, sfiorando con le nocche la pelle fresca. « Non si vede più nulla » osservò: « fa ancora male? » domandò poi, gentilmente.
Eric negò con il capo, ricordandosi solo in quel momento degli schiaffi ricevuti dal padre solo la sera prima... anche se ormai sembrava quasi un’eternità.
L’altro annuì appena con il capo, togliendo anche la pancetta dal fuoco per poi porgergli il piatto. « Le posate sono sul tavolo » integrò, indicando dietro di sé con un cenno del capo.
Il castano andò a sedersi, cominciando lentamente a mangiare. Joshua aveva ragione: non serve una licenza speciale per cuocere due uova e una striscia di pancetta... ma, ora che sapeva, persino il cibo prendeva un sapore diverso, quasi più buono del solito.
Già... le sue ultime uova e pancetta.
Cercò di non pensarci, sospirando appena. Aveva delle cose da fare prima che fosse l’ora, e doveva farle quel pomeriggio. Aveva tutta l’intenzione di passare la giornata di venerdì con Joshua... e poi quella sera era l’occasione migliore di rinfacciare a suo padre tutto ciò che l’uomo aveva sempre rinfacciato a lui.
Sì, non poteva aspettare oltre.
« Josh » chiamò dunque, attirando l’attenzione dell’altro.
« Mh? » si fece sentire il moro, ancora impegnato a sistemare le varie cose usate per cucinare.
« Oggi pomeriggio ho bisogno di qualche ora. Devo... fare dei giri » disse, quasi aspettandosi di sentire una negazione provenire dall’altro. Magari una qualche regola che impediva alle vittime di stare lontane dallo Shinigami assegnato nelle quarantotto ore prima del bacio, che ne sapeva?
Ma l’altro non disse nulla del genere. « Puoi andare dove vuoi » gli comunicò solamente, non aggiungendo altro.
Era normale, pensò poi Eric; se il dio della morte sapeva sempre e comunque come rintracciarlo, che gli fosse stato lontano o vicino non faceva differenza.
« Grazie » ringraziò lui: « se non ti secca, vieni stasera intorno alle nove al Palazzetto dello Sport in centro. Sarò lì... poi tornerò a casa con te » aggiunse, smettendo di mangiare per sentire l’eventuale risposta.
« Non mi secca » rispose l’altro, appoggiandogli una mano sulla testa: « fai quello che devi, stasera ci sarò » disse, con un tono che sembrava una pacata promessa.
Chissà perché, ma Eric aveva l’impressione che, al di là del suo “lavoro”, le promesse di Joshua fossero di quelle - rare - che valevano veramente qualcosa.
 
 
Rientrare a casa non fu difficile a quell’ora del pomeriggio, in cui nessuno avrebbe dovuto esserci. Suo padre al lavoro, sua madre a far spesa e suo fratello al doposcuola; la situazione ideale per lui, dato che non avrebbe incontrato verosimilmente nessuno di loro.
Si chinò a prendere la chiave di scorta sotto al vaso, ritrovandola al solito posto di sempre. Infilandola nella toppa, e girando due volte, essa si aprì senza sforzo.
Strano che suo padre non avesse già provveduto a sostituire le serrature.
Beh, magari non aveva ancora avuto tempo, ecco.
Appoggiò la chiave sul mobile all’entrata, richiudendosi la porta alle spalle. Attraversò il salotto a passo svelto, salendo rapidamente le scale fino ad arrivare in camera sua, disordinata esattamente come l’aveva lasciata il pomeriggio precedente. Si tolse jeans e camicia gettandoli da qualche parte sul letto, estraendo dal cassetto dell’armadio biancheria pulita e vestiti più comodi: un altro paio di jeans, questa volta scuri, maglietta di cotone e una delle sue felpe a cerniera. Raggiunse il borsone della piscina, svuotandolo dell’occorrente per il nuoto per poi cominciare a riempirlo con abiti a caso.
Non gli sarebbero serviti a molto, ma credeva fosse molto meglio che a casa pensassero che se ne fosse andato. Se avesse lasciato tutti i vestiti in camera, probabilmente avrebbero pensato che non fosse poi molto lontano, o che avesse intenzione di ritornare.
Cosa che non sarebbe comunque mai successa.
Perciò non voleva dare false speranze almeno a sua madre, obiettivo di quella piccola recita.
Nella foga che mise nel riempire il borsone con tutto quello che gli capitava sotto mano, improvvisamente la mano afferrò il portafoto sul comodino, in cui era incorniciata la foro di famiglia di quasi sei anni prima.
Si fermò, pensieroso, aggrottando le sopracciglia.
Cosa stava... facendo?
Alzò lo sguardo alla parete sopra al letto, osservando le varie foto incorniciate sulla mensola. Vi si avvicinò, osservandole una per una.
La squadra di basket di quando era ancora bambino, la prima volta che giocò in campionato. Le divise rosse con lo stemma davanti, le facce sorridenti, il pallone in mano al playmaker... e suo padre, là nell’angolo del gruppo, con una mano appoggiata alla sua spalla, in piedi lì di fianco.
Quella dopo: la fotografia di gruppo della squadra di nuoto. Il coach in piedi al centro della fila posteriore, con un braccio intorno alle spalle di Satler al suo fianco, e lui inginocchiato appena sotto di loro, accanto ai suoi compagni.
La terza, infine, scattata in un pub con Robert e Douglas quando ancora il loro gruppo era numeroso ed includeva altri compagni delle scuole superiori.
Strano come sembrasse lontano quel periodo, nonostante non fosse stato più in là di tre anni. Non riusciva quasi più a ricordare i loro caratteri, o anche i loro volti al di là dalle espressioni sorridenti della foto.
Sospirando mestamente, lasciò perdere. Non era il caso di farsi il sangue amaro per niente, e comunque non in quel momento.
Fu nel dare un’ulteriore occhiata sommaria alla stanza che lo sguardo gli capitò sulla porta, sulla quale una persona stava in piedi, ferma ed in silenzio. Suo fratello Alex, per essere precisi.
Lo guardò a sua volta, ma proprio mentre stava per pronunciare il suo nome, anche solo come saluto, si trattenne.
Ciò che gli aveva fatto la sera prima meritava anche solo un saluto, dopotutto?
No.
Si limitò dunque alle domande di rito, tornando con una ben recitata noncuranza a scegliere sommariamente i vestiti da mettere in borsa, facendo una selezione prettamente casuale e disinteressata.
« Non dovevi essere a scuola? » chiese dunque, tono di sufficienza.
Alex non rispose, e con la coda dell’occhio Eric appurò che seguiva ogni suo movimento. Aveva uno sguardo indeciso, le sopracciglia non proprio arcuate, la fronte leggermente aggrottata.
« Te ne stai andando? » domandò infine il fratello minore, tenendo le braccia dritte come fusi lungo i fianchi e i pugni chiusi.
Eric sospirò, lasciando scivolare la mano sulla stoffa dell’ennesima maglietta senza afferrarla. Perché non riusciva mai ad ignorare nessuno, lui? Perché doveva interessarsi ad ogni essere umano che arrivava con la vocina rotta e un’espressione sulla soglia delle lacrime?
Non era un santo... ma forse era uno stupido.
Ritornò con gli occhi a quelli del fratello, scoprendo le carte in tavola. Era inutile tenere sul volto la maschera del cattivo ragazzo menefreghista, se in realtà non lo era nemmeno da lontano e con tanta fantasia. «» rispose perciò, semplicemente.
Negli occhi di Alex passò l’ombra di quella sensazione di inadeguatezza che si prova quando si viene feriti. Sembrava nel panico anche se gli occhi non lasciavano mai i suoi, ed Eric si aspettava quasi che scappasse giù per le scale come quando erano piccoli e l’altro perdeva a carte.
Non scappò... ma nonostante i suoi quattordici anni non riuscì a non piagnucolare: « è colpa mia... se tu e papà avete litigato è colpa mia! » esclamò, e le lacrime furono troppe per poterle trattenere.
Scoppiò a piangere in un modo che sarebbe sembrato quasi ridicolo, se il discorso trattato non fosse stato così schifosamente serio.
Il castano sospirò, coprendo con calma i pochi passi che lo separavano dal fratello. Si avvicinò finché non poté appoggiargli una mano sulla testa e attirarla a sé, facendo sì che appoggiasse la fronte alla sua spalla.
Alex gli cinse la vita con le braccia, aggrappandosi con le mani alla stoffa della felpa, singhiozzando più forte. Eric gli accarezzava i capelli lentamente, cercando di tranquillizzarlo, ma dentro di sé si sentiva quasi... colpevole.
Odiava vedere le persone piangere, e suo fratello non faceva di certo eccezione. Molte volte era una carogna, ma questo non significava che dovesse – o volesse – odiarlo. Era solo uno dei tanti fratelli minori.
« Alex, non è colpa tua se io e papà litighiamo » gli disse quando sembrò che il pianto si fosse un po’ calmato: « a dire il vero, credo che non sia colpa di nessuno » aggiunse, appoggiandosi affettuosamente con la guancia sulla testa del fratello, il cui volto era ancora nascosto nell’incavo fra la sua spalla e il collo.
« Però... » piagnucolò l’altro, rimanendo però abbracciato al maggiore: « io non ti ho aiutato, non gli ho detto che eri uscito, e... è solo che fai sempre arrabbiare papà, e dopo lui è sempre agitato, e se la prende con la squadra... » balbettò, cercando inutilmente di spiegare il perché avesse taciuto, mettendo Eric nei guai. « Non pensavo che ti avrebbe picchiato, scusami! » esclamò d’un tratto, riprendendo a singhiozzare.
Eric sorrise, cingendogli le spalle con l’altro braccio. Per quanto ne dicesse, o per quanto cercasse di dimostrarsi forte e adulto, Alex rimaneva un mocciosetto di quattordici anni che andava in crisi con un nonnulla.
« Non mi ha fatto niente, ok? Vedi? » domandò retoricamente, scostando il fratello dalla propria spalla per potergli mostrare la guancia colpita la sera precedente. Nulla si vedeva, come Joshua aveva detto qualche ora prima, a parte un piccolo alone rossastro.
Alex la guardò con gli occhi lucidi e la punta del naso rossa. Annuì appena in risposta al fratello, passandosi la manica della maglietta sugli occhi per asciugarseli.
Eric gli spettinò i capelli, sorridendo gentilmente. Pian piano però il sorriso si spense, lasciando posto ad una sorta di espressione malinconica.
« Alex... » chiamò poi, cercando di stirare le labbra in un sorriso non propriamente convincente. Non doveva dirglielo, non doveva. Non avrebbe dovuto proprio.
L’attenzione del fratello minore era tutta per lui.
Non seppe trattenersi: « a te piace giocare a basket? » domandò, consapevole che all’altro sembrasse una domanda saltata fuori dal nulla.
Cosa che non era, nella sua testa.
«» rispose infatti Alex: « perché? » chiese subito dopo.
« E lo fai volentieri? » domandò nuovamente, guardandolo negli occhi con sguardo gentile.
Sperava solo che non arrivasse subito al significato nascosto di quelle parole. Così come sperava di non dare troppo a vedere che, dopo quei pochi minuti che avrebbero ancora passato insieme, probabilmente non lo avrebbe rivisto mai più.
Ma doveva essere sicuro che Alex non diventasse per loro padre il nuovo “Eric”. Doveva accertarsi delle intenzioni del fratellino, e lasciare tutti i consigli che poteva nel breve tempo che gli rimaneva.
Il minore sembrò pensarci sopra per un momento, prima di dargli la sua risposta. Annuì, racchiudendo il tutto nella frase: « a papà fa piacere, e a me piace ».
Eric sospirò, decisamente sollevato. Se Alex lo faceva volentieri, allora era tutto a posto. Avrebbe vissuto un’adolescenza meno stressante della sua di sicuro.
« Bene, ora mi sento meglio con me stesso » gli rivelò quasi allegramente, tornando all’armadio per prendere l’ultima cosa, l’unica che gli sarebbe servita veramente.
Da sotto un telo di plastica da lavanderia, appesa ad una crocetta di ferro, la sua divisa della squadra di basket rivide la luce dopo un anno in cui aveva respirato solo plastica e anti-tarme.
La osservò, sfiorando con le dita il tessuto in cotone e lycra intrecciati di cui erano composte le sue maglie. Il rosso, colore della squadra locale, con il cognome “Everald” sulla schiena sopra al 23, il suo numero da sempre.
Il primo numero di Michael Jordan, guardia tiratrice proprio come lui.
Non la indossava da un anno, e non gli mancava. C’era un motivo se aveva preferito il nuoto al basket, e nonostante suo padre ne avesse fatto fin dall’inizio una questione personale non c’entrava assolutamente niente con l’uomo.
Voleva gareggiare da solo. Voleva vedere un mondo in cui non esistevano urla, o incitazioni, o musica, o balletti da cheer leader, o mascotte, o tamburi, o sudore...
La vasca era un paradiso ovattato di rumori lontani solo vagamente percepibili da sotto la cuffia di lattice. Un mondo in cui il termine “squadra” era una parola vana, utilizzata solo per portare i colori della città di provenienza.
Ma una volta in acqua, sei da solo. Una volta tuffato non c’e nessuno che ti sospinge, o ti tira verso la fine della corsia. Dal tuffo all’arrivo, se tu contro te stesso.
E non hai responsabilità se non per te stesso.
Il basket non avrebbe mai potuto essere così. Mai.
« A cosa ti serve quella? » domandò Alex con un sussurro, ancora sulla porta.
Eric sorrise. « Mi serve » rispose solo, riponendola nello zaino.
 
 
Lasciare suo fratello si era rivelata una cosa particolarmente difficoltosa da fare, alla fine.
Avrebbe volentieri ammesso che fosse tutto a causa delle lacrime di Alex, riprese poco prima che lui arrivasse alla porta d’ingresso; oppure dell’abbraccio in cui lo aveva bloccato, o delle preghiere imploranti che gli aveva rivolto... ma la realtà era che lui non si era tirato indietro.
Era solo che... aveva pensato improvvisamente che quella era l’ultima volta. Che entro qualche minuto sarebbe uscito dalla porta di casa e non l’avrebbe mai più riaperta. Che non avrebbe mai più rivisto Alex, o sua madre, o le foto di famiglia in sala, o i fiori finti sul tavolinetto in salotto...
E si era sentito perso. Come se galleggiasse in un vuoto che non poteva colmare nemmeno con i propri pensieri, così persistenti e consistenti da poter riempire anche il silenzio delle notti in cui non riusciva a dormire.
Era come stare in piedi sulla cima di un burrone di cui non vedeva il fondo, mano nella mano con Joshua, sapendo che sarebbe stato proprio l’altro a dargli la spinta che lo avrebbe fatto precipitare.
Per la prima volta, aveva preso in considerazione l’idea di fuggire. Di cercare di salvarsi.
Ma aveva cancellato subito quel pensiero, calmando il suo cuore mentre cercava di lenire il pianto del fratello attaccato nuovamente alla sua felpa.
Non voleva essere un codardo, così come non voleva essere un traditore. Aveva dato la sua parola, promettendo a Joshua che sarebbe tornato indietro, e da lui sarebbe effettivamente andato.
Aveva perciò baciato la fronte di suo fratello, spettinandogli affettuosamente i capelli. Si era voltato e aveva varcato la porta di casa, camminando lungo il vialetto senza mai voltarsi indietro.
Aveva sentito subito lo stomaco chiudersi, e gli occhi riempirsi di lacrime. Aveva resistito stoicamente fino ad Heaven Park, che ora stava attraversando a passo svelto, diretto verso l’università.
Il borsone lo aveva nascosto in garage. Nessuno si sarebbe mai accorto che era lì, almeno per un po’ di tempo.
A lui non serviva tutta quella roba. Il cambio d’abiti e di biancheria che aveva nello zaino insieme alla divisa erano più che sufficienti, per un giorno.
Arrivò nei giardini della facoltà in breve tempo, dirigendosi quasi subito in verso il centro sportivo. Erano ormai le cinque del pomeriggio... se non aveva fatto male i suoi conti, probabilmente avrebbe trovato Timoty in vasca.
Aveva pensato molte volte che Timoty Satler non avesse una vita sociale. Si allenava al mattino prima delle lezioni, Nuotava alla sera prima dell’allenamento collettivo, partecipava a quest’ultimo e molte volte si tratteneva anche dopo.
Quando non era in piscina, era quasi sicuramente in biblioteca.
Non aveva mai capito perché la sua vita fosse per la maggior parte racchiusa all’interno delle mura universitarie. Cioè, comprendeva che fosse un ottimo nuotatore, e che magari avesse tutte le possibilità per arrivare a gare di livello abbastanza alto... ma tutti hanno bisogno di amici, o di mettere piede fuori dalla piscina in luoghi che non fossero pieni di libri di testo.
Poi, con il tempo, probabilmente aveva capito il perché del suo comportamento.
Satler era un ragazzo cordiale, ma in pratica non esprimeva nulla all’infuori di quella stessa, fredda cordialità con cui si rivolgeva a tutti quelli che gli stavano intorno. Non parlava se non interpellato, non esprimeva la propria opinione se non gli veniva esplicitamente chiesto, non chiedeva mai ad altri di uscire, o di unirsi ad essi quando erano loro che organizzavano un’uscita di gruppo.
Aveva capito che non era che Timoty Satler fosse solo; Timoty Satler voleva rimanere solo.
Per quel motivo, adesso che poteva, desiderava chiedergli il perché. Per lui, Timoty era un compagno di squadra sempre disponibile, che lo aveva aiutato parecchio nei primi momenti, quando ancora non aveva legato con nessuno e passava il suo tempo a provare e riprovare virate e tuffi.
E non voleva credere... che nella sua esistenza l’altro non avesse nulla d’importante per cui valesse la pena vivere, e non limitarsi a sopravvivere.
Glielo avrebbe chiesto. Come regalo d’addio che faceva a s stesso, avrebbe sciolto l’intricato mistero che si celava dietro quei vuoti occhi blu.
Arrivò in piscina poco dopo e, con un cenno del capo alla receptionist, si diresse verso le tribune. Subito il classico caldo afoso della vasca lo investì, togliendogli il respiro per un attimo, ma molto presto l’abitudine prese il sopravvento sulla sensazione di soffocamento.
Non si passano sei giorni su sette in piscina se non ci si può acclimatare in pochi secondi al clima amazzonico che regna là dentro.
Si fermò in fondo alle tribune, appoggiando le mani sulla balaustra in metallo e sporgendosi verso la vasca. Lo scrosciare dell’acqua sui bordi era un ottimo compagno per l’odore pressante di cloro di cui tutto l’ambiente era intriso, e in mezzo a tutte quelle braccia che si muovevano nell’acqua fu inizialmente difficile individuare Satler... ma non impossibile.
C’era, infatti: stava nuotando a dorso in corsia cinque, una di quelle più vicine alle tribune, e dopo una virata perfetta stava ora per completare i cinquanta metri in velocità.
Eric aspettò che arrivasse in fondo, prima di alzare una mano in sua direzione e farsi notare. Non si disturba un nuotatore mentre nuota... si è persi completamente in un mondo proprio, è traumatico quanto risvegliare un sonnambulo.
Timoty lo notò solo dopo qualche istante, osservandolo quasi stranito per qualche secondo. Si tolse poi gli occhialini, guardando bene in sua direzione, prima di stirare le labbra in un sorriso cordiale e avvicinarsi alla scaletta.
Salì, mettendo in mostra il suo fisico asciutto bagnato dall’acqua... che subito Eric, involontariamente, associò a quello di Joshua per un confronto.
Magari era una decisione deviata dai sentimenti, ma lui preferiva quello del dio della morte – senza nulla togliere al rosso, che comunque non se la cavava affatto male.
Scosse il capo velocemente, attendendo che il ragazzo mettesse l’accappatoio e si avvicinasse a lui. I capelli rossi erano completamente bagnati nonostante la cuffia e si attaccavano come tentacoli al collo bianco e sottile dell’altro.
« Everald » salutò Timoty, asciugandosi una guancia con la manica dell’accappatoio blu: « ti avevamo dato per disperso » ironizzò galantemente, non aggiungendo toni di pesante ironia o anche solo di scherzosità nella voce.
Era, sì... come parlare ad un robot che simula la cortesia umana.
 Lo notava bene solo ora.
« Già, sono stato impegnato » rispose il castano sfoggiando un sorrisetto colpevole.
Se per “impegnato” veniva sottointeso “mi hanno quasi stuprato, mio padre mi ha cacciato da casa e mi sono innamorato di un dio della morte che ha il compito di uccidermi”...
Timoty perse subito il sorriso, acquistando un cipiglio serio che Eric riconobbe come una delle rare espressioni genuine del rosso. « Come va con tuo padre? » chiese di seguito, abbassando la voce di un’ottava, probabilmente in modo molto inconsapevole.
Che bisogno c’era di abbassare la voce se ogni singola persona che passava dall’università, anche per caso, sapeva quello che era accaduto nell’atrio del centro sportivo?
Si sforzò di continuare a sorridere, ma gli occhi raccontavano sempre di più del voluto. « Beh, che vuoi... ci sono alti e bassi » rimase sul vago, fissando qualcosa altrove per qualche istante.
Non riusciva a guardare le persone negli occhi quando queste gli ponevano domande serie. Era uno dei talloni di Achille che si era accorto di avere un giorno, così, e che nonostante la sua consapevolezza non era mai stato in grado di correggere.
« Mi dispiace » ribatté Timoty, ed Eric fu totalmente sicuro di aver sentito la voce dell’altro tornare a vibrare sulla lunghezza d’onda della pacata gentilezza.
Ormai ne era sicuro: era tutta una maschera.
« Scusa se ti ho disturbato durante i tuoi esercizi pre-allenamento... » cominciò dunque, riempiendo un silenzio imbarazzante che sembrava alle porte: « ma devo chiederti un favore... e farti una domanda » concluse, tornando con gli occhi su di lui in attesa di una qualsiasi risposta.
Timoty lo osservò per qualche istante, indeciso probabilmente su come doveva prendere il tono con cui Eric aveva pronunciato quella strana richiesta. Ma alla fine annuì, facendo sì che la sua cortesia vincesse sull’istinto.
Eric annuì a sua volta riconoscente, deglutendo. Andava fatto. Avrebbe comunque rinunciato a quel sogno, in un modo o nell’altro, e preferiva farlo con una scusa piuttosto che nel silenzio.
« Devi dire al coach che io non posso più partecipare alle selezioni. E che non potrò più presenziare agli allenamenti... nemmeno far parte della squadra » disse a fatica, chiudendo gli occhi durante quel discorso per poi riaprirli alla fine.
Satler non mosse un muscolo, fissandolo solo. Non sembrava né sorpreso, né turbato, né... niente. Lo guardava e basta, come si guarda un treno passare sui binari della stazione ferroviaria.
Poi, finalmente, fece risentire la sua voce: « c’è qualcosa sotto, non è vero? Tuo padre non c’entra » esordì e sì, Eric ci rimase malissimo.
« Come hai...? »
« Ti si legge in faccia » ribatté: « hai degli occhi sin troppo sinceri ».
Il castano non seppe esattamente come accogliere quell’improvvisa affermazione da parte del compagno di squadra.
Certo, anche Joshua gli aveva detto che i suoi occhi esprimevano molto più di ciò che pensava... ma non credeva fosse così facile leggerci dentro qualcosa.
Doveva essere allenato a farlo, allora. Solo chi ha una capacità d’osservazione elevata può riuscire a dire esattamente quanto e quanto in fondo riesce a leggerti l’animo attraverso gli occhi.
Joshua era un dio della morte, e magari era normale... ma Timoty?
Decise di scoprirlo: « se sempre stato così bravo a “leggere” le persone? » domandò, e la serietà ironica con cui lo disse fece intuire all’altro che il tono della conversazione era improvvisamente cambiato.
Dopotutto, era stato proprio il rosso il primo a portarlo su un livello più privato.
Il rosso annuì appena, lentamente, nobilmente. Sembrava decisamente lo stesso Timoty di sempre, eppure c’era qualcosa di diverso in quel modo di porsi che ora aveva assunto nei suoi confronti.
Si stava difendendo. Da qualche parte, la mente del rosso aveva alzato un muro a difesa dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Poteva quasi vederlo nella staticità dei gesti dell’altro, in piedi immobile davanti a lui.
Era giunto il momento della domanda.
« Tu hai sempre... »
« Non andare oltre » lo interruppe però il nuotatore, alzando la mano destra in sua direzione e chiudendo nuovamente gli occhi. « Tu sei una persona attenta Everald, sin troppo, e non sono sorpreso che tu abbia notato qualcosa di me che non ti torna » cominciò a dire, riaprendo gli occhi. Nelle iridi blu brillava ora una luce diversa, sicura, che dava per la prima volta una certa inquietudine a quello sguardo.
« Ma non risponderai alla mia domanda » continuò per lui Eric.
« ...scusami » disse il rosso: « ma spiegarlo a te vorrebbe dire fidarmi... e io non voglio. Non sono più capace di fare queste cose » aggiunse, senza che la voce tremasse, o venisse a mancare.
Eric rimase stupito per un momento, ma poi annuì con un sorriso. Lungi da lui essere pedante e ficcare il naso.
« Conosco un’altra persona che non si fida degli altri » esordì lui, ridacchiando appena al pensiero dello sguardo burbero di Joshua che insultava la razza umana: « anche se credo che il suo sia proprio un problema di mal sopportazione dell’intera specie umana. Chissà, magari è un trauma infantile » scherzò, per alleggerire la tensione.
« Ha tutta la mia stima » rispose a sua volta Timoty, ritornando al solito tono cortese che sembrava fatto di vetro.
Ad essere sincero con sé stesso, ancora non riusciva a capire il perché Satler avesse deciso di stare rinchiuso nella sua solitudine. Potevano, chissà, una delusione, o un passato lugubre, minare così tanto una persona da impedirle la minima fiducia nell’altro?
Era solitudine anche quella. Una solitudine fatta di vetro. Poteva quasi vedere Timoty rinchiuso dentro una bolla trasparente, attraverso la quale vedeva gli altri senza poter essere visto. Una visione simile aveva, in un qualche modo, il sentore asettico dell’impersonale stanza di un ospedale.
Sentiva di... compatirlo.
O forse lo faceva solo perché lui, ora, aveva qualcuno da definire “importante”. Ora la sua vita, per quanto breve l’avesse riscoperta, sembrava essere meno vuota, meno... asettica, per l’appunto.
E non capiva come una persona potesse decidere liberamente di rimanere chiusa in un ambiente completamente privo di stimoli e stare lì, immobile, lasciando passare il tempo senza provare a viverlo.
Probabilmente il suo volto espresse chiaramente i suoi pensieri, o semplicemente ci pensarono solo i suoi occhi; ma fu comunque sufficiente per Timoty e per la sua acutezza.
« Tu non mi capisci » affermò, prendendolo in una sorta di contropiede: « ma è normale. Anzi, ti auguro di non arrivare mai a capirmi, Everlad » aggiunse, sorridendo in sua direzione.
Non poteva dire di aver compreso l’augurio nella sua interezza, ma in un certo senso poteva percepire la profondità insita in quelle pochissime parole.
Erano le frasi di chi vedeva la sua vita già ad una fine, e che non faceva nulla per cambiarla.
Era così ingiusto... chi aveva ancora a disposizione il tempo di un’intera esistenza si considerava già morto.
« Ok, Satler, per me è il momento di andare » aveva un’altra cosa da fare. L’ultima, e poi sarebbe tornato da Joshua a passare con lui gli ultimi momenti che gli rimanevano: « salutami il coach e gli altri » aggiunse completando il saluto.
Il rosso non rispose subito. Rimase per qualche istante a guardarlo negli occhi, prima di parlare di nuovo: « ho come l’impressione che non ti rivedrò più, perciò sappi che vincerò quella medaglia d’oro » pronunciò con una sorta di solennità nello sguardo; serietà che non gli aveva mai visto prima.
Che fosse riuscito a far breccia, in un qualche modo insolito, nella perfetta corazza adamantina di Timoty Satler?
Ridacchiò allegro. « Ci conto » ribatté solamente, avviandosi a passo lento oltre la tribuna.
Gli rimaneva un solo posto, e poi avrebbe potuto sentirsi soddisfatto.
 
 
Il Palazzetto dello Sport non era mai stato facilmente accessibile.
Era in un altro quartiere rispetto a quello in cui abitavano, o rispetto all’università, e non era poi così raro che dovesse prendere l’autobus per arrivarci.
Accadde anche quella volta.
Avrebbe potuto andare a piedi, e sprecare mezz’ora di viaggio... ma era più che convinto che l’ora più opportuna per presentarsi in campo era a partita iniziata, e non poteva rischiare di arrivare quando stava per concludersi.
Aveva bisogno di tempo, per il suo piano.
Forunatamente, a giudicare dai fischi e dal tifo da stadio che già da fuori si poteva sentire non era arrivato in ritardo rispetto ai suoi piani. Un momentaneo sguardo all’orologio da polso gli rivelò di essere in perfetto orario, così percorse a passo svelto l’ingresso, entrando direttamente negli spogliatoi.
Da lì poteva sentire il tifo delle tribune sopra di lui, così come i ritmici rimbalzi della palla arancione di cuoio e lo stridere delle suole delle scarpe contro il parquet. Se si concentrava, al di sopra delle urla della gente la voce di suo padre sembrava quasi riconoscibile; il tono arrabbiato con cui urlava alla sua squadra di marcare bene, oppure al playmaker di passare all’ala.
Sorrise sornione, aprendo lo zaino con una veloce tirata di zip.
Era ormai abituale che suo padre giocasse con la squadra di prima divisione il giovedì sera. Era sempre stata una persona amante della pianificazione, e il giovedì era uno dei due giorni in cui la squadra non aveva allenamento.
Tuttavia, nonostante stagioni brillanti in cui avevano sfiorato la vittoria del campionato per due volte consecutive, quell’anno la prima divisione non se la stava cavando bene. E, chissò perché – sì, in senso ironico – suo padre attribuiva questo disequilibrio della squadra al fatto che lui se ne fosse andato.
Il che, di base, non sussisteva. Lui se ne era andato già l’anno prima, e i risultati non erano stati terribili.
Ma era lì per un altro motivo, quella sera. Ed infilandosi la tuta rossa poté chiaramente sentirsi nel sangue la sfrontatezza necessaria per fare quello che andava fatto.
Suo padre credeva di non avere bisogno di lui. Si era convinto di essere schifosamente superiore alle cavolate come i legami famigliari per ammettere semplicemente che gli manca, avere lui in squadra.
Sì, si era sempre voluto illudere che fosse così. Ma ora si era ricreduto.
Il basket, per Trent Everald, era un ottimo effetto placebo per compensare la mancanza di altre qualità che lo rendessero un buon padre. O, in definitiva, un padre e basta.
Lui non aveva mai fatto per lui quelle cose che di solito un padre fa. Come allearsi con lui contro le sgridate della madre,  dargli consigli sulle ragazze.
Tutto quello che lui ricordava di Trent, indietro nell’infanzia, non erano altro che una serie di fermo immagine nei cui fotogrammi compariva sempre e comunque una palla da basket.
E tutto ciò faceva... male. Un male fottuto.
Avrebbe pagato, però. Lui non voleva vendetta, no, non era caduto così in basso... voleva solo che il padre si rendesse conto del suo valore, che lo riconoscesse come qualcuno degno di essere trattato come un essere umano ogni tanto, non come un cane ammaestrato che si rifiuta di dare la zampa al comando del padrone.
Sospirando profondamente, uscì dallo spogliatoio.
 
Le luci dal campo da gioco non erano mai state così luminose. E probabilmente il motivo era che non si era mai fatto presente di quanto possano essere forti, puntate addosso ad una persona.
Dietro di lui la confusione del pubblico, davanti a lui il lucido parquet del campo. Due squadre di due diversi colori si fronteggiavano, mescolandosi in corsa, gemendo per la fatica e ringhiando per la frustrazione di non essere riusciti a prendere bene il canestro.
Respirò profondamente, ritrovando una serie di odori che pensava di aver finalmente dimenticato. Così come i fischi, le indicazioni urlate da entrambi gli allenatori, la trepidazione di chi seguiva il gioco dalla panchina...
Tutte cose che nel nuoto non aveva, ma questo non voleva dire che provasse nostalgia per esse. Il Palazzetto dello Sport era per lui come una casa, ed era questa forma di insano attaccamento che aveva cercato di combattere.
Lui ce l’aveva una casa, aveva pensato ad un certo punto: e non era un campo da pallacanestro.
Si voltò alla sua sinistra, posando prima lo sguardo sul tabellone, poi su suo padre.
Poteva capire perché fosse così agitato ed incazzoso: stavano perdendo. Dai Pidgeons. La squadra che per due anni aveva loro impedito di vincere la coppa di campionato, facendo sì che arrivassero costantemente secondi.
Erano sotto di otto punti, con ancora quindici minuti di gioco. Poco male.
Quando finalmente suo padre incrociò il suo sguardo, avrebbe potuto dire che fosse preda di un infarto. Oppure che pensasse di essere vittima di un’allucinazione, dato lo sguardo da pesce lesso che aveva assunto.
Probabilmente, vederlo con indosso il buon vecchio 23 gli aveva fatto un certo effetto. Così come lo fece ai compagni di squadra seduti in panchina, improvvisamente ammutoliti ed affetti da una paralisi facciale che li aveva bloccati con la bocca spalancata.
Internamente, cercò di calmare il battito impazzito del suo cuore con un sospiro. Da qualche parte sentiva la pressante sensazione di voler fare retro-front ed uscire di lì, ma la ragione gli diceva che era troppo tardi.
Ormai era in ballo, conveniva ballare.
A passo appositamente moderato, si avvicinò lentamente alla propria panchina – anche se non era proprio parte della squadra, ma erano insignificanti dettagli tecnici – fermandosi esattamente davanti al padre.
L’uomo non ebbe nemmeno la reazione psicologica di argomentare una qualche forma di saluto, o di domanda. Lo fissava semplicemente, probabilmente cercando di decretare se quello poteva considerarsi il giorno più felice della sua vita o una qualche sorta di scherzo di cattivo gusto.
Spiacente papà, purtroppo per te è la seconda pensò interiormente, fissando il padre dritto negli occhi.
« Fammi entrare » disse, sicuro di sé come mai avrebbe pensato di essere: « ti mostrerò che la “sfortunata serie di eventi” non è accaduta quando mi avete messo al mondo, ma quando hai deciso di perdermi » completò, attendendo.
Non si stupì troppo quando Trent non rispose. Era sempre stato una persona che preferisce agire prima di pensare a quello che fa, e forse era per quello che era venuto su così. Esattamente per quel motivo, senza una parola, Trent Everald chiamò il cambio della sua guardia tiratrice, indicando all’arbitro che sarebbe salito lui al posto del numero 13 che ora scendeva, richiamato in panchina.
Lo squadrarono tutti, dal primo all’ultimo genitore in panchina come dal primo all’ultimo giocatore in squadra. Fortunatamente, erano tutti suoi ex compagni. La cosa da un cero punto di vista lo mise quasi a suo agio.
« Eric? » domandò stupito il capitano in campo, attuale playmaker.
« Dylan » rispose lui in saluto.
« Cosa cavolo ci fai qui? » domandò l’ala destra, Curt, arrivando di corsa come il resto degli altri giocatori.
Sorrise inconsapevolmente a quella domanda. « Ho fatto un breve ritorno sulle scene » decise di rispondere, senza però lasciare il tempo a nessun altro di porre domande inutili: il tempo scorreva e non era il momento di giocare al rimpatrio.
Si girò in direzione del capitano: « ehi, ricordate qualcuno dei vecchi schemi? » domandò ansioso, esibendosi in un sorrisetto colpevole. D’altronde gli stava scombinano tutta la partita, con quella sua apparizione...
« Scherzi? » rispose con un sorriso Dylan, porgendogli la mano in un cinque: « praticamente giochiamo solo su quelli! » rivelò scherzoso.
Eric accettò il cinque, ricambiandolo con forza. Dylan era diventato capitano proprio per la sua capacità di non mollare mai e poi mai, e di trovare il lato positivo ad ogni cosa. A lui non interessava se un vecchio compagno rispuntava dal nulla pronto a portare scompiglio nello schema di gioco; si dimostrava più che disponibile ad adattare il game al nuovo arrivato, se era una persona di cui si fidava: « Dimmi Eric, con che schema vuoi che ti faccio volare a canestro? » domandò poi, e la sua esagerata fiducia contagiò anche i rimanenti compagni di squadra, tutti con un ghigno compiaciuto stampato in faccia.
Eric non poté fare a meno di assumere un sorrisetto simile. Era quella la complicità che aveva lasciato, e nonostante fosse scappato anche da loro sentiva la nostalgia per momenti come quello che stava rivivendo.
« A tua scelta, Dylan » ribatté lui, stirandosi appena le braccia come se dovesse prepararsi alla battaglia.
« Ok ragazzi, andiamo con il B12. Fate arrivare sotto canestro Everald senza rotture di scatole e glieli mettiamo in culo quegli otto punti! » sentì dire a Dylan, seguito dalle risatine sarcastiche del resto del team.
L’arbitro fischiò la ripresa, e come per magia la contesa della palla finì subito favorevole a loro.
Vedeva la palla passare di mano in mano fra le ali ed il playmaker, mentre i difensori si mantenevano dietro di loro nel caso avessero perso il possesso di palla. Sfilavano fra le divise grigie dei Pidgeons scivolando a destra e a sinistra come topi che gabbano il gatto passandogli fra le zampe.
Erano bravi, dovette notare; migliorati moltissimo da quando giocava lui. O forse era semplicemente che loro ancora si allenavano su schemi e passaggi tutte le sere mentre lui cercava di tenere i 400 metri misti senza farsi venire un’aritmia.
Non fu però così difficile arrivare sotto canestro; una volta che gli altri si furono posizionati dove dovevano, lui mise in pratica quello che ricordava e penetrò da sinistra, trovandosi il canestro proprio nella posizione favorita.
Fu a quel punto che, fedele ai vecchi schemi, Dylan fece una finta che mandò in pappa il cervello del difensore intenzionato a marcarlo, e gli passò la palla.
Tutto era perfetto intorno a lui, ogni uomo marcato a dovere. La sua possibilità di andare a canestro poteva essere interrotta solo da un atleta di salto in alto che avesse fermato il tiro prendendo la palla al volo, cosa che verosimilmente non sarebbe successa.
Si avvicinò di un passo poi, mettendosi velocemente in posizione, tirò. La palla picchiò sul lato interno del cerchio, ma andò dentro facilmente.
I sui primi due punti della partita vennero aggiunti al tabellone, e la palla subito rimessa in campo. I compagni gli diedero pacche sulle spalle, alcuni addirittura gli diedero il bentornato (« non sono tornato! »)... ma quello che più lo rese felice, in un certo senso, fu rivedere il sorriso di suo padre rivolto a lui.
Cercò di ignorarlo. Evidentemente, lui poteva andare bene in quel mondo solo con una palla in mano.
Il gioco riprese velocemente, più volte, e più volte lui andò a canestro seguendo gli schemi che il playmaker decideva. Segnò altri due punti, poi altri due Dylan, e infine due Curt, l’ala piccola.
Quando mancavano ormai cinque minuti alla fine, suo padre chiamò il time out dalla panchina.
« Bravi ragazzi, bravi! » esclamò Trent, battendo pacche sulle spalle a tutti quelli che gli capitavano sotto mano. Eric si assicurò di non andargli troppo vicino. « Ancora poco e possiamo dire di essere ancora in gara col campionato. Rimanete concentrati, concentrati! » li spronò, ripetendo sempre le stesse parole che Eric aveva sentito per anni.
Quando a giocare si divertiva, possiamo dire.
« Coach, ma da dove l’ha tirato fuori suo figlio? » esordì però Dylan, prendendo un lungo sorso d’acqua dalla sua borraccia per poi passarla ad Eric: « lo teneva sotto tormalina per occasioni come queste? » rise.
Lui e suo padre si guardarono negli occhi, muti. Per parecchio entrambi loro avevano evitato quel contatto così diretto, capace di mandare nel panico Eric.
La quadra si ammutolì. Probabilmente Dylan aveva dimenticato anche solo per in istante le voci che erano circolate negli ultimi giorni, ma in partita succede, l’adrenalina di quando si sta per vincere cancella ogni altra cosa... tuttavia gli altri erano ancora ben consapevoli del rapporto che c’era fra loro, altrimenti non sapeva come spiegarsi quell’improvviso e pesante silenzio.
Ma fu un quel frangente che Trent riuscì a stupirlo. Allungò una mano sulla sua testa, poggiandogliela sui capelli, e con un tono misto fra orgoglio e dolcezza pronunciò un « ben fatto, figliolo ».
Non seppe cosa fece più male.
Se il fatto di sentirlo pronunciare “figliolo” quando solo ventiquattro ore prima lo aveva chiamato “vile”, oppure che quel complimento fosse sempre e comunque collegato al basket. Forse a bruciare era la consapevolezza che, al di fuori del campo di gioco, per Trent Everald lui non sarebbe mai valso nulla.
La sua reazione arrivò di conseguenza. Si spostò dalla mano del padre, facendo due passi indietro.
« Finiamo questa partita, comincia a venirmi fame » borbottò appena, e fu veramente grato del fatto che Dylan non fosse una cima d’intelligenza quando si trattava leggere l’atmosfera. Il playmaker infatti stette al gioco, rallegrando il resto della squadra, e molto presto l’attenzione generale si spostò sul prossimo schema di gioco piuttosto che su loro due.
Basta, voleva andarsene da lì. In fretta. Avrebbe messo la giusta distanza fra la loro squadra e i Pidgeons con un tiro da tre punti, in modo che non potessero più recuperare nei pochi minuti che rimanevano.
L’arbitro fischiò la fine del time out, e dopo l’urlo ritornarono in campo.
Si poteva chiaramente sentire la tensione, e non appena il gioco riprese tutti si accorsero che i Pidgeons erano corsi ai ripari; marcavano molto più stretto ed Eric se ne trovò addosso addirittura due.
Così era impossibile.
Anche Curt se ne accorse, e con una mossa alquanto sfrontata mandò la palla fuori gioco. Ci vollero alcuni istanti perché gli arbitri ne prendessero un’altra dal tavolo della giuria, così che Dylan ebbe il tempo di avvicinarsi a lui.
« Andiamo con la Luna nel Pozzo » gli rivelò all’orecchio, stringendogli la spalla con la mano.
Non poté dire di esserci rimasto male, ma leggermente sorpreso sì. La Luna nel Pozzo era uno schema di gioco decisamente poco consigliabile: impegnava tutta la squadra in attacco, e la strategia stava nel non tenere la palla per più dei tre rimbalzi necessari, continuando a passarsela in uno schema a mezzaluna che avrebbe man mano chiuso tutta la difesa avversaria sotto il proprio canestro. A quel punto, aspettandosi l’entrata all’interno per un tiro da due, gli avversari si sarebbero trovati fuori tempo quando la palla sarebbe stata passata all’esterno dell’area di tiro, dove il giocatore designato avrebbe tentato il tiro da tre.
Ma era rischioso, perché se anche uno solo degli altri si accorgeva della cadenza dello schema di gioco poteva recuperare la palla e partire in contropiede, mossa che gli avrebbe permesso di tirare indisturbato.
« Non avevamo ancora finito di provarla la Luna nel Pozzo » dissentì Eric con calma, pensando che su tutti i lati quella non era affatto una buona idea.
« Noi sì » ribatté complice Dylan – cosa aveva mai da essere sempre così schifosamente allegro?! – prestando relativa attenzione all’arbitro che tornava con la palla: « tu fatti trovare nel punto giusto per il tiro, al resto pensiamo noi » esordì, lasciandolo in piedi come uno stoccafisso.
Non ci fu tempo per commentare, o cercare di fargli cambiare idea: la palla tornò rapidamente in gioco e lui poté solo fidarsi dei suoi compagni di squadra.
Procedette tutto bene, nonostante pensasse che quella fosse una pazzia: dopo un breve possesso di palla da parte dei Pidgeons uno di loro riuscì a recuperarla, e velocemente si mise in azione lo schema. Si passavano fra loro la palla così velocemente che lo speaker non riusciva a stare dietro all’azione, sbagliando a più riprese i nomi di chi aveva in mano la palla. La squadra avversaria sembrava disorientata quanto bastava perché non si accorgesse di essere chiusa mentre dalle panchine, si accorse con un tuffo al cuore, suo padre stava incitando a gran voce tutti loro.
Nel momento in cui si trovò al suo posto, e vide la palla arrivare a lui dalla “mezzaluna”, tutto sembrò rallentare. Percepì la sorpresa dei Pidgeons finalmente consapevoli della rete in cui erano caduti, così come li vide scattare in sua direzione anche se marcati stretti da tutti gli altri. Lui era libero, lo schema aveva funzionato, e il poco tempo rimanente gli dava tempo sufficiente per in solo tiro.
Si concentrò. Era stato nominato guardia tiratrice perché aveva il miglior score di tiri di tutta la squadra, non poteva sbagliare un semplice lancio da tre. Non poteva fallire, ne andava del suo orgoglio nel far capire a suo padre chi stesse perdendo.
Saltò da fermo, alzando le braccia mentre la palla si staccava dalle sue mani in direzione del canestro. Entrò diritta, linearmente, muovendo la rete e rimbalzando a terra.
I tre punti vennero attribuiti alla sua squadra poco prima che la sirena suonasse, decretando la fine della partita.
Avevano vinto.
La folla esplose. Magliette e sciarpe rosse volarono per tutto lo stadio, così come tutti i suoi ex compagni si riversarono su di lui in un’ammucchiata. Sentiva urla di gioia da ogni parte, nemmeno avessero già il campionato in tasca – anche se ne erano ben lontani – e subito le cheerleaders attaccarono con il balletto della vittoria, muovendo all’aria i pon pon rossi.
Alzò lo sguardo sulle tribune, cercando con lo sguardo gli occhi che aveva così tanto desiderio di incrociare. Li trovò accanto alle scale, ed un sorriso gli comparve istintivamente in volto.
Joshua era venuto. Aveva mantenuto la promessa.
Lo salutò con la mano, lievemente, senza rendere eclatante il gesto. Fu sicuro che bastò anche solo quel piccolo movimento quando Joshua piegò l’angolo della bocca in un lieve sorriso, indicando con il capo le scale.
Lui annuii, dando segno di aver capito il messaggio. Probabilmente al moro non piaceva la confusione, per quel motivo lo avrebbe aspettato fuori.
Lo seguii con gli occhi mentre scompariva lungo le scale della tribuna, tornando poi con lo sguardo al padre.
Lo stava guardando. Solo che sembrava indeciso, non sapeva se sorridere o no.
Gli riservò il ghigno migliore che potesse ponderare di dipingersi in faccia. Una volta lasciatolo nel più profondo dei dubbi, poi, si diresse a passo calmo verso gli spogliatoi, intenzionato a tutto fuorché festeggiare quella vittoria.
Non era sua, dopotutto. Aveva utilizzato quella partita come mero vicolo per stoccare suo padre, non si sentiva in grado di festeggiare con gli altri compagni di squadra.
Fu per questo che approfittò della confusione per sgattaiolare negli spogliatoi, lasciando le festività ai propri compagni. Conoscendoli, sarebbero rimasti in palestra anche dopo che tutti se ne fossero andati. E poi solitamente la squadra vincente faceva una fotografia a fine partita per i giornali locali, amanti di ogni cosa potesse riempire le pagine dedicate allo sport dei loro quotidiani.
Si cambiò velocemente, abbandonando la sua divisa sulla panchina senza nemmeno prendere in considerazione di portarla con sé. Aveva finito il suo compito, e il legame affettivo era stato ampiamente surclassato dal comportamento non esattamente costante del padre.
Lo aveva letteralmente schifato, ecco.
Una volta rivestitosi chiuse lo zaino energicamente, ignorando i capelli ancora umidi di sudore così come la pelle del collo e della schiena. Avrebbe approfittato di nuovo della doccia a casa di Joshua; al momento voleva solo mettere una notevole distanza fra lui e il Palazzetto dello Sport.
Uscì dallo spogliatoio intenzionato a raggiungere subito l’esterno dell’edificio. Sentiva ancora parecchia confusione in campo e sugli spalti, il che probabilmente significava che i festeggiamenti per la vittoria non erano ancora giunti al termine... aveva abbastanza tempo per confondersi fra la massa ed uscire, mettendo finalmente fine alle cose che si era ripromesso di fare prima di... beh... prima di venerdì notte.
Ma, ovviamente, i suoi piani non andarono per niente come aveva pensato che andassero. Non lo fecero perché suo padre, che era tutt’altro che stupido, riuscì ad intercettarlo proprio mentre stava richiudendo la porta dello spogliatoio.
Si guardarono.
L’uomo aveva in volto una sorta di sguardo perso, come se si stesse sforzando di capire le intenzioni del figlio senza chiedere a lui direttamente.
Eric, dal canto suo, si limitava a guardarlo pacatamente, cercando dentro di sé la tranquillità necessaria a mantenere un disinteressato stoicismo.
« Sei stato bravo, oggi » commentò poi l’uomo, ed Eric non poté fare a meno di lasciarsi scappare uno sbuffo deluso. Non era quella la prima cosa che avrebbe desiderato sentire, nonostante il tono profondo del padre fosse calmo e quelle parole avessero un complimento, nascosto in esse.
« Già, a quanto pare ricordo ancora come si fa » fu la sua conseguente risposta, decisamente stizzita in confronto alle sue buone intenzioni di mantenere fredde le animosità.
Seguì un istante di pesante silenzio. Eric non aggiunse nulla e, vedendo che anche suo padre non ne aveva intenzione, fece retro-front e cominciò ad incamminarsi verso l’uscita lungo il corridoio in penombra.
Ma Trent non gradì il gesto, Eric lo capì dal tono in cui gli chiese dove stesse andando.
Il ragazzo non rispose, dandogli le spalle. Non aveva nemmeno il minimo desiderio di informare il padre sui suoi spostamenti, nemmeno di metterlo al corrente di dove avrebbe passato la notte o di cosa avrebbe fatto il giorno dopo. La base di tutto ciò era una: a casa non sarebbe tornato; ma Trent Everald avrebbe dovuto capirlo da solo, quando tornando per cena avrebbe trovato la camera del figlio maggiore mezza vuota.
Per trovare tracce di lui, avrebbe come minimo dovuto mettere a soqquadro la casa. O girarsi a piedi mezza città.
« Eric » sbottò suo padre, e il castano riuscì a riconoscere in quel tono l’ira che ormai da un anno caratterizzava tutti i loro discorsi.
Si voltò, sfidandolo apertamente. Fortunatamente il corridoio era vuoto, ma era convinto che suo padre avesse calcolato anche questo. Non avrebbe mai più fatto l’errore di rivolgersi a lui con cattiveria in un luogo pubblico, se non potevano garantirsi una sorta di privacy da orecchie indiscrete o passanti casuali.
Rimase zitto, però, fissandolo.
Voleva che capisse. Voleva veramente che capisse.
Desiderava fargli comprendere che sarebbe bastata una parola, uno “scusami” detto in modo sincero, e sarebbe tornato a casa con lui. Avrebbe passato le poche ore che gli rimanevano con loro, con la sua famiglia, perché nel profondo del cuore sentiva che era lì che doveva stare.
Per non lasciarli troppo... soli.
Ma Trent non capì, il suo sguardo non cambiò.
Poteva quasi sentire il suo stesso cuore perdere un altro frammento. Anche se Joshua era riuscito, chissà come, a tenerlo insieme, la freddezza che il padre sembrava dimostrargli aveva la potenza distruttiva di un uragano.
Si girò di nuovo, sempre muto nei confronti dell’uomo. E sperò vivamente di riuscire a scappare, questa volta.
Cosa che non successe.
Trent coprì la distanza che li separava in due falcate; lo prese per il polso, strattonandolo finché non se lo ritrovò davanti al volto. Eric cercò di liberarsi, ma era inutile: il padre era sempre stato più forte fisicamente, e non perdeva occasione per sfruttare quella forza a suo vantaggio.
Lo osservò direttamente negli occhi, uguali ai suoi se non per la rabbia che riflettevano, parlandogli talmente vicino che il castano poteva sentire il suo fiato sul viso.
« Dove credi di andare? » sibilò.
Eric percepì un brivido scivolare freddo lungo la schiena. Era sempre suo padre, dopotutto... non avrebbe smesso di fargli paura quando faceva così.
Ma resistette stoicamente, impuntandosi. Non aveva più dieci anni, delle minacce non se ne faceva niente.
« Ovunque tranne che qui » fu infatti la risposta che diede, soffiando a sua volta.
Ma mentre il padre sembrava una tigre a digiuno Eric poteva al massimo sembrare un gatto randagio fra le grinfie dell'acchiappa-animali.
Trent lo osservò in silenzio, la stretta al polso che non si indeboliva. Faceva male, ma Eric non se ne lamentò per orgoglio, continuando imperterrito a rispondere allo sguardo del padre.
« Stai da lui, vero? » disse poi l’uomo: « Archer » aggiunse, pronunciando quel nome quasi come se ringhiasse. « Ti ho già detto che non mi sta bene! » aggiunse sgarbato, scotendogli il polso con veemenza.
Il castano digrignò i denti sotto le labbra.
« Perché, c'è qualcosa della mia vita che ti sta bene? » non poté esimersi dal ribattere, soffiando fra i denti e inclinando le labbra in un sorrisetto sghembo.
Imposizioni insensate come quella non smettevano mai di farlo incazzare. Al diavolo lo status quo.
Il corridoio degli spogliatoi era vuoto, e in lontananza la musica delle cheerleaders riempiva ancora lo stadio.
« Lui no » fu però la risposta del padre: « ha qualcosa... di strano. Lo sai cosa mi ha detto in piscina? Che saresti stato suo. Ma l'ha detto in un modo che non presagiva niente di buono e mi dispiace, ma non lascerò che la tua stupidità ti spinga nei guai » disse d'un fiato il padre, aumentando la presa sul suo polso man mano che la sua rabbia cresceva.
Oh, se lo immaginava... quasi riusciva a vedere cosa aveva visto suo padre negli occhi di Joshua, fin troppo strani nonostante l'aiuto delle lenti a contatto. Una luce di cattiveria, un brillio di sfida incastonato in quelle iridi color del ghiaccio, fin troppo inquietanti per non sentire almeno una briciola di paura nel cuore. E poi il sussurro, le sue parole... "Suo figlio sarà mio"... poteva quasi sentirlo mormorare al suo fianco mentre se lo immaginava, la voce profonda e il tono maliziosamente minaccioso.
Sorrise beffardo, socchiudendo gli occhi. « Papà, io sono già suo » pronunciò chiaramente, senza però perdere la nota di sfida con cui aveva intriso il suo tono di voce.
Trent trattenne il fiato, colpito se non sorpreso dalle parole del figlio, e fu quello il momento in cui finalmente Eric riuscì a liberarsi della sua presa con un secco strattone. « Addio papà » sussurrò infine, girandosi finalmente per l’ultima volta e abbandonando gli spogliatoi.
 
Quando finalmente riuscì ad uscire, facendo slalom fra la massa di parenti che attendevano l’uscita dei figli, poté finalmente godersi la frescura dell’aria sul viso ancora accaldato.
Il cuore gli batteva all’impazzata e, per una qualche confusione di motivi che ancora non riusciva a mettere esattamente in ordine, percepiva il bisogno fisico di piangere.
Era stress, oppure nervosismo. Anche tristezza, e sentiva da qualche parte persino la rabbia e l’insoddisfazione.
Ma si trattenne. Era un uomo ormai, non si sarebbe messo a frignare.
Alzò lo sguardo quel tanto che bastava per individuare Joshua, appoggiato di schiena al muro del caseggiato di fronte, e con viso basso gli passò velocemente a fianco, incamminandosi senza dire una parola.
Si sentiva veramente sull’orlo delle lacrime, e non voleva che Joshua lo vedesse così. Non sapeva perché, ma non voleva.
Forse desiderava apparire forte. Forse aveva paura che l’altro lo avrebbe preso in giro, o si fosse stancato di lui, nel vederlo così dannatamente... debole.
Ma il dio della morte non disse nulla, limitando ad incamminarsi dietro di lui e a seguirlo, a qualche passo di distanza.
Un distanziamento che Eric ebbe il coraggio di mantenere appena per qualche minuto.
Si fermò poi sul marciapiede vuoto, ormai inghiottito dalla notte, aspettando.
Joshua, il suo passo sempre pacato e tranquillo, lo oltrepassò con calma e si fermò un passo avanti a lui. Rimase girato di schiena, le mani nelle tasche del cappotto nero, e l’unica cosa che Eric poté sentire da quel momento fu la sua voce: « puoi piangere, se vuoi. Io non guardo ».
Era la seconda volta che sentiva quelle parole provenire dal moro. Era la seconda volte che si accorgeva, con sua sorpresa, che chissà perché nei momenti difficili Joshua era sempre lì, a dirgli che poteva piangere e che lui non si sarebbe girato a guardarlo.
Non si trattenne più. Pianse, lasciando che le lacrime salate scivolassero lungo le sue guance e che il respiro si rompesse in silenziosi singhiozzi e sospiri. « Puoi... guardare » acconsentì poi, borbottando come un bambino che tenta inutilmente di dimostrarsi grande e di non piangere di fronte alle difficoltà.
Lo vide voltarsi, poi osservarlo. Lo vide avvicinarsi piano, poi, finché non fu abbastanza vicino da permettergli di appoggiare la fronte sulla sua spalla, e di stringere fra le mani la stoffa del suo cappotto.
Non sapeva con certezza per cosa piangesse, ma la cosa non importava. Joshua non diceva nulla e stava semplicemente lì, in silenzio, non facendogli sentire altro che la propria presenza... preziosa, più importante di parole randomiche buttate al vento.
Come faceva a dire di non essere umano, se era capace di così tanto? Come riusciva ad essere più sensibile di qualsiasi altro? Come faceva un suo abbraccio ad essere così protettivo, se era stato mandato sulla terra per ucciderlo?
Era un controsenso.
______________________________________________________________________________________
 
Capitolo a dir poco lungo. Dovrei smetterla, dato che poi correggerli è una faticaccia.
Chiedo oltremodo scusa per l’immane ritardo dell’aggiornamento; purtroppo riprendere l’università mi sballa gli orari, e cercare di incastrare il tempo necessario per scrivere si fa un po’ complicato. In ogni caso eccomi di ritorno, e... -2 capitoli alla fine!
Ora qualche risposta ai commenti, poi vi lascio riprendere l’uso della vista XD
Alla prossima!
 
Shichan: il fatto che io trovi abbastanza semplice muovere Eric ogni tanto mi inquieta. Soprattutto se assomiglia così tanto allo standard di “anima candida” (e, a sentire dalle recensioni, ci assomiglia proprio XD). Enma... Enma si ama SOLO per il sadismo, suvvia! Mi sono divertita da matti a scrivere quelle scene X°DDDD
E beh, la lemon è la lemon U.u anche se sono ancora convinta che poteva venirmi meglio. Quei due, se non ci sto attenta, cadrebbero in un livello di pucchosità fuori dal comune... e già nel prossimo capitolo saranno melensi, figurati se perdo la stretta.
Spero che ti sia piaciuto anche questo =*
 
Dea73: grazie ç___ç ero convinta che, per come l’ho scritta, la lemon fosse avvincente quanto un mattone *una persona incapace di scrivere lemon volgari*. Per quanto riguarda l’atmosfera, beh... direi che dipende anche molto dalla piega che sta prendendo in carattere di Joshua/Abrahel. Anche se ogni tanto mi sfugge di mano ^^’’’
Ti ringrazio molto per la recensione, e anche per i complimenti sullo stile di scrittura ^^ mi fa piacere che si legga bene.
 
Gioielle: tralasciando gli orari a cui scrivi i commenti, sappi che tutte le volte che trovo il tuo papiro mi diverto troppo XD
Allora, andiamo con ordine: sono felice che Enma ti piaccia, davvero XD quel poveretto è sottovalutato. Così come sono felice che Joshua sia uno dei tuoi personaggi preferiti °____° poverino, nella mia immaginazione non gode di molta simpatia, purtroppo. Eric... Eric è adorabile, dopo aver letto qualche commento mi tocca ammetterlo.
Lungi da me far si di interrompere il sonno di tua sorella! X°DDD e, mi ripeto, sono felice che la lemon ti piaccia. Non riuscendo a scriverle volgari quanto vorrei mi sembrano sempre troppo “soft”... anche se per questi due, forse, effettivamente stava meglio così.
Infine grazie molte per i commenti sullo stile, sui pg... beh, su tutto, dato che praticamente mi hai scritto una valanga di complimenti >//< spero che questo capitolo non ti abbia annoiata troppo <3
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Yoko Hogawa