Too many broken
promises in her fragile life
Too many secret
thoughts she tried to hide that night
So hard she tried to
escape
But the pain was
everywhere
No, take this pain
away
Even for one day
(Queen Misery, For My
Pain)
***
“In sostanza i programmi
sono questi: voi fate il vostro
shopping come se nulla fosse – chiacchierate, provate, vi
divertite… quello che
volete – e Chris vi riprende. Io e Griet saremo nei paraggi
assieme a Mike e
Luke, anche se non dovremmo avere problemi di alcun tipo.
Domande?”
Kuu guardò Benjamin da
dietro ai suoi occhiali da sole e sollevò
appena il mento. Bill suppose che dovesse essere un segno di negazione.
Dopo due settimane di tour, ancora
non aveva capito che cosa
pensasse esattamente di lei. C’erano momenti – come
adesso – in cui avrebbe
tanto voluto sbottarle in faccia e invitarla a tirarsela di meno,
altri,
invece, in cui si sentiva stranamente vicino a lei, in cui parlarle era
un
piacere, e anche una sorta di sollievo. In sostanza, era tutto
semplicemente
una gran confusione.
L’ordine del giorno era la
registrazione di una puntata
della Tokio Hotel TV con la partecipazione eccezionale di Kuu.
L’episodio
avrebbe fatto scalpore e già Bill aveva un’idea
abbastanza precisa del tipo di
commenti che sarebbero volati, ma gliene importava davvero poco. Lo
shopping
gli mancava e non era mai stato nella zona modaiola di Mosca. Kuu
sarebbe stata
una presenza marginale: dovevano semplicemente fare finta di avere una
gran
sintonia e di spassarsela un sacco. Per fortuna erano entrambi
parecchio
esperti di recitazione, a quanto pareva.
“Bene,”
intervenne Griet, facendosi avanti nella hall
dell’hotel con la borsa più orribile e rovinata
che Bill avesse mai visto. Non
aveva molto buongusto, ma la sua simpatia la rendeva irresistibile.
“Su, su,
muoviamoci, il van è già qui fuori.”
Fu strano non trovare nessuno, fuori,
ad aspettarli. Di
solito le uscite dagli hotel erano sempre accolte da decine di fans
accalcati
dietro a nastri e transenne, ma fu gradevole, per una volta, non essere
aggrediti da urla isteriche.
Il Viano nero era parcheggiato subito
di fronte
all’ingresso; vi presero tutti posto in silenzio, Bill,
Benjamin e Christopher
con la telecamera da una parte, Kuu, Griet e Luke dall’altra,
Mike davanti con
l’autista, poi partirono. Impiegarono quasi
mezz’ora per raggiungere il centro,
e in quella mezzora Christopher li fece parlare un po’ di
come stessero andando
le cose con i concerti e dei piani della giornata. Quando finalmente il
van si
arrestò e si spense, Bill era già stanco di
parlare.
Appena scesi, un brivido generale
scosse tutti quanti:
faceva piuttosto freddo. Il termometro di una farmacia dal lato opposto
della
strada segnava meno undici gradi, alle nove del mattino.
“Queste capitali del Nord
sono così fredde…” commentò
Kuu,
guardandosi intorno, le braccia strette attorno a sé. A ogni
parola, sbuffi
bianchi di denso vapore le si sollevarono dalla bocca.
Bill capì subito che cosa
volesse dire: non ‘fredde’ in
senso climatico, ma ‘fredde’ per la sensazione che
davano. Forse era anche
colpa del cielo grigio e del cattivo tempo, ma tutte le ultime
città che
avevano visitato gli erano sembrate desolanti.
“Ok, ragazzi,”
disse Benjamin, sfregandosi le mani
arrossate. “Via il guinzaglio. Siete liberi di fare quello
che vi pare. Nei
limiti della pubblica decenza.”
Bill e Kuu si scambiarono uno sguardo
poco entusiasta, ma
annuirono. Lungo la via campeggiavano a perdita d’occhio le
insegne dei grandi
nomi della moda e non c’era che l’imbarazzo della
scelta.
“D’accordo,
Mister Kaulitz: patti chiari, amicizia lunga.”
Kuu gli si parò di fronte con le mani puntellate sui fianchi
e un’espressione
risoluta. “Un negozio lo scelgo io, uno lo scegli tu.
Fifty-fifty, e siamo
tutti contenti.”
A Bill piacque
quell’improvviso slancio di confidenza e
ancora di più gli piacque la mezza minaccia. Kuu aveva
davvero un caratterino
focoso.
“Perché il primo
lo devi scegliere tu?” replicò, seccato.
“Va bene,
allora,” Kuu assottigliò lievemente gli occhi,
quel giorno velati da impeccabili sfumature bianche e nere. “Prima le signore.”
Christopher riprese tutto quanto
sghignazzando dietro alla
telecamera. Bill, senza perdere il proprio regale contegno, si
limitò a chinare
il capo con riconoscenza e si avviò verso
l’entrata sfavillante di Dior.
Riflessa nel vetro della porta, vide Kuu trattenere un sorriso.
Di nuovo, provò fastidio
nell’indecisione che nutriva verso
di lei. Forse se avesse avuto le idee più chiare –
e se lei gli avesse
facilitato un minimo le cose – sarebbe stato tutto diverso.
All’interno la boutique era
luminosa e profumava di tessuti
costosi. Tuuto era gicato sui toni del bianco e dell’oro,
caldo e pulito.
Furono immediatamente accolti da un’intera legione di
commessi zelanti, che
però liquidarono in fretta.
“Odio quando ti assillano
così.” Sbuffò Kuu, puntando un
paio di jeans su un manichino. “Come se tu fossi un imbecille
che non sa come
scegliere un abito.”
“Spesso non hanno nemmeno
un briciolo di senso dello stile.”
Convenne Bill. Parlare ad alta voce alle spalle di persone presenti era
una
soddisfazione che ci si poteva togliere solo all’estero.
Mentre gironzolavano per il negozio,
Bill ebbe modo di avere
conferma di ciò che già gli era saltato
all’occhio: Kuu amava i colori neutri,
discreti. Vestiva in toni accesi solo se si trattava di apparizioni
pubbliche;
quando invece era lontana dagli occhi del pubblico, i suoi vestiti
erano
bianchi, neri, beige, crema… Mai appariscenti, mai vistosi,
mai nulla che
attirasse troppo l’attenzione.
Forse
perché ne attira
già abbastanza lei…
Uscirono dopo mezzora di sofferte
selezioni. Nessuno dei due
si provò nulla: era poco chic provarsi vestiti come quelli.
La seconda tappa fu
Dolce&Gabbana, la terza Armani. Da
Gucci, Kuu decise di sorprenderlo.
“Quello ti starebbe
bene.” Le disse Bill, indicandole un
cappottino color avorio bordato di pelliccia bianca.
Kuu buttò
un’occhiatina veloce alla stampella su cui faceva
bella mostra di sé il cappotto e storse il naso.
“Non me la metto quella
roba.”
“Stai snobbando un cappotto
di Gucci?”
“Non me lo metto addosso un
animale morto.”
Questo lasciò Bill
interdetto.
Era diventato vegetariano da poco
– poco meno di un anno – e
ancora non era riuscito a entrare del tutto nell’ottica del
vegetariano. Lo
aveva fatto per amore degli animali – lui, ma anche Tom
– eppure, nonostante le
prediche di Vibeke, non si era mai curato più di tanto di
tutti gli articoli in
pelle che possedeva. Adesso, tuttavia, di fronte alla genuina
indignazione di
Kuu verso la sua ingenua gaffe capì di avere molto su cui
riflettere.
“Non credevo ci tenessi a
queste cose.”
Indifferente, Kuu si mise a passare
in rassegna una serie di
camicette.
“Sono molte le cose che la
gente non crederebbe di me.”
Bill rimase lì, con la
giacca che stava guardando tra le
mani, a chiedersi quale dei mille modi in cui quella frase poteva
essere
interpretata fosse quello giusto. Kuu era un enigma, e per giunta un
enigma che
ci teneva a restare tale. Parte del suo fascino derivava anche da
quello, dal
sapore di segreti che avevano i suoi occhi.
“Non ti vorrai comprare quella,
vero?”
Un battito di ciglia fece riscuotere
Bill. A pochi metri da
lui, Kuu lo scrutava accigliata.
“Perché?”
fece lui, perplesso. “Cos’ha che non va?”
“Niente.” Rispose
Kuu brevemente. “Il look dark-glam-metal ti
dona, e anche parecchio.”
“Ma…?”
C’era un
‘ma’, era ovvio.
Per un paio di secondi lei
fissò la camicetta che aveva
scelto, poi sembrò ripensarci. Si voltò verso
Bill e il suo sguardo vagò su di
lui, critico.
“Mai pensato di provare
qualcosa di nuovo?”
No,
fu l’immediata
reazione del cervello di Bill. Gli piaceva il suo stile, non lo aveva
mai
nemmeno sfiorato l’idea di cambiare. Faceva parte di lui,
della sua
personalità, quel modo di vestire, e nel tempo si era
evoluto assieme a lui.
Non voleva nemmeno pensarci di cambiare.
Lo sguardo di Kuu, però,
aveva acceso il lui una strana
voglia di confronto. La sfida che lei gli aveva indirettamente lanciato
lo
aveva stuzzicato e l’invito a giocare era toppo allettante
perché lo potesse
lasciare ignorato.
Le si avvicinò, lasciando
perdere la giacca, e ricambiò con
lo stesso, identico sguardo:
“Immagino che tu sapresti
suggerirmi.”
Un angolino della bocca di Kuu
accennò un ricciolo di
soddisfazione, che lei contenne con disinvoltura.
“Potrei rifarti il
guardaroba,” affermò, sicura. “E me ne
saresti riconoscente.”
Nonostante il tono di
superiorità, non c’era ostilità nel
suo atteggiamento. Era tranquilla, calibrata, elegante. Ma
improvvisamente Bill
non si sentiva più irritato da lei.
“Potrei dire la stessa
cosa.” Ribatté, soave.
Kuu ripose con cura la camicetta
sull’espositore e si girò a
fronteggiarlo. Era bassa, tanto che, anche con i tacchi degli stivali,
gli
arrivava a stento alla spalla, eppure sapeva incutere una soggezione
incredibile.
“I tuoi gusti non sono
adatti alla mia figura.” Obiettò,
occhieggiando con eloquenza le borchie della cintura e della borsa.
Era esattamente quello che Bill aveva
aspettato. Imitando la
sua compostezza, incrociò le braccia sul petto e
inarcò un sopracciglio:
“Vogliamo
scommettere?”
Da dietro sottili ciuffi biondi, gli
occhi di Kuu
scintillarono, mentre un sorriso intrigato le si apriva sul viso.
“Scommettiamo.”
“La faccenda inizia a farsi
interessante…” commentò una
voce.
Solo allora Bill rammentò
che c’era una telecamera a
riprenderli e, dietro di essa, Christopher seguiva la scena con un
certo
interesse.
“Bill versus Kuu: la sfida
è aperta! Quali sono le regole?”
“Io scelgo il tuo look, tu
il mio.” Stabilì Kuu. La
telecamera la seguì da vicino. “Completa
connivenza, nessun diritto di protesta
o trattazione, nessuna possibilità di appello.”
“La posta?”
“Chi perde si esibisce con
l’outfit deciso dal vincitore al
concerto di stasera.” Rivolse a Bill un’occhiata
maliziosa. “Ci stai?”
Lui si impettì in tutta la
propria altezza e sollevò
enfaticamente il mento.
“Ci sto.”
***
“Te lo puoi scordare che io
mi mostri in giro conciata
così!”
“Le regole le hai fatte tu,
quindi adesso devi sottostare!”
“Tu sei pronto,
almeno?”
“Sì,
ma…”
“Niente ma. Nessun
diritto di protesta o trattazione, nessuna possibilità di
appello.”
“La camicia va dentro o
fuori dai pantaloni?”
“Fuori.”
“Ok. E questa specie di
nastro nero?”
“Va attorno al
polso.”
“E come me lo lego, da
solo?”
“Su, uscite!”
ordinò la voce divertita di Christopher. “Fateci
vedere chi ha vinto!”
Bill sospirò fra
sé. Non era poi così sicuro della sfida,
adesso.
Kuu lo aveva trascinato da un negozio
all’altro e lo aveva
costretto a considerare un mucchio di cose chic che a lui non sarebbe
mai
nemmeno venuto in mente di guardare. Lui, in compenso, la aveva tenuta
per più
di un’ora da Vivienne Westwood, godendo delle sue espressioni
orripilante di
fronte a certi capi che le proponeva.
Alla fine, con il portafogli
decisamente alleggerito, si
erano fermati nei camerini per il risultato finale.
Bill si guardava accigliato allo
specchio, incerto.
Cominciava a temere di aver sottovalutato la sfida, e soprattutto
l’abilità di
Kuu. Gli bruciava ammetterlo, ma gli piaceva il modo in cui lo aveva
fatto
vestire. I jeans chiari e sdruciti, venati di scuro, attenuavano bene
l’eccessiva
finezza delle sue gambe, retti attorno ai fianchi da una cinta di lino
nero, in
tinta con la giacca, legata di lato. Si lisciò addosso la
leggera camicia
bianca e aggiustò gli orli dei pantaloni sopra agli stivali.
Sebbene qualcosa non lo convincesse
del tutto, dovette
ammettere che stava benissimo.
Fuori sentì la porta del
camerino di Kuu che si apriva e
subito dopo un paio di fischi di ammirazione.
Incuriosito, anche se per niente
convinto, uscì, pronto ad
ammettere la sconfitta. La mise che aveva scelto lui per lei non poteva
certo
essere all’altezza. Ma poi sollevò lo sguardo, e
si rese conto che la vittoria
era indiscutibilmente sua.
Kuu gli stava di fronte, le mani di
nuovo vezzosamente sui
fianchi, e lo guardava con un’espressione per niente felice.
“Non dire
niente.” Borbottò aspramente. “Sono
ridicola.”
Bill avrebbe solo voluto capire come
smettere di
boccheggiare. La giovane donna raffinata e austera non c’era
più. Aveva
lasciato il posto a una provocante ragazza dal fascino trasgressivo.
Anfibi con fibbie argentate ai piedi,
gambe nude, una
minigonna in finta pelle a coprirle a stento le cosce, sorretta da una
cintura
borchiata. Gli strappi sulla maglietta si incrociavano con le
sottilissime
catene che la decoravano, richiamando la foggia dei bracciali che le
pendevano
dai polsi sottili. Al collo, il collare di Bill.
“Stai da dio!”
esclamò Bill, incredulo, non appena ebbe
recuperato l’uso della parola.
Kuu sbuffò.
“Oh, ti prego, sii
obiettivo!”
Bill era molto
obiettivo, e stava giusto pensando che, con il trucco giusto, il look
avrebbe
raggiunto la perfezione.
“Ha vinto lui, Kuu,
credimi.” Intervenne Benjamin, in tono
ridente. “La giuria ha emesso un verdetto unanime.”
“Assolutamente.”
Convenne Christopher, facendo un segno di
ok con la mano. Griet, accanto a lui, rideva.
“Un secondo solo,
però.” Disse Kuu, accostandosi a Bill.
“Sei un incapace, Kaulitz.”
Prima che lui potesse ribattere, Kuu
allungò le mani e gli
sbottonò i tre bottoni più alti della camicia,
poi spinse in su le maniche,
scoprendogli gli avambracci, gli sfilò di mano il nastro e
glielo mise al
polso, incrociandolo più volte prima di legarlo.
Bill rabbrividì sotto alle
sue dita fredde. Si lasciò
sfiorare e apprezzò la delicatezza del suo tocco,
l’agilità. Le sue mani erano
belle quanto lei: piccole, fini, curate fino alla
maniacalità, seducenti.
“Così va
meglio.”
I loro occhi si incrociarono mentre
lei ammirava il proprio
operato. Al centro dell’iride dorata, le sue pupille erano
abissi insondabili,
muri di buio in cui era impossibile distinguere pensieri, emozioni,
sensazioni.
Gli occhi di una bambola.
“Vinci tu lo
stesso.”
Kuu assunse un broncio irritato. Si
mise a fissare se stessa
nell’immenso specchio che occupava l’intera parete
dell’anticamera e non
sembrava affatto contenta. Come già lui aveva notato,
tuttavia, il suo sguardo
non saliva mai fino al volto.
“Detesto le gonne
così corte.”
A Bill occorse un certo sforzo per
trattenere commenti
inopportuni. Si dava il caso, infatti, che, per quanto lei potesse
detestarle,
le gonne corte facessero un a figura particolarmente apprezzabile, su
di lei.
“Un vero
peccato.” Commentò Christopher, dando
così voce ai
suoi pensieri, poi scoppiò a ridere. “Ok, questa
poi la tagliamo.”
“Non posso esibirmi
così!” protestò Kuu con una punta di
panico.
“Cosa penseranno i fans?”
Bill scrollò le spalle,
spietato e divertito.
“Le regole sono regole.
Puoi sempre spiegare la storia nel
tuo prossimo post del tour-log.”
Kuu gli restituì
un’occhiata pungente, ma chiaramente
scherzosa, e Bill comprese che in quella mattinata qualcosa era
cambiato.
Qualcosa di piccolo, di silenzioso, che però
c’era, e gli faceva piacere.
E in quel preciso momento una pallida
speranza si annidò in
lui, di nascosto, a sua insaputa, mentre lui si chiedeva se, in fondo,
proprio
la speranza non fosse davvero l’ultima a morire.
“Foto! Foto!”
esigette Christopher, battendo le mani per
attirare la loro attenzione. Aveva tirato fuori dal suo borsone la sua
inseparabile fotocamera e ora la puntava verso di loro, impaziente.
“Non ho nessuna intenzione
di –”
“Invece
sì.”
Bill non si curò della
protesta di Kuu. Le mise un braccio
sulle spalle e la tirò verso di sé, sorridendo
verso Christopher. Sbigottita,
Kuu gli barcollò accanto, ma non si oppose. Bill riusciva a
percepirla con il
proprio corpo: magra, sottile, fragile. Abituato alla solida
fisicità di
Vibeke, ora gli sembrava di toccare una farfalla.
“Sorridi un po’,
ragazza mia!” esclamò Griet, scuotendo la
testa.
“Sorrido quando lo dico
io.” La rimbeccò Kuu.
Bill si riconobbe in
quell’atteggiamento capriccioso, nella
posa insolente che lei aveva assunto.
Alla fine, tra uno scatto e
l’altro, finirono per fare un
vero e proprio photoshoot. Bill si divertì a posare con Kuu:
per la prima volta
da sempre finalmente non era il solo a provocare
l’osservatore, a giocare con
posizioni, sguardi, gesti. Kuu sapeva come farsi catturare
dall’obiettivo, e si
muoveva con una notevole dimestichezza tra i flash, senza esitazioni.
Sempre senza
sorrisi, però.
Per quel che Bill ricordasse, non
esisteva fotografia in cui
Kuu fosse stata ritratta sorridente. Da quel punto di vista, gli
ricordava
parecchio qualcuno di sua conoscenza.
“Sono stanco morto, ma
è stato divertente.” Si compiacque
Bill, quando arrivarono dritti all’arena.
Cercò il viso di Kuu, ma
lei era rivolta altrove. Tutto ciò
che gli tornò indietro su silenzio.
“È stata una
mattinata davvero piacevole.” Mormorò Kuu,
proprio quando Bill stava per aggiungere qualcosa. Si voltò
a guardarlo. “Devo
essere sincera, ero convinta che ci saremmo entrambi annoiati a morte a
vicenda, invece… Sono rimasta sorpresa. Positivamente,
intendo.”
Per gli standard di Kuu, quello era
un complimento molto
generoso.
“Ammetto che l’ho
pensato anch’io.” Disse Bill. “Ma per una
volta non mi è dispiaciuto dovermi ricredere.”
Raggiunsero il backstage, e
lì le loro strade si separavano:
Bill aveva un’intervista assieme ai ragazzi e Kuu doveva
registrare con Kaaos
un breve filmato per aggiornare i loro fans sul tour. Bill era curioso
di
vederlo, solo per scoprire se e come avrebbe parlato della loro
sessione di
shopping.
Kuu lo salutò con un cenno.
“Ci si rivede tra un paio
d’ore.”
“Certo. E non dimenticare
che ti è assolutamente vietato
cambiarti prima della fine del concerto.”
“Tu non ti cambiare per
l’intervista.”
Bill sorrise e assentì.
“D’accordo. A
dopo, allora.”
E mentre lei gli voltava le spalle e
si allontanava lungo il
corridoio, Bill si chiese perché, dopo che per una mattina
erano stati così
vicini, lei sembrasse ancora irrimediabilmente inarrivabile.
***
Kuu era stata a fare shopping con
Bill per tutta la mattina.
La aveva vista di sfuggita uscire con
un’espressione funerea
e l’aveva poi vista rientrare con un’aria
così serena e rilassata che non aveva
potuto fare a meno di chiedersi cosa potesse mai essere successo per
ribaltare
così drasticamente il suo umore. I racconti entusiastici di
Bill riguardo la
giornata, in seguito, gli avevano più o meno chiarito le
idee.
Avrebbe solo voluto conoscere anche
il punto di vista di Kuu.
Si sorprese a scoprirsi irrequieto al
pensiero che potesse
essere stata per entrambi un’esperienza significativa.
Lui era stato il primo ad avvicinarsi
a lei. In qualche
modo, questo lo aveva compiaciuto.
Ora, come sempre, il carattere
esuberante di Bill arrivava a
monopolizzare tutto quanto.
E Gustav non era geloso di lui, ma
solo invidioso. Invidioso
del fatto che per lui fosse così semplice farsi benvolere
dalle persone,
entrare in contatto con loro, conquistarle. La timidezza rendeva Gustav
goffo
nelle relazioni con gli altri, tanto che spesso, involontariamente,
faceva la
figura dell’asociale.
Con Kuu, stranamente, era riuscito a
stabilire un vero e
proprio contatto con discreta disinvoltura, e se n’era
inorgoglito, soprattutto
perché lei non sembrava il tipo da dare facilmente
confidenza.
Quando la aveva vista arrivare nel
backstage dell’arena
vestita in quel modo, non gli era stato granché difficile
vederci lo zampino di
Bill. La cosa più snervante era che, anche se palesemente
non ci si sentiva a
proprio agio, Kuu con quei vestiti era mozzafiato.
Gli era toccato vergognarsi ancora
una volta della
superficialità delle proprie reazioni, ma non ne aveva
potuto fare a meno, così
come adesso, seduto da solo nella saletta del catering, non poteva fare
a meno
di chiedersi se, ancora una volta, da un momento all’altro la
porta si sarebbe
aperta timidamente e ne sarebbe entrata lei.
Perché era così
che succedeva. Sempre. Senza un perché,
senza che nessuno decidesse niente. Semplicemente, accadeva. Era come
se fosse
nato un tacito accordo tra di loro che stabiliva che a una certa ora, a
un
certo tempo dall’inizio del concerto, loro due si dovessero
incontrare lì, da
soli, a parlare e parlare, fino a che a uno dei due non si ricordava
che il
tempo stava per scadere.
Gustav non sapeva perché
Kuu andasse da lui. Spesso si era
detto che probabilmente non lo sapeva nemmeno lei. Forse voleva solo
stare da
sola, con lui che era solo.
Si rigirò lo scotch bianco
tra le mani. Ormai erano quasi le
otto. Era tardi per la solita chiacchierata.
Stupidamente, aveva aspettato fino ad
ora per sistemarsi
quello scotch sulle dita perché da quella prima volta era
sempre stata lei a
farlo per lui. Era un gesto che in qualche modo riusciva sempre a farlo
sentire
bene, come un vizio, una piccola coccola, qualcosa che era soltanto per
lui,
soltanto di loro due, perché nessuno lo sapeva. Non avrebbe
saputo che
significato attribuire a quei momenti – che valore
– però sapeva che gli piacevano.
Gustav sospirò e
staccò un pezzo di scotch. Ormai era
decisamente tardi.
In quel preciso istante,
però, la porta si aprì con un
cigolio. Kuu entrò silenziosa e la richiuse. Quando
sollevò la testa, Gustav si
accorse che non portava il solito trucco.
“Bill ha preteso anche
questo.” Mormorò, a mo di scuse. “Mi
faccio schifo, per la cronaca.”
In realtà era bellissima
– come sempre, del resto – ma
Gustav preferì evitare di contraddirla.
“Stasera lascerai tutti a
bocca aperta.”
Kuu schioccò la lingua e,
come di consueto, prese posto al suo
fianco. Gli tolse gentilmente lo scotch dalle mani, con naturalezza, e
iniziò
ad avvolgerglielo attorno alle giunture.
“Ti devi decidere a
metterti della crema, lo sai?” gli
disse, severa, facendogli scorrere le dita sulla pelle sciupata.
Era davvero strano vederla vestita in
quel modo aggressivo.
Vibeke stessa, nel vederla, era rimasta senza parole, un po’
come tutti. Erano
disegni e tagli che stridevano con la sua persona.
“Non credo che farebbe una
gran differenza.”
Kuu si fermò per un
momento e lo guardò:
“Una piccola differenza
è sempre meglio che nessuna
differenza.”
Gustav si lasciò perdere
nei suoi occhi. Parlavano di
solitudine, o forse era solo un riflesso. E chissà cosa ci
vedeva lei, nei
suoi.
“Bill ha detto che avete
passato una bella giornata.” Disse
Gustav, cambiando deliberatamente argomento.
“Sì,
è stato bello,” annuì lei.
“Ci siamo divertiti. È stata
una sorpresa per tutti e due. Non è da tutti i giorni fare
shopping assieme a
un ragazzo a cui piace più di te.”
Quello era un punto su cui Gustav non
avrebbe mai retto in
confronto.
“Mi fa piacere. Bill ha
bisogno di svagarsi un po’. Ha
un’aria troppo malinconica, ultimamente.”
Le luci erano fioche, là
dentro. Un neon era rotto e l’altro
emetteva un alone azzurrognolo che aveva un che di spettrale.
“E tu, allora?”
Gustav si accigliò:
“Io cosa?”
“Tu hai sempre
un’aria troppo
malinconica.” Sussurrò lei, senza guardarlo.
“Oh, a me nessuno fa caso.” Minimizzò
lui. “Sono sempre stato così. È
più
lampante Bill che ha perso il sorriso.”
Kuu alzò gli occhi sui
suoi e pareva voler indagare dentro
di lui tanta era l’intensità di quello sguardo. Lo
contemplò a lungo, in
silenzio, senza lasciargli la mano, come se cercasse qualcosa che non
riusciva
a trovare.
“Wolf.”
Gustav non capì.
“Cosa?”
“Wolf.”
ripeté Kuu, assorta. “Ho sempre
pensato che ti stesse bene come nome.”
“Lupo?”
Lei annuì.
“Come mai
all’inglese e non alla tedesca?”
Il tepore di un timido accenno di
sorriso le illuminò il
viso.
“Ha un suono più
dolce.”
Gustav, per quanto basito,
riuscì a sorriderle in risposta,
ma lei chinò il capo, fuggendo, e riprese a sistemare lo
scotch. C’erano
momenti così, a volte, in cui sembravano entrambi volersi
dire qualcosa, ma
nessuno parlava mai. Accenni, allusioni, poi pause improvvise. Ma era
forse
solo un’impressione.
“Mi piace.” Disse
Gustav. “È buffo, però.”
Aggiunse poi, con
una breve risata sommessa. “Tu mi dai soprannomi e io nemmeno
so come ti chiami
veramente.”
Le mani di Kuu si bloccarono e si
irrigidirono, le sue
spalle si incurvarono in avanti.
Gustav imprecò contro se.
Idiota.
***
Kuu era ancora abbastanza confusa,
dopo quella mattinata
insolita. La colpa era tutta di Bill, insospettabilmente, a trascinarla
con prepotenza
fuori dal suo umore grigio con la sua contagiosa voglia di vita e
divertimento,
ma probabilmente, più che colpa sarebbe stato il caso di
definirlo un merito.
Kuu non riusciva neanche a ricordare
l’ultima volta che si
era goduta del tempo libero con tanta leggerezza. Era stata una ventata
d’aria
fresca. E al di sopra di tutto quanto c’era Bill, che per la
prima volta si era
dimostrato bendisposto verso di lei. Un momento prima c’era
il solito gelo a
dividerli, e un momento dopo, come nulla fosse stato, si erano
ritrovati a
usarsi l’un l’altra come bambole, battibeccando
come vecchi amici. Se esisteva
una spiegazione logica a quello che era successo, Kuu non la sapeva
trovare. Quello
che invece sapeva – e anche bene – era che doveva
sentirsi lusingata del fatto
che Bill avesse deciso di mettere da parte momentaneamente i pregiudizi
verso
di lei, invitandola così a fare lo stesso con lui, e i
risultati erano stati incredibili.
Era rimasta per ore ad ammirare Bill,
rapita dai suoi
sorrisi, dal suono della sua risata, dalla naturalezza con cui si
metteva
davanti un abito che gli stava malissimo e si prendeva in giro davanti
alla
telecamera. Era una capacità che lei non aveva, quella.
Si era congedata da lui cullata da
una sensazione di pace,
certa che niente e nessuno avrebbe potuto turbarla, quel giorno, ma
così non
era stato. Ed era ironico che la persona che era riuscita a turbarla
fosse
anche la persona che di solito, invece, la metteva più a suo
agio.
Era difficile. Era terribilmente
difficile accettare di non
essere in grado di dare risposte fredde ed evasive, per lei.
L’intento c’era,
la voglia di liquidare quella domanda fastidiosa con un semplicissimo
‘Non ti
riguarda’, ma proprio non le riusciva.
Era colpa dei suoi occhi, degli occhi
scuri di Gustav
adagiati su di lei senza alcuna pretesta, solo aspettando. Normalmente
lei non
avrebbe risposto a una domanda simile. Normalmente, avrebbe trovato un
modo
elegante per aggirarla
Considerò
l’eventualità: nessuno sapeva il suo vero nome. Lo
aveva gelosamente tenuto segreto, assieme a un pesante bagaglio di
passato che
non le apparteneva più. Lei era Kuu, adesso. Soltanto Kuu.
Lo aveva scelto lei.
“Non fa niente,”
disse Gustav in tono rassicurante. “Scusami,
non avrei dovuto chiedertelo, non sono affari miei.”
“No, scusami tu,
davvero.” Disse lei, seriamente dispiaciuta.
“So che è una cosa stupida
ma…”
Era stato un altro tempo,
un’altra vita, una realtà diversa,
che ora non c’era più. Era persa.
“Senti, lasciamo
perdere.” Minimizzò lui, con uno dei suoi
rari sorrisi. “Non è importante.”
Ma era
importante.
Lo era, o per lei non sarebbe stato così difficile.
Kuu si accorse che qualcosa dentro di
lei si era appena
spezzato. Non sapeva cosa, non sapeva come, non sapeva
perché.
“Mi chiamo
Sascha.” Si sentì rispondere, quasi senza esserne
cosciente. “Sascha Edelmond.”
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Note:
finito! Chiedo scusa ancora una volta per il ritardo vergognoso e anche
per la
mia assoluta assenza su MSN. È un periodo strano, spero mi
perdonerete. Vi rimando
a più tardi per le note più dettagliate, adesso
sono un po’ di fretta. Spero vi
sia piaciuto, aspetto fiduciosa commenti, e, prima che me ne
scordi…
Un grazie
enorme a
tutte voi per avermi votata al concorso per i migliori personaggi
originali! Mi
sono commossa quando ho scoperto di essere passata al secondo round ed
è tutto
merito vostro! Vi adoro!
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