That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Storm in Heaven - III.002
- Falling Down
Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971
“Sei
pronta, piattola?”
Rigel mi aspettava davanti alla mia camera, vestito, come me, in
maniera non troppo formale, non come quando dovevamo andare a casa
Black, per intenderci, ma comunque più elegante del solito:
aveva un bell’abito scuro e i capelli pettinati
all’indietro, così da lasciare scoperti gli occhi,
identici a quelli di papà. Mi diedi l’ultima
occhiata allo specchio e ne approfittai per fargli la linguaccia,
sistemai i polsini della mia camicetta e spianai per bene il vestito
grigio scuro senza maniche che portavo sopra, infine centrai meglio il
cerchietto d’argento tra i capelli, e tirai un sospiro fondo:
ero pronta. Di sotto si sentivano già alcune voci ed io
avevo le gambe che mi tremavano.
“Guarda che non mordono
mica!”
Fulminai mio fratello con lo sguardo, Rigel continuò a
prendermi in giro mentre scendevamo, sostenendo che forse erano stati
invitati persino il caro cugino Malfoy e suo padre: un ghigno diabolico
gli si stampò in faccia appena si accorse della mia
espressione atterrita e disgustata. Quando arrivammo in fondo alle
scale, però, ormai non lo ascoltavo più: ero
troppo nervosa persino per insultarlo. Era assurdo che non avessi idea
di che faccia avessero i Kelly: ed era solo colpa mia perché
a Doire, invece di guardarmi attorno e memorizzare i volti delle
persone che non conoscevo, avevo sempre pensato solo a giocare con i
miei cugini e, durante gli ultimi riti a Herrengton, mi ero distratta
pensando continuamente a Sirius Black. Divenni rosso porpora
immaginando di nuovo il suo volto e Rigel sghignazzò in
maniera ancora più evidente: sapevo che non era possibile,
ma a volte mi chiedevo, angosciata, se quel cretino riuscisse a
leggermi nel pensiero o immaginasse quello che mi passava per la
testa… in entrambi i casi, mi vergognavo ancora di
più. La mamma, i capelli raccolti in uno chignon morbido e
fasciata in un bell’abito verde scuro dal taglio decisamente
“babbano”, ci venne incontro per accompagnarci nel
salone: a mano a mano che percorrevamo il corridoio, mi accorsi che non
si udivano voci di donna, solo una voce potente e melodiosa, che
parlava la lingua del Nord. Immaginai fosse Donovan Kelly, o suo figlio
Liam, ma quando entrai nel salone, mi trovai di fronte un uomo alto e
magro, dalla fluente chioma candida, legata in una lunga coda, stretto
in una toga nera che copriva interamente un abito grigio antracite.
Assomigliava in qualche modo a mio nonno, almeno come appariva nei
ritratti più austeri: lo guardai meglio e vidi che il suo
viso sembrava cotto dal sole, con una rete di rughe profonde che gli
davano l’aspetto di una tartaruga millenaria. No, era troppo
vecchio per essere il padre di Sile: Donovan aveva giocato come
Battitore insieme a papà nella squadra di Quidditch di
Serpeverde, sapevo che era appena pochi anni più grande di
lui.
“Eccoli finalmente! Entrate,
ragazzi! Fear, questi sono Rigel e Meissa! Ragazzi, ho finalmente il
piacere di presentarvi il mio padrino e maestro, Duncan MacPherson:
sarà nostro ospite per tutta la durata dei
riti…”
Notai subito la smorfia e la rigidità di mio fratello mentre
gli dava la mano e l’espressione poco convinta di mia madre:
quando toccò a me, intercettai gli occhi del vecchio e li
vidi scintillare come tizzoni ardenti. E la stretta della sua mano,
poi… Salazar! Non avevo mai provato una sensazione simile,
era come se avessi sentito un’energia potente passare dai
suoi polpastrelli ai miei e di colpo nella mia mente erano fiorite,
senza che lo volessi, immagini di cascate e luoghi misteriosi, epoche
lontane e…
“Basta
così!”
Mia madre mise fine a quel contatto, afferrandomi per un braccio e
frapponendosi tra noi, l’uomo la guardò con una
nota ironica sul viso, disse poche rapide parole in gaelico che non
capii ma che parvero innervosirla anche di più, mentre mio
padre mi fissava preoccupato.
“Preferiremmo che i tuoi
esperimenti li facessi con il nostro consenso!”
“Scusami, Deidra, hai ragione,
ma ero troppo curioso… I vostri figli sono molto
interessanti, così diversi tra loro: a Rigel la
consapevolezza di chi fossi ha permesso di erigere subito una barriera,
non mi ha concesso alcun contatto, non c’è che
dire, non ti assomiglia solo nell’aspetto, Alshain! Quanto
alla vostra meravigliosa principessa, beh… ha già
una buona difesa istintiva, ma siamo riusciti a vedere entrambi cosa
c’è dentro di te, dico bene, Meissa?”
Ghignò guardandomi, io ero turbata, non capivo una parola di
quello che stava dicendo, né che cosa fosse successo. La
mamma mi guardò preoccupata, come quando da piccola cadevo e
lei mi scrutava per controllare che oltre a non avere graffi
superficiali non avessi neanche ferite nascoste.
“Ti consiglio di non provarci
di nuovo! Alshain…”
Mia madre implorò con lo sguardo l’intervento di
papà, poi mi circondò le spalle con il braccio e
mi condusse via, ostile, io guardai quell’uomo misterioso, al
tempo stesso curiosa e preoccupata: avevo sentito parlare spesso, di
solito di nascosto, di un famigerato Mago del Nord che il nonno aveva
cacciato da Herrengton, poco prima che mio padre andasse via di casa,
ma non capivo come i due fatti potessero essere collegati,
né per quale motivo la mamma sembrasse avercela con lui. No,
non riuscivo a capire. Sentii nostro padre rivolgersi in gaelico al
vecchio come se volesse riprenderlo, poi lo condusse nello studiolo
attiguo alla sala, mentre Rigel, stranamente preoccupato, si
affrettò a seguire me e la mamma in sala da pranzo.
“Che cosa ci fa qui? Chi
l’ha invitato? Si dice che succedono sempre cose spiacevoli
dove va quello lì… Perché...”
“Non dire sciocchezze, Rigel!
Quell’uomo avrà pure dei modi bizzarri,
è vero, ma è stato uno dei pilastri della
Confraternita, ed è un onore per noi che abbia accettato
l’invito, sono anni che fa vita ritirata e...”
“Onore? Quale onore? Mio nonno
l’ha cacciato da Herrengton! Ci sarà un motivo,
no? E credo tu sappia quale sia, perché mi pare che non
fossi troppo entusiasta di averlo qui nemmeno tu, pochi istanti
fa!”
“Ora basta, Rigel! Non so chi
ti abbia insegnato a rispondere così, ma ti consiglio di
smetterla subito e tornare a comportarti secondo le regole di questa
casa! Altrimenti sarò io stessa a prepararti le valigie per
Durmstrang… Questo è il mio secondo avviso, non
ce ne sarà un terzo…”
Mio fratello la guardò incredulo, era davvero strano che
nostra madre lo riprendesse così severamente, ma non
riuscì a replicare perché, proprio in quel
momento, sentimmo un suono strano alla porta e la signora Sheneer,
tutta trafelata, andò ad accogliere i nuovi ospiti.
Sospirai, era giunto il momento. Mentre attendevo di vederla, sapevo,
dentro di me, che quell’innocua, giovane strega, che nella
vita quotidiana lavorava all’ospedale di Doire nel reparto
dei bambini, avrebbe avuto il potere di destabilizzarmi molto
più degli assurdi esperimenti di quel misterioso Mago, noto
con il nome bizzarro di Fear.
“Signor Kelly, prego, si
accomodi!”
“Donovan…
finalmente… benvenuto…”
Non sentii la risposta dell’uomo, non perché non
rispose, ma perché ero rimasta colpita dalla sua mole
imponente che riempiva, in pratica, tutto lo specchio della porta: era
vestito con un lungo cappotto scuro, teneva il mantello nero piegato
sul braccio, probabilmente per non destare curiosità nel
vicinato e un ampio cappello gli mascherava parzialmente il volto. Da
quel poco che vidi, mi sembrò che non avesse
un’espressione molto amichevole e iniziai a preoccuparmi
ancora di più per Mirzam. La Sheener prese i soprabiti e li
mise nel guardaroba, mentre la mamma, un’espressione radiosa
dipinta in volto, faceva accomodare Liam e sua moglie Fiona,
anch’essi completamente a loro agio in quegli strani abiti
babbani.
“Manca ormai poco, o
sbaglio?”
“Sì:
sarà il mio regalo di Hogmanay per questo bel
ragazzo!”
Fiona sorrise, andando ad accarezzarsi il ventre, sotto gli occhi
amorevoli del marito: la sua figura mostrava senza
possibilità di equivoci che era quasi alla fine della
gravidanza e Liam, circondandola teneramente con le braccia, la
baciò con una naturalezza che a parte nei miei genitori, non
credevo possibile nelle coppie Slytherin. Effettivamente in quel
momento, in quella stanza, eravamo tutti piuttosto strani per essere
degli Slytherin…
“E Sile?”
Sapevo che non era educato parlare senza essere interpellati, tantomeno
mostrarsi curiosi, ma io ormai fremevo all’idea di conoscerla
e tutto mi aspettavo tranne che mancasse proprio lei; per fortuna
Donovan nemmeno mi sentì, tutto preso da mio padre e Fear
appena usciti dallo studiolo e ora si scambiavano saluti e cerimonie
nel corridoio per poi avviarsi nel salone.
“Mia sorella
arriverà, non temere: anche lei ha una gran voglia di
conoscerti, Meissa Sherton, ma devi avere ancora un po’ di
pazienza, purtroppo farà un po’ tardi, stasera,
stavamo uscendo quando Siobhán Quinn le ha chiesto aiuto,
pare che i suoi due gemelli abbiano un po’ di
febbre…”
Mia madre annuì, mentre il volto di Liam si era aperto in un
sorriso simpatico, i suoi occhi sembravano neri come la notte, ma ora
che lo vedevo più da vicino, mi accorgevo che erano di un
blu così intenso da sembrare scuri. Ed erano occhi sinceri,
occhi che brillavano, non restavano freddi e spenti mentre sorrideva.
Suo padre, invece, continuava a mettermi soggezione: non capivo
perché la mamma si fidasse di lui, aveva
un’espressione arcigna degna di un orco cattivo e
più lo guardavo, meno mi piaceva. Forse lo stavo fissando
con troppa insistenza, perché alla fine si voltò
e mi fissò a sua volta: tremai aspettandomi di essere
duramente rimproverata per qualcosa, invece per la prima volta da
quando era entrato in casa nostra, anche la sua faccia si distese in un
ampio, incredibile sorriso.
“Come passa il tempo,
Dei… me li ricordo ancora, proprio in questa stanza, che
erano alti così…”
Donovan fece il cenno che indicava l’altezza di due bambini
di due e quattro anni, strappando un altro sorriso radioso in nostra
madre: arrossii mentre stringevo la mano forte di quell’uomo
dagli intensi occhi scuri, poi però mio padre ci interruppe,
esortando di nuovo tutti ad accomodarci nel salone, per chiacchierare
finché non fosse stata pronta la cena. La serata trascorse
così, stranamente tranquilla, con mio fratello
più calmo, tutto preso a parlare di Quidditch con Donovan,
uomo che ben presto si rivelò molto diverso da come me
l’ero immaginato; la mamma chiacchierava con Fiona, dandole
dei suggerimenti sui bambini e portandola in seguito a vedere i miei
fratelli che dormivano pacifici di sopra; mio padre, Liam e Fear
discutevano di politica, senza però che la discussione si
animasse troppo, dai toni che avevano compresi che si trovavano
d’accordo quasi su tutto. Spesso però sentivo
addosso gli occhi furtivi del vecchio, li intercettavo spesso,
insistenti su me e Rigel, e sulle nostre mani, sulle nostre rune, sul
mio anello. Lo fissai, a mia volta, intensamente, lui distolse lo
sguardo: un brivido mi percorse la schiena, ebbi la certezza che il suo
interesse nei nostri confronti era dovuto a qualcosa di misterioso,
qualcosa che c’entrava con la Magia del Nord e
l’anello che avevo in mano. Forse avevo sbagliato bersaglio,
quando avevo mostrato ostilità e sospetto verso Donovan, di
colpo sentivo che quel vecchio era pericoloso, che la mamma e Rigel
avevano motivi seri, sebbene a me sconosciuti, per temerlo. A quel
punto, però, ormai a metà serata, mentre la mia
mente si popolava di dubbi e inquietudine, il campanello
suonò di nuovo e finalmente Sile Kelly entrò
ufficialmente nella mia vita.
***
Deidra Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971
“Sei stanca?”
“No… ma non vedevo
l’ora che se ne andassero tutti…”
“Come ti capisco!”
Sorrisi, guardandolo attraverso lo specchio che si avvicinava, si
chinava su di me e mi marchiava la spalla con uno dei suoi baci
delicati. Lentamente mi sciolse il fermaglio, liberandomi i capelli
sulla pelle ancora bagnata, mi abbracciò da dietro e mi
strinse a sé, languidamente: mi abbandonai ridendo tra
quelle braccia, erano il mio nido, il mio rifugio. Mi voltai, lo
fissai, sorridendo provocante, per poi salire sulle punte dei piedi e
scoccare un bacio giocoso sulle sue labbra, invitanti come il primo
giorno: mi rapì subito, intrappolandomi contro il muro,
trasformando quel gioco in un bacio vorace, appassionato,
irresistibile. Da togliere il fiato. Stretta a lui, ansimando
appiccicata al suo corpo, vibrando della stessa passione che animava il
suo, salii con le dita ad accarezzare il profilo del suo naso, la linea
morbida delle labbra e quella decisa del mento, mentre i suoi occhi
divertiti e complici avevano ormai incatenato i miei. Sapeva quanto
quelle sue linee, quei suoi colori, mi stregassero e
m’infiammassero l’anima, e quanto al tempo stesso
mi riempissero di dolcezza e tenerezza, perché erano gli
stessi che riscoprivo giorno per giorno nei volti dei miei figli. Dei
nostri figli. Furtivo, con una mano fece scivolare a terra gli
asciugamani che avevamo ancora addosso e con l’altra
iniziò a inseguire le ultime gocce d’acqua che mi
rigavano il corpo, per poi tornare indietro, percorrendo centimetro
dopo centimetro la mia pelle che prendeva vita, diventava ricettiva e
si caricava d’attesa al suo tocco. M’inarcai per
aderire perfettamente a lui, senza staccare gli occhi dai suoi,
ammaliata come il primo giorno, mentre mi sollevava da terra, mi
prendeva tra le braccia e mi adagiava accanto a sé, nel
nostro letto, baciandomi con tenerezza.
“Ti amo,
Dei…”
Mi abbandonai completamente a lui, mentre continuava a baciarmi, le mie
mani, perse nei suoi capelli, correvano giù, sulla pelle
liscia e calda delle sue spalle, trattenendolo forte a me, mentre
diventavo ancora una volta creta nelle sue mani, custodia di ogni suo
sospiro. Aveva sempre saputo interpretare i miei desideri, prima ancora
che riuscissi a comprenderli ed esprimerli, mi ero avvicinata a lui,
ragazzina, attratta come una falena dalla luce: timorosa di ritrovarmi
con le ali bruciate, avevo aperto gli occhi al mattino, trovando
invece, accanto a me, il senso della mia vita e la mia vera
felicità. Sospirai piano il suo nome, travolta ancora una
volta da quel piacere perfetto, fusione di anima e sangue,
aggrappandomi a lui, per non lasciarlo andare. Anche se sapevo che non
sarebbe mai andato via da me. Mai e poi mai. Mi accarezzò la
testa, baciò lieve i miei occhi, il suo corpo forte sempre
avvinto al mio, esausto: sapeva quanto amassi dormire appoggiata al suo
petto, rideva sempre di me, dicendo che la mia testa l’aveva
scambiato per un cuscino ormai da anni. Alzai gli occhi su di lui,
adorante, trovando la stessa devozione nel suo sguardo…
“Ho paura, Alshain…
Mi sento…”
“…Travolta in un
turbine di sensazioni che non riesci a governare… Lo
so…”
Mi sorrise, accarezzandomi il naso: mi aveva letto perfettamente
dentro, ancora una volta, ma sapevo che non era una semplice
intuizione, sapevo che provava le mie stesse, contrastanti emozioni.
“Penserai che sono una
stupida, ma… non riesco a non… le prossime
saranno le ultime ore che vivremo tutti insieme sotto lo stesso
tetto…”
“Dei… sono ormai
anni che non viviamo più continuamente tutti
insieme… tranquilla… chi ti dice che…
Herrengton è grande a sufficienza per ospitare anche loro,
se volessero viverci…”
“Lo so…
“Ti ricordi quanto mi prendevi in giro quando stava per
andare a Hogwarts?” è questo che pensi, vero
Alshain? Ti prendi gioco di me, perché sai che
scoppierò in lacrime prima ancora che lui esca da questa
casa…
“A dire il vero non
sarà mai lo stesso… Quella volta tu mi hai
definito “chioccia”, ricordi?… e scusami
ma…. È molto, molto peggio! Che cosa penserebbe
la gente di me, se si sapesse, dimmelo?”
Mi guardò divertito, sperando di farmi sorridere, poi mi
stampò un bacio sulla fronte, mentre io andavo ad asciugare
una stupida lacrima traditrice sul suo petto… mi ci volle un
po’ per assicurarmi che la voce avrebbe retto poi, fingendo
una sicurezza che non sentivo, cercai di rispondergli a tono, ma sapevo
che gli occhi non avrebbero nascosto i miei veri sentimenti.
“Tu lo sei,
Alshain… Tu sei una chioccia… una meravigliosa
chioccia… magari un po’
pelosa…”
Sorrisi, ma non era più un gioco, no, il solo pensiero mi
riempiva di amore e tenerezza. Era successo di nuovo appena la notte
prima, mi ero svegliata all’improvviso, credendo di udire un
rumore proveniente dalla stanza dei bambini, mi ero allungata sul
letto, trovandolo caldo ma vuoto, avevo preso la vestaglia e, scalza,
avevo raggiunto la nursery, illuminata dalla luce fioca di una candela.
Lui era lì, seduto con in braccio nostro figlio, irrequieto
per i dentini, mentre Adhara guardava sognante suo padre dalla
culla… Se fosse stato possibile provare un amore
più grande di quello che ci legava, mi sarei innamorata
ancora di più di Alshain, in quell’istante: mi ero
avvicinata a lui, avevo accarezzato i suoi capelli e avevo raccolto il
suo bacio appassionato. E dentro di me, ancora una volta, avevo
ringraziato gli dei per la generosità con cui aveva
benedetto me e il nostro amore… Sorrisi, mentre il suo
abbraccio da tenero diventava di nuovo possessivo, affamato: sapevo a
cosa stava pensando, eravamo entrambi convinti di aver concepito Adhara
proprio in un frangente simile, proprio dopo aver riso insieme,
a lungo, delle straordinarie qualità di
“balia asciutta” di mio marito.
“Chioccia, Balia,
Tata… in… questa… casa…
non… c’è…
rispetto… per… un… povero…
Mago del Nord…”
Ogni parola era scandita da un bacio: amavo esser catturata
così, come il primo giorno, affondai le mani tra i suoi
capelli corvini, assaporando ancora l’estasi dei suoi baci e
lasciandomi travolgere di nuovo della sua passione.
“Ti amo
anch’io…”
***
Mirzam Sherton
Diagon Alley, Londra - dom. 19 dicembre 1971
“Muffliato!”
“Nox!”
La strada piombò nell’oscurità, in un
silenzio pieno, palpabile, carico d’attesa. Poi
l’esplosione, violenta, devastante: la pioggia di vetri
riempì l’aria intorno a me. Mi ero riparato dietro
una palazzina, sull’altro lato del vicolo, ma la violenza e
il calore del vuoto d’aria mi presero in pieno. Mi aggrappai
al muro con tutta la forza che avevo, le dita tanto serrate da ferirsi
sulla superficie ruvida dei mattoni. Per un secondo, mi
sembrò che, nonostante gli incantesimi posti a nostra
difesa, non ci sentissi più, ma era solo l’effetto
intorpidente di quella vibrazione spaventosa: subito dopo, nella
normalità relativa di quella notte, sentii lo scricchiolio
degli stivali sul tappeto di ghiaccio, misto ai vetri, poi i colpi dei
calci contro i brandelli di pietra e di legno per liberare il passaggio
e, infine, le urla, secche e violente.
“Muoviti! Arriveranno
presto!”
Riemersi dal mio rifugio: dovevamo fare presto, entrare e prendere
ciò che cercavamo, già si stavano accendendo,
confuse, alcune luci alle finestre, alcuni uomini si affacciavano,
disturbati dalla vibrazione, ma il buio completo nella strada impediva
loro di vedere qualsiasi cosa. Sapevamo, però, delle ronde
degli Aurors, sapevamo che presto avremmo avuto compagnia: Rookwood,
col suo lavoro al Ministero, era riuscito a farci avere delle
informazioni preziose sul numero e sui turni delle squadre. Superai i
cumuli di macerie, Rodolphus mi fece strada: non ero mai stato nella
casa di Edmund Sullivan, l’antiquario, perché
secondo mio padre era soltanto un cialtrone e un falsario; al
contrario, Lestrange aveva preso sul serio alcune dicerie e, conoscendo
il misterioso interesse di Milord per le reliquie dei Fondatori, aveva
fatto numerosi sopralluoghi nelle ultime settimane, spacciandosi per un
cliente interessato. McNair e Pucey erano già corsi di
sopra, per prelevare il nostro “amico” e sua
moglie, Augustus, Rodolphus ed io rimanemmo di sotto, in attesa:
immaginavo che Rookwood e Lestrange si sarebbero divertiti a
“liberare”, a modo loro, i nostri ospiti dalle
proprie reticenze, quanto a me, il mio compito era come sempre il
più pulito, ma stavolta non il più facile.
“Questa storia è
assurda. Che cosa ti fa credere che quel fodero esista davvero? E
soprattutto, secondo te, come dovrei fare io a riconoscerlo?”
“Ne sai abbastanza di patacche
e anticaglie da capire se è autentico o meno… Se
però preferisci occuparti tu degli altri aspetti della
questione... Prego: accomodati pure… Hai insistito tu per
venire, se non sbaglio!”
Rod mi parlò con tono sarcastico, l’aria di sfida
stampata sul volto, evocando un’occhiata ironica anche in
Augustus: la sua sfiducia nei miei confronti, in pubblico, diventava
spesso palese, soprattutto dopo la famigerata sera degli anelli a
Lestrange Manor. McNair ritornò di corsa, gettò
il vecchio ai nostri piedi, quasi fosse un sacco, e lo colpì
con una Cruciatus in pieno petto, per spegnere subito ogni tentativo di
resistenza, Pucey invece non aveva difficoltà a tenere
prigioniera la donna, un’innocua babbana: entrambi erano
terrorizzati e confusi, l’uomo non faceva che chiederci che
cosa volessimo da lui, ci offriva tutto il denaro che teneva nascosto
in casa, in cambio della salvezza propria e della moglie, implorava,
sostenendo che a casa e nel laboratorio non custodiva nulla di prezioso.
“Voglio il fodero col pugnale
di Godric… Anzi, per non sbagliare, voglio tutto
ciò che la tua famiglia conserva da secoli, poi ti prometto
che ce ne andiamo.”
“Io non ho niente…
non ho niente, ve lo giuro!”
“Come sarebbe? Qui in
Inghilterra tutti ti hanno udito vantarti di essere l’ultimo
dei suoi discendenti: vuoi forse dirmi che truffi i gentiluomini, da
decenni, con le tue favolette?”
Il vecchio sbiancò, non aveva ancora capito che a rischio
non erano la sua attività o il suo nome, ma la sua stessa
vita. Alla fine, si mise a piangere, confessando di aver sempre mentito
su tutto, per ingannare i clienti e arricchirsi facilmente.
“Tutto ciò che
possiedo, l’ho messo insieme negli anni passati in Romania,
lo confesso, e a volte ho falsificato io stesso alcuni pezzi
per…”
La luce nello sguardo di Rodolphus non mi piaceva per niente, capii che
si metteva male e cercai d’intervenire.
“Te l’ho detto che
era una pista fasulla! Cercheremo altrove… Ora andiamocene!
Obliviamoli e lasciamoli andare…”
“Ha ragione, tra poco gli
Aurors saranno qui… Andiamocene…”
“No, non sono affatto convinto
che ci stia dicendo la verità… e comunque...
perché andarcene? Secondo voi dovrei mantenere una promessa
fatta a un lurido filobabbano e alla feccia con cui si accompagna? Come
se non fosse già abbastanza grave, sono anche due ladri e
due bugiardi! Io penso che dovremmo proprio fare un po’ di
pulizia…”
Rod estrasse la bacchetta e lanciò la maledizione che
preferiva contro la donna, io mi voltai, per non guardare: non mi
capacitavo ancora di essere lì, inerme, né di
esserci andato di mia spontanea volontà. Stavolta mi ero
messo da solo, con le mie mani, in quella situazione. E tutto,
inesorabilmente, stava andando storto.
*
Mirzam Sherton
Warrington Manor, Highlands - sab. 18 dicembre
1971 (4 ore prima)
"Come testimone di nozze, do
ufficialmente il via alla festa!"
Jarvis aveva alzato il calice e tutti i miei amici avevano brindato a
me e alla fine della mia libertà: sorrisi, in leggero
imbarazzo, bastava guardarmi in faccia per capire che non vedevo
l’ora di chiudermi nella mia prigione, che per me non
esisteva nulla di più bello del dolce abbraccio della mia
Sile. Non c’erano decorazioni Slytherin o del Nord quella
sera, a Warrington Manor, per non far torto a nessuno dei tanti ospiti:
il mio testimone di nozze, infatti, aveva invitato pressoché
tutti quelli che conoscevo, dagli ex compagni di Hogwarts, non solo di
Serpeverde, ai colleghi del Puddlemere e delle due squadre minori in
cui avevo giocato per imparare, dagli amici delle famiglie del Nord, ai
conoscenti di Doire, Londra e Inverness. Tra gli altri, naturalmente,
c'erano Rodolphus e Augustus, la nota stonata della serata. Sapevo che
avevano un appuntamento, al termine della festa, a Diagon Alley:
Rookwood, a breve, avrebbe finto di sentirsi poco bene e Lestrange si
sarebbe offerto di riaccompagnarlo a casa, poi si sarebbero incontrati
con Pucey e McNair, intorno all’1.30, nel vicolo dietro
Burgin e da lì avrebbero raggiunto la dimora di un noto
antiquario. Io speravo che se ne andassero il prima possibile,
portandosi via quell’aria venefica che ormai non sopportavo
più. In quegli ultimi mesi la mia esasperazione e il mio
disgusto erano cresciuti a dismisura e quelle settimane lontane dal
“lavoro”, che mi erano state concesse da Milord per
occuparmi dei preparativi del matrimonio e del Quidditch, avevano
alimentato ulteriormente in me il desiderio profondo di cambiamento e
ribellione. Con Sile, avevo affrontato tutti i dettagli di
quell’orrenda storia prima ancora di chiedere la sua mano a
Donovan e avevo fatto bene, perché poi, con le sue idee
geniali e irose, suo padre ci aveva messo nelle condizioni di non poter
mai restare da soli, nemmeno per parlare. Ed io, dopo aver rischiato
tante volte di perderla, non potevo certo permettermi che venisse a
sapere della mia scelta sconsiderata da qualcun altro, così
le avevo detto tutto: non era stato facile, per Sile, accettare la
realtà ed io avevo temuto che mi avrebbe detto addio per
sempre; alla fine, però, seppur con qualche incertezza,
aveva capito che non l’avevo fatto mosso da convinzione e
odio, ma per proteggere coloro che amavo. Per questo, solo per questo,
mi aveva perdonato, in cambio della promessa che avrei trovato un modo
per uscirne. Sile s’illudeva che la mia scarsa adesione alle
idee di quegli assassini mi avrebbe permesso di mettere fine a
quell’incubo e voleva restare al mio fianco per aiutarmi e
sostenermi, voleva che affrontassimo insieme quella prova tanto
difficile. Tutto ciò non era possibile, lo sapevo bene,
eppure avevo promesso: per vigliaccheria, per paura che lei mi
lasciasse, perché sapevo che senza di lei vivere non aveva
alcun senso. Io non volevo iniziare la mia nuova vita con lei
mentendole, avevo già appurato quale catena di catastrofi
può nascere dal tacere e dal mentire, al tempo stesso,
però, non potevo permettere che lei corresse ulteriori
rischi a causa mia. Con questi pensieri, col passare dei mesi e delle
settimane, un’ansia sottile si era affiancata all'emozione di
vivere con lei: stavo per realizzare i miei sogni, ma Milord era
un'ipoteca pesante sul nostro futuro, un peso che mi era sempre
più odioso sostenere. Soprattutto ora che il prezzo che mi
chiedeva era diventato più alto. Quando gli avevo chiesto di
essere sollevato dagli incarichi per i miei impegni, Milord mi aveva
fissato con un’espressione sordida e, con un tono che mi era
apparso sinistro e ironico, aveva risposto semplicemente“Capisco…”
. Intuitivo com’era, doveva aver già colto il
cambiamento che stava maturando in me e mi aspettavo che presto mi
avrebbe messo alla prova, affidandomi qualche incarico tremendo che
avevo paura persino a immaginare. E così era stato.
“Una vita per una vita.”
Questo aveva detto Milord, a ottobre, presentandosi
all’improvviso a casa mia, alcune settimane dopo aver
accettato di concedermi la pausa che gli avevo chiesto: gli dovevo una
vita, per dimostrare quanto gli fossi grato e quanto fossi ancora
rispettoso dei patti che ci legavano, perché se Sile era
ancora viva era solo merito suo ed io non dovevo scordarlo. Mai.
L’avevo messo in conto dall’inizio: prima o poi, le
mie mani si sarebbero sporcate di sangue, speravo, però, di
avere più tempo, invece l’incidente con gli
anelli, a Lestrange Manor, aveva tragicamente accelerato la mia rovina.
Io non ero un assassino e non volevo diventarlo, sapevo,
però quanto pesantemente sarebbe ricaduta la
responsabilità delle mie azioni sulla vita di coloro che
amavo: non mi sarei mai perdonato se la mia famiglia avesse subito le
conseguenze di una mia debolezza. Non sapevo cosa fare. Mi trovavo
finalmente all’alba della mia nuova vita, ma di fronte a me
si apriva un abisso, senza vie d’uscita. Anche mio padre,
dopo aver subito ogni tipo di pressioni, per mesi, aveva accettato di
incontrare Milord, quell’estate, e anche lui conviveva ormai
con l’idea di dover, alla fine, sacrificare la propria
integrità per la salvezza dei propri cari. Ciò
che forse Milord non sapeva ancora, però, era che mio padre
stava mettendo in atto le sue contromosse: l’avevo aiutato,
avevamo lavorato a lungo insieme, avevamo preparato dei rifugi sicuri,
mi aveva infine convinto a lasciare Inverness per vivere non lontano da
Maillag, nelle Terre del Nord, dove la Magia Antica, in caso di
necessità, poteva difendere me e Sile dalla furia di Milord
e dei suoi sicari. Per questo, perché il potere di quella
Magia non cadesse sotto la sua influenza, era però vitale
che il Signore Oscuro non s’impossessasse di Habarcat: a
questo scopo, servendosi dell’aiuto non del tutto consapevole
di Orion Black, mio padre aveva ritrovato e ricomposto le parti
dell’antico anello di Salazar, aveva verificato che fosse
ancora in grado di governare i poteri della Fiamma quindi
l’aveva nascosto a Hogwarts, precludendo al legittimo erede
del Maestro la possibilità di impadronirsi di un potere
tanto antico quanto sconfinato. A volte mi chiedevo che cosa sarebbe
successo se Milord e i suoi uomini avessero trovato le prove dei nostri
inganni. Non solo. Mi chiedevo come avrebbero reagito i Maghi del Nord
scoprendo che mio padre era andato contro i patti di fedeltà
che legavano gli Sherton all’Erede. Il solo pensiero mi
terrorizzava.
Uscii sulla terrazza per prendere un pò d'aria, un senso di
cupa oppressione nel petto: dentro, le urla e gli inni, le bevute e il
clima goliardico sembravano appartenere a un mondo distante anni luce
da me, una sensazione già provata, la sera in cui avevo
vinto la mia ultima partita di Quidditch a Hogwarts e tutti mi
festeggiavano. Anche allora avevo preferito restare in disparte, a
pensare a tutto quello che sentivo dentro di me. Stavolta
però avevo motivi seri per essere tanto turbato. Percepii
dei passi nell’ombra, mi voltai, stampandomi a forza un
sorriso sereno che celasse i miei turbamenti. Rodolphus era dietro di
me, con un paio di calici in mano, come al solito elegante e sicuro di
sé: vestiva un bell'abito classico, scuro, aveva lasciato
stare da un pò i dettagli sgargianti, era diventato molto
più sobrio e discreto, anche i suoi capelli erano
più corti, mentre nello sguardo la solita aria di sfida
aveva lasciato il posto a una consapevolezza maggiore, e a una maggiore
astuzia.
"A te, Sherton... nella speranza che
crescendo, tu smetta di essere un ingrato!"
"Salazar, non puoi star serio almeno una
volta? Che cavolo di brindisi è mai questo?"
"Non sto scherzando... penso davvero che
tu sia solo un maledetto ingrato!"
“Non sarà ancor per
quella storia, Rod? Te l'ho già spiegato, non c'entri tu...
è che... "
"… che sei un ingrato, lo so.
Non cercare scuse, è per questo che hai chiesto a lui di
farti da testimone e non a me."
"Jarvis è un Mago del Nord,
Rodolphus, come me e Sile: abbiamo voluto una cerimonia molto
tradizionale, ed io non…"
“Nemmeno Augustus è
un Mago del Nord, ma questo non gli ha impedito di far da testimone a
Warrington.”
“Rookwood non è un
maledetto piantagrane come te, Lestrange! È questa la
verità! Se avessi aspettato che ti fossi addomesticato a
certe regole, persino mio fratello Wezen si sarebbe sposato prima di
me!”
Rodolphus mi fissò, offeso, poi scoppiò a ridere
e, appoggiandomi la mano ingioiellata sulla spalla, annuì:
era notevolmente alticcio, ma non abbastanza da mandare a monte la
missione di quella sera.
"Sì, forse è vero,
ma… la verità è che tu e, soprattutto,
tuo padre non volevate che un Lestrange fosse messo a parte di qualche
oscuro, segreto, sacro, rito del Nord."
"Ma piantala con le cazzate!
L’ultimo matrimonio celebrato a Herrengton è stato
proprio quello tra mio zio e una Lestrange, ricordi? Se ci fosse
qualcosa da sapere, lo sapreste già. Io ho solo
scelto la strada che mi sembrava più semplice. Almeno per
una volta... vorrei solo percorrere la strada più semplice.
E se davvero ti brucia che io abbia chiamato
Jarvis…”
“Di cui tra l’altro
non ti è mai importato un fico secco…"
“Ti sbagli, Rodolphus: ho
fatto molti errori con Jarvis, ma le cose ora sono diverse…
Ascolta… se proprio vuoi farmi da testimone, puoi venire con
me e Sile a Londra quando depositeremo gli Atti Ufficiali al Ministero
e…”
“Sempre che tuo padre
approvi… Ahahaha… Immagino sia stata un'altra
delle sue brillanti idee, no? Non gli è bastata quella
sceneggiata con quegli stramaledetti anelli a casa mia! Ora invece di
occuparsi di Quidditch e delle sue dannate patacche, si diverte e
mettere in imbarazzo la mia famiglia! Salazar..."
“In imbarazzo ti ci sei messo
da solo, Rodolphus: io te l'ho detto che quell’anello non era
ciò che pensavi tu. Non fingere che non ti avessi avvertito:
non ti saresti mai trovato in quella situazione se mi avessi dato
retta. E ricordati: mio padre, con le mie scelte, non c’entra
più nulla da un pezzo…”
“Davvero?”
“Sì,
davvero.”
“Peggio per te, allora:
Bellatrix andrà a colpo sicuro quando scatenerà
contro di te la sua vendetta…”
“Di cosa diavolo stai
parlando?”
“Del mio regalo di nozze per
te, Sherton! Apri bene le orecchie perché è
davvero prezioso!”
Lo guardai, non aveva un’espressione molto seria e iniziavo a
credere che presto avrebbe avuto difficoltà persino a
reggersi in piedi, ma, come al solito, Rodolphus era una sorpresa
continua.
“Bellatrix ha preso il
marchio, a settembre… Lo sai, no?”
“Preferirei non parlare di
questi argomenti: è pieno di gente, qualcuno ti potrebbe
sentire…”
“… Nelle ultime
settimane sei stato molto impegnato con il Puddlemere e con i
preparativi del matrimonio, quindi forse non sai quanto abbiano avuto
successo le ultime missioni e quanto Bella abbia dimostrato il proprio
valore… Milord è rimasto molto impressionato da
lei… sono entrati in sintonia perfetta
e…”
“Mi stai forse dicendo che,
dopo tutto quello che hai fatto per sposartela, già ti lasci
cornificare così da lei? Salazar! Per favore,
Rodolphus… non voglio sapere… le vostre squallide
perversioni sessuali non m’interessano…”
“Quando hai finito di fare il
buffone, avvertimi, così posso continuare: ho un messaggio
molto serio e importante, addirittura vitale, per te… Bella
non è persona che perdona, lo sai… E quello che
è successo tra voi è impresso a fuoco nella sua
anima almeno quanto il marchio che porta sul braccio: Bella ti ritiene
responsabile di quanto è accaduto con gli anelli e ha
informato Milord dei suoi sospetti!”
“Sospetti? Quali sospetti?
Cosa diavolo s’inventa ora quella pazza?”
“Ti conviene prenderla sul
serio, Sherton: è riuscita a convincere Milord che, durante
le tue visite a Lestrange Manor, potresti aver sostituito
l’anello vero, custodito da generazioni in casa nostra, con
uno falso. La conosci: se hai qualcosa da nascondere, avvelenata
com’è, lei lo scoprirà,
perciò… ecco la mia proposta: se hai qualcosa da
restituirmi, ti do l’opportunità di farlo senza
incorrere in spiacevoli conseguenze. Non ti farò domande e
dirò a Milord di averlo ritrovato in altro modo…
senza coinvolgere te o tuo padre, te lo prometto… A me
importa solo una cosa, Sherton: non voglio che sia Bella a consegnare
quell’anello a Milord, voglio farlo io, voglio la sua eterna
riconoscenza… E magari, perché no, anche quella
degli Sherton, per avervi salvato… Fidati di me: non ho
alcun interesse a bruciare te e la tua famiglia, al contrario di
altri…”
“Non puoi credere davvero a
una cazzata del genere, Lestrange! Sai meglio di me, che quando ti ho
fatto visita, ho visto solo il parco e la tua stanza. Quanto al patto
che mi hai appena proposto, non credi potrebbe essere considerato
tradimento, se si sapesse?”
“Questa si chiama amicizia,
pezzo di un ingrato! Gli amici non fanno solo buffonate, insieme, gli
amici danno buoni consigli... ai quali solo gli stolti non prestano
ascolto!”
“D’accordo… scusami… ti
ringrazio della tua premura, Rodolphus, ma Salazar mi è
testimone, io non sono mai entrato in casa tua per rubarti
alcunchè…”
Rodolphus mi fissò a lungo, sorseggiò ancora il
suo champagne elfico poi, con una strana luce negli occhi, mi sorrise.
“Come bugiardo fai pena,
Sherton: ormai so riconoscere quando stai mentendo, e ora sei sincero.
Ho sempre pensato che Bella avesse preso un granchio, stavolta, ma
dovevo averne la certezza…”
“Mi fa piacere che nonostante
la presenza di quella pazza, ti sia rimasto un po’ di
buonsenso, Lestrange… Dai, si sta facendo freddo…
Rientriamo…”
“… Questo
però significa che, se non sei stato tu, a rubare in casa
nostra deve essere stato… Orion Black…”
Fu come ricevere una pugnalata in pieno petto, sentii le gambe cedere.
Cercai con tutte le mie forze di reprimere paura e sgomento, di
sostenere il suo sguardo con la mia migliore espressione sicura e
sprezzante, mentre Rodolphus mi squadrava famelico, pronto a cogliere
qualsiasi cenno d’incertezza o paura per saltarmi alla gola.
“Scherzi, vero?
Perché se credi davvero a una cazzata simile, sei proprio
fuori di testa, Rodolphus! Forse dovrei avvertire Augustus che non sei
nelle condizioni di andare con lui, stasera…”
Feci per andarmene, sconvolto, ma Rodolphus mi afferrò per
un braccio e mi trattenne, sbattendomi con malagrazia contro una delle
colonne del portico e fissandomi con insistenza: dovevo inventarmi
qualcosa di convincente. Subito.
“Provami che mi sto sbagliando
di nuovo, Sherton, e guardami negli occhi mentre mi
rispondi…”
“Provartelo? Salazar! Anche un
idiota capirebbe al volo che una storia del genere è a dir
poco ridicola!”
“Dici? Vedi, Sherton, dopo il
mio matrimonio, Black ha fatto visita a mio padre per parlargli di una
collezione di anelli, e quello stolto del mio vecchio si è
fatto giocare… Bella mi ha detto subito che, secondo lei,
suo zio stava complottando qualcosa, ma solo a settembre, ho iniziato a
capire quali fossero le sue intenzioni…”
“Rodolphus,
ragiona… se tutto il mondo magico chiama
quell’uomo “Orion “Cuor di
Coniglio” Black” ci sarà un motivo, no?
Nessuno l’ha mai visto fare qualcosa di più
pericoloso di bere un bicchiere d’acqua, e sempre dopo aver
ottenuto dalla moglie il permesso per farlo… è a
dir poco ridicolo pensare che possa essere entrato nella tana del lupo
cattivo per rubargli l’osso… perché
diciamocelo, Rodolphus, tuo padre non ha certo una bella nomea,
soprattutto quando si tratta di farla pagare a chi gli fa un
torto…”
“Ho già le prove
che Black e tuo padre agiscono insieme, nell’ombra, da anni,
per danneggiare la mia famiglia e Abraxas Malfoy… Che cosa
ci sarebbe di diverso, stavolta? Te lo dico io: niente. A parte il
fatto che hanno mirato troppo in alto, e rischiano di farsi male,
cadendo… molto, molto male…”
Sostenni il suo sguardo con difficoltà, c’era
qualcosa di feroce e selvaggio nei suoi occhi, c’era una sete
antica, di sangue e vendetta, di conti da saldare, di affronti da
punire. Mi divincolai e diedi fondo a tutto il mio sangue freddo, per
cercare di essere convincente e sicuro nei gesti come nelle parole.
“Queste sono accuse gravi,
Rodolphus… gravi quanto assurde: solo un pazzo crederebbe
davvero che Orion Black si sia abbassato a rubare in casa
vostra… Che cosa poi? Uno stupido anello di ferro?”
“È questo il punto,
Sherton, non ha rubato, ha… sostituito e credo anche di
sapere come abbia fatto: ha chiesto a suo figlio di fare lo scambio,
l’ha portato con sé apposta. Sai
com’è: se fossero stati beccati, sarebbe stata la
marachella di un ragazzino. Un’impresa degna di un coniglio,
non trovi? Nascondersi dietro al proprio figlio!”
“Ridicolo, assolutamente
ridicolo, non meriti nemmeno che io perda tempo ad ascoltarti! Quel
ragazzino ha appena undici anni e non sa nemmeno stare su un manico di
scopa! Come poteva farla sotto il naso a tuo padre?E non scordarti il
fatto più importante… la madre di quel marmocchio
è Walburga Black, figlia di Pollux Black: credo che tu
sappia meglio di me di chi sto parlando! E sai meglio di me come
ragiona quella gente: non avrebbero mai lasciato che il loro prezioso
erede, l’erede dei “Toujours Pur”, fosse
coinvolto in una follia simile!”
Rodolphus mi guardò turbato, forse ero riuscito a
instillargli il dubbio che il suo grande ragionamento facesse acqua da
tutte le parti. In realtà, l’idea di Orion di
coinvolgere Sirius era stata al tempo stesso folle e geniale,
perché il nome e il destino di quel ragazzo lo elevavano
sopra qualsiasi sospetto. Io stesso, dopo averlo conosciuto,
quell’estate, avevo condiviso l’ottima opinione che
mio padre aveva di lui: pensavo che sarebbe stato utile alla nostra
causa, peccato che la follia di quel vecchio cappello pulcioso
l’avesse dirottato a Grifondoro, mettendo fine a tutti i
nostri progetti… Sì, era un vero
peccato…
“D’accordo… Ammettiamo pure che tu abbia
ragione su Walburga… Ammettiamo che il moccioso non sia
coinvolto… Potrei sbagliarmi su alcuni dettagli, Sherton, lo
ammetto, ma… la sostanza non cambia, sono sicuro di quello
che dico: quei due, Black e tuo padre, hanno agito insieme per
fregarmi! Ci metto la mano sul fuoco!”
“E allora, bruciati, se ti fa
piacere! Quando però ci sbatterai di nuovo il muso, e ce lo
sbatterai, credimi, non venire a lamentarti con me… Sai qual
è la verità, Lestrange? Questa faccenda sta
mandando fuori di testa tutti, tuo padre, tu, lo stesso Milord. Vi
state affannando dietro al mito di un anello che, se mai è
esistito, si è perso ormai nella notte dei tempi, quando
invece dovremmo affrontare subito, seriamente, la situazione indegna
che persiste al Ministero… Salazar! Quanto permetteremo
ancora a Longbottom di restare a capo del governo? Che cosa stiamo
facendo per trovare un rimedio? Spiegamelo! Invece di perdere tempo con
le favole, dovremmo cacciare lui e i suoi amici Babbanofili per
impedirgli di spadroneggiare ovunque! Spazziamoli via! Liberiamoci di
questa feccia! Facciamo vedere la nostra forza, con i fatti, non con le
parole, con le azioni, non con i simboli… Mostriamo di cosa
siamo capaci: non ci servono stupidi anelli, per far vedere a tutti da
che parte sta la verità!”
Rodolphus mi fissò, serio, non sapevo se l’avessi
almeno distratto, era importante bloccare il fiume dei suoi
ragionamenti: si stava avvicinando pericolosamente alla
verità ed io non sarei stato capace di mentirgli se mi
avesse fatto una domanda diretta fissandomi negli occhi.
“Devo pensare che hai
intenzione di lasciare il Quidditch per darti seriamente alla politica?
O vuoi finalmente prendere il posto di tuo padre alla guida della
Confraternita? Lo sai, questo sarebbe molto gradito a
Milord…”
“Salazar,
Rodolphus… Non è più tempo di
trastullarsi nei palazzi del potere… è tempo di
prenderlo, in un modo o nell’altro, questo dannato
potere!”
“Che belle parole…
se fossi coerente, però, ora dovresti tacere e agire! E
prendere il Marchio e con esso le tue responsabilità! Non
trovi?”
“Lo penso
anch’io… Vai in missione, stanotte, no? Vengo con
te! È tempo di finirla con le chiacchiere.”
“No, non stanotte…
ti conosco, il tuo stomaco non sopporterebbe certe emozioni,
ahahah…”
“Se non sbaglio
l’appuntamento è all’1.30, da
Burgin… Ci vediamo là! Ora, però
sparisci, Lestrange, lasciami in pace: ho anch’io il diritto
di godermi queste mie ultime ore di festa e
libertà…”
“Mirzam… dico
davvero, non è il caso…
Mirzam…”
Non gli risposi, gli diedi le spalle e ritornai nella sala, fingendomi
tranquillo e solenne, in realtà sentivo le gambe tremare e
il cuore pulsare a mille, ero sul punto di svenire.
Salazar…
Milord era a un passo dalla verità, mentre mio padre ed io
contavamo di avere tempo, molto tempo, anni addirittura, da sfruttare
per scoprire i segreti di quel maledetto anello e poterli in qualche
modo utilizzare per salvarci tutti: per questo non l’avevamo
distrutto, ma solo nascosto. A Hogwarts. A Hogwarts dove
c’erano Rabastan, Malfoy e McNair, e chissà quanti
altri simpatizzanti… A Hogwarts dove qualcuno aveva
già aggredito Sirius e avrebbe potuto colpire mia sorella da
un momento all’altro… Dovevo fare qualcosa. E
dovevo farla in fretta. Rodolphus mi rincorse, per trattenermi, io
riuscii a distanziarlo e m’immersi tra gli altri invitati:
volevo stordirmi per non pensare a quello che sarebbe accaduto quella
notte e, al tempo stesso, volevo che il mio cervello restasse lucido e
ragionasse più in fretta, sempre più in fretta,
per trovare una soluzione. Jarvis mi prese in consegna e
m’impose ore di brindisi e scherzi vari fino alla fine dei
festeggiamenti, io feci finta di pensare solo a divertirmi, in
realtà avevo la mente lontana. E quando, in mezzo a
quell’atmosfera euforica, senza che nessun altro se ne
accorgesse, Rodolphus e Augustus se ne andarono via di soppiatto,
sentii il sangue gelarsi nelle mie vene. Tremai…
L’abisso infernale era lì davanti a me, buio e
tremendo: se avessero trovato quel dannato anello, se avessero trovato
le prove dei nostri inganni, la vendetta sarebbe stata orribile, il mio
mondo sarebbe stato spazzato via, sarebbe stato un bagno di sangue.
Sarei morto non solo io, ma tutti coloro che avevo nel cuore.
A meno che…
Una piccola, assurda idea si fece largo nella mia mente. Forse
c’era ancora un modo, un modo folle e disperato…
Se ci fossi riuscito, avrei confuso Rodolphus e gli altri, avrei
spazzato via le loro convinzioni, guadagnando tempo e allontanando da
mio padre e da Orion tutti i sospetti. Se ci fossi riuscito, Habarcat
sarebbe rimasta al sicuro per anni e, alla fine, qualcuno si sarebbe
salvato. Era rischioso, molto rischioso, ma valeva la pena tentare
anche solo per questo… Per una speranza… Per una
speranza, per l’ultima speranza, decisi di chiudere gli
occhi. E mi gettai nell’abisso.
*
Mirzam Sherton
Nocturne Alley, Londra - dom. 19 dicembre 1971
L’orologio della torre segnò le 2.30 del mattino:
nel silenzio ovattato del lungofiume, Rodolphus mi precedeva,
taciturno, attraverso i vicoli esterni di Nocturne Alley, un gigantesco
sacco pieno di anticaglia ridotto magicamente a un piccolo sacchetto
che portava legato alla cintola. Augustus e Pucey chiudevano la fila,
parlottando e ridendo sommessamente, forse ricordando e celebrando i
momenti più entusiasmanti del massacro sfociato in un
immenso falò, McNair era diversi passi avanti a noi, in
avanscoperta. All’improvviso la brezza leggera
cambiò direzione, portandomi al naso l’odore acre
di bruciato che impregnava le vesti di Rodolphus: mi si chiuse lo
stomaco, gli occhi mi si riempirono di lacrime, sentivo di essere
prossimo a vomitare. Di nuovo. Rod rallentò il passo e,
vedendo alla luce della luna il mio colorito sempre più
terreo, sotto la peluria folta della mia barba lunga, ghignò
appena.
“Chi ama i Babbani, non
può morire come un Mago… È meglio se
ci fai l’abitudine, e in fretta, altrimenti questo Marchio te
lo puoi scordare!”
Mi aveva parlato così, a casa del vecchio, davanti a tutti,
poi mi aveva afferrato la faccia e mi aveva costretto a guardare, una
dopo l’altra, tutte le pugnalate che Rookwood aveva dato ai
Sullivan, mettendo fine alla loro vita e alla nostra assurda missione.
Avevo scoperto quanto ci si mette a morire a quel modo: non
l’avrei dimenticato più, mai
più… Oltre all’orrore, quella notte mi
stava riempiendo anche d’inquietudine. Quando vidi Rookwood
asciugare il pugnale su un lembo di tessuto ancora stranamente pulito
della camicia da notte della donna e poi rimetterselo in tasca, avevo
avuto modo di riconoscere l’Athame d’argento che
avevo comprato a Rodolphus per scommessa: ero convinto che
l’avrebbe tenuta per sé o l’avrebbe
donata a sua moglie o a suo padre… o chissà, a
Milord. Quel pugnale, però, non era destinato a restare
chiuso in una casa, al sicuro, facendosi ammirare per la propria
bellezza: quel pugnale era stato comprato per uccidere. E se fosse
caduto nelle mani di un Auror, Burgin avrebbe testimoniato di averlo
venduto a me. Mi sentii afferrare da una paura irrazionale: mi chiesi
se ci fosse un piano dietro a tutti quegli eventi, o fosse solo un caso.
“Non so se abbiamo trovato
quello che cerca Milord ma, non so voi, io non mi sento
soddisfatto… Ho bisogno di liberare un po’ di
energie represse…”
“Ti ci vorrebbe un bel duello
o una sana scopata, Rook… Quella che servirebbe pure al
nostro sposino, a dire il vero… Salazar! Ci pensate che
questa potrebbe essere per lui l’ultima occasione per avere
tra le mani una vera femmina? Se avessi chiesto a me di farti da
testimone, altro che quella festicciola noiosa a Inverness: sarebbe
stata una notte in-di-men-ti-ca-bi-le…
ahahah…”
Lo guardai di traverso, lo odiavo quando attirava su di me
l’attenzione degli altri, soprattutto con quegli argomenti:
Rookwood e Pucey risero di me, McNair fece dei gesti inequivocabili e
questo aumentò ancora di più il disprezzo che
già provavo per quell’imbecille.
“La notte è ancora
giovane, ragazzi… Ed io conosco un locale qui
vicino… Ti ricordi un paio di mesi fa, Rodolphus? Credo sia
perfetto per le esigenze di ognuno di noi…”
“Hai ragione, Rook…
è il posto perfetto… anche per la nostra timida
sposina… ahahah…”
Mi divincolai dalla presa gioviale con cui Rodolphus mi aveva cinto le
spalle e lo fulminai pieno d’odio, sotto i sorrisetti sordidi
di quella banda di disgraziati.
“Andate al diavolo, tutti
quanti, io torno a casa!”
Me li lasciai alle spalle, seguito dalle loro risate sguaiate: mi
chiedevo perché non mi fossi smaterializzato subito, appena
Augustus aveva evocato il marchio sulla casa dei Sullivan. In
realtà tutto quel sangue e quell’orrore mi avevano
ridotto a un automa, avevo finito col seguirli, perso in un mondo
angoscioso, tutto mio. Feci appena pochi passi. Mi bloccai a
metà del vicolo. Mi addossai alla parete. Non eravamo
soli… No, non eravamo più soli… Avevo
affinato l’udito nelle lunghe giornate passate con mio padre
nella foresta per prepararmi alle Rune, per questo avevo sentito
chiaramente un fruscio lasciato da qualcosa di ben più
pesante di un cane di grossa taglia: erano almeno due, nascosti nel
buio, a qualche metro di distanza, davanti a noi. Mi guardai attorno,
forse si celavano dietro la palazzina che faceva angolo e chiudeva
parzialmente il passaggio: un punto perfetto per tendere un agguato. E
se ci avevano sentito arrivare… Salazar! Sapevano anche i
nostri nomi…
“INDIETRO, STATE
GIÙ! IMBOSCATA!”
“CI ATTACCANO!”
Rodolphus stava ancora ridendo, io non finii nemmeno di dare
l’allarme e mettermi in salvo dietro un muretto, che su di
noi si scatenò una pioggia di schiantesimi: vidi McNair
crollare a terra, non aveva avuto la prontezza di nascondersi,
Rodolphus e Augustus, invece, erano già pronti a replicare
all’attacco, restando rintanati dietro lo spigolo del palazzo
di fianco a me, da cui colpivano a loro volta le figure nascoste nel
buio, e non certo solo per stordirle, Pucey, infine,
dall’altro lato rispetto alla mia postazione, gettava qua e
là degli incantesimi per distrarre gli avversari e
verificare se ce ne fossero altri nascosti dietro di noi. Io, protetto
dagli incantesimi dei miei compagni, scivolai fino a raggiungere
Walden, verificai che fosse già mezzo cosciente e lo
trascinai fino a un punto più riparato.
“Se hanno già
gettato l’antismaterializzazione… non potremo
più andarcene!”
Le parole di Rookwood turbarono Walden, lo guardai, era terrorizzato,
io mi finsi ottimista e coraggioso, in realtà maledicevo me
stesso per essermi di nuovo messo in un casino simile: doveva essere
una serata di festa, era diventata la solita notte del …
“Beh, peggio per loro, se
l’hanno fatto! Se questi idioti non mi lasciano divertire
come voglio… mi divertirò con loro… e
state certi che se ne pentiranno amaramente!”
Rodolphus guardò Augustus che gli rispose con un cenno di
assenso, poi andarono all’attacco, Pucey, seguendo uno schema
ben collaudato in occasioni simili, aveva fatto da esca, portando allo
scoperto i due Aurors, che furono rapidamente colpiti, senza
possibilità di scampo. Io rimasi indietro, cercando di
medicare alla meglio una ferita che si era aperta sulla gamba di McNair.
“Ve l’avevo detto
che se ne sarebbero pentiti!”
Rodolphus tornò indietro, sorridendo, famelico, Augustus
alzò la bacchetta su se stesso e fece apparire sul suo volto
la maschera che ne avrebbe celato l’identità.
“Meglio essere prudenti da qui
in avanti: gli Aurors ormai avranno verificato la casa dei Sullivan, e
poiché questi due non potranno più fare rapporto,
qui tra poco sarà pieno di squadre… Ricordate,
non chiamiamoci mai per nome!”
“Ha ragione ed è
meglio tornare indietro, passando per quei vicoli laggiù: la
cupola antismaterializzazione ha un raggio di circa 1 km, procedendo in
questa direzione dovremmo riuscire a smaterializzarci
all’altezza del negozio dello Speziale…”
“Forse faremmo bene a
dividerci…”
“No, lui è ferito,
da solo non ce la farebbe e quella ferita lascia pochi dubbi su come se
la sia procurata!”
“Allora occorre chiamare
rinforzi… Qui tra poco sarà un
inferno…”
Rodolphus annuì, prese la bacchetta e la posò
sull’avambraccio, io guardai quel marchio osceno che prendeva
vita e mi sentii ribollire le viscere. McNair si appoggiò a
me, Rodolphus e Augustus si erano spostati avanti, Pucey chiudeva la
fila: cercammo di tornare indietro inoltrandoci nel buio dei vicoli,
svoltammo più e più volte, fino a immergerci
nella zona più sordida e mal frequentata. Arrivammo in una
piazzetta che parve materializzarsi magicamente davanti a noi, su tutto
campeggiava l’ingresso di una bettola che faceva sembrare la
“Testa di Porco” un locale per educande:
evidentemente il piano di Rodolphus era quello di mischiarci agli
avventori di qualche locale malfamato, io invece desideravo soltanto
ritornare a casa, l’idea di essere catturato in un posto
simile il giorno prima delle nozze, mi terrorizzava ancor
più di finire sotto processo, implicato in un duplice
omicidio. Intorno a noi, improvvisamente, i vicoli si animarono di voci
concitate e di passi furiosi: eravamo accerchiati ed io, immerso in
quella notte gelida, tra strade che non conoscevo, ero confuso e
disorientato.
“MUOVITI, ENTRA! STANNO
ARRIVANDO!”
Mentre nella piazzetta si materializzarono tre Aurors, la luna
illuminava la neve e questa rifletteva il suo chiarore sulle pareti e i
varchi, privandoci di qualsiasi ombra in cui nasconderci; oltre al
vicolo in cui ci trovavamo e la porta della bettola, non
c’erano altre possibili vie di fuga, gli altri tre varchi e
le scalinate che immettevano in quella piazzetta stretta erano
illuminati dalla materializzazione di un numero considerevole di Aurors
assatanati.
“SVELTO!”
Appena ci chiudemmo la porta del locale alle spalle, il legno fu
squassato da una pioggia d’incantesimi.
“EXPELLIARMUS”
“STUPEFICIUM”
“PROTEGO”
Una volta entrati, rimasi interdetto per l’atmosfera pesante
di fumi venefici che si respirava lì dentro: gli avventori
erano pochi, annebbiati da fumo e alcool, nemmeno il padrone
reagì alla nostra irruzione, noi ci distribuimmo rapidi
nella sala angusta, in prossimità della scala e iniziammo a
colpire chiunque entrasse dopo di noi da quel lurido ingresso. Coperto
dalla confusione dei colpi incrociati, Rodolphus salì le
scale, fino ai piani superiori, per assicurarsi che altri Aurors non mi
materializzassero direttamente nell’edificio,
dopodiché, appena verificò che la situazione era
sotto controllo, mi fece cenno di seguirlo con Walden, mentre Pucey e
Rookwood difendevano la mia ritirata attaccando gli avversari con la
ferocia delle tigri. McNair ed io salimmo di corsa le scale, nonostante
il dolore che provava, Rod ci aspettava nel corridoio oscuro e ci
invitò a entrare in una stanza che sembrava una topaia,
parlandoci sommesso.
“Sia chiaro che questa storia
deve restare tra noi tre, non deve arrivare alle orecchie di Bellatrix!
Siamo intesi? Se vi calate da questa finestra, qui sotto, a due metri,
troverete una balconata… Tu, resta nascosto lì,
nell’ombra: tra poco i nostri arriveranno a
prenderti… Mirzam, tu, aiutalo a nascondersi, poi corri
attraverso i tetti e scendi dai muraglioni fino agli argini del
fiume… Ci vediamo domattina da Madame McClan… Non
guardatevi le spalle, ci penso io a proteggervi da qui… E
sbrigatevi… Tu… se qualcosa andasse
storto… mi raccomando, in bocca al lupo con
Sile…”
“Rodolphus!”
Non mi diede tempo di replicare, m’impose di scendere, mentre
la porta che ci nascondeva esplodeva e la stanza buia si riempiva di
getti di luce colorata: lo sentii ruggire, poi due lampi verdi presero
il posto degli schiantesimi. Eravamo preoccupati, ma ormai non potevamo
più controllare se si fosse messo in salvo o avesse bisogno
del nostro aiuto.
“Guarda.”
Come toccammo la fredda superficie del balcone, Walden, sorridendo, mi
fece cenno di guardare il cielo, solcato da strisce oscure e palpabili:
stavano arrivando i nostri; alzai gli occhi verso la finestra da cui
c’eravamo calati, Rodolphus, bacchetta in pugno, guardava
verso di noi e mi faceva cenno di continuare.
“Lasciami qui…
copriti la faccia con questo passamontagna e scappa!”
Annuii poi saltai il parapetto della balconata, piombai sul tetto
appena sotto e iniziai a correre sulle tegole che schizzavano via nel
vuoto al mio passaggio.
“Là!”
Sentii delle urla dietro di me, mi voltai appena: due uomini, salendo
dal basso, superarono la grondaia e piombarono sul cornicione poi
iniziarono a inseguirmi, io presi velocità, scivolai, mi
rialzai, estrassi la bacchetta e lanciai un paio di schiantesimi alle
mie spalle, senza mirare e senza assicurarmi di aver fatto centro.
Balzai ancora di sotto, piombando su un tetto appena più
basso, ripresi a correre, mentre gli incantesimi dei miei inseguitori
colpivano le tegole accanto a me. Erano veloci, molto, sentivo i loro
passi sempre più vicini, perché ormai ero sceso
troppo sotto la linea di tiro di Rodolphus e non correvano
più il rischio di essere colpiti alle spalle: dovevo
riuscire a difendermi da me. Un colpo mi centrò a una gamba,
stramazzai sulle tegole, li sentii avvicinarsi ancora, mi rotolai
piano, fingendo di essere ferito, nel movimento mi sfilai lentamente il
mantello da dosso e appena furono abbastanza vicini, lo lancia per aria
e lo animai con un incantesimo:
“ENGORGIO!
TENTACULA!”
“Ma che
diavolo…”
Il mantello era diventato una cappa pesante, i cui lembi si allungarono
formando una rete inestricabile di tentacoli indomabili, uno dei due
uomini riuscì a evitarlo, l’altro, invece, rimase
impigliato sotto e sapevo che ce ne avrebbe messo di tempo a liberarsi:
sorrisi tra me, finalmente potevo giocarmi una partita alla pari, e il
limitare della cupola invisibile non era più molto distante.
“Tutto bene, Potter?”
“Tranquillo, Podmore! Va,
inseguilo! Io mi libero e arrivo!”
Avevo guadagnato del vantaggio, scesi con un altro paio di balzi,
raggiunsi il livello dei muraglioni e iniziai a correre a perdifiato,
controllando di tanto in tanto la situazione alle mie spalle.
“STUPEFICIUM!”
“PROTEGO”
“AHHHH!”
Troppo tardi. Il colpo mi centrò, rotolai e crollai sul
muretto.
“EXPELLIARMUS!”
Vidi la mia bacchetta volare tra le mani del mio inseguitore.
“Sei sotto la custodia del
Ministero della Magia, adesso, incriminato di duplice
omicidio!”
Respiravo veloce, non avevo più fiato, mentre
l’uomo incombeva su di me, l’affanno e il sudore
non mi permettevano nemmeno di distinguerne chiaramente i suoi
lineamenti: probabilmente credeva di avermi colpito alle spalle e che
fossi ferito o svenuto, in realtà aspettavo solo di
recuperare un minimo di forze e di mettere a tacere la paura che mi
urlava nelle orecchie che stavolta era tutto finito, a nemmeno 100
metri dal limite che mi avrebbe salvato.
“E ora vediamo chi
sei…”
Si chinò per togliermi il passamontagna che mi celava il
volto, restando interdetto nel non vedere la maschera tipica dei
Mangiamorte: la sua esitazione mi fu sufficiente, io reagii serrando le
mani sui suoi polsi, poi iniziammo a lottare, rotolandoci sul
muraglione. Entrambi sapevamo che sarebbe stato sufficiente un errore e
saremmo morti entrambi, schiantandoci sulla pietra sottostante o
affogandoci nel fiume. La sua bacchetta nella lotta cadde, sentimmo
entrambi il suono del legno che si tuffava nelle acque gelide del
Tamigi, io sorrisi, perché ora eravamo finalmente in
parità: lo calciai, dove sapevo avrei fatto male,
togliendomelo infine di dosso.
“Bastar…”
Non riuscì nemmeno a fiatare, dal dolore, io approfittai,
trovai la forza di sollevarmi, lui cercò di arpionarmi un
piede per farmi cadere di nuovo, allora lo caricai, lo colpii con un
paio di pugni, lasciandolo di nuovo interdetto: da un DeathEater, non
si aspettava una reazione così
“babbana!” Rovinò a terra, senza fiato,
io mi chinai a rovistare nel suo mantello per recuperare la mia
bacchetta, poi mi misi a correre: dovevo sbrigarmi perché
mancava davvero pochissimo ormai alla mia salvezza, ma di sicuro il suo
compagno a quest’ora era sulle nostre tracce. Podmore mi
sgambettò, io finii di nuovo steso sul muraglione, lo sentii
afferrarmi una gamba e tentare di girarmela per lesionarmi i legamenti,
io ruggii e mi voltai, lui rapido riuscì a sfilarmi via il
passamontagna, mettendo a nudo, sotto la luce della luna, la mia faccia.
“Io ti conosco, tu
sei… tu sei… il Cercatore
del…”
Non lo feci finire, reagii con la forza della disperazione, gli saltai
addosso, ci rotolammo, lui mi fu sopra e cercò di soffocarmi
premendo le sue mani attorno al mio collo, io riprovai a calciarlo come
avevo fatto prima, ma lui si scansò per evitare il colpo,
barcollò, perse l’equilibrio e volò di
sotto. Mi sporsi bacchetta in pugno, urlai.
“ACCIO HOMINEM! PETRA
EVANESCA!”
Ma fu tutto inutile. Si era schiantato sulla pietra mista a ghiaccio
sottostante, la macchia del suo sangue si allargava già,
rendendo porpora la neve appena illuminata dalla luna. Sentii i passi
dell’altro Auror avvicinarsi, veloce, con la bacchetta,
pronunciai un paio d’incantesimi che mi lenissero il dolore
alla gamba, poi scivolai tra le ombre dei muraglioni, dovevo riuscire a
spostarmi fin dove fosse possibile smaterializzarmi, altrimenti era
davvero finita, perché sulla neve sotto di me, ora
c’era il frutto del mio primo vero crimine. Avevo appena
commesso, sì, proprio io, un omicidio. Serrai la mano sulla
bacchetta, la brezza leggera mi accarezzava il viso, mentre le ombre
celavano i miei passi, sentii la corsa dell’Auror arrestarsi,
poi le sue urla, cariche di disperazione, il suo pianto, la sua rabbia.
“ESCI FUORI, MALEDETTO
BASTARDO!”
Deglutii. Continuai a muovermi, lentamente, così che non
riconoscesse il mio movimento nel buio, ma mi vide ugualmente.
“STUPEFICIUM!”
Mi voltai per proteggermi, sorridente, vedendo per pochi istanti la mia
figura specchiarsi come un lampo negli occhiali dell’uomo,
poi il turbinio della smaterializzazione mi portò,
finalmente, in salvo.
***
Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - dom. 19 dicembre 1971
Dovevo smetterla di pensarci, era evidente che stavo solo perdendo
tempo, ragionando su quelle assurdità. Eppure…
come facevo a smettere di pensare, se lui era lì, poco
lontano da me, seduto a colazione con noi, il solito Daily Prophet
eretto a mò di trincea dietro cui barricarsi per non dover
affrontare il resto del mondo? Era sempre così,
ostinatamente, arcignamente, uguale a se stesso… Come faceva
a fingere? No, non era possibile, non era assolutamente possibile. Mi
stavo sbagliando. Non avevo più dormito, non più,
per tutta la notte, alla ricerca di una spiegazione, di una qualsiasi
spiegazione che mi facesse capire, ma non c’ero riuscito.
Alla fine mi ero convinto che fosse stato un sogno, sì, un
sogno o, meglio ancora, la febbre, perché di certo avevo
preso freddo lì, affacciato alla finestra, in piena notte
e… E il delirio aveva generato quelle immagini senza senso.
Nessun’altra spiegazione era logica e accettabile. Eppure,
tra i capelli, sentivo ancora il calore di quelle dita:
com’era possibile? Di certo non era un ricordo,
perché erano state rare le volte in cui avevo sentito il
calore della pelle di mio padre: anche quando mi schiaffeggiava,
infatti, lui era sempre gelido come una mattina d’inverno.
Solo quella lontana estate, a Zennor, lui… No…
dovevo smettere di pensarci, doveva essere stata la febbre…
solo la febbre… non c’era altra spiegazione.
Bastava osservarlo: ero un pazzo a pensare che uno come lui andasse, di
notte, ad assicurarsi come stessero i suoi figli, non ci aveva nemmeno
guardato quando Regulus ed io, muti, eravamo entrati nella stanza e,
una volta seduti alla sua tavola, ci aveva solo grugnito qualcosa che
poteva suonare come “Buongiorno” o
chissà che cos’altro. Da sempre, quello che
trovava scritto sul Daily era più importante di noi, di
tutti noi. E lo sapevo da tanto, troppo tempo.
“STAI COMPOSTO! SISTEMATI
QUELLA CRAVATTA! Sei in una casa perbene, Salazar, non in mezzo a
quella manica di zotici! Non te lo dimenticare!”
Trattenni a stento uno sbuffo. Mia madre invece era sempre lei, non
c’era possibilità di restare sorpresi dai suoi
comportamenti e dalle sue parole: per tutta la vita mi aveva sempre e
solo ripreso e umiliato, e ora aveva una ragione in più,
anzi… non una ragione qualsiasi ma quella più
importante e determinante di tutte … In effetti, una
differenza c’era: prima voleva che io mi presentassi al
meglio di fronte a tutti, come si conviene a un vero Black,
perché potevo contribuire con la mia vita
all’orgoglio e all’onore della famiglia, ma
ora… Ora il suo unico interesse era che con il mio esempio
indegno non danneggiassi anche il suo “principino”,
l’ultima speranza rimasta alla nostra nobile e illustre
Casata. Di cui, se prima non m’importava molto, ormai, giorno
dopo giorno, non m’importava più, affatto.
Perché doveva importarmene, in fondo? Per chi? Forse per
lui, sì… per mio fratello.
Regulus era seduto davanti a me, lo vedevo lanciarmi spesso occhiate
eloquenti e furtive, appena la mamma non ci guardava, ma distoglieva
rapido lo sguardo quando lei sembrava accorgersi di quel nostro tacito
discorso. Chissà cosa aveva dovuto sopportare, tutto solo,
in quella casa, per tutti quei mesi… Come se ci fossimo dati
un appuntamento segreto, quella mattina, era uscito dalla sua stanza
proprio quando io uscivo dalla mia, mi aveva dato il buongiorno, a voce
bassa e cospiratoria, la stessa che avevo io quando lo coinvolgevo in
qualcuna delle mie pazzie nei corridoi oscuri di Grimmauld Place, poi
scendendo le scale insieme, mi aveva bisbigliato che voleva sapere
tutto di Hogwarts, alla prima occasione. A pochi passi dal pianerottolo
della sala da pranzo, appena avevo udito la voce di nostra madre che
urlava contro i domestici, avevo però capito che era meglio,
per entrambi, fingere che non fossimo scesi insieme, quindi rallentai
il passo, lasciando che Regulus mi precedesse nella stanza. La sua
occhiata, triste, al tavolo, mentre mia madre mi rimproverava di essere
il “solito poltrone” e di “non essere
responsabile come mio fratello”, mi aveva fatto comprendere
che la mia famiglia ormai si riduceva a lui. Ed ora, eravamo tutti e
quattro lì, attorno al tavolo: persino un giardino di pietra
sembrava più vivo di noi. Parlare, da sempre, era
assolutamente fuori luogo: la nostra tavola non era mai stata
chiassosa, ma quel giorno era, appunto, più silenziosa di un
cimitero abbandonato… e altrettanto
terrorizzante… L’unica cosa che interrompeva quel
silenzio erano i secchi rimproveri di mia madre contro qualsiasi cosa
dimostrasse di essere ancora in vita. Gli elfi, terrorizzati, cercavano
di sfuggire alla sua ira, rifugiandosi in cucina, ma non tutti
riuscivano a raggiungere il riparo senza prima subire almeno una
fattura dolorosa da quella pazza scatenata. A un certo punto, Kreacher
entrò di corsa con una lettera per mio padre: nella totale
indifferenza della mamma, lui la lesse, imperturbabile, poi senza una
parola e senza cambiare di una virgola la sua espressione incurante, la
bruciò con la bacchetta.
“Passerò la
giornata a Diagon Alley, mi spiace lasciarti sola, Walburga,
ma… non aspettarci per pranzo…”
“Che cosa? Regulus resta con
me! Dobbiamo andare da…”
“Non oggi… Oggi
vengono tutti e due con me… Kreacher, muoviti, portaci i
mantelli, i ragazzi ed io usciamo…”
“Orion! Che cosa pensi
di…”
“Ho fretta
Walburga… molta fretta… ci vediamo
stasera!”
Mio padre lasciò il giornale sul tavolo e si
alzò, allontanandosi rapidamente verso l’ingresso,
rivolse un’occhiata frettolosa a mio fratello e Regulus non
se lo fece ripetere due volte, si alzò veloce, lasciando
sulla tavola oltre metà della colazione.
“Sirius, muoviti o ti lascio a
casa!”
Non sarei rimasto in quella casa opprimente nemmeno se mi avessero
legato come un cane alla catena, figuriamoci poi da solo con mia madre!
Mi alzai di scatto, inghiottendo in un sol boccone la fetta di torta
con cui mi stavo gingillando da qualche minuto guadagnandomi
un’altra occhiataccia da mia madre: morivo dalla
curiosità di capire che cosa stesse accadendo, sembrava che
ce l’avesse con papà ancor più che con
me, inoltre mi chiedevo di chi fosse la lettera, cosa ci fosse scritto,
ma ormai non ce n’era più traccia.
“Sirius! Non ho tutto il
giorno da sprecare dietro a te!”
La voce esasperata di mio padre mi raggiunse dal corridoio, mentre io
mi attardavo a sbirciare con la coda dell’occhio il titolo
dell’articolo che aveva tanto interessato mio padre, prima
che mia madre lo artigliasse e m’impedisse di leggere il
seguito.
Daily
Prophet
-
Edizione
del 19 dicembre 1971 -
NOTTE
DI TERRORE A NOCTURNE ALLEY
GLI
AURORS ATTACCATI DAGLI UOMINI DI
“COLUI
CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO”
Mentre finalmente mi decidevo a muovermi, mia madre, a tradimento, mi
arpionò il braccio, fissandomi crudele, strinse sempre di
più, quasi a farmi male, per ottenere tutta la mia
attenzione.
“Quello che ti ho detto ieri
vale anche lontano da questa
casa, ricordatelo! Anche quando non sono accanto a te, per
controllarti! Oggi ti ho permesso di mangiare alla mia tavola, ma sappi
che per me non è cambiato niente… Non scordarlo
mai!”
“Lo so.”
L’avevo fissata negli occhi, cosa che non facevo mai, mentre,
laconico, pronunciavo le prime e uniche parole che le avevo rivolto da
quando mi aveva aggredito, la sera prima; con un gesto brusco mi
divincolai dalla sua stretta: avevo sentito il mio petto gonfiarsi,
pieno di odio e risentimento, e sapevo che in quelle due misere parole,
in quella mia voce stranamente dura e sicura, trasparivano tutti i miei
pensieri. Mia madre non se lo aspettava, credeva sarei rimasto in
silenzio,
ancora, a subire come avevo sempre fatto ma, invece di infuriarsi,
sembrava quasi compiaciuta… La guardai meglio:
sì, era proprio compiaciuta, e questo
perché capiva che ormai provavo nei suoi confronti lo stesso
disprezzo che lei provava per me. Ero a dir poco orripilato: tremai
appena e abbassai lo sguardo,
allontanandomi poi rapidamente. Quale orrendo veleno scorreva dunque
nel nostro sangue puro? Quale
oscena pazzia? Era per questo, solo per questo, per l’odio e
il disprezzo,
che riusciva a riconoscere, in me, una stilla del suo sangue? Era
questo il vero significato dell’essere suo figlio? Come ogni
bambino, avevo sempre ricercato in lei, in mia madre, una
luce amorevole, trovando invece un animo gelido che
m’incuteva paura e rispetto. Come ogni bambino, avevo
implorato con il mio amore il suo. Ma lei sembrava che nemmeno mi
vedesse. Al contrario mi vedeva ora, mi sentiva ora, ora che era
riuscita a
spegnere qualsiasi sentimento d’amore in me, ora che provavo
solo rabbia verso di lei. E ne era felice.
Strinsi i pugni fino ad affondare le unghie nella carne… No,
non era giusto che avessi sofferto tanto per lei. Non avrei
più sofferto a causa sua, mai più, me
l’ero promesso il giorno prima, non avrei versato mai
più nemmeno una lacrima a causa sua. In quello,
sì, in quello, sarei stato un vero Black,
perché non avrei più permesso che il suo
disprezzo lacerasse la mia anima. Avevo fatto la mia scelta: io non
sarei più stato suo
figlio. E da quel momento avrei fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per
non
esserlo più.
Mai
più.
*
Mio padre era un patito della Metropolvere, come mezzo di trasporto:
era uno dei pochi Maghi che avevo sempre visto uscire dal caminetto
perfettamente in ordine “Come
si conviene a un Black!” puntualizzava lui,
mentre io lo osservavo a bocca aperta, ammirato, da
bambino. Al contrario, io non ero ancora mai riuscito a raggiungere i
suoi
livelli di perfezione e questo costituiva il primo motivo di rimprovero
ogni volta che uscivamo insieme, perciò, quando mio padre
invitava me e Regulus, più piccolo, vero, ma da quel punto
di vista già più abile di me, mi prendeva un
violento attacco di mal di pancia. Quel giorno però, anche
farmi sgridare per la cravatta
leggermente storta o per un po’ di pulviscolo su un polsino,
mi sembrava un prezzo contenuto da pagare, se mi consentiva di sfuggire
a mia madre. Notai subito, però, mentre, intabarrati per la
partenza,
porgeva a Regulus la vaschetta della polvere verdastra, che era
più distratto del solito: non voleva darlo a vedere, ma
sembrava che quella misteriosa lettera ricevuta poco prima
l’avesse colpito. E di certo non positivamente. Regulus
pronunciò il nome del negozio di Madame McClan e
sparì tra le fiamme verdi, poi toccava a me: mio padre ed io
eravamo stranamente da soli, la mamma era andata a sfogare la sua
rabbia contro gli Elfi, ci guardammo, in evidente quanto strano
imbarazzo. Sospirò poi mi guardò irrequieto:
sembrava che
dovesse fare qualcosa di cui non aveva alcuna voglia, che dovesse
prendere una decisione difficile che riguardava me, io lo fissai, a mia
volta, carico di domande. Sospirò ancora, poi con
un’espressione dolente,
alzò la mano su di me e per un attimo temetti uno schiaffo
immotivato, invece affondò le dita tra i miei capelli per
sistemarmeli, così che mi si vedesse meglio la mia faccia.
“Sirius…”
Lo sguardo ora era diventato davvero cupo, su un volto ancora
più pallido del solito: mi chiesi se per caso non si
sentisse male. Forse percepì la mia preoccupazione,
perché subito parve riprendere il controllo.
“Hai ancora l’anello
che ti ha dato Alshain,
vero?”
Mi colse alla sprovvista, io mi aspettavo tutt’altro genere
di argomento, ma annuii, mi sfilai entusiasta il guanto sinistro e gli
mostrai la mano, dove campeggiava la piccola fedina d’argento
di cui andavo tanto orgoglioso, il simbolo dell’affetto del
mio padrino, il simbolo del futuro radioso che un giorno avrei avuto
seguendo le sue orme.
“Molto bene… Ora
non ho molto tempo, tuo fratello
ci aspetta, ma come ti ho già detto quest’estate,
Sirius, le nostre scelte, consapevoli o meno, provocano delle
conseguenze, gli errori spesso non si possono correggere e comportano
purtroppo la perdita di alcuni privilegi… Ci sono privilegi
che possono essere mantenuti nonostante tutto, altri che possono essere
recuperati con la penitenza, o pagando in qualche modo per
riottenerli… altri privilegi, invece, si perdono per sempre.
Questo anello, Sirius, è forgiato con l’argento
del Nord… un argento che non nasce per stare in mano a
un…”
Abbassò lo sguardo, lo vidi sofferente come mai
l’avevo visto prima, non capivo nulla di quel discorso ma per
un attimo mi sembrò di condividere quel dolore.
“… in mano a
un… Grifondoro…
Alshain non te lo chiederà mai indietro, non vuole ferirti,
ma sarebbe dannoso per lui che te l’ha donato, presso la
Confraternita, se continuassi a portarlo in pubblico… io
ritengo che dovresti togliertelo, e magari restituirglielo quanto
prima…”
Lo guardai, con gli occhi sbarrati. No, non potevo crederci! Non poteva
essere vero! Di colpo mi prese il terrore che ci fosse scritto questo
nella lettera!
Era di Alshain quella lettera? Anche lui provava ribrezzo per il mio
cravattino? O al contrario di quello che mi aveva detto Meissa, quella
porta, per me, era definitivamente chiusa nonostante la sua
volontà e tanto valeva che mi mettessi subito il cuore in
pace? Magari davvero, per lui, nonostante l’affetto che
provava per
me, quell’anello sulle mie mani, costituiva un
problema… sì, doveva essere
così… magari al matrimonio, alla presenza di
altri maghi della Confraternita, qualcuno si sarebbe lamentato,
perché tutti dovevano sapere che io… Ripensai al
suo sguardo, la sera prima in stazione: no, non erano gli
occhi di un uomo deluso da me, di un uomo che aveva di colpo smesso di
provare affetto nei miei confronti per colpa di un
cravattino… no, mio padre stavolta stava dicendo la
verità. Il discorso era così… mio
padre era
così… C’era qualcosa di strano
nel suo tono…
sentivo sofferenza e timore, non vergogna, c’era qualcosa che
lo turbava, che lo preoccupava sinceramente. Lo fissai, e per una volta
nella mia vita, invece di provare rabbia e
volontà di sfidarlo, mi sfilai l’anello e, in
silenzio, glielo porsi: morivo dalla voglia di tempestarlo di domande,
volevo e dovevo capire, ma la sua espressione, così dolente
e colpevole, mi facevano temere che ci fossero dietro segreti troppo
spaventosi.
“Ti ringrazio,
Sirius… ma dovrai essere tu, a
farlo… ascoltami…”
Si chinò su di me, appoggiò le labbra vicino al
mio orecchio e ascoltai… capii subito quale fosse la
verità: ci avevano scoperto. Il terrore
m’impedì persino di fiatare.
“Tutto
chiaro,Sirius?”
Annuii, turbato, spaventato, consapevole che probabilmente avrei
fallito.
“Ora muoviti, tuo fratello si
chiederà che fine
abbiamo fatto…”
“Io… io non
vengo… scusami
ma… preferirei tornare in camera mia,
adesso…”
Ci fissammo, mio padre mi mise una mano sulla spalla e
annuì, in silenzio: per la prima volta sentii di
comprenderlo, sentii che c’era qualcosa che ci legava, che
non eravamo antagonisti, ma eravamo insieme. Forse anche lui era
lì, in attesa di un gesto: eravamo come
l’acqua che preme sulla diga in attesa di quella singola
goccia in più capace di dare abbastanza forza per travolgere
tutto e scorrere via, finalmente libera… Ma c’era
un ostacolo troppo alto da saltare, tra noi, e
quell’acqua, per quanto premesse per riuscirci, non era in
grado di riprendere il suo percorso naturale. Mio padre prese una
manciata di polvere e raggiunse Regulus, io in
silenzio, confuso, tornai a barricarmi nella mia prigione.
***
Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - dom. 19 dicembre 1971
Risate…
Perché qualcuno ride fuori dai dormitori di
Serpeverde, a quest’ora del mattino?
Mi rotolai tra le coperte, infastidita dalla luce del giorno.
Luce?
Non c’è luce, non questa luce, nei dormitori
di Serpeverde, solo una tenue, opalescente luce verde che…
Aprii gli occhi, mi guardai attorno: c’era la luce piena del
mattino, ed io… Quella non era Hogwarts… Io mi
trovavo da qualche altra parte… Il cervello
lasciò definitivamente il mondo dei sogni,
lentamente tornai in me: ero al 74 di Essex Street, sotto lo stesso
tetto di mio padre e mia madre e dei miei fratelli…
Sono a… a casa… finalmente… a
casa…
Appena misi a fuoco la realtà, un sorriso luminoso mi si
stampò in faccia, saltai in piedi e corsi subito scalza alla
finestra: Londra, innevata, mi apparve davanti in tutta la sua
magnificenza, strade, case, alberi spogli, un mondo completamente
bianco correva fino alle banchine del fiume e, sull’altra
riva, s’incuneava via via tra i monumenti della
città vecchia. In strada, davanti alla casa, lì
dove la sera prima ci aveva
lasciato il taxi babbano, c’erano due ragazzini della mia
età che si rincorrevano, ridendo e tirandosi delle palle di
neve. Lei aveva dei capelli biondi che uscivano a ciuffi dal cappellino
di
lana rossa, tutta stretta in un cappottino pesante, bianco, bordato da
fiocchi di neve di vari colori; lui, dai capelli rosso carota, si stava
togliendo la neve che la ragazzina gli aveva tirato sulla nuca, proprio
dentro al colletto. Di sicuro ora gli stava colando la neve fusa sulla
schiena accaldata! Ghignai: anch’io avevo provato una mossa
simile con
Rigel… più di una volta! E in ogni occasione la
sua reazione era stata di una ferocia inaudita,
ed io, da parte mia, avevo tramato per giorni per vendicarmi. E questo
si era ripetuto ancora e ancora: prima che lui andasse a
scuola, una palla di neve, a Herrengton, poteva trasformarsi in una
faida che si protraeva per mesi! Sorridendo richiusi le tende e
controllai l’ora: era ancora
presto, ma non poi così tanto e… Mirzam ormai
doveva esser ritornato a casa, magari stava dormendo, ma
io non avevo alcuna intenzione di perdere anche un solo altro secondo:
eravamo rimasti lontani fin troppo a lungo, quel giorno era mia ferma
intenzione trovare il modo di stare con lui il più possibile!
Mi misi la vestaglia scura sul pigiama verde slytherin, mi
legai i
capelli in una coda e, senza far rumore, uscii, recuperai in fretta
l’orientamento e individuai la porta del bagno in fondo al
corridoio: volevo fare presto, volevo scendere di sotto il prima
possibile, ero più che sicura che Mirzam riposasse nella
camera degli ospiti. Mi avvicinai alla camera di Rigel, speravo che si
stesse svegliando in
quel momento per sbeffeggiarlo mentre entravo in bagno prima di lui: se
quella piaga fosse arrivato prima di me, ci si sarebbe barricato per
ore, come faceva sempre, perdendo tempo allo specchio a cercarsi in
faccia i peli che non aveva! E quanto si arrabbiava quando io, soave,
gli dicevo invece che aveva la
pelle bellissima, liscia e pulita come quella di Wezen.In
realtà sapevo, dalla sera prima, che c’era
anche un altro bagno su quel piano, ma visto che ne avevo la
possibilità… ogni occasione era buona per far
dispetto a mio fratello! Quasi l’avessi evocato, vidi la sua
porta aprirsi e Rigel,
insonnolito, apparve sulla porta: per provocarlo mi lanciai di corsa
verso il fondo del corridoio, evitando di centrarlo in pieno solo per
un soffio, lui mise subito a fuoco la situazione, mi arpionò
per la cinta svolazzante della vestaglia e mi tirò indietro
con un colpo secco, io, sentendomi impigliata, mi divincolai, ma per
sfuggirgli andai a sbattere contro il portavaso che abbelliva il
corridoio, intralciando il passaggio. Il vaso oscillò e
cadde a terra, riducendosi a pezzi e
versando la terra e la pianta stessa sul tappeto.
“Idiota, è tutta
colpa tua!”
“Mia? Non si corre dentro
casa, stupida scimmia!”
Iniziammo a bisticciare, io gli sfilai l’asciugamano che
teneva appoggiato alla spalla e lo gettai indietro, sperando che
volasse oltre la ringhiera, poi ripresi ad avanzare verso il bagno, lui
mi prese per la coda e iniziò a tirarmi i capelli, io urlai
e mi voltai, iniziando a colpirlo perché mi mollasse, invece
quel cretino rideva.
“Quale soave risveglio!
Buongiorno, fratellini
adorati!”
Ci girammo entrambi, sorpresi: alle nostre spalle, fermo sulla porta di
una camera che credevo deserta, i capelli arruffati e gli occhi gonfi
di sonno, un sorriso molto divertito in faccia, c’era
Mirzam… O meglio, qualcuno che gli assomigliava, anche se
sembrava
più un orso che un essere umano. Rigel, poiché di
solito nostro fratello mi difendeva, appena
lo vide mi mollò la coda e s’incupì,
pronto al classico rimprovero, ma Mirzam rimase in silenzio, gli
rivolse soltanto la solita occhiata truce di chi non ammette che mi si
torca un capello ed io, perso ormai qualsiasi interesse per la lotta
perché avevo di meglio da fare, corsi tra le sue braccia per
farmi baciare.
“Mirzam! Finalmente!”
Gli stampai a mia volta una marea di baci sulle guance pelose, ridendo
come una bambina per il solletico.
“Che hai fatto?
Dov’è la tua faccia?
Sembri un orso!”
Rise, mentre Rigel, disgustato dalla scena sdolcinata, riprendeva da
terra l’asciugamano e si barricava in bagno, borbottando
qualcosa di offensivo sul fatto che non sapessi che per i riti nostro
fratello doveva allungarsi barba e capelli, per poi sacrificarli
durante la notte di Yule. Mirzam fece un gesto incurante e
m’invitò a
seguirlo in camera sua. Come me, non vedeva l’ora di
riabbracciarmi e parlare a
quattr’occhi, dopo una marea di discorsi fatti solo via gufo
negli ultimi mesi.
“Quell’idiota!Ora
starà chiuso
là dentro per ore…”
Mirzam tirò le tende, concedendomi un altro scorcio
affascinante della città e illuminando finalmente la sua
stanza: mi guardai attorno curiosa, mentre lui si sedette sul divanetto
vicino alla finestra e mi fece cenno di accomodarmi. Quella stanza
sembrava molto più vissuta di quella di
Herrenton o di Amesbury, molto più viva di quanto fosse la
mia: era piena di gagliardetti del Puddlemere,di foto di
papà, della nostra famiglia. Mi avvicinai, ne presi una in
mano, capii subito: tutto lì
dentro era fermo a quasi dieci anni prima, questa era la sua stanza di
quando era un ragazzino della mia età, quelli erano i trofei
che mio padre aveva vinto dedicandoli a lui. Quella era la parte della
nostra storia che non avevo avuto tempo di
vivere.
“Rigel sta crescendo, Mei, e a
volte ha bisogno di stare per
conto suo: alla sua età anche a me dava molto fastidio
averlo sempre tra i piedi, così, anche se lui non
c’entrava niente con i miei pensieri, finiva che mi sfogavo
su di lui… E… come vedi da allora non andiamo
molto d’accordo… perciò, se vuoi un
consiglio, fai finta di niente, tu non c’entri con i suoi
malumori: vedrai nel giro di poco tempo sarà più
ragionevole e andrete molto più
d’accordo…”
“Sì, ma…
non è
giusto… lui non può stare ore là
dentro, Mirzam!”
“E perché no?
Papà ha fatto sdoppiare
tutto in questa casa, proprio per evitare litigi per queste
stupidaggini, se hai davvero bisogno, usa l’altro bagno, no?
È pure più vicino alla tua camera… che
senso ha dargli il tormento?”
“C’ero prima
io… e lui è
prepotente…”
“Lui è prepotente
ma tu ti diverti a provocarlo,
perciò siete pari… Non c’è
nulla di male a starsene per i fatti propri a pensare, Mei, dovresti
imparare a rispettare i suoi spazi, tra poco tu stessa avrai bisogno
dei tuoi… Lascialo in pace e vedrai che la fase delle liti
continue passerà prima…”
Lo guardai, non potevo crederci! L’avevo desiderato tanto, ma
non era così che
avevo immaginato quel nostro incontro: non con Mirzam che in pratica
dava ragione al babbeo! Non l’aveva mai fatto,
perché mi tradiva
così proprio ora?
“Io non voglio che finisca
anche questa fase! Non voglio!
Stanno già cambiando troppe cose! Dagli pure ragione, fai
come vuoi! Tanto lo so già da me che ormai sono sola! Non mi
serve il manuale d’istruzioni per trattare con lui!”
Mi alzai, volevo fuggire via, prima che le lacrime fossero
ingovernabili e mi mettessi a piangere come una stupida.
“Mei…”
Mirzam mi raggiunse sulla porta, io non riuscivo nemmeno ad aprirla e
andarmene, anche quella dannata porta mi si rivoltava contro.
“Mei, scusami… Non
volevo farti
piangere…”
“Io non sto
piangendo…”
Mi si era incrinata già la voce, ma con quel minimo di
dignità che ancora mi restava, lo fissai, fiera e sicura: se
voleva stare dalla parte di Rigel, facesse pure, io non gli avrei dato
la soddisfazione di vedermi piangere. Mirzam mi prese le mani, e mi
scoccò un bacio sulla fronte,
io rimasi fredda e ostile, ma quando mi guardò,
intensamente, iniziai a cedere e mi morsi un labbro per cercare invano
di resistere. Mi diede un bacio sul naso, mentre mi lasciavo vincere
dalle lacrime e
mi gettavo disperata tra le sue braccia: mio fratello sapeva che Rigel
non c’entrava nulla con le mie crisi, che la tristezza che
rapida aveva preso il posto della gioia in me, aveva motivi molto
più profondi. Avevo promesso alla mamma che non avrei fatto
la bambina con lui e con
Sile, ma… Con quel dannato discorso Mirzam non mi aveva
aiutato per niente. Sembrava quasi un addio...
“Non voglio
perderti… Mirzam… non
voglio…”
“Tu non mi perderai,
Mei… io ci sarò
sempre, per te e per tutte le persone a cui voglio bene, io ci
sarò sempre… Non è la prima volta che
abitiamo in case diverse, no? Tu ora sei a scuola, prima a scuola
c’ero io… Che differenza fa? Non sono quattro mura
a fare una famiglia…”
Mi accarezzava la faccia, io lo guardai.
“Non sarà
più come prima
Mirzam… niente sarà più come
prima…”
“Sono già cambiate
tante cose, negli ultimi anni,
no? Ogni giorno è diverso dall’altro, ma siamo
sempre rimasti “tu ed io”: ti prometto che questa
volta sarà meglio di prima, Mei…”
Mi sorrise, non per consolarmi, sentivo che le sue parole erano
sincere, sentivo che le pensava davvero.
“Pensaci… io sono
molto più grande di
te, Mei, e per questo, finora, a parte giocare a scacchi insieme o
farti ascoltare la musica con me, non è che potevamo fare
poi molto, no? Tu, però, ormai stai crescendo,
ogni giorno diventi, in un certo senso, più
“simile” a me, qualcuno che io posso capire di
più… T’interesseranno via via cose che
interessano anche a me, vorrai sapere come affrontare problemi che io
ho già vissuto, a scuola, con gli amici, in
squadra… Ora potrò portarti con me a volare,
perché ormai non sei più troppo piccola per
salire su una scopa… Fidati, Mei, sarà molto
meglio di prima… potremo fare insieme mille cose che
prima…”
“… Ma…
non sarò solo io a
cambiare, Mirzam…”
Non voleva essere un rimprovero nei suoi confronti, ma bastò
per farlo arrossire un po’. Sì era vero, io stavo
crescendo e non avrei avuto
più gli interessi a lui incomprensibili di una bambina, ma
al tempo stesso lui sarebbe entrato in un universo per me completamente
ignoto, da cui ero esclusa: lo stesso in cui vivevano mamma e
papà. Era più grande di me, ma finora era un
figlio e un fratello,
ora invece sarebbe diventato davvero un uomo, con i problemi di un
adulto, presto sarebbe stato un marito e un padre, avrebbe avuto una
moglie e dei figli, ed io sarei diventata qualcuno da vedere solo nelle
ricorrenze.
“So che ho affrontato male
questa storia, Mei… Mi
dispiace non averti detto la verità su Sile,
all’inizio, ma ho preferito aspettare di avere delle
certezze, prima di parlarvi delle mie intenzioni… Ti
assicuro però che non hai nulla da temere, non avrai un
fratello in meno, semmai una sorella in più…
Farò di tutto per non farti piangere, te lo
prometto… Tu non piangerai, vero?”
“No, non
piangerò… non
piangerò piu… L’ho vista ieri sera: non
è per niente come hai detto quella volta, Sile non
è per niente una come tante… Si vede lontano un
miglio che è innamorata di te… e tu di
lei…”
Mirzam sorrise, e arrossì completamente: lo vidi, nel suo
sguardo, quel luccichio, lo stesso luccichio che illuminava lo sguardo
dei nostri genitori ogni volta che incrociavano lo sguardo uno
sull’altra. Era sempre il mio Mirzam , e gli volevo bene come
non mai, e per questo
dovevo mettere a tacere quella voce che voleva fare i capricci ed
essere finalmente felice per lui, perché era vero, appena
avevo visto Sile, la sera prima, avevo capito che era tutto perfetto.
“Imparerete a conoscervi,
Mei… e vi vorrete
bene… abbiamo deciso di partire da soli per alcune settimane
alla fine di maggio, al termine del campionato di Quidditch,
così torneremo a casa per la chiusura della scuola, e avremo
tutta l’estate per recuperare tutti insieme un po’
di occasioni perse… So già che andrete
d’accordo…”
“Ieri sera mi ha promesso di
portarmi alcuni dischi dei
“Rolling “non so
cosa”…”
“I Rolling Stones,
sì: lei li adora…
Forse tu non ti ricordi, ma quand’eri più piccola
te li ho fatti ascoltare qualche volta… Sile ed io una volta
siamo andati persino a un loro concerto insieme…”
Si bloccò, come se stesse dicendo qualcosa di assolutamente
imbarazzante: erano rare le volte che Mirzam raccontava qualcosa di
piacevole sul mondo babbano, di solito non nascondeva di essere
apertamente contrario a certi atteggiamenti troppo aperti di
papà, andando addirittura oltre l’atteggiamento
cauto della mamma. Non avevo mai capito bene tutta la storia, ma sapevo
che prima della
nascita di Rigel, la mamma e Mirzam erano stati attaccati da un paio di
Babbani, per questo papà diceva sempre che pur non
condividendo le sue paure capiva i suoi dubbi e ci raccomandava sempre
di essere prudenti, nella scelta delle amicizie e
nell’affrontare le situazioni.
“È in
quell’occasione che Sile
è stata qui?”
Lo dissi in un soffio, Mirzam diventò improvvisamente color
porpora, poi si perse nei suoi ricordi… Capii tante cose, in
quel silenzio, capii che avevo ragione: avevo
provato una strana sensazione, la sera prima, guardando Sile muoversi
in quella casa, pur con qualche esitazione, come chi ci è
stato già… Era vero, in quel momento, capii
quanto, fin da allora, pur tanto
giovani, fossero innamorati l’uno dell’altra.
“Avete la stessa luce di
papà e mamma, negli
occhi… Le vorrò bene quanto ne voglio a te, Mir,
perché so che sarai felice grazie a
lei…”
“Mei… Ti voglio
bene… non scordartelo
mai…”
Mi abbracciò e non mi sorpresi quando capii che anche lui si
era commosso. Mi prese la mano nella sua, con l’altra mi
accarezzò la faccia, poi i suoi occhi scesero sulle nostre
mani, unite. Osservai con attenzione ciò che stava
guardando: le rune che
decoravano le nostre dita. Di colpo i suoi occhi si fecero
più cupi, il suo viso
pensoso. Non capivo.
“Ho bisogno di chiederti un
favore… Mei”
Annuii, mentre Mirzam mi fissava con i suoi occhi di luna: era
diventato serio, come non l’avevo visto mai, sembrava
oltremodo preoccupato.
“Tu ti fidi di me,
Meissa?”
“Che domande mi
fai… sei mio fratello!”
“Rispondimi…”
“Certo che mi fido di
te…”
“Ti fideresti di me, anche se
ti chiedessi di non parlare a
nessuno, nemmeno a mamma e papà di una cosa…
importante? Anche se ti chiedessi di mantenere il segreto su quello che
vorrei fare?”
“Perché non vuoi
dirlo a mamma e papà?
Se sei nei guai, loro potrebbero aiutarti…”
Rimase in silenzio. Lo guardai, di nuovo, e fissai le mie mani chiuse
appoggiate sulle sue,
osservai le rune che incidevano, profonde, il suo palmo, sapevo quale
fosse il loro significato, sapevo che qualsiasi cosa mi avesse chiesto
di fare, il patto che esisteva tra noi, dal giorno della mia nascita,
governava tutte le sue decisioni e avrebbe sempre agito per il mio bene.
“Io mi fiderei comunque di te,
Mirzam. E anche se non credo
di poterti aiutare come potrebbero fare loro… se fosse
davvero importante per te…”
“È molto
importante, Mei…”
“Non dirò
niente… ti giuro che non
dirò niente…”
Mirzam mi sorrise, poi guardò di nuovo le mie mani e
stavolta osservò l’anello, l’anello che
papà mi aveva affidato, facendomi promettere di difenderlo a
costo della vita.
“Ho bisogno del tuo anello,
Meissa…”
“Il mio anello non ha niente
di
speciale…”
“So che papà ti ha
insegnato a rispondere
così… ma ero con lui e con Orion Black quando
hanno provato a ricomporre l’anello e la pietra, ho visto che
nelle sue mani non funziona, come non funziona nelle mie… ma
credo che risponda a te: sappiamo entrambi che quello non è
un anello qualsiasi…”
Impallidii, ero convinta che a parte mio padre e Orion…
“Da quando hanno aggredito
Sirius Black a Hogwarts, penso non
sia giusto che papà ti abbia dato un compito tanto
pericoloso… Non voglio che qualcuno ti faccia del male per
rubartelo…”
“Dovresti dire a
papà che sei preoccupato, e
lasciare che sia lui a prendere una decisione…”
“Lo so che è un
anello molto bello e affascinante,
Mei, lo so che non vuoi separartene, capisco che tu non voglia
darmelo… non vuoi darmelo, è
così?”
“Io… Io non lo
so… non so cosa devo
fare… non so cosa è giusto
fare…”
Mi fissava, non capivo che intenzioni avesse, magari potevo fidarmi,
infondo era mio fratello, ma mio padre mi aveva fatto promettere di non
separarmene mai.
“Non ti preoccupare, Mei:
capisco che è una
decisione troppo difficile per te… Parlerò con
papà, alla fine sono sicuro che capirà le mie
motivazioni… tu però…”
“Io non dirò a
papà che me
l’hai chiesto…”
“Bene… non
è urgente, Mei, gliene
parlerò dopo il matrimonio…”
Annuii rasserenata. Mi lasciai abbracciare da lui, lasciai che
appoggiasse le labbra al mio
orecchio. Sentii lieve la sua voce melodiosa, appena sussurrata,
pronunciare una
sola parola, che mi attraversò la mente rapida come una
stella cadente. Sentii la testa vuota e le gambe che cedevano, come
quando ci
s’immerge nei sogni… Le braccia forti di mio
fratello mi sorressero. Sentivo un sapore strano… di
vaniglia…Mentre le mie labbra, secche, ripetevano quella
parola come fosse una
cantilena…
“IMPERIUS…”
*continua*
NdA:
ciao a tutti, qualche noticina sul capitolo: 1. il primo incontro tra
Mei e Sile sarà raccontato in flashback, qui non era
possibile; 2. questo è l'esordio di Deidra come narratore,
la vedremo ancora in seguito; 3. Fear era annunciato per il matrimonio,
ma ho deciso di anticipare il suo ingresso in scena; 4. ho inventato
l'esistenza di un "pugnale di Godric" perché ho pensato che
esistessero varie reliquie più o meno autentiche dei
famigerati Fondatori e ho anche immaginato che, per realizzare il suo
sesto Horcrux, Voldemort potesse cercare qualcosa di altrettanto
importante con cui sostituire la spada di Godric; 5. Alfred Podmore
potrebbe essere padre o zio di Sturgis Podmore (classe 1957), uno degli
elementi del primo Ordine della Fenice; 6. quanto a Rodolphus e Mirzam,
Rod dice “non
voglio che sia Bella a consegnare l’anello a Milord”:
Rodolphus è un uomo ambizioso, che subisce il fascino
morboso della moglie, ma che già in parte è
deluso da lei (che non si presta a dargli quel figlio con cui metter
finalmente fine ai dissapori con suo padre) e soprattutto, non intende
cedere a lei il posto che ha guadagnato accanto a Milord impegnandosi
per anni tanto ferocemente. Quanto al rapporto con Mirzam, la vedo come
un'amicizia “sincera”, seppur malata.
L'immagine a inizio capitolo è di Bucz.
E ora vi saluto, con i consueti ringraziamenti a quanti hanno letto e
recensito, aggiunto a
preferiti, seguiti, ricordati, ecc… Un bacione a tutti, alla
prossima!
Valeria
Scheda
Immagine
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