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Autore: Terre_del_Nord    29/05/2010    12 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Storm in Heaven - III.002 - Falling Down

III.002


Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971

    “Sei pronta, piattola?”

Rigel mi aspettava davanti alla mia camera, vestito, come me, in maniera non troppo formale, non come quando dovevamo andare a casa Black, per intenderci, ma comunque più elegante del solito: aveva un bell’abito scuro e i capelli pettinati all’indietro, così da lasciare scoperti gli occhi, identici a quelli di papà. Mi diedi l’ultima occhiata allo specchio e ne approfittai per fargli la linguaccia, sistemai i polsini della mia camicetta e spianai per bene il vestito grigio scuro senza maniche che portavo sopra, infine centrai meglio il cerchietto d’argento tra i capelli, e tirai un sospiro fondo: ero pronta. Di sotto si sentivano già alcune voci ed io avevo le gambe che mi tremavano.

    “Guarda che non mordono mica!”

Fulminai mio fratello con lo sguardo, Rigel continuò a prendermi in giro mentre scendevamo, sostenendo che forse erano stati invitati persino il caro cugino Malfoy e suo padre: un ghigno diabolico gli si stampò in faccia appena si accorse della mia espressione atterrita e disgustata. Quando arrivammo in fondo alle scale, però, ormai non lo ascoltavo più: ero troppo nervosa persino per insultarlo. Era assurdo che non avessi idea di che faccia avessero i Kelly: ed era solo colpa mia perché a Doire, invece di guardarmi attorno e memorizzare i volti delle persone che non conoscevo, avevo sempre pensato solo a giocare con i miei cugini e, durante gli ultimi riti a Herrengton, mi ero distratta pensando continuamente a Sirius Black. Divenni rosso porpora immaginando di nuovo il suo volto e Rigel sghignazzò in maniera ancora più evidente: sapevo che non era possibile, ma a volte mi chiedevo, angosciata, se quel cretino riuscisse a leggermi nel pensiero o immaginasse quello che mi passava per la testa… in entrambi i casi, mi vergognavo ancora di più. La mamma, i capelli raccolti in uno chignon morbido e fasciata in un bell’abito verde scuro dal taglio decisamente “babbano”, ci venne incontro per accompagnarci nel salone: a mano a mano che percorrevamo il corridoio, mi accorsi che non si udivano voci di donna, solo una voce potente e melodiosa, che parlava la lingua del Nord. Immaginai fosse Donovan Kelly, o suo figlio Liam, ma quando entrai nel salone, mi trovai di fronte un uomo alto e magro, dalla fluente chioma candida, legata in una lunga coda, stretto in una toga nera che copriva interamente un abito grigio antracite. Assomigliava in qualche modo a mio nonno, almeno come appariva nei ritratti più austeri: lo guardai meglio e vidi che il suo viso sembrava cotto dal sole, con una rete di rughe profonde che gli davano l’aspetto di una tartaruga millenaria. No, era troppo vecchio per essere il padre di Sile: Donovan aveva giocato come Battitore insieme a papà nella squadra di Quidditch di Serpeverde, sapevo che era appena pochi anni più grande di lui.

    “Eccoli finalmente! Entrate, ragazzi! Fear, questi sono Rigel e Meissa! Ragazzi, ho finalmente il piacere di presentarvi il mio padrino e maestro, Duncan MacPherson: sarà nostro ospite per tutta la durata dei riti…”

Notai subito la smorfia e la rigidità di mio fratello mentre gli dava la mano e l’espressione poco convinta di mia madre: quando toccò a me, intercettai gli occhi del vecchio e li vidi scintillare come tizzoni ardenti. E la stretta della sua mano, poi… Salazar! Non avevo mai provato una sensazione simile, era come se avessi sentito un’energia potente passare dai suoi polpastrelli ai miei e di colpo nella mia mente erano fiorite, senza che lo volessi, immagini di cascate e luoghi misteriosi, epoche lontane e…

    “Basta così!”

Mia madre mise fine a quel contatto, afferrandomi per un braccio e frapponendosi tra noi, l’uomo la guardò con una nota ironica sul viso, disse poche rapide parole in gaelico che non capii ma che parvero innervosirla anche di più, mentre mio padre mi fissava preoccupato.

    “Preferiremmo che i tuoi esperimenti li facessi con il nostro consenso!”
    “Scusami, Deidra, hai ragione, ma ero troppo curioso… I vostri figli sono molto interessanti, così diversi tra loro: a Rigel la consapevolezza di chi fossi ha permesso di erigere subito una barriera, non mi ha concesso alcun contatto, non c’è che dire, non ti assomiglia solo nell’aspetto, Alshain! Quanto alla vostra meravigliosa principessa, beh… ha già una buona difesa istintiva, ma siamo riusciti a vedere entrambi cosa c’è dentro di te, dico bene, Meissa?”

Ghignò guardandomi, io ero turbata, non capivo una parola di quello che stava dicendo, né che cosa fosse successo. La mamma mi guardò preoccupata, come quando da piccola cadevo e lei mi scrutava per controllare che oltre a non avere graffi superficiali non avessi neanche ferite nascoste.

    “Ti consiglio di non provarci di nuovo! Alshain…”

Mia madre implorò con lo sguardo l’intervento di papà, poi mi circondò le spalle con il braccio e mi condusse via, ostile, io guardai quell’uomo misterioso, al tempo stesso curiosa e preoccupata: avevo sentito parlare spesso, di solito di nascosto, di un famigerato Mago del Nord che il nonno aveva cacciato da Herrengton, poco prima che mio padre andasse via di casa, ma non capivo come i due fatti potessero essere collegati, né per quale motivo la mamma sembrasse avercela con lui. No, non riuscivo a capire. Sentii nostro padre rivolgersi in gaelico al vecchio come se volesse riprenderlo, poi lo condusse nello studiolo attiguo alla sala, mentre Rigel, stranamente preoccupato, si affrettò a seguire me e la mamma in sala da pranzo.

    “Che cosa ci fa qui? Chi l’ha invitato? Si dice che succedono sempre cose spiacevoli dove va quello lì… Perché...”
    “Non dire sciocchezze, Rigel! Quell’uomo avrà pure dei modi bizzarri, è vero, ma è stato uno dei pilastri della Confraternita, ed è un onore per noi che abbia accettato l’invito, sono anni che fa vita ritirata e...”
    “Onore? Quale onore? Mio nonno l’ha cacciato da Herrengton! Ci sarà un motivo, no? E credo tu sappia quale sia, perché mi pare che non fossi troppo entusiasta di averlo qui nemmeno tu, pochi istanti fa!”
    “Ora basta, Rigel! Non so chi ti abbia insegnato a rispondere così, ma ti consiglio di smetterla subito e tornare a comportarti secondo le regole di questa casa! Altrimenti sarò io stessa a prepararti le valigie per Durmstrang… Questo è il mio secondo avviso, non ce ne sarà un terzo…”

Mio fratello la guardò incredulo, era davvero strano che nostra madre lo riprendesse così severamente, ma non riuscì a replicare perché, proprio in quel momento, sentimmo un suono strano alla porta e la signora Sheneer, tutta trafelata, andò ad accogliere i nuovi ospiti. Sospirai, era giunto il momento. Mentre attendevo di vederla, sapevo, dentro di me, che quell’innocua, giovane strega, che nella vita quotidiana lavorava all’ospedale di Doire nel reparto dei bambini, avrebbe avuto il potere di destabilizzarmi molto più degli assurdi esperimenti di quel misterioso Mago, noto con il nome bizzarro di Fear.

    “Signor Kelly, prego, si accomodi!”
    “Donovan… finalmente… benvenuto…”

Non sentii la risposta dell’uomo, non perché non rispose, ma perché ero rimasta colpita dalla sua mole imponente che riempiva, in pratica, tutto lo specchio della porta: era vestito con un lungo cappotto scuro, teneva il mantello nero piegato sul braccio, probabilmente per non destare curiosità nel vicinato e un ampio cappello gli mascherava parzialmente il volto. Da quel poco che vidi, mi sembrò che non avesse un’espressione molto amichevole e iniziai a preoccuparmi ancora di più per Mirzam. La Sheener prese i soprabiti e li mise nel guardaroba, mentre la mamma, un’espressione radiosa dipinta in volto, faceva accomodare Liam e sua moglie Fiona, anch’essi completamente a loro agio in quegli strani abiti babbani.

    “Manca ormai poco, o sbaglio?”
    “Sì: sarà il mio regalo di Hogmanay per questo bel ragazzo!”

Fiona sorrise, andando ad accarezzarsi il ventre, sotto gli occhi amorevoli del marito: la sua figura mostrava senza possibilità di equivoci che era quasi alla fine della gravidanza e Liam, circondandola teneramente con le braccia, la baciò con una naturalezza che a parte nei miei genitori, non credevo possibile nelle coppie Slytherin. Effettivamente in quel momento, in quella stanza, eravamo tutti piuttosto strani per essere degli Slytherin…

    “E Sile?”

Sapevo che non era educato parlare senza essere interpellati, tantomeno mostrarsi curiosi, ma io ormai fremevo all’idea di conoscerla e tutto mi aspettavo tranne che mancasse proprio lei; per fortuna Donovan nemmeno mi sentì, tutto preso da mio padre e Fear appena usciti dallo studiolo e ora si scambiavano saluti e cerimonie nel corridoio per poi avviarsi nel salone.

    “Mia sorella arriverà, non temere: anche lei ha una gran voglia di conoscerti, Meissa Sherton, ma devi avere ancora un po’ di pazienza, purtroppo farà un po’ tardi, stasera, stavamo uscendo quando Siobhán Quinn le ha chiesto aiuto, pare che i suoi due gemelli abbiano un po’ di febbre…”

Mia madre annuì, mentre il volto di Liam si era aperto in un sorriso simpatico, i suoi occhi sembravano neri come la notte, ma ora che lo vedevo più da vicino, mi accorgevo che erano di un blu così intenso da sembrare scuri. Ed erano occhi sinceri, occhi che brillavano, non restavano freddi e spenti mentre sorrideva. Suo padre, invece, continuava a mettermi soggezione: non capivo perché la mamma si fidasse di lui, aveva un’espressione arcigna degna di un orco cattivo e più lo guardavo, meno mi piaceva. Forse lo stavo fissando con troppa insistenza, perché alla fine si voltò e mi fissò a sua volta: tremai aspettandomi di essere duramente rimproverata per qualcosa, invece per la prima volta da quando era entrato in casa nostra, anche la sua faccia si distese in un ampio, incredibile sorriso.

    “Come passa il tempo, Dei… me li ricordo ancora, proprio in questa stanza, che erano alti così…”

Donovan fece il cenno che indicava l’altezza di due bambini di due e quattro anni, strappando un altro sorriso radioso in nostra madre: arrossii mentre stringevo la mano forte di quell’uomo dagli intensi occhi scuri, poi però mio padre ci interruppe, esortando di nuovo tutti ad accomodarci nel salone, per chiacchierare finché non fosse stata pronta la cena. La serata trascorse così, stranamente tranquilla, con mio fratello più calmo, tutto preso a parlare di Quidditch con Donovan, uomo che ben presto si rivelò molto diverso da come me l’ero immaginato; la mamma chiacchierava con Fiona, dandole dei suggerimenti sui bambini e portandola in seguito a vedere i miei fratelli che dormivano pacifici di sopra; mio padre, Liam e Fear discutevano di politica, senza però che la discussione si animasse troppo, dai toni che avevano compresi che si trovavano d’accordo quasi su tutto. Spesso però sentivo addosso gli occhi furtivi del vecchio, li intercettavo spesso, insistenti su me e Rigel, e sulle nostre mani, sulle nostre rune, sul mio anello. Lo fissai, a mia volta, intensamente, lui distolse lo sguardo: un brivido mi percorse la schiena, ebbi la certezza che il suo interesse nei nostri confronti era dovuto a qualcosa di misterioso, qualcosa che c’entrava con la Magia del Nord e l’anello che avevo in mano. Forse avevo sbagliato bersaglio, quando avevo mostrato ostilità e sospetto verso Donovan, di colpo sentivo che quel vecchio era pericoloso, che la mamma e Rigel avevano motivi seri, sebbene a me sconosciuti, per temerlo. A quel punto, però, ormai a metà serata, mentre la mia mente si popolava di dubbi e inquietudine, il campanello suonò di nuovo e finalmente Sile Kelly entrò ufficialmente nella mia vita.

***

Deidra Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971

    “Sei stanca?”
    “No… ma non vedevo l’ora che se ne andassero tutti…”
    “Come ti capisco!”

Sorrisi, guardandolo attraverso lo specchio che si avvicinava, si chinava su di me e mi marchiava la spalla con uno dei suoi baci delicati. Lentamente mi sciolse il fermaglio, liberandomi i capelli sulla pelle ancora bagnata, mi abbracciò da dietro e mi strinse a sé, languidamente: mi abbandonai ridendo tra quelle braccia, erano il mio nido, il mio rifugio. Mi voltai, lo fissai, sorridendo provocante, per poi salire sulle punte dei piedi e scoccare un bacio giocoso sulle sue labbra, invitanti come il primo giorno: mi rapì subito, intrappolandomi contro il muro, trasformando quel gioco in un bacio vorace, appassionato, irresistibile. Da togliere il fiato. Stretta a lui, ansimando appiccicata al suo corpo, vibrando della stessa passione che animava il suo, salii con le dita ad accarezzare il profilo del suo naso, la linea morbida delle labbra e quella decisa del mento, mentre i suoi occhi divertiti e complici avevano ormai incatenato i miei. Sapeva quanto quelle sue linee, quei suoi colori, mi stregassero e m’infiammassero l’anima, e quanto al tempo stesso mi riempissero di dolcezza e tenerezza, perché erano gli stessi che riscoprivo giorno per giorno nei volti dei miei figli. Dei nostri figli. Furtivo, con una mano fece scivolare a terra gli asciugamani che avevamo ancora addosso e con l’altra iniziò a inseguire le ultime gocce d’acqua che mi rigavano il corpo, per poi tornare indietro, percorrendo centimetro dopo centimetro la mia pelle che prendeva vita, diventava ricettiva e si caricava d’attesa al suo tocco. M’inarcai per aderire perfettamente a lui, senza staccare gli occhi dai suoi, ammaliata come il primo giorno, mentre mi sollevava da terra, mi prendeva tra le braccia e mi adagiava accanto a sé, nel nostro letto, baciandomi con tenerezza.

    “Ti amo, Dei…”

Mi abbandonai completamente a lui, mentre continuava a baciarmi, le mie mani, perse nei suoi capelli, correvano giù, sulla pelle liscia e calda delle sue spalle, trattenendolo forte a me, mentre diventavo ancora una volta creta nelle sue mani, custodia di ogni suo sospiro. Aveva sempre saputo interpretare i miei desideri, prima ancora che riuscissi a comprenderli ed esprimerli, mi ero avvicinata a lui, ragazzina, attratta come una falena dalla luce: timorosa di ritrovarmi con le ali bruciate, avevo aperto gli occhi al mattino, trovando invece, accanto a me, il senso della mia vita e la mia vera felicità. Sospirai piano il suo nome, travolta ancora una volta da quel piacere perfetto, fusione di anima e sangue, aggrappandomi a lui, per non lasciarlo andare. Anche se sapevo che non sarebbe mai andato via da me. Mai e poi mai. Mi accarezzò la testa, baciò lieve i miei occhi, il suo corpo forte sempre avvinto al mio, esausto: sapeva quanto amassi dormire appoggiata al suo petto, rideva sempre di me, dicendo che la mia testa l’aveva scambiato per un cuscino ormai da anni. Alzai gli occhi su di lui, adorante, trovando la stessa devozione nel suo sguardo…

    “Ho paura, Alshain… Mi sento…”
    “…Travolta in un turbine di sensazioni che non riesci a governare… Lo so…”

Mi sorrise, accarezzandomi il naso: mi aveva letto perfettamente dentro, ancora una volta, ma sapevo che non era una semplice intuizione, sapevo che provava le mie stesse, contrastanti emozioni.

    “Penserai che sono una stupida, ma… non riesco a non… le prossime saranno le ultime ore che vivremo tutti insieme sotto lo stesso tetto…”
    “Dei… sono ormai anni che non viviamo più continuamente tutti insieme… tranquilla… chi ti dice che… Herrengton è grande a sufficienza per ospitare anche loro, se volessero viverci…”
    “Lo so… “Ti ricordi quanto mi prendevi in giro quando stava per andare a Hogwarts?” è questo che pensi, vero Alshain? Ti prendi gioco di me, perché sai che scoppierò in lacrime prima ancora che lui esca da questa casa…
    “A dire il vero non sarà mai lo stesso… Quella volta tu mi hai definito “chioccia”, ricordi?… e scusami ma…. È molto, molto peggio! Che cosa penserebbe la gente di me, se si sapesse, dimmelo?”

Mi guardò divertito, sperando di farmi sorridere, poi mi stampò un bacio sulla fronte, mentre io andavo ad asciugare una stupida lacrima traditrice sul suo petto… mi ci volle un po’ per assicurarmi che la voce avrebbe retto poi, fingendo una sicurezza che non sentivo, cercai di rispondergli a tono, ma sapevo che gli occhi non avrebbero nascosto i miei veri sentimenti.

    “Tu lo sei, Alshain… Tu sei una chioccia… una meravigliosa chioccia… magari un po’ pelosa…”

Sorrisi, ma non era più un gioco, no, il solo pensiero mi riempiva di amore e tenerezza. Era successo di nuovo appena la notte prima, mi ero svegliata all’improvviso, credendo di udire un rumore proveniente dalla stanza dei bambini, mi ero allungata sul letto, trovandolo caldo ma vuoto, avevo preso la vestaglia e, scalza, avevo raggiunto la nursery, illuminata dalla luce fioca di una candela. Lui era lì, seduto con in braccio nostro figlio, irrequieto per i dentini, mentre Adhara guardava sognante suo padre dalla culla… Se fosse stato possibile provare un amore più grande di quello che ci legava, mi sarei innamorata ancora di più di Alshain, in quell’istante: mi ero avvicinata a lui, avevo accarezzato i suoi capelli e avevo raccolto il suo bacio appassionato. E dentro di me, ancora una volta, avevo ringraziato gli dei per la generosità con cui aveva benedetto me e il nostro amore… Sorrisi, mentre il suo abbraccio da tenero diventava di nuovo possessivo, affamato: sapevo a cosa stava pensando, eravamo entrambi convinti di aver concepito Adhara proprio in un frangente simile, proprio dopo aver riso insieme, a  lungo, delle straordinarie qualità di “balia asciutta” di mio marito.

    “Chioccia, Balia, Tata… in… questa… casa… non… c’è… rispetto… per… un… povero… Mago del Nord…”

Ogni parola era scandita da un bacio: amavo esser catturata così, come il primo giorno, affondai le mani tra i suoi capelli corvini, assaporando ancora l’estasi dei suoi baci e lasciandomi travolgere di nuovo della sua passione.

    “Ti amo anch’io…”

***

Mirzam Sherton
Diagon Alley, Londra - dom. 19 dicembre 1971

    “Muffliato!”
    “Nox!”

La strada piombò nell’oscurità, in un silenzio pieno, palpabile, carico d’attesa. Poi l’esplosione, violenta, devastante: la pioggia di vetri riempì l’aria intorno a me. Mi ero riparato dietro una palazzina, sull’altro lato del vicolo, ma la violenza e il calore del vuoto d’aria mi presero in pieno. Mi aggrappai al muro con tutta la forza che avevo, le dita tanto serrate da ferirsi sulla superficie ruvida dei mattoni. Per un secondo, mi sembrò che, nonostante gli incantesimi posti a nostra difesa, non ci sentissi più, ma era solo l’effetto intorpidente di quella vibrazione spaventosa: subito dopo, nella normalità relativa di quella notte, sentii lo scricchiolio degli stivali sul tappeto di ghiaccio, misto ai vetri, poi i colpi dei calci contro i brandelli di pietra e di legno per liberare il passaggio e, infine, le urla, secche e violente.

    “Muoviti! Arriveranno presto!”

Riemersi dal mio rifugio: dovevamo fare presto, entrare e prendere ciò che cercavamo, già si stavano accendendo, confuse, alcune luci alle finestre, alcuni uomini si affacciavano, disturbati dalla vibrazione, ma il buio completo nella strada impediva loro di vedere qualsiasi cosa. Sapevamo, però, delle ronde degli Aurors, sapevamo che presto avremmo avuto compagnia: Rookwood, col suo lavoro al Ministero, era riuscito a farci avere delle informazioni preziose sul numero e sui turni delle squadre. Superai i cumuli di macerie, Rodolphus mi fece strada: non ero mai stato nella casa di Edmund Sullivan, l’antiquario, perché secondo mio padre era soltanto un cialtrone e un falsario; al contrario, Lestrange aveva preso sul serio alcune dicerie e, conoscendo il misterioso interesse di Milord per le reliquie dei Fondatori, aveva fatto numerosi sopralluoghi nelle ultime settimane, spacciandosi per un cliente interessato. McNair e Pucey erano già corsi di sopra, per prelevare il nostro “amico” e sua moglie, Augustus, Rodolphus ed io rimanemmo di sotto, in attesa: immaginavo che Rookwood e Lestrange si sarebbero divertiti a “liberare”, a modo loro, i nostri ospiti dalle proprie reticenze, quanto a me, il mio compito era come sempre il più pulito, ma stavolta non il più facile.

    “Questa storia è assurda. Che cosa ti fa credere che quel fodero esista davvero? E soprattutto, secondo te, come dovrei fare io a riconoscerlo?”
    “Ne sai abbastanza di patacche e anticaglie da capire se è autentico o meno… Se però preferisci occuparti tu degli altri aspetti della questione... Prego: accomodati pure… Hai insistito tu per venire, se non sbaglio!”

Rod mi parlò con tono sarcastico, l’aria di sfida stampata sul volto, evocando un’occhiata ironica anche in Augustus: la sua sfiducia nei miei confronti, in pubblico, diventava spesso palese, soprattutto dopo la famigerata sera degli anelli a Lestrange Manor. McNair ritornò di corsa, gettò il vecchio ai nostri piedi, quasi fosse un sacco, e lo colpì con una Cruciatus in pieno petto, per spegnere subito ogni tentativo di resistenza, Pucey invece non aveva difficoltà a tenere prigioniera la donna, un’innocua babbana: entrambi erano terrorizzati e confusi, l’uomo non faceva che chiederci che cosa volessimo da lui, ci offriva tutto il denaro che teneva nascosto in casa, in cambio della salvezza propria e della moglie, implorava, sostenendo che a casa e nel laboratorio non custodiva nulla di prezioso.

    “Voglio il fodero col pugnale di Godric… Anzi, per non sbagliare, voglio tutto ciò che la tua famiglia conserva da secoli, poi ti prometto che ce ne andiamo.”
    “Io non ho niente… non ho niente, ve lo giuro!”
    “Come sarebbe? Qui in Inghilterra tutti ti hanno udito vantarti di essere l’ultimo dei suoi discendenti: vuoi forse dirmi che truffi i gentiluomini, da decenni, con le tue favolette?”

Il vecchio sbiancò, non aveva ancora capito che a rischio non erano la sua attività o il suo nome, ma la sua stessa vita. Alla fine, si mise a piangere, confessando di aver sempre mentito su tutto, per ingannare i clienti e arricchirsi facilmente.

    “Tutto ciò che possiedo, l’ho messo insieme negli anni passati in Romania, lo confesso, e a volte ho falsificato io stesso alcuni pezzi per…”

La luce nello sguardo di Rodolphus non mi piaceva per niente, capii che si metteva male e cercai d’intervenire.

    “Te l’ho detto che era una pista fasulla! Cercheremo altrove… Ora andiamocene! Obliviamoli e lasciamoli andare…”
    “Ha ragione, tra poco gli Aurors saranno qui… Andiamocene…”
    “No, non sono affatto convinto che ci stia dicendo la verità… e comunque... perché andarcene? Secondo voi dovrei mantenere una promessa fatta a un lurido filobabbano e alla feccia con cui si accompagna? Come se non fosse già abbastanza grave, sono anche due ladri e due bugiardi! Io penso che dovremmo proprio fare un po’ di pulizia…”

Rod estrasse la bacchetta e lanciò la maledizione che preferiva contro la donna, io mi voltai, per non guardare: non mi capacitavo ancora di essere lì, inerme, né di esserci andato di mia spontanea volontà. Stavolta mi ero messo da solo, con le mie mani, in quella situazione. E tutto, inesorabilmente, stava andando storto.
 
*

Mirzam Sherton
Warrington Manor, Highlands - sab. 18 dicembre 1971 (4 ore prima)

    "Come testimone di nozze, do ufficialmente il via alla festa!"

Jarvis aveva alzato il calice e tutti i miei amici avevano brindato a me e alla fine della mia libertà: sorrisi, in leggero imbarazzo, bastava guardarmi in faccia per capire che non vedevo l’ora di chiudermi nella mia prigione, che per me non esisteva nulla di più bello del dolce abbraccio della mia Sile. Non c’erano decorazioni Slytherin o del Nord quella sera, a Warrington Manor, per non far torto a nessuno dei tanti ospiti: il mio testimone di nozze, infatti, aveva invitato pressoché tutti quelli che conoscevo, dagli ex compagni di Hogwarts, non solo di Serpeverde, ai colleghi del Puddlemere e delle due squadre minori in cui avevo giocato per imparare, dagli amici delle famiglie del Nord, ai conoscenti di Doire, Londra e Inverness. Tra gli altri, naturalmente, c'erano Rodolphus e Augustus, la nota stonata della serata. Sapevo che avevano un appuntamento, al termine della festa, a Diagon Alley: Rookwood, a breve, avrebbe finto di sentirsi poco bene e Lestrange si sarebbe offerto di riaccompagnarlo a casa, poi si sarebbero incontrati con Pucey e McNair, intorno all’1.30, nel vicolo dietro Burgin e da lì avrebbero raggiunto la dimora di un noto antiquario. Io speravo che se ne andassero il prima possibile, portandosi via quell’aria venefica che ormai non sopportavo più. In quegli ultimi mesi la mia esasperazione e il mio disgusto erano cresciuti a dismisura e quelle settimane lontane dal “lavoro”, che mi erano state concesse da Milord per occuparmi dei preparativi del matrimonio e del Quidditch, avevano alimentato ulteriormente in me il desiderio profondo di cambiamento e ribellione. Con Sile, avevo affrontato tutti i dettagli di quell’orrenda storia prima ancora di chiedere la sua mano a Donovan e avevo fatto bene, perché poi, con le sue idee geniali e irose, suo padre ci aveva messo nelle condizioni di non poter mai restare da soli, nemmeno per parlare. Ed io, dopo aver rischiato tante volte di perderla, non potevo certo permettermi che venisse a sapere della mia scelta sconsiderata da qualcun altro, così le avevo detto tutto: non era stato facile, per Sile, accettare la realtà ed io avevo temuto che mi avrebbe detto addio per sempre; alla fine, però, seppur con qualche incertezza, aveva capito che non l’avevo fatto mosso da convinzione e odio, ma per proteggere coloro che amavo. Per questo, solo per questo, mi aveva perdonato, in cambio della promessa che avrei trovato un modo per uscirne. Sile s’illudeva che la mia scarsa adesione alle idee di quegli assassini mi avrebbe permesso di mettere fine a quell’incubo e voleva restare al mio fianco per aiutarmi e sostenermi, voleva che affrontassimo insieme quella prova tanto difficile. Tutto ciò non era possibile, lo sapevo bene, eppure avevo promesso: per vigliaccheria, per paura che lei mi lasciasse, perché sapevo che senza di lei vivere non aveva alcun senso. Io non volevo iniziare la mia nuova vita con lei mentendole, avevo già appurato quale catena di catastrofi può nascere dal tacere e dal mentire, al tempo stesso, però, non potevo permettere che lei corresse ulteriori rischi a causa mia. Con questi pensieri, col passare dei mesi e delle settimane, un’ansia sottile si era affiancata all'emozione di vivere con lei: stavo per realizzare i miei sogni, ma Milord era un'ipoteca pesante sul nostro futuro, un peso che mi era sempre più odioso sostenere. Soprattutto ora che il prezzo che mi chiedeva era diventato più alto. Quando gli avevo chiesto di essere sollevato dagli incarichi per i miei impegni, Milord mi aveva fissato con un’espressione sordida e, con un tono che mi era apparso sinistro e ironico, aveva risposto semplicemente“Capisco…” . Intuitivo com’era, doveva aver già colto il cambiamento che stava maturando in me e mi aspettavo che presto mi avrebbe messo alla prova, affidandomi qualche incarico tremendo che avevo paura persino a immaginare. E così era stato.

    “Una vita per una vita.”

Questo aveva detto Milord, a ottobre, presentandosi all’improvviso a casa mia, alcune settimane dopo aver accettato di concedermi la pausa che gli avevo chiesto: gli dovevo una vita, per dimostrare quanto gli fossi grato e quanto fossi ancora rispettoso dei patti che ci legavano, perché se Sile era ancora viva era solo merito suo ed io non dovevo scordarlo. Mai. L’avevo messo in conto dall’inizio: prima o poi, le mie mani si sarebbero sporcate di sangue, speravo, però, di avere più tempo, invece l’incidente con gli anelli, a Lestrange Manor, aveva tragicamente accelerato la mia rovina. Io non ero un assassino e non volevo diventarlo, sapevo, però quanto pesantemente sarebbe ricaduta la responsabilità delle mie azioni sulla vita di coloro che amavo: non mi sarei mai perdonato se la mia famiglia avesse subito le conseguenze di una mia debolezza. Non sapevo cosa fare. Mi trovavo finalmente all’alba della mia nuova vita, ma di fronte a me si apriva un abisso, senza vie d’uscita. Anche mio padre, dopo aver subito ogni tipo di pressioni, per mesi, aveva accettato di incontrare Milord, quell’estate, e anche lui conviveva ormai con l’idea di dover, alla fine, sacrificare la propria integrità per la salvezza dei propri cari. Ciò che forse Milord non sapeva ancora, però, era che mio padre stava mettendo in atto le sue contromosse: l’avevo aiutato, avevamo lavorato a lungo insieme, avevamo preparato dei rifugi sicuri, mi aveva infine convinto a lasciare Inverness per vivere non lontano da Maillag, nelle Terre del Nord, dove la Magia Antica, in caso di necessità, poteva difendere me e Sile dalla furia di Milord e dei suoi sicari. Per questo, perché il potere di quella Magia non cadesse sotto la sua influenza, era però vitale che il Signore Oscuro non s’impossessasse di Habarcat: a questo scopo, servendosi dell’aiuto non del tutto consapevole di Orion Black, mio padre aveva ritrovato e ricomposto le parti dell’antico anello di Salazar, aveva verificato che fosse ancora in grado di governare i poteri della Fiamma quindi l’aveva nascosto a Hogwarts, precludendo al legittimo erede del Maestro la possibilità di impadronirsi di un potere tanto antico quanto sconfinato. A volte mi chiedevo che cosa sarebbe successo se Milord e i suoi uomini avessero trovato le prove dei nostri inganni. Non solo. Mi chiedevo come avrebbero reagito i Maghi del Nord scoprendo che mio padre era andato contro i patti di fedeltà che legavano gli Sherton all’Erede. Il solo pensiero mi terrorizzava.
Uscii sulla terrazza per prendere un pò d'aria, un senso di cupa oppressione nel petto: dentro, le urla e gli inni, le bevute e il clima goliardico sembravano appartenere a un mondo distante anni luce da me, una sensazione già provata, la sera in cui avevo vinto la mia ultima partita di Quidditch a Hogwarts e tutti mi festeggiavano. Anche allora avevo preferito restare in disparte, a pensare a tutto quello che sentivo dentro di me. Stavolta però avevo motivi seri per essere tanto turbato. Percepii dei passi nell’ombra, mi voltai, stampandomi a forza un sorriso sereno che celasse i miei turbamenti. Rodolphus era dietro di me, con un paio di calici in mano, come al solito elegante e sicuro di sé: vestiva un bell'abito classico, scuro, aveva lasciato stare da un pò i dettagli sgargianti, era diventato molto più sobrio e discreto, anche i suoi capelli erano più corti, mentre nello sguardo la solita aria di sfida aveva lasciato il posto a una consapevolezza maggiore, e a una maggiore astuzia.

    "A te, Sherton... nella speranza che crescendo, tu smetta di essere un ingrato!"
    "Salazar, non puoi star serio almeno una volta? Che cavolo di brindisi è mai questo?"
    "Non sto scherzando... penso davvero che tu sia solo un maledetto ingrato!"
    “Non sarà ancor per quella storia, Rod? Te l'ho già spiegato, non c'entri tu... è che... "
    "… che sei un ingrato, lo so. Non cercare scuse, è per questo che hai chiesto a lui di farti da testimone e non a me."
    "Jarvis è un Mago del Nord, Rodolphus, come me e Sile: abbiamo voluto una cerimonia molto tradizionale, ed io non…"
    “Nemmeno Augustus è un Mago del Nord, ma questo non gli ha impedito di far da testimone a Warrington.”
    “Rookwood non è un maledetto piantagrane come te, Lestrange! È questa la verità! Se avessi aspettato che ti fossi addomesticato a certe regole, persino mio fratello Wezen si sarebbe sposato prima di me!”

Rodolphus mi fissò, offeso, poi scoppiò a ridere e, appoggiandomi la mano ingioiellata sulla spalla, annuì: era notevolmente alticcio, ma non abbastanza da mandare a monte la missione di quella sera.

    "Sì, forse è vero, ma… la verità è che tu e, soprattutto, tuo padre non volevate che un Lestrange fosse messo a parte di qualche oscuro, segreto, sacro, rito del Nord."
    "Ma piantala con le cazzate! L’ultimo matrimonio celebrato a Herrengton è stato proprio quello tra mio zio e una Lestrange, ricordi? Se ci fosse qualcosa da sapere, lo sapreste già.  Io ho solo scelto la strada che mi sembrava più semplice. Almeno per una volta... vorrei solo percorrere la strada più semplice. E se davvero ti brucia che io abbia chiamato Jarvis…”
    “Di cui tra l’altro non ti è mai importato un fico secco…"
    “Ti sbagli, Rodolphus: ho fatto molti errori con Jarvis, ma le cose ora sono diverse… Ascolta… se proprio vuoi farmi da testimone, puoi venire con me e Sile a Londra quando depositeremo gli Atti Ufficiali al Ministero e…”
    “Sempre che tuo padre approvi… Ahahaha… Immagino sia stata un'altra delle sue brillanti idee, no? Non gli è bastata quella sceneggiata con quegli stramaledetti anelli a casa mia! Ora invece di occuparsi di Quidditch e delle sue dannate patacche, si diverte e mettere in imbarazzo la mia famiglia! Salazar..."
    “In imbarazzo ti ci sei messo da solo, Rodolphus: io te l'ho detto che quell’anello non era ciò che pensavi tu. Non fingere che non ti avessi avvertito: non ti saresti mai trovato in quella situazione se mi avessi dato retta. E ricordati: mio padre, con le mie scelte, non c’entra più nulla da un pezzo…”
    “Davvero?”
    “Sì, davvero.”
    “Peggio per te, allora: Bellatrix andrà a colpo sicuro quando scatenerà contro di te la sua vendetta…”
    “Di cosa diavolo stai parlando?”
    “Del mio regalo di nozze per te, Sherton! Apri bene le orecchie perché è davvero prezioso!”

Lo guardai, non aveva un’espressione molto seria e iniziavo a credere che presto avrebbe avuto difficoltà persino a reggersi in piedi, ma, come al solito, Rodolphus era una sorpresa continua.

    “Bellatrix ha preso il marchio, a settembre… Lo sai, no?”
    “Preferirei non parlare di questi argomenti: è pieno di gente, qualcuno ti potrebbe sentire…”
    “… Nelle ultime settimane sei stato molto impegnato con il Puddlemere e con i preparativi del matrimonio, quindi forse non sai quanto abbiano avuto successo le ultime missioni e quanto Bella abbia dimostrato il proprio valore… Milord è rimasto molto impressionato da lei… sono entrati in sintonia perfetta e…”
    “Mi stai forse dicendo che, dopo tutto quello che hai fatto per sposartela, già ti lasci cornificare così da lei? Salazar! Per favore, Rodolphus… non voglio sapere… le vostre squallide perversioni sessuali non m’interessano…”
    “Quando hai finito di fare il buffone, avvertimi, così posso continuare: ho un messaggio molto serio e importante, addirittura vitale, per te… Bella non è persona che perdona, lo sai… E quello che è successo tra voi è impresso a fuoco nella sua anima almeno quanto il marchio che porta sul braccio: Bella ti ritiene responsabile di quanto è accaduto con gli anelli e ha informato Milord dei suoi sospetti!”
    “Sospetti? Quali sospetti? Cosa diavolo s’inventa ora quella pazza?”
    “Ti conviene prenderla sul serio, Sherton: è riuscita a convincere Milord che, durante le tue visite a Lestrange Manor, potresti aver sostituito l’anello vero, custodito da generazioni in casa nostra, con uno falso. La conosci: se hai qualcosa da nascondere, avvelenata com’è, lei lo scoprirà, perciò… ecco la mia proposta: se hai qualcosa da restituirmi, ti do l’opportunità di farlo senza incorrere in spiacevoli conseguenze. Non ti farò domande e dirò a Milord di averlo ritrovato in altro modo… senza coinvolgere te o tuo padre, te lo prometto… A me importa solo una cosa, Sherton: non voglio che sia Bella a consegnare quell’anello a Milord, voglio farlo io, voglio la sua eterna riconoscenza… E magari, perché no, anche quella degli Sherton, per avervi salvato… Fidati di me: non ho alcun interesse a bruciare te e la tua famiglia, al contrario di altri…”
    “Non puoi credere davvero a una cazzata del genere, Lestrange! Sai meglio di me, che quando ti ho fatto visita, ho visto solo il parco e la tua stanza. Quanto al patto che mi hai appena proposto, non credi potrebbe essere considerato tradimento, se si sapesse?”
    “Questa si chiama amicizia, pezzo di un ingrato! Gli amici non fanno solo buffonate, insieme, gli amici danno buoni consigli... ai quali solo gli stolti non prestano ascolto!”
    “D’accordo… scusami… ti ringrazio della tua premura, Rodolphus, ma Salazar mi è testimone, io non sono mai entrato in casa tua per rubarti alcunchè…”

Rodolphus mi fissò a lungo, sorseggiò ancora il suo champagne elfico poi, con una strana luce negli occhi, mi sorrise.

    “Come bugiardo fai pena, Sherton: ormai so riconoscere quando stai mentendo, e ora sei sincero. Ho sempre pensato che Bella avesse preso un granchio, stavolta, ma dovevo averne la certezza…”
    “Mi fa piacere che nonostante la presenza di quella pazza, ti sia rimasto un po’ di buonsenso, Lestrange… Dai, si sta facendo freddo… Rientriamo…”
    “… Questo però significa che, se non sei stato tu, a rubare in casa nostra deve essere stato… Orion Black…”

Fu come ricevere una pugnalata in pieno petto, sentii le gambe cedere. Cercai con tutte le mie forze di reprimere paura e sgomento, di sostenere il suo sguardo con la mia migliore espressione sicura e sprezzante, mentre Rodolphus mi squadrava famelico, pronto a cogliere qualsiasi cenno d’incertezza o paura per saltarmi alla gola.

    “Scherzi, vero? Perché se credi davvero a una cazzata simile, sei proprio fuori di testa, Rodolphus! Forse dovrei avvertire Augustus che non sei nelle condizioni di andare con lui, stasera…”

Feci per andarmene, sconvolto, ma Rodolphus mi afferrò per un braccio e mi trattenne, sbattendomi con malagrazia contro una delle colonne del portico e fissandomi con insistenza: dovevo inventarmi qualcosa di convincente. Subito.

    “Provami che mi sto sbagliando di nuovo, Sherton, e guardami negli occhi mentre mi rispondi…”
    “Provartelo? Salazar! Anche un idiota capirebbe al volo che una storia del genere è a dir poco ridicola!”
    “Dici? Vedi, Sherton, dopo il mio matrimonio, Black ha fatto visita a mio padre per parlargli di una collezione di anelli, e quello stolto del mio vecchio si è fatto giocare… Bella mi ha detto subito che, secondo lei, suo zio stava complottando qualcosa, ma solo a settembre, ho iniziato a capire quali fossero le sue intenzioni…”
    “Rodolphus, ragiona… se tutto il mondo magico chiama quell’uomo “Orion “Cuor di Coniglio” Black” ci sarà un motivo, no? Nessuno l’ha mai visto fare qualcosa di più pericoloso di bere un bicchiere d’acqua, e sempre dopo aver ottenuto dalla moglie il permesso per farlo… è a dir poco ridicolo pensare che possa essere entrato nella tana del lupo cattivo per rubargli l’osso… perché diciamocelo, Rodolphus, tuo padre non ha certo una bella nomea, soprattutto quando si tratta di farla pagare a chi gli fa un torto…”
    “Ho già le prove che Black e tuo padre agiscono insieme, nell’ombra, da anni, per danneggiare la mia famiglia e Abraxas Malfoy… Che cosa ci sarebbe di diverso, stavolta? Te lo dico io: niente. A parte il fatto che hanno mirato troppo in alto, e rischiano di farsi male, cadendo… molto, molto male…”

Sostenni il suo sguardo con difficoltà, c’era qualcosa di feroce e selvaggio nei suoi occhi, c’era una sete antica, di sangue e vendetta, di conti da saldare, di affronti da punire. Mi divincolai e diedi fondo a tutto il mio sangue freddo, per cercare di essere convincente e sicuro nei gesti come nelle parole.
   
    “Queste sono accuse gravi, Rodolphus… gravi quanto assurde: solo un pazzo crederebbe davvero che Orion Black si sia abbassato a rubare in casa vostra… Che cosa poi? Uno stupido anello di ferro?”
    “È questo il punto, Sherton, non ha rubato, ha… sostituito e credo anche di sapere come abbia fatto: ha chiesto a suo figlio di fare lo scambio, l’ha portato con sé apposta. Sai com’è: se fossero stati beccati, sarebbe stata la marachella di un ragazzino. Un’impresa degna di un coniglio, non trovi? Nascondersi dietro al proprio figlio!”
    “Ridicolo, assolutamente ridicolo, non meriti nemmeno che io perda tempo ad ascoltarti! Quel ragazzino ha appena undici anni e non sa nemmeno stare su un manico di scopa! Come poteva farla sotto il naso a tuo padre?E non scordarti il fatto più importante… la madre di quel marmocchio è Walburga Black, figlia di Pollux Black: credo che tu sappia meglio di me di chi sto parlando! E sai meglio di me come ragiona quella gente: non avrebbero mai lasciato che il loro prezioso erede, l’erede dei “Toujours Pur”, fosse coinvolto in una follia simile!”

Rodolphus mi guardò turbato, forse ero riuscito a instillargli il dubbio che il suo grande ragionamento facesse acqua da tutte le parti. In realtà, l’idea di Orion di coinvolgere Sirius era stata al tempo stesso folle e geniale, perché il nome e il destino di quel ragazzo lo elevavano sopra qualsiasi sospetto. Io stesso, dopo averlo conosciuto, quell’estate, avevo condiviso l’ottima opinione che mio padre aveva di lui: pensavo che sarebbe stato utile alla nostra causa, peccato che la follia di quel vecchio cappello pulcioso l’avesse dirottato a Grifondoro, mettendo fine a tutti i nostri progetti… Sì, era un vero peccato…
 
    “D’accordo… Ammettiamo pure che tu abbia ragione su Walburga… Ammettiamo che il moccioso non sia coinvolto… Potrei sbagliarmi su alcuni dettagli, Sherton, lo ammetto, ma… la sostanza non cambia, sono sicuro di quello che dico: quei due, Black e tuo padre, hanno agito insieme per fregarmi! Ci metto la mano sul fuoco!”
    “E allora, bruciati, se ti fa piacere! Quando però ci sbatterai di nuovo il muso, e ce lo sbatterai, credimi, non venire a lamentarti con me… Sai qual è la verità, Lestrange? Questa faccenda sta mandando fuori di testa tutti, tuo padre, tu, lo stesso Milord. Vi state affannando dietro al mito di un anello che, se mai è esistito, si è perso ormai nella notte dei tempi, quando invece dovremmo affrontare subito, seriamente, la situazione indegna che persiste al Ministero… Salazar! Quanto permetteremo ancora a Longbottom di restare a capo del governo? Che cosa stiamo facendo per trovare un rimedio? Spiegamelo! Invece di perdere tempo con le favole, dovremmo cacciare lui e i suoi amici Babbanofili per impedirgli di spadroneggiare ovunque! Spazziamoli via! Liberiamoci di questa feccia! Facciamo vedere la nostra forza, con i fatti, non con le parole, con le azioni, non con i simboli… Mostriamo di cosa siamo capaci: non ci servono stupidi anelli, per far vedere a tutti da che parte sta la verità!”

Rodolphus mi fissò, serio, non sapevo se l’avessi almeno distratto, era importante bloccare il fiume dei suoi ragionamenti: si stava avvicinando pericolosamente alla verità ed io non sarei stato capace di mentirgli se mi avesse fatto una domanda diretta fissandomi negli occhi.

    “Devo pensare che hai intenzione di lasciare il Quidditch per darti seriamente alla politica? O vuoi finalmente prendere il posto di tuo padre alla guida della Confraternita? Lo sai, questo sarebbe molto gradito a Milord…”
    “Salazar, Rodolphus… Non è più tempo di trastullarsi nei palazzi del potere… è tempo di prenderlo, in un modo o nell’altro, questo dannato potere!”
    “Che belle parole… se fossi coerente, però, ora dovresti tacere e agire! E prendere il Marchio e con esso le tue responsabilità! Non trovi?”
    “Lo penso anch’io… Vai in missione, stanotte, no? Vengo con te! È tempo di finirla con le chiacchiere.”
    “No, non stanotte… ti conosco, il tuo stomaco non sopporterebbe certe emozioni, ahahah…”
    “Se non sbaglio l’appuntamento è all’1.30, da Burgin… Ci vediamo là! Ora, però sparisci, Lestrange, lasciami in pace: ho anch’io il diritto di godermi queste mie ultime ore di festa e libertà…”
    “Mirzam… dico davvero, non è il caso… Mirzam…”

Non gli risposi, gli diedi le spalle e ritornai nella sala, fingendomi tranquillo e solenne, in realtà sentivo le gambe tremare e il cuore pulsare a mille, ero sul punto di svenire.

    Salazar…

Milord era a un passo dalla verità, mentre mio padre ed io contavamo di avere tempo, molto tempo, anni addirittura, da sfruttare per scoprire i segreti di quel maledetto anello e poterli in qualche modo utilizzare per salvarci tutti: per questo non l’avevamo distrutto, ma solo nascosto. A Hogwarts. A Hogwarts dove c’erano Rabastan, Malfoy e McNair, e chissà quanti altri simpatizzanti… A Hogwarts dove qualcuno aveva già aggredito Sirius e avrebbe potuto colpire mia sorella da un momento all’altro… Dovevo fare qualcosa. E dovevo farla in fretta. Rodolphus mi rincorse, per trattenermi, io riuscii a distanziarlo e m’immersi tra gli altri invitati: volevo stordirmi per non pensare a quello che sarebbe accaduto quella notte e, al tempo stesso, volevo che il mio cervello restasse lucido e ragionasse più in fretta, sempre più in fretta, per trovare una soluzione. Jarvis mi prese in consegna e m’impose ore di brindisi e scherzi vari fino alla fine dei festeggiamenti, io feci finta di pensare solo a divertirmi, in realtà avevo la mente lontana. E quando, in mezzo a quell’atmosfera euforica, senza che nessun altro se ne accorgesse, Rodolphus e Augustus se ne andarono via di soppiatto, sentii il sangue gelarsi nelle mie vene. Tremai… L’abisso infernale era lì davanti a me, buio e tremendo: se avessero trovato quel dannato anello, se avessero trovato le prove dei nostri inganni, la vendetta sarebbe stata orribile, il mio mondo sarebbe stato spazzato via, sarebbe stato un bagno di sangue. Sarei morto non solo io, ma tutti coloro che avevo nel cuore.

    A meno che…

Una piccola, assurda idea si fece largo nella mia mente. Forse c’era ancora un modo, un modo folle e disperato… Se ci fossi riuscito, avrei confuso Rodolphus e gli altri, avrei spazzato via le loro convinzioni, guadagnando tempo e allontanando da mio padre e da Orion tutti i sospetti. Se ci fossi riuscito, Habarcat sarebbe rimasta al sicuro per anni e, alla fine, qualcuno si sarebbe salvato. Era rischioso, molto rischioso, ma valeva la pena tentare anche solo per questo… Per una speranza… Per una speranza, per l’ultima speranza, decisi di chiudere gli occhi. E mi gettai nell’abisso.

*

Mirzam Sherton
Nocturne Alley, Londra - dom. 19 dicembre 1971

L’orologio della torre segnò le 2.30 del mattino: nel silenzio ovattato del lungofiume, Rodolphus mi precedeva, taciturno, attraverso i vicoli esterni di Nocturne Alley, un gigantesco sacco pieno di anticaglia ridotto magicamente a un piccolo sacchetto che portava legato alla cintola. Augustus e Pucey chiudevano la fila, parlottando e ridendo sommessamente, forse ricordando e celebrando i momenti più entusiasmanti del massacro sfociato in un immenso falò, McNair era diversi passi avanti a noi, in avanscoperta. All’improvviso la brezza leggera cambiò direzione, portandomi al naso l’odore acre di bruciato che impregnava le vesti di Rodolphus: mi si chiuse lo stomaco, gli occhi mi si riempirono di lacrime, sentivo di essere prossimo a vomitare. Di nuovo. Rod rallentò il passo e, vedendo alla luce della luna il mio colorito sempre più terreo, sotto la peluria folta della mia barba lunga, ghignò appena.

    “Chi ama i Babbani, non può morire come un Mago… È meglio se ci fai l’abitudine, e in fretta, altrimenti questo Marchio te lo puoi scordare!”

Mi aveva parlato così, a casa del vecchio, davanti a tutti, poi mi aveva afferrato la faccia e mi aveva costretto a guardare, una dopo l’altra, tutte le pugnalate che Rookwood aveva dato ai Sullivan, mettendo fine alla loro vita e alla nostra assurda missione. Avevo scoperto quanto ci si mette a morire a quel modo: non l’avrei dimenticato più, mai più… Oltre all’orrore, quella notte mi stava riempiendo anche d’inquietudine. Quando vidi Rookwood asciugare il pugnale su un lembo di tessuto ancora stranamente pulito della camicia da notte della donna e poi rimetterselo in tasca, avevo avuto modo di riconoscere l’Athame d’argento che avevo comprato a Rodolphus per scommessa: ero convinto che l’avrebbe tenuta per sé o l’avrebbe donata a sua moglie o a suo padre… o chissà, a Milord. Quel pugnale, però, non era destinato a restare chiuso in una casa, al sicuro, facendosi ammirare per la propria bellezza: quel pugnale era stato comprato per uccidere. E se fosse caduto nelle mani di un Auror, Burgin avrebbe testimoniato di averlo venduto a me. Mi sentii afferrare da una paura irrazionale: mi chiesi se ci fosse un piano dietro a tutti quegli eventi, o fosse solo un caso.

    “Non so se abbiamo trovato quello che cerca Milord ma, non so voi, io non mi sento soddisfatto… Ho bisogno di liberare un po’ di energie represse…”
    “Ti ci vorrebbe un bel duello o una sana scopata, Rook… Quella che servirebbe pure al nostro sposino, a dire il vero… Salazar! Ci pensate che questa potrebbe essere per lui l’ultima occasione per avere tra le mani una vera femmina? Se avessi chiesto a me di farti da testimone, altro che quella festicciola noiosa a Inverness: sarebbe stata una notte in-di-men-ti-ca-bi-le… ahahah…”

Lo guardai di traverso, lo odiavo quando attirava su di me l’attenzione degli altri, soprattutto con quegli argomenti: Rookwood e Pucey risero di me, McNair fece dei gesti inequivocabili e questo aumentò ancora di più il disprezzo che già provavo per quell’imbecille.

    “La notte è ancora giovane, ragazzi… Ed io conosco un locale qui vicino… Ti ricordi un paio di mesi fa, Rodolphus? Credo sia perfetto per le esigenze di ognuno di noi…”
    “Hai ragione, Rook… è il posto perfetto… anche per la nostra timida sposina… ahahah…”

Mi divincolai dalla presa gioviale con cui Rodolphus mi aveva cinto le spalle e lo fulminai pieno d’odio, sotto i sorrisetti sordidi di quella banda di disgraziati.

    “Andate al diavolo, tutti quanti, io torno a casa!”

Me li lasciai alle spalle, seguito dalle loro risate sguaiate: mi chiedevo perché non mi fossi smaterializzato subito, appena Augustus aveva evocato il marchio sulla casa dei Sullivan. In realtà tutto quel sangue e quell’orrore mi avevano ridotto a un automa, avevo finito col seguirli, perso in un mondo angoscioso, tutto mio. Feci appena pochi passi. Mi bloccai a metà del vicolo. Mi addossai alla parete. Non eravamo soli… No, non eravamo più soli… Avevo affinato l’udito nelle lunghe giornate passate con mio padre nella foresta per prepararmi alle Rune, per questo avevo sentito chiaramente un fruscio lasciato da qualcosa di ben più pesante di un cane di grossa taglia: erano almeno due, nascosti nel buio, a qualche metro di distanza, davanti a noi. Mi guardai attorno, forse si celavano dietro la palazzina che faceva angolo e chiudeva parzialmente il passaggio: un punto perfetto per tendere un agguato. E se ci avevano sentito arrivare… Salazar! Sapevano anche i nostri nomi…

    “INDIETRO, STATE GIÙ! IMBOSCATA!”
    “CI ATTACCANO!”

Rodolphus stava ancora ridendo, io non finii nemmeno di dare l’allarme e mettermi in salvo dietro un muretto, che su di noi si scatenò una pioggia di schiantesimi: vidi McNair crollare a terra, non aveva avuto la prontezza di nascondersi, Rodolphus e Augustus, invece, erano già pronti a replicare all’attacco, restando rintanati dietro lo spigolo del palazzo di fianco a me, da cui colpivano a loro volta le figure nascoste nel buio, e non certo solo per stordirle, Pucey, infine, dall’altro lato rispetto alla mia postazione, gettava qua e là degli incantesimi per distrarre gli avversari e verificare se ce ne fossero altri nascosti dietro di noi. Io, protetto dagli incantesimi dei miei compagni, scivolai fino a raggiungere Walden, verificai che fosse già mezzo cosciente e lo trascinai fino a un punto più riparato.

    “Se hanno già gettato l’antismaterializzazione… non potremo più andarcene!”

Le parole di Rookwood turbarono Walden, lo guardai, era terrorizzato, io mi finsi ottimista e coraggioso, in realtà maledicevo me stesso per essermi di nuovo messo in un casino simile: doveva essere una serata di festa, era diventata la solita notte del …

    “Beh, peggio per loro, se l’hanno fatto! Se questi idioti non mi lasciano divertire come voglio… mi divertirò con loro… e state certi che se ne pentiranno amaramente!”

Rodolphus guardò Augustus che gli rispose con un cenno di assenso, poi andarono all’attacco, Pucey, seguendo uno schema ben collaudato in occasioni simili, aveva fatto da esca, portando allo scoperto i due Aurors, che furono rapidamente colpiti, senza possibilità di scampo. Io rimasi indietro, cercando di medicare alla meglio una ferita che si era aperta sulla gamba di McNair.

    “Ve l’avevo detto che se ne sarebbero pentiti!”

Rodolphus tornò indietro, sorridendo, famelico, Augustus alzò la bacchetta su se stesso e fece apparire sul suo volto la maschera che ne avrebbe celato l’identità.

    “Meglio essere prudenti da qui in avanti: gli Aurors ormai avranno verificato la casa dei Sullivan, e poiché questi due non potranno più fare rapporto, qui tra poco sarà pieno di squadre… Ricordate, non chiamiamoci mai per nome!”
    “Ha ragione ed è meglio tornare indietro, passando per quei vicoli laggiù: la cupola antismaterializzazione ha un raggio di circa 1 km, procedendo in questa direzione dovremmo riuscire a smaterializzarci all’altezza del negozio dello Speziale…”
    “Forse faremmo bene a dividerci…”
    “No, lui è ferito, da solo non ce la farebbe e quella ferita lascia pochi dubbi su come se la sia procurata!”
    “Allora occorre chiamare rinforzi… Qui tra poco sarà un inferno…”

Rodolphus annuì, prese la bacchetta e la posò sull’avambraccio, io guardai quel marchio osceno che prendeva vita e mi sentii ribollire le viscere. McNair si appoggiò a me, Rodolphus e Augustus si erano spostati avanti, Pucey chiudeva la fila: cercammo di tornare indietro inoltrandoci nel buio dei vicoli, svoltammo più e più volte, fino a immergerci nella zona più sordida e mal frequentata. Arrivammo in una piazzetta che parve materializzarsi magicamente davanti a noi, su tutto campeggiava l’ingresso di una bettola che faceva sembrare la “Testa di Porco” un locale per educande: evidentemente il piano di Rodolphus era quello di mischiarci agli avventori di qualche locale malfamato, io invece desideravo soltanto ritornare a casa, l’idea di essere catturato in un posto simile il giorno prima delle nozze, mi terrorizzava ancor più di finire sotto processo, implicato in un duplice omicidio. Intorno a noi, improvvisamente, i vicoli si animarono di voci concitate e di passi furiosi: eravamo accerchiati ed io, immerso in quella notte gelida, tra strade che non conoscevo, ero confuso e disorientato.

    “MUOVITI, ENTRA! STANNO ARRIVANDO!”

Mentre nella piazzetta si materializzarono tre Aurors, la luna illuminava la neve e questa rifletteva il suo chiarore sulle pareti e i varchi, privandoci di qualsiasi ombra in cui nasconderci; oltre al vicolo in cui ci trovavamo e la porta della bettola, non c’erano altre possibili vie di fuga, gli altri tre varchi e le scalinate che immettevano in quella piazzetta stretta erano illuminati dalla materializzazione di un numero considerevole di Aurors assatanati.

    “SVELTO!”

Appena ci chiudemmo la porta del locale alle spalle, il legno fu squassato da una pioggia d’incantesimi.

    “EXPELLIARMUS”
    “STUPEFICIUM”
    “PROTEGO”

Una volta entrati, rimasi interdetto per l’atmosfera pesante di fumi venefici che si respirava lì dentro: gli avventori erano pochi, annebbiati da fumo e alcool, nemmeno il padrone reagì alla nostra irruzione, noi ci distribuimmo rapidi nella sala angusta, in prossimità della scala e iniziammo a colpire chiunque entrasse dopo di noi da quel lurido ingresso. Coperto dalla confusione dei colpi incrociati, Rodolphus salì le scale, fino ai piani superiori, per assicurarsi che altri Aurors non mi materializzassero direttamente nell’edificio, dopodiché, appena verificò che la situazione era sotto controllo, mi fece cenno di seguirlo con Walden, mentre Pucey e Rookwood difendevano la mia ritirata attaccando gli avversari con la ferocia delle tigri. McNair ed io salimmo di corsa le scale, nonostante il dolore che provava, Rod ci aspettava nel corridoio oscuro e ci invitò a entrare in una stanza che sembrava una topaia, parlandoci sommesso.

    “Sia chiaro che questa storia deve restare tra noi tre, non deve arrivare alle orecchie di Bellatrix! Siamo intesi? Se vi calate da questa finestra, qui sotto, a due metri, troverete una balconata… Tu, resta nascosto lì, nell’ombra: tra poco i nostri arriveranno a prenderti… Mirzam, tu, aiutalo a nascondersi, poi corri attraverso i tetti e scendi dai muraglioni fino agli argini del fiume… Ci vediamo domattina da Madame McClan… Non guardatevi le spalle, ci penso io a proteggervi da qui… E sbrigatevi… Tu… se qualcosa andasse storto… mi raccomando, in bocca al lupo con Sile…”
    “Rodolphus!”

Non mi diede tempo di replicare, m’impose di scendere, mentre la porta che ci nascondeva esplodeva e la stanza buia si riempiva di getti di luce colorata: lo sentii ruggire, poi due lampi verdi presero il posto degli schiantesimi. Eravamo preoccupati, ma ormai non potevamo più controllare se si fosse messo in salvo o avesse bisogno del nostro aiuto.

    “Guarda.”

Come toccammo la fredda superficie del balcone, Walden, sorridendo, mi fece cenno di guardare il cielo, solcato da strisce oscure e palpabili: stavano arrivando i nostri; alzai gli occhi verso la finestra da cui c’eravamo calati, Rodolphus, bacchetta in pugno, guardava verso di noi e mi faceva cenno di continuare.

    “Lasciami qui… copriti la faccia con questo passamontagna e scappa!”

Annuii poi saltai il parapetto della balconata, piombai sul tetto appena sotto e iniziai a correre sulle tegole che schizzavano via nel vuoto al mio passaggio.

    “Là!”

Sentii delle urla dietro di me, mi voltai appena: due uomini, salendo dal basso, superarono la grondaia e piombarono sul cornicione poi iniziarono a inseguirmi, io presi velocità, scivolai, mi rialzai, estrassi la bacchetta e lanciai un paio di schiantesimi alle mie spalle, senza mirare e senza assicurarmi di aver fatto centro. Balzai ancora di sotto, piombando su un tetto appena più basso, ripresi a correre, mentre gli incantesimi dei miei inseguitori colpivano le tegole accanto a me. Erano veloci, molto, sentivo i loro passi sempre più vicini, perché ormai ero sceso troppo sotto la linea di tiro di Rodolphus e non correvano più il rischio di essere colpiti alle spalle: dovevo riuscire a difendermi da me. Un colpo mi centrò a una gamba, stramazzai sulle tegole, li sentii avvicinarsi ancora, mi rotolai piano, fingendo di essere ferito, nel movimento mi sfilai lentamente il mantello da dosso e appena furono abbastanza vicini, lo lancia per aria e lo animai con un incantesimo:

    “ENGORGIO! TENTACULA!”
    “Ma che diavolo…”

Il mantello era diventato una cappa pesante, i cui lembi si allungarono formando una rete inestricabile di tentacoli indomabili, uno dei due uomini riuscì a evitarlo, l’altro, invece, rimase impigliato sotto e sapevo che ce ne avrebbe messo di tempo a liberarsi: sorrisi tra me, finalmente potevo giocarmi una partita alla pari, e il limitare della cupola invisibile non era più molto distante.

    “Tutto bene, Potter?”
    “Tranquillo, Podmore! Va, inseguilo! Io mi libero e arrivo!”

Avevo guadagnato del vantaggio, scesi con un altro paio di balzi, raggiunsi il livello dei muraglioni e iniziai a correre a perdifiato, controllando di tanto in tanto la situazione alle mie spalle.

    “STUPEFICIUM!”
    “PROTEGO”
    “AHHHH!”

Troppo tardi. Il colpo mi centrò, rotolai e crollai sul muretto.

    “EXPELLIARMUS!”

Vidi la mia bacchetta volare tra le mani del mio inseguitore.

    “Sei sotto la custodia del Ministero della Magia, adesso, incriminato di duplice omicidio!”

Respiravo veloce, non avevo più fiato, mentre l’uomo incombeva su di me, l’affanno e il sudore non mi permettevano nemmeno di distinguerne chiaramente i suoi lineamenti: probabilmente credeva di avermi colpito alle spalle e che fossi ferito o svenuto, in realtà aspettavo solo di recuperare un minimo di forze e di mettere a tacere la paura che mi urlava nelle orecchie che stavolta era tutto finito, a nemmeno 100 metri dal limite che mi avrebbe salvato.

    “E ora vediamo chi sei…”

Si chinò per togliermi il passamontagna che mi celava il volto, restando interdetto nel non vedere la maschera tipica dei Mangiamorte: la sua esitazione mi fu sufficiente, io reagii serrando le mani sui suoi polsi, poi iniziammo a lottare, rotolandoci sul muraglione. Entrambi sapevamo che sarebbe stato sufficiente un errore e saremmo morti entrambi, schiantandoci sulla pietra sottostante o affogandoci nel fiume. La sua bacchetta nella lotta cadde, sentimmo entrambi il suono del legno che si tuffava nelle acque gelide del Tamigi, io sorrisi, perché ora eravamo finalmente in parità: lo calciai, dove sapevo avrei fatto male, togliendomelo infine di dosso.

    “Bastar…”

Non riuscì nemmeno a fiatare, dal dolore, io approfittai, trovai la forza di sollevarmi, lui cercò di arpionarmi un piede per farmi cadere di nuovo, allora lo caricai, lo colpii con un paio di pugni, lasciandolo di nuovo interdetto: da un DeathEater, non si aspettava una reazione così “babbana!” Rovinò a terra, senza fiato, io mi chinai a rovistare nel suo mantello per recuperare la mia bacchetta, poi mi misi a correre: dovevo sbrigarmi perché mancava davvero pochissimo ormai alla mia salvezza, ma di sicuro il suo compagno a quest’ora era sulle nostre tracce. Podmore mi sgambettò, io finii di nuovo steso sul muraglione, lo sentii afferrarmi una gamba e tentare di girarmela per lesionarmi i legamenti, io ruggii e mi voltai, lui rapido riuscì a sfilarmi via il passamontagna, mettendo a nudo, sotto la luce della luna, la mia faccia.

    “Io ti conosco, tu sei… tu sei… il Cercatore del…”

Non lo feci finire, reagii con la forza della disperazione, gli saltai addosso, ci rotolammo, lui mi fu sopra e cercò di soffocarmi premendo le sue mani attorno al mio collo, io riprovai a calciarlo come avevo fatto prima, ma lui si scansò per evitare il colpo, barcollò, perse l’equilibrio e volò di sotto. Mi sporsi bacchetta in pugno, urlai.

    “ACCIO HOMINEM! PETRA EVANESCA!”

Ma fu tutto inutile. Si era schiantato sulla pietra mista a ghiaccio sottostante, la macchia del suo sangue si allargava già, rendendo porpora la neve appena illuminata dalla luna. Sentii i passi dell’altro Auror avvicinarsi, veloce, con la bacchetta, pronunciai un paio d’incantesimi che mi lenissero il dolore alla gamba, poi scivolai tra le ombre dei muraglioni, dovevo riuscire a spostarmi fin dove fosse possibile smaterializzarmi, altrimenti era davvero finita, perché sulla neve sotto di me, ora c’era il frutto del mio primo vero crimine. Avevo appena commesso, sì, proprio io, un omicidio. Serrai la mano sulla bacchetta, la brezza leggera mi accarezzava il viso, mentre le ombre celavano i miei passi, sentii la corsa dell’Auror arrestarsi, poi le sue urla, cariche di disperazione, il suo pianto, la sua rabbia.

    “ESCI FUORI, MALEDETTO BASTARDO!”

Deglutii. Continuai a muovermi, lentamente, così che non riconoscesse il mio movimento nel buio, ma mi vide ugualmente.

    “STUPEFICIUM!”

Mi voltai per proteggermi, sorridente, vedendo per pochi istanti la mia figura specchiarsi come un lampo negli occhiali dell’uomo, poi il turbinio della smaterializzazione mi portò, finalmente, in salvo.

***

Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - dom. 19 dicembre 1971

Dovevo smetterla di pensarci, era evidente che stavo solo perdendo tempo, ragionando su quelle assurdità. Eppure… come facevo a smettere di pensare, se lui era lì, poco lontano da me, seduto a colazione con noi, il solito Daily Prophet eretto a mò di trincea dietro cui barricarsi per non dover affrontare il resto del mondo? Era sempre così, ostinatamente, arcignamente, uguale a se stesso… Come faceva a fingere? No, non era possibile, non era assolutamente possibile. Mi stavo sbagliando. Non avevo più dormito, non più, per tutta la notte, alla ricerca di una spiegazione, di una qualsiasi spiegazione che mi facesse capire, ma non c’ero riuscito. Alla fine mi ero convinto che fosse stato un sogno, sì, un sogno o, meglio ancora, la febbre, perché di certo avevo preso freddo lì, affacciato alla finestra, in piena notte e… E il delirio aveva generato quelle immagini senza senso. Nessun’altra spiegazione era logica e accettabile. Eppure, tra i capelli, sentivo ancora il calore di quelle dita: com’era possibile? Di certo non era un ricordo, perché erano state rare le volte in cui avevo sentito il calore della pelle di mio padre: anche quando mi schiaffeggiava, infatti, lui era sempre gelido come una mattina d’inverno. Solo quella lontana estate, a Zennor, lui… No… dovevo smettere di pensarci, doveva essere stata la febbre… solo la febbre… non c’era altra spiegazione. Bastava osservarlo: ero un pazzo a pensare che uno come lui andasse, di notte, ad assicurarsi come stessero i suoi figli, non ci aveva nemmeno guardato quando Regulus ed io, muti, eravamo entrati nella stanza e, una volta seduti alla sua tavola, ci aveva solo grugnito qualcosa che poteva suonare come “Buongiorno” o chissà che cos’altro. Da sempre, quello che trovava scritto sul Daily era più importante di noi, di tutti noi. E lo sapevo da tanto, troppo tempo.

    “STAI COMPOSTO! SISTEMATI QUELLA CRAVATTA! Sei in una casa perbene, Salazar, non in mezzo a quella manica di zotici! Non te lo dimenticare!”

Trattenni a stento uno sbuffo. Mia madre invece era sempre lei, non c’era possibilità di restare sorpresi dai suoi comportamenti e dalle sue parole: per tutta la vita mi aveva sempre e solo ripreso e umiliato, e ora aveva una ragione in più, anzi… non una ragione qualsiasi ma quella più importante e determinante di tutte … In effetti, una differenza c’era: prima voleva che io mi presentassi al meglio di fronte a tutti, come si conviene a un vero Black, perché potevo contribuire con la mia vita all’orgoglio e all’onore della famiglia, ma ora… Ora il suo unico interesse era che con il mio esempio indegno non danneggiassi anche il suo “principino”, l’ultima speranza rimasta alla nostra nobile e illustre Casata. Di cui, se prima non m’importava molto, ormai, giorno dopo giorno, non m’importava più, affatto. Perché doveva importarmene, in fondo? Per chi? Forse per lui, sì… per mio fratello.
Regulus era seduto davanti a me, lo vedevo lanciarmi spesso occhiate eloquenti e furtive, appena la mamma non ci guardava, ma distoglieva rapido lo sguardo quando lei sembrava accorgersi di quel nostro tacito discorso. Chissà cosa aveva dovuto sopportare, tutto solo, in quella casa, per tutti quei mesi… Come se ci fossimo dati un appuntamento segreto, quella mattina, era uscito dalla sua stanza proprio quando io uscivo dalla mia, mi aveva dato il buongiorno, a voce bassa e cospiratoria, la stessa che avevo io quando lo coinvolgevo in qualcuna delle mie pazzie nei corridoi oscuri di Grimmauld Place, poi scendendo le scale insieme, mi aveva bisbigliato che voleva sapere tutto di Hogwarts, alla prima occasione. A pochi passi dal pianerottolo della sala da pranzo, appena avevo udito la voce di nostra madre che urlava contro i domestici, avevo però capito che era meglio, per entrambi, fingere che non fossimo scesi insieme, quindi rallentai il passo, lasciando che Regulus mi precedesse nella stanza. La sua occhiata, triste, al tavolo, mentre mia madre mi rimproverava di essere il “solito poltrone” e di “non essere responsabile come mio fratello”, mi aveva fatto comprendere che la mia famiglia ormai si riduceva a lui. Ed ora, eravamo tutti e quattro lì, attorno al tavolo: persino un giardino di pietra sembrava più vivo di noi. Parlare, da sempre, era assolutamente fuori luogo: la nostra tavola non era mai stata chiassosa, ma quel giorno era, appunto, più silenziosa di un cimitero abbandonato… e altrettanto terrorizzante… L’unica cosa che interrompeva quel silenzio erano i secchi rimproveri di mia madre contro qualsiasi cosa dimostrasse di essere ancora in vita. Gli elfi, terrorizzati, cercavano di sfuggire alla sua ira, rifugiandosi in cucina, ma non tutti riuscivano a raggiungere il riparo senza prima subire almeno una fattura dolorosa da quella pazza scatenata. A un certo punto, Kreacher entrò di corsa con una lettera per mio padre: nella totale indifferenza della mamma, lui la lesse, imperturbabile, poi senza una parola e senza cambiare di una virgola la sua espressione incurante, la bruciò con la bacchetta.

    “Passerò la giornata a Diagon Alley, mi spiace lasciarti sola, Walburga, ma… non aspettarci per pranzo…”
    “Che cosa? Regulus resta con me! Dobbiamo andare da…”
    “Non oggi… Oggi vengono tutti e due con me… Kreacher, muoviti, portaci i mantelli, i ragazzi ed io usciamo…”
    “Orion! Che cosa pensi di…”
    “Ho fretta Walburga… molta fretta… ci vediamo stasera!”

Mio padre lasciò il giornale sul tavolo e si alzò, allontanandosi rapidamente verso l’ingresso, rivolse un’occhiata frettolosa a mio fratello e Regulus non se lo fece ripetere due volte, si alzò veloce, lasciando sulla tavola oltre metà della colazione.

    “Sirius, muoviti o ti lascio a casa!”

Non sarei rimasto in quella casa opprimente nemmeno se mi avessero legato come un cane alla catena, figuriamoci poi da solo con mia madre! Mi alzai di scatto, inghiottendo in un sol boccone la fetta di torta con cui mi stavo gingillando da qualche minuto guadagnandomi un’altra occhiataccia da mia madre: morivo dalla curiosità di capire che cosa stesse accadendo, sembrava che ce l’avesse con papà ancor più che con me, inoltre mi chiedevo di chi fosse la lettera, cosa ci fosse scritto, ma ormai non ce n’era più traccia.

    “Sirius! Non ho tutto il giorno da sprecare dietro a te!”

La voce esasperata di mio padre mi raggiunse dal corridoio, mentre io mi attardavo a sbirciare con la coda dell’occhio il titolo dell’articolo che aveva tanto interessato mio padre, prima che mia madre lo artigliasse e m’impedisse di leggere il seguito.

Daily Prophet
- Edizione del 19 dicembre 1971 -

NOTTE DI TERRORE A NOCTURNE ALLEY

GLI AURORS ATTACCATI DAGLI UOMINI DI
“COLUI CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO”

Mentre finalmente mi decidevo a muovermi, mia madre, a tradimento, mi arpionò il braccio, fissandomi crudele, strinse sempre di più, quasi a farmi male, per ottenere tutta la mia attenzione.

    “Quello che ti ho detto ieri vale anche lontano da questa casa, ricordatelo! Anche quando non sono accanto a te, per controllarti! Oggi ti ho permesso di mangiare alla mia tavola, ma sappi che per me non è cambiato niente… Non scordarlo mai!”
    “Lo so.”

L’avevo fissata negli occhi, cosa che non facevo mai, mentre, laconico, pronunciavo le prime e uniche parole che le avevo rivolto da quando mi aveva aggredito, la sera prima; con un gesto brusco mi divincolai dalla sua stretta: avevo sentito il mio petto gonfiarsi, pieno di odio e risentimento, e sapevo che in quelle due misere parole, in quella mia voce stranamente dura e sicura, trasparivano tutti i miei pensieri. Mia madre non se lo aspettava, credeva sarei rimasto in silenzio, ancora, a subire come avevo sempre fatto ma, invece di infuriarsi, sembrava quasi compiaciuta… La guardai meglio: sì, era proprio compiaciuta, e questo perché capiva che ormai provavo nei suoi confronti lo stesso disprezzo che lei provava per me. Ero a dir poco orripilato: tremai appena e abbassai lo sguardo, allontanandomi poi rapidamente. Quale orrendo veleno scorreva dunque nel nostro sangue puro? Quale oscena pazzia? Era per questo, solo per questo, per l’odio e il disprezzo, che riusciva a riconoscere, in me, una stilla del suo sangue? Era questo il vero significato dell’essere suo figlio? Come ogni bambino, avevo sempre ricercato in lei, in mia madre, una luce amorevole, trovando invece un animo gelido che m’incuteva paura e rispetto. Come ogni bambino, avevo implorato con il mio amore il suo. Ma lei sembrava che nemmeno mi vedesse. Al contrario mi vedeva ora, mi sentiva ora, ora che era riuscita a spegnere qualsiasi sentimento d’amore in me, ora che provavo solo rabbia verso di lei. E ne era felice.
Strinsi i pugni fino ad affondare le unghie nella carne… No, non era giusto che avessi sofferto tanto per lei. Non avrei più sofferto a causa sua, mai più, me l’ero promesso il giorno prima, non avrei versato mai più nemmeno una lacrima a causa sua. In quello, sì, in quello, sarei stato un vero Black, perché non avrei più permesso che il suo disprezzo lacerasse la mia anima. Avevo fatto la mia scelta: io non sarei più stato suo figlio. E da quel momento avrei fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per non esserlo più.

    Mai più.

*

Mio padre era un patito della Metropolvere, come mezzo di trasporto: era uno dei pochi Maghi che avevo sempre visto uscire dal caminetto perfettamente in ordine “Come si conviene a un Black!” puntualizzava lui, mentre io lo osservavo a bocca aperta, ammirato, da bambino. Al contrario, io non ero ancora mai riuscito a raggiungere i suoi livelli di perfezione e questo costituiva il primo motivo di rimprovero ogni volta che uscivamo insieme, perciò, quando mio padre invitava me e Regulus, più piccolo, vero, ma da quel punto di vista già più abile di me, mi prendeva un violento attacco di mal di pancia. Quel giorno però, anche farmi sgridare per la cravatta leggermente storta o per un po’ di pulviscolo su un polsino, mi sembrava un prezzo contenuto da pagare, se mi consentiva di sfuggire a mia madre. Notai subito, però, mentre, intabarrati per la partenza, porgeva a Regulus la vaschetta della polvere verdastra, che era più distratto del solito: non voleva darlo a vedere, ma sembrava che quella misteriosa lettera ricevuta poco prima l’avesse colpito. E di certo non positivamente. Regulus pronunciò il nome del negozio di Madame McClan e sparì tra le fiamme verdi, poi toccava a me: mio padre ed io eravamo stranamente da soli, la mamma era andata a sfogare la sua rabbia contro gli Elfi, ci guardammo, in evidente quanto strano imbarazzo. Sospirò poi mi guardò irrequieto: sembrava che dovesse fare qualcosa di cui non aveva alcuna voglia, che dovesse prendere una decisione difficile che riguardava me, io lo fissai, a mia volta, carico di domande. Sospirò ancora, poi con un’espressione dolente, alzò la mano su di me e per un attimo temetti uno schiaffo immotivato, invece affondò le dita tra i miei capelli per sistemarmeli, così che mi si vedesse meglio la mia faccia.

    “Sirius…”

Lo sguardo ora era diventato davvero cupo, su un volto ancora più pallido del solito: mi chiesi se per caso non si sentisse male. Forse percepì la mia preoccupazione, perché subito parve riprendere il controllo.

    “Hai ancora l’anello che ti ha dato Alshain, vero?”

Mi colse alla sprovvista, io mi aspettavo tutt’altro genere di argomento, ma annuii, mi sfilai entusiasta il guanto sinistro e gli mostrai la mano, dove campeggiava la piccola fedina d’argento di cui andavo tanto orgoglioso, il simbolo dell’affetto del mio padrino, il simbolo del futuro radioso che un giorno avrei avuto seguendo le sue orme.

    “Molto bene… Ora non ho molto tempo, tuo fratello ci aspetta, ma come ti ho già detto quest’estate, Sirius, le nostre scelte, consapevoli o meno, provocano delle conseguenze, gli errori spesso non si possono correggere e comportano purtroppo la perdita di alcuni privilegi… Ci sono privilegi che possono essere mantenuti nonostante tutto, altri che possono essere recuperati con la penitenza, o pagando in qualche modo per riottenerli… altri privilegi, invece, si perdono per sempre. Questo anello, Sirius, è forgiato con l’argento del Nord… un argento che non nasce per stare in mano a un…”

Abbassò lo sguardo, lo vidi sofferente come mai l’avevo visto prima, non capivo nulla di quel discorso ma per un attimo mi sembrò di condividere quel dolore.

    “… in mano a un… Grifondoro… Alshain non te lo chiederà mai indietro, non vuole ferirti, ma sarebbe dannoso per lui che te l’ha donato, presso la Confraternita, se continuassi a portarlo in pubblico… io ritengo che dovresti togliertelo, e magari restituirglielo quanto prima…”

Lo guardai, con gli occhi sbarrati. No, non potevo crederci! Non poteva essere vero! Di colpo mi prese il terrore che ci fosse scritto questo nella lettera! Era di Alshain quella lettera? Anche lui provava ribrezzo per il mio cravattino? O al contrario di quello che mi aveva detto Meissa, quella porta, per me, era definitivamente chiusa nonostante la sua volontà e tanto valeva che mi mettessi subito il cuore in pace? Magari davvero, per lui, nonostante l’affetto che provava per me, quell’anello sulle mie mani, costituiva un problema… sì, doveva essere così… magari al matrimonio, alla presenza di altri maghi della Confraternita, qualcuno si sarebbe lamentato, perché tutti dovevano sapere che io… Ripensai al suo sguardo, la sera prima in stazione: no, non erano gli occhi di un uomo deluso da me, di un uomo che aveva di colpo smesso di provare affetto nei miei confronti per colpa di un cravattino… no, mio padre stavolta stava dicendo la verità. Il discorso era così… mio padre era così… C’era qualcosa di strano nel suo tono… sentivo sofferenza e timore, non vergogna, c’era qualcosa che lo turbava, che lo preoccupava sinceramente. Lo fissai, e per una volta nella mia vita, invece di provare rabbia e volontà di sfidarlo, mi sfilai l’anello e, in silenzio, glielo porsi: morivo dalla voglia di tempestarlo di domande, volevo e dovevo capire, ma la sua espressione, così dolente e colpevole, mi facevano temere che ci fossero dietro segreti troppo spaventosi.

    “Ti ringrazio, Sirius… ma dovrai essere tu, a farlo…  ascoltami…”

Si chinò su di me, appoggiò le labbra vicino al mio orecchio e ascoltai… capii subito quale fosse la verità: ci avevano scoperto. Il terrore m’impedì persino di fiatare.

    “Tutto chiaro,Sirius?”

Annuii, turbato, spaventato, consapevole che probabilmente avrei fallito.

    “Ora muoviti, tuo fratello si chiederà che fine abbiamo fatto…”
    “Io… io non vengo… scusami ma… preferirei tornare in camera mia, adesso…”

Ci fissammo, mio padre mi mise una mano sulla spalla e annuì, in silenzio: per la prima volta sentii di comprenderlo, sentii che c’era qualcosa che ci legava, che non eravamo antagonisti, ma eravamo insieme. Forse anche lui era lì, in attesa di un gesto: eravamo come l’acqua che preme sulla diga in attesa di quella singola goccia in più capace di dare abbastanza forza per travolgere tutto e scorrere via, finalmente libera… Ma c’era un ostacolo troppo alto da saltare, tra noi, e quell’acqua, per quanto premesse per riuscirci, non era in grado di riprendere il suo percorso naturale. Mio padre prese una manciata di polvere e raggiunse Regulus, io in silenzio, confuso, tornai a barricarmi nella mia prigione.

***

Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - dom. 19 dicembre 1971

Risate…
 
    Perché qualcuno ride fuori dai dormitori di Serpeverde, a quest’ora del mattino?

Mi rotolai tra le coperte, infastidita dalla luce del giorno.

    Luce? Non c’è luce, non questa luce, nei dormitori di Serpeverde, solo una tenue, opalescente luce verde che…

Aprii gli occhi, mi guardai attorno: c’era la luce piena del mattino, ed io… Quella non era Hogwarts… Io mi trovavo da qualche altra parte… Il cervello lasciò definitivamente il mondo dei sogni, lentamente tornai in me: ero al 74 di Essex Street, sotto lo stesso tetto di mio padre e mia madre e dei miei fratelli…

    Sono a… a casa… finalmente… a casa…

Appena misi a fuoco la realtà, un sorriso luminoso mi si stampò in faccia, saltai in piedi e corsi subito scalza alla finestra: Londra, innevata, mi apparve davanti in tutta la sua magnificenza, strade, case, alberi spogli, un mondo completamente bianco correva fino alle banchine del fiume e, sull’altra riva, s’incuneava via via tra i monumenti della città vecchia. In strada, davanti alla casa, lì dove la sera prima ci aveva lasciato il taxi babbano, c’erano due ragazzini della mia età che si rincorrevano, ridendo e tirandosi delle palle di neve. Lei aveva dei capelli biondi che uscivano a ciuffi dal cappellino di lana rossa, tutta stretta in un cappottino pesante, bianco, bordato da fiocchi di neve di vari colori; lui, dai capelli rosso carota, si stava togliendo la neve che la ragazzina gli aveva tirato sulla nuca, proprio dentro al colletto. Di sicuro ora gli stava colando la neve fusa sulla schiena accaldata! Ghignai: anch’io avevo provato una mossa simile con Rigel… più di una volta! E in ogni occasione la sua reazione era stata di una ferocia inaudita, ed io, da parte mia, avevo tramato per giorni per vendicarmi. E questo si era ripetuto ancora e ancora: prima che lui andasse a scuola, una palla di neve, a Herrengton, poteva trasformarsi in una faida che si protraeva per mesi! Sorridendo richiusi le tende e controllai l’ora: era ancora presto, ma non poi così tanto e… Mirzam ormai doveva esser ritornato a casa, magari stava dormendo, ma io non avevo alcuna intenzione di perdere anche un solo altro secondo: eravamo rimasti lontani fin troppo a lungo, quel giorno era mia ferma intenzione trovare il modo di stare con lui il più possibile!
 Mi misi la vestaglia scura sul pigiama verde slytherin, mi legai i capelli in una coda e, senza far rumore, uscii, recuperai in fretta l’orientamento e individuai la porta del bagno in fondo al corridoio: volevo fare presto, volevo scendere di sotto il prima possibile, ero più che sicura che Mirzam riposasse nella camera degli ospiti. Mi avvicinai alla camera di Rigel, speravo che si stesse svegliando in quel momento per sbeffeggiarlo mentre entravo in bagno prima di lui: se quella piaga fosse arrivato prima di me, ci si sarebbe barricato per ore, come faceva sempre, perdendo tempo allo specchio a cercarsi in faccia i peli che non aveva! E quanto si arrabbiava quando io, soave, gli dicevo invece che aveva la pelle bellissima, liscia e pulita come quella di Wezen.In realtà sapevo, dalla sera prima, che c’era anche un altro bagno su quel piano, ma visto che ne avevo la possibilità… ogni occasione era buona per far dispetto a mio fratello! Quasi l’avessi evocato, vidi la sua porta aprirsi e Rigel, insonnolito, apparve sulla porta: per provocarlo mi lanciai di corsa verso il fondo del corridoio, evitando di centrarlo in pieno solo per un soffio, lui mise subito a fuoco la situazione, mi arpionò per la cinta svolazzante della vestaglia e mi tirò indietro con un colpo secco, io, sentendomi impigliata, mi divincolai, ma per sfuggirgli andai a sbattere contro il portavaso che abbelliva il corridoio, intralciando il passaggio. Il vaso oscillò e cadde a terra, riducendosi a pezzi e versando la terra e la pianta stessa sul tappeto.

    “Idiota, è tutta colpa tua!”
    “Mia? Non si corre dentro casa, stupida scimmia!”

Iniziammo a bisticciare, io gli sfilai l’asciugamano che teneva appoggiato alla spalla e lo gettai indietro, sperando che volasse oltre la ringhiera, poi ripresi ad avanzare verso il bagno, lui mi prese per la coda e iniziò a tirarmi i capelli, io urlai e mi voltai, iniziando a colpirlo perché mi mollasse, invece quel cretino rideva.

    “Quale soave risveglio! Buongiorno, fratellini adorati!”

Ci girammo entrambi, sorpresi: alle nostre spalle, fermo sulla porta di una camera che credevo deserta, i capelli arruffati e gli occhi gonfi di sonno, un sorriso molto divertito in faccia, c’era Mirzam… O meglio, qualcuno che gli assomigliava, anche se sembrava più un orso che un essere umano. Rigel, poiché di solito nostro fratello mi difendeva, appena lo vide mi mollò la coda e s’incupì, pronto al classico rimprovero, ma Mirzam rimase in silenzio, gli rivolse soltanto la solita occhiata truce di chi non ammette che mi si torca un capello ed io, perso ormai qualsiasi interesse per la lotta perché avevo di meglio da fare, corsi tra le sue braccia per farmi baciare.

    “Mirzam! Finalmente!”

Gli stampai a mia volta una marea di baci sulle guance pelose, ridendo come una bambina per il solletico.

    “Che hai fatto? Dov’è la tua faccia? Sembri un orso!”

Rise, mentre Rigel, disgustato dalla scena sdolcinata, riprendeva da terra l’asciugamano e si barricava in bagno, borbottando qualcosa di offensivo sul fatto che non sapessi che per i riti nostro fratello doveva allungarsi barba e capelli, per poi sacrificarli durante la notte di Yule. Mirzam fece un gesto incurante e m’invitò a seguirlo in camera sua. Come me, non vedeva l’ora di riabbracciarmi e parlare a quattr’occhi, dopo una marea di discorsi fatti solo via gufo negli ultimi mesi.
 
    “Quell’idiota!Ora starà chiuso là dentro per ore…”

Mirzam tirò le tende, concedendomi un altro scorcio affascinante della città e illuminando finalmente la sua stanza: mi guardai attorno curiosa, mentre lui si sedette sul divanetto vicino alla finestra e mi fece cenno di accomodarmi. Quella stanza sembrava molto più vissuta di quella di Herrenton o di Amesbury, molto più viva di quanto fosse la mia: era piena di gagliardetti del Puddlemere,di foto di papà, della nostra famiglia. Mi avvicinai, ne presi una in mano, capii subito: tutto lì dentro era fermo a quasi dieci anni prima, questa era la sua stanza di quando era un ragazzino della mia età, quelli erano i trofei che mio padre aveva vinto dedicandoli a lui. Quella era la parte della nostra storia che non avevo avuto tempo di vivere.

    “Rigel sta crescendo, Mei, e a volte ha bisogno di stare per conto suo: alla sua età anche a me dava molto fastidio averlo sempre tra i piedi, così, anche se lui non c’entrava niente con i miei pensieri, finiva che mi sfogavo su di lui… E… come vedi da allora non andiamo molto d’accordo… perciò, se vuoi un consiglio, fai finta di niente, tu non c’entri con i suoi malumori: vedrai nel giro di poco tempo sarà più ragionevole e andrete molto più d’accordo…”
    “Sì, ma… non è giusto… lui non può stare ore là dentro, Mirzam!”
    “E perché no? Papà ha fatto sdoppiare tutto in questa casa, proprio per evitare litigi per queste stupidaggini, se hai davvero bisogno, usa l’altro bagno, no? È pure più vicino alla tua camera… che senso ha dargli il tormento?”
    “C’ero prima io… e lui è prepotente…”
    “Lui è prepotente ma tu ti diverti a provocarlo, perciò siete pari… Non c’è nulla di male a starsene per i fatti propri a pensare, Mei, dovresti imparare a rispettare i suoi spazi, tra poco tu stessa avrai bisogno dei tuoi… Lascialo in pace e vedrai che la fase delle liti continue passerà prima…”

Lo guardai, non potevo crederci! L’avevo desiderato tanto, ma non era così che avevo immaginato quel nostro incontro: non con Mirzam che in pratica dava ragione al babbeo! Non l’aveva mai fatto, perché mi tradiva così proprio ora?

    “Io non voglio che finisca anche questa fase! Non voglio! Stanno già cambiando troppe cose! Dagli pure ragione, fai come vuoi! Tanto lo so già da me che ormai sono sola! Non mi serve il manuale d’istruzioni per trattare con lui!”

Mi alzai, volevo fuggire via, prima che le lacrime fossero ingovernabili e mi mettessi a piangere come una stupida.

    “Mei…”

Mirzam mi raggiunse sulla porta, io non riuscivo nemmeno ad aprirla e andarmene, anche quella dannata porta mi si rivoltava contro.

    “Mei, scusami… Non volevo farti piangere…”
    “Io non sto piangendo…”

Mi si era incrinata già la voce, ma con quel minimo di dignità che ancora mi restava, lo fissai, fiera e sicura: se voleva stare dalla parte di Rigel, facesse pure, io non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere. Mirzam mi prese le mani, e mi scoccò un bacio sulla fronte, io rimasi fredda e ostile, ma quando mi guardò, intensamente, iniziai a cedere e mi morsi un labbro per cercare invano di resistere. Mi diede un bacio sul naso, mentre mi lasciavo vincere dalle lacrime e mi gettavo disperata tra le sue braccia: mio fratello sapeva che Rigel non c’entrava nulla con le mie crisi, che la tristezza che rapida aveva preso il posto della gioia in me, aveva motivi molto più profondi. Avevo promesso alla mamma che non avrei fatto la bambina con lui e con Sile, ma… Con quel dannato discorso Mirzam non mi aveva aiutato per niente. Sembrava quasi un addio...

    “Non voglio perderti… Mirzam… non voglio…”
    “Tu non mi perderai, Mei… io ci sarò sempre, per te e per tutte le persone a cui voglio bene, io ci sarò sempre… Non è la prima volta che abitiamo in case diverse, no? Tu ora sei a scuola, prima a scuola c’ero io… Che differenza fa? Non sono quattro mura a fare una famiglia…”

Mi accarezzava la faccia, io lo guardai.

    “Non sarà più come prima Mirzam… niente sarà più come prima…”
    “Sono già cambiate tante cose, negli ultimi anni, no? Ogni giorno è diverso dall’altro, ma siamo sempre rimasti “tu ed io”: ti prometto che questa volta sarà meglio di prima, Mei…”

Mi sorrise, non per consolarmi, sentivo che le sue parole erano sincere, sentivo che le pensava davvero.

    “Pensaci… io sono molto più grande di te, Mei, e per questo, finora, a parte giocare a scacchi insieme o farti ascoltare la musica con me, non è che potevamo fare poi molto, no?  Tu, però, ormai stai crescendo, ogni giorno diventi, in un certo senso, più “simile” a me, qualcuno che io posso capire di più… T’interesseranno via via cose che interessano anche a me, vorrai sapere come affrontare problemi che io ho già vissuto, a scuola, con gli amici, in squadra… Ora potrò portarti con me a volare, perché ormai non sei più troppo piccola per salire su una scopa… Fidati, Mei, sarà molto meglio di prima… potremo fare insieme mille cose che prima…”
    “… Ma… non sarò solo io a cambiare, Mirzam…”

Non voleva essere un rimprovero nei suoi confronti, ma bastò per farlo arrossire un po’. Sì era vero, io stavo crescendo e non avrei avuto più gli interessi a lui incomprensibili di una bambina, ma al tempo stesso lui sarebbe entrato in un universo per me completamente ignoto, da cui ero esclusa: lo stesso in cui vivevano mamma e papà. Era più grande di me, ma finora era un figlio e un fratello, ora invece sarebbe diventato davvero un uomo, con i problemi di un adulto, presto sarebbe stato un marito e un padre, avrebbe avuto una moglie e dei figli, ed io sarei diventata qualcuno da vedere solo nelle ricorrenze.

    “So che ho affrontato male questa storia, Mei… Mi dispiace non averti detto la verità su Sile, all’inizio, ma ho preferito aspettare di avere delle certezze, prima di parlarvi delle mie intenzioni… Ti assicuro però che non hai nulla da temere, non avrai un fratello in meno, semmai una sorella in più… Farò di tutto per non farti piangere, te lo prometto… Tu non piangerai, vero?”
    “No, non piangerò… non piangerò piu… L’ho vista ieri sera: non è per niente come hai detto quella volta, Sile non è per niente una come tante… Si vede lontano un miglio che è innamorata di te… e tu di lei…”

Mirzam sorrise, e arrossì completamente: lo vidi, nel suo sguardo, quel luccichio, lo stesso luccichio che illuminava lo sguardo dei nostri genitori ogni volta che incrociavano lo sguardo uno sull’altra. Era sempre il mio Mirzam , e gli volevo bene come non mai, e per questo dovevo mettere a tacere quella voce che voleva fare i capricci ed essere finalmente felice per lui, perché era vero, appena avevo visto Sile, la sera prima, avevo capito che era tutto perfetto.

    “Imparerete a conoscervi, Mei… e vi vorrete bene… abbiamo deciso di partire da soli per alcune settimane alla fine di maggio, al termine del campionato di Quidditch, così torneremo a casa per la chiusura della scuola, e avremo tutta l’estate per recuperare tutti insieme un po’ di occasioni perse… So già che andrete d’accordo…”
    “Ieri sera mi ha promesso di portarmi alcuni dischi dei “Rolling “non so cosa”…”
    “I Rolling Stones, sì: lei li adora… Forse tu non ti ricordi, ma quand’eri più piccola te li ho fatti ascoltare qualche volta… Sile ed io una volta siamo andati persino a un loro concerto insieme…”

Si bloccò, come se stesse dicendo qualcosa di assolutamente imbarazzante: erano rare le volte che Mirzam raccontava qualcosa di piacevole sul mondo babbano, di solito non nascondeva di essere apertamente contrario a certi atteggiamenti troppo aperti di papà, andando addirittura oltre l’atteggiamento cauto della mamma. Non avevo mai capito bene tutta la storia, ma sapevo che prima della nascita di Rigel, la mamma e Mirzam erano stati attaccati da un paio di Babbani, per questo papà diceva sempre che pur non condividendo le sue paure capiva i suoi dubbi e ci raccomandava sempre di essere prudenti, nella scelta delle amicizie e nell’affrontare le situazioni.

    “È in quell’occasione che Sile è stata qui?”

Lo dissi in un soffio, Mirzam diventò improvvisamente color porpora, poi si perse nei suoi ricordi… Capii tante cose, in quel silenzio, capii che avevo ragione: avevo provato una strana sensazione, la sera prima, guardando Sile muoversi in quella casa, pur con qualche esitazione, come chi ci è stato già… Era vero, in quel momento, capii quanto, fin da allora, pur tanto giovani, fossero innamorati l’uno dell’altra.

    “Avete la stessa luce di papà e mamma, negli occhi… Le vorrò bene quanto ne voglio a te, Mir, perché so che sarai felice grazie a lei…”
    “Mei… Ti voglio bene… non scordartelo mai…”

Mi abbracciò e non mi sorpresi quando capii che anche lui si era commosso. Mi prese la mano nella sua, con l’altra mi accarezzò la faccia, poi i suoi occhi scesero sulle nostre mani, unite. Osservai con attenzione ciò che stava guardando: le rune che decoravano le nostre dita. Di colpo i suoi occhi si fecero più cupi, il suo viso pensoso. Non capivo.

    “Ho bisogno di chiederti un favore… Mei”

Annuii, mentre Mirzam mi fissava con i suoi occhi di luna: era diventato serio, come non l’avevo visto mai, sembrava oltremodo preoccupato.

    “Tu ti fidi di me, Meissa?”
    “Che domande mi fai… sei mio fratello!”
    “Rispondimi…”
    “Certo che mi fido di te…”
    “Ti fideresti di me, anche se ti chiedessi di non parlare a nessuno, nemmeno a mamma e papà di una cosa… importante? Anche se ti chiedessi di mantenere il segreto su quello che vorrei fare?”
    “Perché non vuoi dirlo a mamma e papà? Se sei nei guai, loro potrebbero aiutarti…”

Rimase in silenzio. Lo guardai, di nuovo, e fissai le mie mani chiuse appoggiate sulle sue, osservai le rune che incidevano, profonde, il suo palmo, sapevo quale fosse il loro significato, sapevo che qualsiasi cosa mi avesse chiesto di fare, il patto che esisteva tra noi, dal giorno della mia nascita, governava tutte le sue decisioni e avrebbe sempre agito per il mio bene.

    “Io mi fiderei comunque di te, Mirzam. E anche se non credo di poterti aiutare come potrebbero fare loro… se fosse davvero importante per te…”
    “È molto importante, Mei…”
    “Non dirò niente… ti giuro che non dirò niente…”

Mirzam mi sorrise, poi guardò di nuovo le mie mani e stavolta osservò l’anello, l’anello che papà mi aveva affidato, facendomi promettere di difenderlo a costo della vita.

    “Ho bisogno del tuo anello, Meissa…”
    “Il mio anello non ha niente di speciale…”
    “So che papà ti ha insegnato a rispondere così… ma ero con lui e con Orion Black quando hanno provato a ricomporre l’anello e la pietra, ho visto che nelle sue mani non funziona, come non funziona nelle mie… ma credo che risponda a te: sappiamo entrambi che quello non è un anello qualsiasi…”

Impallidii, ero convinta che a parte mio padre e Orion…

    “Da quando hanno aggredito Sirius Black a Hogwarts, penso non sia giusto che papà ti abbia dato un compito tanto pericoloso… Non voglio che qualcuno ti faccia del male per rubartelo…”
    “Dovresti dire a papà che sei preoccupato, e lasciare che sia lui a prendere una decisione…”
    “Lo so che è un anello molto bello e affascinante, Mei, lo so che non vuoi separartene, capisco che tu non voglia darmelo… non vuoi darmelo, è così?”
    “Io… Io non lo so… non so cosa devo fare… non so cosa è giusto fare…”

Mi fissava, non capivo che intenzioni avesse, magari potevo fidarmi, infondo era mio fratello, ma mio padre mi aveva fatto promettere di non separarmene mai.

    “Non ti preoccupare, Mei: capisco che è una decisione troppo difficile per te… Parlerò con papà, alla fine sono sicuro che capirà le mie motivazioni… tu però…”
    “Io non dirò a papà che me l’hai chiesto…”
    “Bene… non è urgente, Mei, gliene parlerò dopo il matrimonio…”

Annuii rasserenata. Mi lasciai abbracciare da lui, lasciai che appoggiasse le labbra al mio orecchio. Sentii lieve la sua voce melodiosa, appena sussurrata, pronunciare una sola parola, che mi attraversò la mente rapida come una stella cadente. Sentii la testa vuota e le gambe che cedevano, come quando ci s’immerge nei sogni… Le braccia forti di mio fratello mi sorressero. Sentivo un sapore strano… di vaniglia…Mentre le mie labbra, secche, ripetevano quella parola come fosse una cantilena…

    “IMPERIUS…”


*continua*



NdA:
ciao a tutti, qualche noticina sul capitolo: 1. il primo incontro tra Mei e Sile sarà raccontato in flashback, qui non era possibile; 2. questo è l'esordio di Deidra come narratore, la vedremo ancora in seguito; 3. Fear era annunciato per il matrimonio, ma ho deciso di anticipare il suo ingresso in scena; 4. ho inventato l'esistenza di un "pugnale di Godric" perché ho pensato che esistessero varie reliquie più o meno autentiche dei famigerati Fondatori e ho anche immaginato che, per realizzare il suo sesto Horcrux, Voldemort potesse cercare qualcosa di altrettanto importante con cui sostituire la spada di Godric; 5. Alfred Podmore potrebbe essere padre o zio di Sturgis Podmore (classe 1957), uno degli elementi del primo Ordine della Fenice; 6. quanto a Rodolphus e Mirzam, Rod dice “non voglio che sia Bella a consegnare l’anello a Milord”: Rodolphus è un uomo ambizioso, che subisce il fascino morboso della moglie, ma che già in parte è deluso da lei (che non si presta a dargli quel figlio con cui metter finalmente fine ai dissapori con suo padre) e soprattutto, non intende cedere a lei il posto che ha guadagnato accanto a Milord impegnandosi per anni tanto ferocemente. Quanto al rapporto con Mirzam, la vedo come un'amicizia “sincera”, seppur malata.
L'immagine a inizio capitolo è di Bucz.
E ora vi saluto, con i consueti ringraziamenti a quanti hanno letto e recensito, aggiunto a preferiti, seguiti, ricordati, ecc… Un bacione a tutti, alla prossima!

Valeria



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