My Generation
Il
millenovecentonovantuno è
stato un anno di merda.
A detta del capo,
ovviamente, perché per
me è stato grandioso, neanche a dirlo. Cazzo, eravamo primi
in classifica
praticamente in tutto lo stramaledetto pianeta e cosa fa Kurt? Si fa
venire una
crisi isterica e la fa venire anche a Krist, ovvio, fosse mai lo
spilungone potesse
essere esonerato dal somatizzare gli scazzi della sua dolce
metà. E detto tra
noi, quei due fingevano per far incazzare i loro compaesani, lo so, ma
sembravano
gay per davvero. Forse nemmeno veramente gay, ma avevano un modo di
interagire
tra loro che aveva del frocio spinto, anche se non si sbaciucchiavano
coccolavano
o cose così, anzi hanno sempre litigato che è un
piacere: solo che litigavano
come una coppia in piena crisi del settimo anno. A volte te lo chiedevi
proprio
perché Kurt non fosse diventato la moglie del croato invece
di prendere per
marito una punk spostata perennemente senza mutande.
Ah sì,
perché era rimasta incinta. La stronza.
Comunque
sia, avevo ventidue
anni, sembravo un barbone minorenne senza l’ombra di un pelo
in faccia, ma era
tutto un florilegio di figa che mi sbocciava nel letto grazie ad un
disco che
ci aveva fatti schizzare direttamente nell’Olimpo delle
stelle: era o non era
una figata assurda? Domanda scema, nevermind.
Per
Kurt invece era un problema,
un serio problema. Non ci dormiva la notte, ero sicurissimo passasse
ogni buco
di tempo libero a scrivere sul suo diario – perché lo so che teneva un diario,
quando vivevamo tutti insieme l’ho
visto mentre tentava di nasconderlo come una liceale –
di quanto
fosse brutto e cattivo il mondo invece di scoparsi la matta, come
sarebbe stato
buono e giusto fare, del resto: Courtney sarà pure una
stronza, ma quando tiene
la bocca chiusa non puoi fare a meno di notare che è pure
discretamente gnocca.
Gran tette, niente da dire.
Facendo
della psicologia da due
soldi, potrei dire che Kurt non era abituato ad essere il numero uno.
Intendiamoci, se passi la tua vita a sentirti dire che sei una merda
deviata
che non si merita di vivere, poi è dura vedere quegli stessi
coglioni – o che
gli somigliano parecchio: i coglioni
sono tutti uguali, come i cinesi. – che ti
urlano addosso quanto
sei grande e figo. È destabilizzante, lo si deve ammettere.
E purtroppo Kurt
non ha mai avuto un grande equilibrio, non cammina dritto nemmeno da
sobrio.
Però,
vaffanculo, eravamo primi
in classifica.
Avevamo
battuto i Pearl Jam, loro
erano arrivati solo secondi, di quello almeno doveva essere contento,
no? Lui
li odiava i Pearl Jam, che cazzo, non faceva altro che berciare di
quanto non
li potesse né vedere né sentire, di quanto
fossero degli stronzi opportunisti e
ho riportato solo i commenti più carini.
Ma
no, figuriamoci.
Kurt
se ne vergognava.
Esattamente,
si vergognava
di essere primo in
classifica, si vergognava
dei numeri delle vendite, delle copertine che ci dedicavano, dei fans
che
urlavano, persino dei soldi che crescevano sul conto in banca. Non ne
era
dispiaciuto, ovviamente, un po’ di adulazione e qualche
dollaro in più fanno
piacere a tutti, ma allo stesso tempo non riusciva ad accettare con
leggerezza
quella situazione.
E non era il solo, sia chiaro.
Naturalmente
non sto parlando di
me, io ero un ragazzino ed in quella situazione ci sguazzavo
allegramente, sto
parlando dell’altro Cristo in Terra incoronato di spine. Che,
ironia della
sorte, era pure il cantante dell’odiata nemesi del nostro
Buddha strafatto,
colui che si diceva trasformasse gli adolescenti in finocchi tutti
urletti e
squittii, il solo ed unico pacifista con un destro da Cassius Clay:
Eddie
Vedder, ovviamente.
No,
veramente, avreste dovuto
vederli, sentirli più che altro, erano ridicoli: quando mai nella storia della
musica è mai successo che il secondo
classificato avesse potere di sfottere chi gli stava sopra? Siamo
seri, non sta né in cielo né in terra, e non solo
se si parla di musica, a me
pareva il mondo girasse al contrario, giuro, sembrava un incubo di
Escher.
Eppure
era così. I Pearl Jam
furono i primi a vergognarsi come ladri quando Ten
vendette un milione
di copie in meno di due settimane
raggiungendo il secondo posto in classifica, mentre a Seattle
cominciarono a
guardarli malissimo, come se fossero degli schifosi traditori, ricordo
ancora
le tirate di Mark Arm contro Gossard anche se, ammetto, non riesco a
tuttora a
ricostruire i motivi di tanto astio. Nei momenti di nebbia etilica
–quasi sempre,
insomma – mi
veniva da pensare Arm ce l’avesse con lui perché
in realtà non era riuscito a
scoparselo: voglio dire,
Stone
Gossard con le luci giuste e dopo un paio di birre, poteva sembrare
anche una
discreta figa prima che si rasasse quasi a zero, e forse lo ha fatto
per quello.
Comunque
sia Kurt gli andava
dietro, era assolutamente convinto delle motivazioni di Arm e pendeva
dalle sue
labbra, quindi vergogna sui Pearl Jam.
Il
bello era che pure Vedder e
soci quasi quasi ci credevano a quelle stronzate: avevano venduto troppo, qualcosa palesemente non
andava.
A
me veniva solo voglia di un
doppio whiskey liscio e di rollarmi una canna di due metri, sicuro che
anche
dopo il trattamento sarei comunque stato più lucido di tutti
loro messi
insieme.
Il
problema lassù a Seattle era
probabilmente il tempo, è l’unico posto al mondo
– dopo la foresta pluviale - in
cui il meteo c’imbrocca sempre: basta dare pioggia e si va sul
sicuro. Tanto se anche non piove
nessuno si lamenterà dell’errore, figuriamoci.
Io
non sono nato a Seattle, non
sono nemmeno nato nello stato di Washington, ma una volta arrivato
lì sei
fregato, quella cazzo di pioggia ti mina da subito il sistema nervoso,
quel
tempo di merda ti cambia qualcosa dentro poco alla volta senza che tu
te ne
accorga. E ti fa rodere incessantemente il culo. L’ho visto
accadere ad un
sacco di gente, mica parlo per sentito dire, eh.
Prendete
anche Vedder. Quello
probabilmente aveva qualche rotella fuori posto già prima di
infognarsi nella
ridente Città di Smeraldo, ma l’aria buona del
nord non gli ha fatto granché
bene, e non solo perché ha perso l’abbronzatura da
surfista – che a detta di un
paio di squinzie che mi sono fatto, gli stava benissimo, faceva
risaltare quei
suoi occhioni chiari divinamente.
Stronze.
E
Andrew Wood? Cavolo, lui era
del sud, poteva passare la vita a scopare tra campi di cotone e
papaveri, ma a
quanto mi hanno detto, Seattle l’ha fatto fuori in un niente.
Secondo me, visto
come si conciava, probabilmente l’avrebbero fatto fuori anche
laggiù nel
Mississipi: l’avrebbe infilzato un forcone e non un ago,
d’accordo, ma non è
questo il punto.
E
la lista sarebbe pure lunga, ma
a me non piace snocciolare necrologi o potenziali tali
– che un paio li vedo
già pronti per il grande
salto -, il giornalista di famiglia
è il mio vecchio e lascio
volentieri a lui il lavoro sporco.
Ma
dicevo di quell’anno
benedetto, e del successivo, ovviamente, ché i frutti li
abbiamo raccolti
maggiormente nel millenovecentonovantadue.
Che casino, ragazzi, che casino!
Credo
di non aver mai davvero
smesso di bere durante quel periodo, ero praticamente sempre ubriaco, o
quantomeno alticcio. Allegro, insomma. Anche Kurt era perennemente
sotto
l’effetto di qualcosa, ma non era alcol, non solo almeno, a
lui piaceva la
merda chimica che a Seattle andava tanto per la maggiore: per essere uno speciale,
insomma, ha sempre
avuto gusti piuttosto comuni.
E
quindi per lui era sempre
l’ero, e se non era l’ero era qualche altro
narcotico a caso, compresi i
ceffoni della Love, che di amorevole ha sempre avuto solo il
cognome. Secondo me.
Ovviamente
non ero il solo ad
avere un rubinetto perennemente aperto sopra la testa, tutti bevevano
come spugne, per una ragione o per
un’altra; c’erano quelli come me che usavano
l’alcol come passatempo e sostegno
per continuare a fare il coglione con una scusa plausibile, e chi
invece ne
aveva davvero bisogno per crearsi una difesa e riuscire a biascicare
due parole
senza arrossire.
E, credetemi, sia Kurt che Eddie erano di quella
seconda scuola.
Kurt
ci rimase veramente
malissimo quando Vedder canticchiò l’intro
di Smells Like Teen Spirit alla
fine del 91, prima di
cominciare a cantare per davvero una loro canzone. Ci rimase come un
fesso,
perché l’aveva capito benissimo cosa aveva voluto
dire Vedder con quelle poche
parole, erano fatti della stessa pasta, quei due. Io ci avevo riso
sopra, gli
avevo detto di prenderla come un complimento e lo pensavo davvero, ma
per Kurt
fu come una doccia gelata, un pugno diretto sulle palle: Vedder gli
stava
semplicemente dicendo, ecco,
ora
siete voi quelli più in alto, voi state vendendo di
più, sei tu che ti sei
svenduto.
Dopo
mesi di offese gratuite
incassate senza dire una parola, il californiano si era preso la sua
rivincita
ed era andato a segno con una facilità disarmante ed il
motivo era semplice:
l’aveva accusato di qualcosa che avrebbe fatto male a lui per
primo.
Come
ho già detto, erano fatti
della stessa pasta, quando si trattava di musica soprattutto, e me ne
sono reso
definitivamente conto l’estate successiva
quell’episodio, durante un festival
che ci ha galvanizzati tutti, quando sono riuscito finalmente a
conoscerlo.
Detto
onestamente, a me i Pearl
Jam piacevano.
C’era
quel loro batterista
texano, Dave, che era una forza, pestava come un dannato ed era uno dei
più
grossi cazzaroni che abbia mai conosciuto, tanto che Kurt
l’avrebbe odiato al
primo scambio di saluti. E a
quanto potevo vedere, infatti, Eddie lo odiava, ma faceva buon viso a
cattivo
gioco.
Per
non parlare di Mike che
riusciva ad imitare alla perfezione Hendrix pure da ubriaco. Erano
gente
simpatica, insomma, e hanno allargato il giro delle mie conoscenze
della scena
di Seattle ben oltre i confini dei Nirvana e dell’underground
che girava
attorno ai Mudhoney: ho conosciuto Cornell e, soprattutto, Cameron il
batterista dei Soundgarden da cui ho preso un bel po’ di
trucchetti. Come stile
ritmico eravamo diversissimi – io
mi sentivo più vicino ad Abbruzzese ed alla sua propensione
al casino–
ma Matt mi mangiava in testa quanto ad esperienza, forte dei quasi
dieci anni
di vantaggio che aveva all’anagrafe. E non era geloso della
sua tecnica, anzi.
Anche
Krist mi venne dietro,
quell’estate, così conoscemmo gli odiati nemici a
dispetto di Kurt che non
faceva altro che starsene in disparte quando eravamo con loro o con i
Soundgarden o con i Chili Peppers. Due parole le scambiava al massimo
con
Steley o con Shawn, quando era abbastanza ubriaco persino con Billy
Corgan.
Lui
e Krist litigarono un casino
quell’estate, mi venne addirittura il sospetto fosse geloso e
non voleva
saperne di conoscere anche lui quel Vedder di cui dicevano tutti un
gran bene.
“Scrive stronzate, la sua
musica mi fa
cagare.”
Liquidava
tutto così e si
chiudeva nella sua roulotte.
Io
non credo qualcuno possa
davvero avere idea di quello che erano gli after-show in quel periodo,
di cosa
si combinasse davvero nel backstage prima e dopo i concerti. Potrei
dire di tutto
e sarebbe ancora
poco, sul serio.
Non
è solo questione di figa, le
groupies c’erano, ovvio, ma erano quasi tutte le ragazze dei
roadies o dei
musicisti stessi, se non persino delle manager, come la donna di
Cornell, che a
me allora sembrava una tardona e basta, ma dopo averla guardata meglio
ed
averci scambiato due parole, gli avrei fatto volentieri da
bebè anch’io, un
paio di palle grosse come le sue le avevo viste raramente.
A
quegli after-party c’eravamo tutti,
ecco il punto. Niente
telecamere e niente fotografi, solo noi che bevevamo, ridevamo,
suonavamo fino
a fotterci il cervello ed il fegato, tutti musicisti e ragazze di
musicisti e
ragazzi di musiciste e amici di musicisti. Pochi addetti ai lavori
tranne i
manager, che comunque allora erano più degli amici che
facevano un favore ad
altri amici, niente di più.
Ci
scambiavamo riffs e opinioni,
ci mandavamo affanculo e ci riconciliavamo baciandoci con la lingua
davanti
alle nostre ragazze, che erano comunque più ubriache di noi.
Eddie
aveva cominciato ad andare
in giro con un elmetto militare che temo non si levasse nemmeno mentre
scopava
ed aveva sempre penna e block notes a portata di mano. Kurt si era
tinto i
capelli di un colore indefinibile tra il viola ed il vomito ed era
sempre più
allucinato.
Credo
fu grazie alla fortuita
coincidenza del loro picco di follia che si avvicinarono un
po’ e cominciarono
a conoscersi.
Vederli
insieme la prima volta fu
uno spettacolo pietoso, credetemi: due nanerottoli tutti capelli e
nevrosi che
si guardavano a distanza di sicurezza rincagnati in se stessi, Eddie
con i
ricci che gli nascondevano la faccia e l’agenda
– e temo proprio fosse il
suo
diario segreto, pure lui ha quella fissa –
stretta al petto con tutte e due le
braccia, e Kurt con un maglione
troppo grande e le mani affondate nelle tasche dei jeans nella classica
posa da
avvoltoio che aveva quando non doveva cantare.
Non
so cosa si siano detti, né
quanto effettivamente siano riusciti a dirsi visto che avevano gli
occhi di
tutti puntati addosso in quel backstage, ma deve essere successo
qualcosa di
sicuro, o non si sarebbero cercati sotto il palco di quei
pacchianissimi Awards
di MTV per ballare un blues accompagnati dalla chitarra di Clapton
quella sera
stessa. E non avrebbero continuato, di tanto in tanto, a sentirsi per
telefono,
a chiedere l’uno dell’altro a conoscenti comuni,
come se fosse una cosa
normalissima dopo quanto era successo nei mesi precedenti.
Kurt
non era mai stato generoso
con Eddie e i suoi compagni, né lo è mai stato
con la loro musica, non importa
quanto ora trovi piacevoli le chiacchierate con lui. Ma sembra che a
nessuno
dei due importi tanto della rispettiva musica, non più
almeno.
Mi
è capitato di orecchiare
qualche conversazione – non
sono
mai troppo lunghe e Kurt è decisamente sempre impacciato.
Suppongo dall’altro
capo del filo la situazione non sia migliore: patetici. – e il
filo conduttore quasi mai è la
musica, e se ne parlano finiscono per arenarsi come groupies
rincoglionite
sull’ultimo modello di stratocaster di Neil Young. O parlano
dei dinosauri. O di cose che
onestamente non
vorrei mai sentir pronunciate da due uomini adulti, cazzo,
perché nemmeno le
ragazzine prestano più tanta attenzione a come
si sentono.
Ma
scopare un po’ di più?
Però,
in un modo o nell’altro
quei due erano – sono -
la cartina al
tornasole della scena musicale di Seattle. Non solo e non tanto per
quanto
riguarda la musica, ma per la portata effettiva della loro presenza
scenica, di
quel che sono riusciti a smuovere nei ragazzi dello stato,
dell’America, e
anche di tutto il mondo.Nel
bene come nel male sono l’espressione estrema di una
generazione, e ne stanno
formando un’altra, loro malgrado.
Credo
di averlo già ripetuto alla
nausea, ma quei due si somigliavano un sacco. Erano due insicuri del
cazzo che
tendenzialmente avevano paura di vivere, anche se non per le stesse
ragioni. È
brutto da dire, ma allora si facevano scommesse: chi
dei due allungherà per primo la
lista?
Perché,
davvero, se faceva paura
guardarli negli occhi attraverso uno schermo, figuratevi
cos’era per chi li
aveva di fronte in carne ed ossa.
A
ripensarci ora, io sono stato
fortunato ad essermi unito al gruppo e a questa scena musicale che ero
così
giovane e scemo, fossi stato più riflessivo o anche un
minimo più sensibile,
sarei andato fuori di testa anch’io, come loro.
Come lui.
Perché
Kurt ha quasi vinto la
scommessa e sono pressoché sicuro la vincerà a
breve, perché mi ha fatto cagare
addosso. Ha scelto una bella città per farla finita, lo si
deve dire, se non
sapessi che è stata una coincidenza, penserei che ha scelto
la Città Eterna per
dilettarci una volta di
più con il
suo umorismo perverso.
Ma
ora sta bene. Me lo ha appena
detto al telefono, tengo ancora la mano stretta alla cornetta cercando
di
convincermi che quella conversazione c’è stata
davvero. Kurt è stato troppo amichevole,
troppo paziente, anche quando ho rotto il tacito patto che esisteva tra
noi,
quello di non parlare di cose sgradevoli. E gliel’ho detto
che mi aveva fatto
prendere un colpo, che avevo avuto davvero paura quando avevo saputo.
Lui è
rimasto zitto il tempo necessario per farmi temere uno scoppio
d’ira, invece mi
ha sussurrato un
“lo so, mi
dispiace, ma è stato solo un incidente, non preoccuparti,
ora va tutto bene” talmente triste e gentile che mi
ha gelato il sangue.
Io
non lo so che fine farà, che
fine faremo tutti noi qui in questa città strana che sembra
seguirti come una
nuvola ovunque, non importa quanto ti ci allontani. So solo che Kurt in
una
cosa è diverso da Eddie: lui non ha mai avuto il coraggio di
chiedere di essere
salvato da se stesso, non ha mai cercato una mano tesa da stringere,
anche solo
per avere compagnia durante il viaggio.
Né
accetterà mai quell’aiuto, non
importa quante mani gli verranno tese.
Kurt
non sembra essere così
attratto dal futuro. Quando hanno tolto la bambina a lui e a Courtney
sembrava
quasi sollevato e la cosa mi aveva stranito, sulle prime. Poi
però credo di
aver capito: non è che non volesse sua figlia, anzi, non
credo di averlo mai
visto così felice come il giorno della nascita di Frances
– né
prima né dopo -,
semplicemente non voleva che uno come lui stesse vicino a quel
batuffolo
innocente: finchè era nel caldo – poco – sicuro
dell’utero della
stronza, lui aveva tra le mani solo
responsabilità potenziali su quella creatura, probabilmente
nemmeno aveva
realizzato nove mesi passassero in fretta. Kurt non aveva ancora
compiuto
ventisette anni quando è nata sua figlia, ma era
già un guscio vuoto, la buccia
rinsecchita di un uomo. Non
si
divertiva più non solo con la musica, ma in generale. Forse
è per
questo che l’ha chiamata anche Bean, nel suo modo contorto e
privo di poesia, probabilmente
sperava per lei una polpa più morbida e dolce di quella che
aveva consumato
lui.
Eddie
invece parla sempre del
futuro. Con un’urgenza ed una voglia che bruciano persino chi
lo sta a sentire.
Lui parla della musica che farà domani, di matrimonio, di
figli, di cose che
personalmente trovo siano da pelle d’oca, eppure lui sembra
cercare quella stabilità
come l’Eldorado.
Ma
quella pienezza disperata fa
paura esattamente come il vuoto che ti regala Kurt, il suo attaccarsi a
volte
anche morboso alle cose ed alle persone è semplicemente
l’altro lato di una
medaglia arrugginita, pronta a staccarsi dalla catena da un momento
all’altro.
Questa
è la mia generazione,
questo è il quadro che mi è toccato, che ci
è toccato. Ci definiscono la
Generazione X, ma è una semplificazione banale,
perché ogni generazione è
semplicemente un nuovo alfabeto che comincia dalla A. Tutto
dall’inizio per
l’ennesima volta, di nuovo tutto da conoscere. E, come al
solito, il trucco sta
solo nello stare attenti ad imparare le cose che contano
davvero.
End.
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