Toshiro si diresse verso la scuola, tenendo salda la cartella. Un
raggio di sole tiepido gli scaldò le braccia pallide, ma non
gli piacque; odiava il sole del primo pomeriggio, lo trovava pesante e
nauseante. Gli ricordava che avrebbe dovuto essere su un futon a
riposare, nel fresco di casa sua, e invece era costretto ad andare a
scuola, anzi, peggio, a tornare
a scuola, dopo aver sperimentato la gioia di uscirne, finalmente.
A Toshiro la scuola non piaceva. La riteneva una seccatura; avrebbe di
gran lunga preferito rimanere a casa a leggere un libro, magari in
giardino, sulla sedia sdraio all’ombra del pruno della casa
accanto, che estendeva i rami oltre lo steccato di legno.
Così il sole cocente del primo pomeriggio, immerso
nel silenzio, sarebbe stato più sopportabile.
C’era solo lui per le strade della città a
quell’ora; gli altri erano tornati al lavoro, oppure stavano
mandando giù gli ultimi bocconi alla mensa per poi tornare
nelle aule.
La sensazione di essere l’unica persona, in quel momento, a
esistere sulla Terra, lo fece sentire bene. Era come se il resto del
mondo si fosse adattato a nascondersi al suo sguardo infastidito,
chiudendosi negli edifici e regalandogli finalmente del sano silenzio.
In questo modo, forse… forse poteva anche sopportare quel
sole pressante che gli premeva sullo stomaco pieno. Ora il sole lo
stava illuminando. C’era pace, e gli altri erano dove
avrebbero dovuto essere: lontani da lui.
Ma fece una smorfia quando si trovò davanti alla scuola,
che, anche se era chiusa e nessuno era in cortile, gli
ricordò immediatamente il baccano, la banalità,
la stupidità e la sua solitudine perenne.
Tsk,
pensò, tanto
che me ne faccio di questi idioti.
Anche se avessero voluto essere suoi amici – ed era
abbastanza certo che non lo volessero – lui non sarebbe mai
andato d’accordo con quei bambocci. Erano così
infantili e nemmeno se ne rendevano conto. Non capivano nulla.
Non capivano la crisi, la casa, il lavoro, i soldi, la borsa di studio.
Erano ragazzini agiati che non avevano bisogno di preoccuparsi di
nulla. La loro madre non beveva sin dal primo mattino. Non
c’erano sconosciuti a casa loro. E potevano permettersi di
discutere di locali e acconciature e sigarette come se fossero state
quelle le questioni importanti della vita.
Ma essere felici non era una colpa. E Toshiro non gliene faceva, in
fondo, una colpa. La loro colpa era quella di essere stupidi –
assottigliò gli occhi.
Non facevano altro che leggere manga, fumare di nascosto, e andare in
centro a comprare vestiti. Il che non sarebbe stato del tutto
sbagliato, supponeva Toshiro, se ogni tanto però avessero
aperto un libro, guardato un telegiornale, o preso sul serio un brutto
voto a scuola.
Ma poi, chi voleva prendere in giro?
Ciò per cui li odiava era il fatto di essere legati
l’uno all’altro. Non aveva altri motivi per
detestarli. Altrimenti, gli sarebbero scivolati addosso.
Toshiro avrebbe voluto che tutto
gli scivolasse addosso. Ma si ritrovava sempre, con suo enorme
fastidio, a dare importanza a cose che invece avrebbe voluto congedare
con una smorfia, anzi, con un’occhiata, anzi, non guardarle
proprio. Avrebbe voluto essere altero e distante e impassibile, uno che
non veniva seccato dagli altri e che non seccava gli altri. Questo
voleva essere. Un pezzetto di ghiaccio: visibile, certo, ma trasparente.
Più o meno lo era, ad ogni modo. Se ne accorse entrando a
scuola. Lo conoscevano tutti, certo: era quello con i voti
più alti della storia della scuola, il prodigio, il ragazzo
con la borsa di studio. Ed era l’unico, l’unico
che girasse per i corridoi della scuola perennemente da solo. Non
gl’importava. Erano solo dei caproni. Lo stesso, gli pesava
passare la maggior parte della sua giornata in silenzio.
E, quando tornava a casa, dover ragionare con quell’elemento
di sua madre.
Quando c’era Lei, era diverso. Lei lo prendeva a braccetto e
camminava con lui a scuola. Poi facevano merenda assieme. E quando
stava con lei, che era dolce e sorridente e solare, lei che andava
d’accordo con tutti e piaceva a tutti, la gente lo guardava
in modo diverso. Come se si stesse chiedendo che cosa avesse spinto
senpai Hinamori, così bella e simpatica, a legarsi
così tanto a quel lupo solitario di Hitsugaya Toshiro; come
se stessero prendendo atto del fatto che lui potesse avere qualcosa di
speciale, qualcosa che aveva attirato Lei.
Lo guardavano così, con curiosità, in parte per
il suo noto profitto, in parte per il suo noto carattere introverso, in
parte perché era amico di Momo. Anche se era da un pezzo che
non la chiamava più Momo. La chiamava Hinamori, come tutti
gli altri, e lei, dopo svariate insistenze, aveva preso a chiamarlo
Hitsugaya.
Se solo lei non avesse avuto tanta fretta di diplomarsi, adesso sarebbe
stato con lei, almeno. Lei era ingenua e un po’ sempliciotta,
forse, ma era meno peggio degli altri. Invece aveva voluto affrettare
il diploma e frequentare il secondo e il terzo anno assieme, quindi
aveva preso lezioni in un doposcuola costosissimo e alla fine era
uscita dalle scuole superiori un anno prima. Così avevano
trascorso soltanto un anno insieme in quella scuola, il primo anno di
Toshiro.
Il fatto di trascorrere tutto il tempo libero con lei durante il primo
anno, pur se la verità era che stava con lei solo
perché gli altri gli sembravano dei perfetti idioti, non
l’aveva aiutato ad amalgamarsi con la classe. Lo
consideravano come uno che passava il suo tempo con gli studenti
più grandi. Perché, ai tempi, Hinamori aveva il
suo gruppo solido; c’era quell’Abarai, con cui non
aveva mai scambiato più che un saluto, e
c’era quel Kira, che ora veniva agli incontri con lui, ma,
così come non l’aveva considerato agli incontri,
non l’aveva mai preso in considerazione nemmeno prima. Lo
trovava un tipo insignificante, così insignificante da
doversi riempire la testa di Hinamori per averci dentro qualcosa. Non
che gli importasse degli affari personali di Hinamori, ma, se proprio
doveva scegliersi qualcuno, che per carità non fosse
quell’insulso di Kira. Abarai, piuttosto. Era sgradevole come
pestare una cacca sul marciapiede, ma almeno era un uomo.
Poi lei gli aveva raccontato che c’era un tale Hisagi, nel
loro gruppetto, quando loro ancora erano al primo anno e lui era
all’ultimo; li aveva presi sotto un’ala protettiva
e ogni tanto si univa a loro, anche se erano del primo anno, per due
chiacchiere sul terrazzo. Glielo aveva descritto come un bel ragazzo,
forte e coraggioso, con un cuore grande. Ma questo non contava.
Hinamori descriveva così più o meno chiunque;
questo Hisagi avrebbe anche potuto essere un idiota mezzasega come
quello Shuhei di quel pomeriggio, che tanto per lei sarebbe stato il
più impavido degli eroi dal cuore d’oro.
-Tu non capisci niente – le aveva detto una volta,
sgranocchiando una mela durante l’intervallo. Naturalmente
non si era spiegato. Lei aveva subito interrotto la sua merenda e
l’aveva guardato stupita.
-Eeh? Perché, Shirochan?
-Ti ho detto di non chiamarmi così.
-Ma qui non ci sentirà nessuno, non devi preoccu..
-Se mi chiami Shirochan vado a mangiare da un’altra parte.
-D’accordo, Hitsugaya…
- ridacchiò un poco, cosa che infastidì Toshiro,
ma non poi così tanto – perché non
capisco niente, allora?
-Perché pensi che tutti siano bravi e buoni e belli. Mentre
non è così. Quand’è che ti
deciderai a crescere e impararlo?
-Mmh – lei non si era offesa, benché un kohai
fosse tanto presuntuoso da andare a insegnarle a stare al mondo; adesso
ne capiva l’animo paziente, allora pensava che lei avrebbe
dovuto strizzare gli occhi, folgorata davanti alla Verità.
Ma lei non l’aveva fatto – tu invece non dovresti
pensare che siano tutti stupidi, brutti e cattivi. Credo che se
smettessi di pensarlo cresceresti un po’ anche tu.
Lui era arrossito e l’aveva fissata, piccato, ancora con la
bocca piena. Lei aveva riso e gli aveva sfiorato la guancia con
l’indice.
-Ricordati di masticare e mandare giù, - gli aveva detto, e
lui era arrossito ancora di più e si era arrabbiato per aver
fatto quella figura.
-Tieni le distanze, sei una senpai
dopotutto – aveva bofonchiato, e lei l’aveva
guardato con un sorriso tenero, come a dirgli che tra loro due non
sarebbero mai esistite distanze.
Non quando in tutti quegli anni, prima del liceo, avevano scavato
assieme grotte nella terra umida e creato montagne sulle radici degli
alberi, non dopo le raccolte delle prugne con un cestino di vimini ogni
estate, nel giardino oltre lo steccato, non dopo tutte le cioccolate
calde e i biscotti davanti a una videocassetta in inverno; questo
glielo riconosceva.
-Ricordi quando dicevo che potevo sollevare l’albero di
prugne con i miei poteri magici?
-Sì. Il tuo pruno volante.
-Me lo immaginavo come un tappeto magico, che ci avrebbe portati
lontano, in posti sconosciuti pieni di cascate, arcobaleni, ruscelli e
fate, e poi boschi…
-Tu non devi essere mai cresciuta da allora, eh?
-Mentre tu invece parlavi di dragoni alati che sputavano brina e
ghiaccio invece che fuoco. Ti piaceva l’idea di attaccare,
vero, Shiro? E tu sei cambiato, da allora…?
Lei aveva sorriso.
Lui aveva pensato che non sapeva proprio perché passava le
sue ricreazioni con questa sciocchina anziché starsene da
qualche parte, in pace, per conto suo.
-Ehi, buongiorno, Hitsugaya – lo salutò Renji
Abarai con un cenno, ma senza un sorriso. Non che Abarai fosse un tipo
sorridente, ma di certo era gioviale con gli amici. Con lui aveva
provato a fare l’allegrone all’inizio, ma aveva
presto capito che non era il tipo giusto.
-‘Giorno – gli rispose, con un cenno del capo. Kira
non c’era. Non lo vedeva in giro da un po’, in
effetti. Ma non gl’importava, per cui non chiese nulla.
Avrebbe voluto chiedergli di Hinamori, piuttosto, chiedergli cosa
stesse facendo, perché non uscisse mai di casa. Naturalmente
stava studiando, questo lo sapeva, vedeva la luce accesa ogni sera fino
a tarda notte. Ma non la vedeva mai andare fuori né
rientrare. Evidentemente avevano orari diversi; e, anche se gli era
saltata in testa l’idea di controllare dalla finestra quando
rincasava, si era dato immediatamente dello stupido perché
quello, diamine, sarebbe stato davvero un modo stupido per perdere
tempo prezioso.
Non gli chiese nemmeno di lei. Era troppo orgoglioso. Era lui il suo vicino
di casa, no? Era tenuto a saperlo, più di Abarai. Era con
lui che aveva passato la sua infanzia, non con lo stupido Abarai,
né con l’ancora più stupido Kira. E
anche se non sapeva quasi più nulla di lei, non la vedeva
più e avrebbe voluto vederla, non disse nulla. Era
l’unico modo per conservare la sua superiorità.
Non era questione di Hinamori, ma solo di superiorità.
Nel frattempo Abarai si era allontanato e Toshiro si diresse verso la
sua classe; prese posto al suo banco, in seconda fila vicino alla
finestra. Non gl’importava stare nelle prime file –
non aveva mica niente da nascondere, lui – ma era
fondamentale poter stare vicino alla finestra. Da lì poteva
illudersi di essere per metà fuori dall’aula.
Poteva guardare l’erba verde riflettere la luce del sole e
cullarsi dolcemente al soffio del vento. I campi sportivi si
estendevano promettendo giochi, estate e risate.
E quando si rese conto che lui non vi avrebbe preso parte,
perché non ne era
parte, pensò che non gli sarebbe dispiaciuto salire su quel
pruno volante e partire, alla volta di mondi incantati al di fuori del
tempo reale.
(Nda: scusate il ritardo, anche se non particolarmente
pesante… scrivo queste note principalmente per avvertire chi
segue questa storia che potrebbe non essere aggiornata a breve (questo
stesso capitolo era stato scritto in concomitanza col precedente). Le
idee ci sono sin dall’inizio e naturalmente questa storia,
che nei miei progetti è lunga e densa di contenuti,
sarà portata avanti; purtroppo, ora come ora, non so quando.
Ringrazio chi mi ha recensito e mi scuso di non rispondere
personalmente come di consueto. Alla prossima)
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