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Autore: The Corpse Bride    26/09/2010    8 recensioni
Ichigo Kurosaki inizia ad essere un problema per la Karakura High. Risse, cattiva condotta, nessuna intenzione di scendere a compromessi.
Ma, per evitare l'espulsione, gli viene fatta una proposta: una serie di incontri in gruppo organizzati da un consultorio per il sostegno agli adolescenti problematici, a cura di una professionista.
Ichigo se la sentirà di sviscerare la propria vita davanti a dei perfetti sconosciuti? Ma, soprattutto, chi sono questi sconosciuti, adolescenti problematici come lui, e che cosa li tormenta?
Perché in questo universo, Hollow e Arrancar non esistono, o, almeno, non sono quelli che ricordiamo. In questo universo, Ichigo e gli altri affrontano qualcosa di molto più pericoloso: i legami.
(Pairing principale: Ichiruki. Altri pairing verranno rivelati con lo svolgersi della storia.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Toshiro si diresse verso la scuola, tenendo salda la cartella. Un raggio di sole tiepido gli scaldò le braccia pallide, ma non gli piacque; odiava il sole del primo pomeriggio, lo trovava pesante e nauseante. Gli ricordava che avrebbe dovuto essere su un futon a riposare, nel fresco di casa sua, e invece era costretto ad andare a scuola, anzi, peggio, a tornare a scuola, dopo aver sperimentato la gioia di uscirne, finalmente.
A Toshiro la scuola non piaceva. La riteneva una seccatura; avrebbe di gran lunga preferito rimanere a casa a leggere un libro, magari in giardino, sulla sedia sdraio all’ombra del pruno della casa accanto, che estendeva i rami oltre lo steccato di legno. Così il sole  cocente del primo pomeriggio, immerso nel silenzio, sarebbe stato più sopportabile.
C’era solo lui per le strade della città a quell’ora; gli altri erano tornati al lavoro, oppure stavano mandando giù gli ultimi bocconi alla mensa per poi tornare nelle aule.
La sensazione di essere l’unica persona, in quel momento, a esistere sulla Terra, lo fece sentire bene. Era come se il resto del mondo si fosse adattato a nascondersi al suo sguardo infastidito, chiudendosi negli edifici e regalandogli finalmente del sano silenzio.
In questo modo, forse… forse poteva anche sopportare quel sole pressante che gli premeva sullo stomaco pieno. Ora il sole lo stava illuminando. C’era pace, e gli altri erano dove avrebbero dovuto essere: lontani da lui.
Ma fece una smorfia quando si trovò davanti alla scuola, che, anche se era chiusa e nessuno era in cortile, gli ricordò immediatamente il baccano, la banalità, la stupidità e la sua solitudine perenne.
Tsk, pensò, tanto che me ne faccio di questi idioti.
Anche se avessero voluto essere suoi amici – ed era abbastanza certo che non lo volessero – lui non sarebbe mai andato d’accordo con quei bambocci. Erano così infantili e nemmeno se ne rendevano conto. Non capivano nulla.
Non capivano la crisi, la casa, il lavoro, i soldi, la borsa di studio. Erano ragazzini agiati che non avevano bisogno di preoccuparsi di nulla. La loro madre non beveva sin dal primo mattino. Non c’erano sconosciuti a casa loro. E potevano permettersi di discutere di locali e acconciature e sigarette come se fossero state quelle le questioni importanti della vita.
Ma essere felici non era una colpa. E Toshiro non gliene faceva, in fondo, una colpa. La loro colpa era quella di essere stupidi – assottigliò gli occhi.
Non facevano altro che leggere manga, fumare di nascosto, e andare in centro a comprare vestiti. Il che non sarebbe stato del tutto sbagliato, supponeva Toshiro, se ogni tanto però avessero aperto un libro, guardato un telegiornale, o preso sul serio un brutto voto a scuola.
Ma poi, chi voleva prendere in giro?
Ciò per cui li odiava era il fatto di essere legati l’uno all’altro. Non aveva altri motivi per detestarli. Altrimenti, gli sarebbero scivolati addosso.
Toshiro avrebbe voluto che tutto gli scivolasse addosso. Ma si ritrovava sempre, con suo enorme fastidio, a dare importanza a cose che invece avrebbe voluto congedare con una smorfia, anzi, con un’occhiata, anzi, non guardarle proprio. Avrebbe voluto essere altero e distante e impassibile, uno che non veniva seccato dagli altri e che non seccava gli altri. Questo voleva essere. Un pezzetto di ghiaccio: visibile, certo, ma trasparente.
Più o meno lo era, ad ogni modo. Se ne accorse entrando a scuola. Lo conoscevano tutti, certo: era quello con i voti più alti della storia della scuola, il prodigio, il ragazzo con la borsa di studio. Ed era l’unico, l’unico che girasse per i corridoi della scuola perennemente da solo. Non gl’importava. Erano solo dei caproni. Lo stesso, gli pesava passare la maggior parte della sua giornata in silenzio.
E, quando tornava a casa, dover ragionare con quell’elemento di sua madre.
Quando c’era Lei, era diverso. Lei lo prendeva a braccetto e camminava con lui a scuola. Poi facevano merenda assieme. E quando stava con lei, che era dolce e sorridente e solare, lei che andava d’accordo con tutti e piaceva a tutti, la gente lo guardava in modo diverso. Come se si stesse chiedendo che cosa avesse spinto senpai Hinamori, così bella e simpatica, a legarsi così tanto a quel lupo solitario di Hitsugaya Toshiro; come se stessero prendendo atto del fatto che lui potesse avere qualcosa di speciale, qualcosa che aveva attirato Lei.
Lo guardavano così, con curiosità, in parte per il suo noto profitto, in parte per il suo noto carattere introverso, in parte perché era amico di Momo. Anche se era da un pezzo che non la chiamava più Momo. La chiamava Hinamori, come tutti gli altri, e lei, dopo svariate insistenze, aveva preso a chiamarlo Hitsugaya.
Se solo lei non avesse avuto tanta fretta di diplomarsi, adesso sarebbe stato con lei, almeno. Lei era ingenua e un po’ sempliciotta, forse, ma era meno peggio degli altri. Invece aveva voluto affrettare il diploma e frequentare il secondo e il terzo anno assieme, quindi aveva preso lezioni in un doposcuola costosissimo e alla fine era uscita dalle scuole superiori un anno prima. Così avevano trascorso soltanto un anno insieme in quella scuola, il primo anno di Toshiro.
Il fatto di trascorrere tutto il tempo libero con lei durante il primo anno, pur se la verità era che stava con lei solo perché gli altri gli sembravano dei perfetti idioti, non l’aveva aiutato ad amalgamarsi con la classe. Lo consideravano come uno che passava il suo tempo con gli studenti più grandi. Perché, ai tempi, Hinamori aveva il suo gruppo solido; c’era quell’Abarai, con cui non aveva mai scambiato più che un saluto, e  c’era quel Kira, che ora veniva agli incontri con lui, ma, così come non l’aveva considerato agli incontri, non l’aveva mai preso in considerazione nemmeno prima. Lo trovava un tipo insignificante, così insignificante da doversi riempire la testa di Hinamori per averci dentro qualcosa. Non che gli importasse degli affari personali di Hinamori, ma, se proprio doveva scegliersi qualcuno, che per carità non fosse quell’insulso di Kira. Abarai, piuttosto. Era sgradevole come pestare una cacca sul marciapiede, ma almeno era un uomo.
Poi lei gli aveva raccontato che c’era un tale Hisagi, nel loro gruppetto, quando loro ancora erano al primo anno e lui era all’ultimo; li aveva presi sotto un’ala protettiva e ogni tanto si univa a loro, anche se erano del primo anno, per due chiacchiere sul terrazzo. Glielo aveva descritto come un bel ragazzo, forte e coraggioso, con un cuore grande. Ma questo non contava. Hinamori descriveva così più o meno chiunque; questo Hisagi avrebbe anche potuto essere un idiota mezzasega come quello Shuhei di quel pomeriggio, che tanto per lei sarebbe stato il più impavido degli eroi dal cuore d’oro.
-Tu non capisci niente – le aveva detto una volta, sgranocchiando una mela durante l’intervallo. Naturalmente non si era spiegato. Lei aveva subito interrotto la sua merenda e l’aveva guardato stupita.
-Eeh? Perché, Shirochan?
-Ti ho detto di non chiamarmi così.
-Ma qui non ci sentirà nessuno, non devi preoccu..
-Se mi chiami Shirochan vado a mangiare da un’altra parte.
-D’accordo, Hitsugaya… - ridacchiò un poco, cosa che infastidì Toshiro, ma non poi così tanto – perché non capisco niente, allora?
-Perché pensi che tutti siano bravi e buoni e belli. Mentre non è così. Quand’è che ti deciderai a crescere e impararlo?
-Mmh – lei non si era offesa, benché un kohai fosse tanto presuntuoso da andare a insegnarle a stare al mondo; adesso ne capiva l’animo paziente, allora pensava che lei avrebbe dovuto strizzare gli occhi, folgorata davanti alla Verità. Ma lei non l’aveva fatto – tu invece non dovresti pensare che siano tutti stupidi, brutti e cattivi. Credo che se smettessi di pensarlo cresceresti un po’ anche tu.
Lui era arrossito e l’aveva fissata, piccato, ancora con la bocca piena. Lei aveva riso e gli aveva sfiorato la guancia con l’indice.
-Ricordati di masticare e mandare giù, - gli aveva detto, e lui era arrossito ancora di più e si era arrabbiato per aver fatto quella figura.
-Tieni le distanze, sei una senpai  dopotutto – aveva bofonchiato, e lei l’aveva guardato con un sorriso tenero, come a dirgli che tra loro due non sarebbero mai esistite distanze.
Non quando in tutti quegli anni, prima del liceo, avevano scavato assieme grotte nella terra umida e creato montagne sulle radici degli alberi, non dopo le raccolte delle prugne con un cestino di vimini ogni estate, nel giardino oltre lo steccato, non dopo tutte le cioccolate calde e i biscotti davanti a una videocassetta in inverno; questo glielo riconosceva.
-Ricordi quando dicevo che potevo sollevare l’albero di prugne con i miei poteri magici?
-Sì. Il tuo pruno volante.
-Me lo immaginavo come un tappeto magico, che ci avrebbe portati lontano, in posti sconosciuti pieni di cascate, arcobaleni, ruscelli e fate, e poi boschi…
-Tu non devi essere mai cresciuta da allora, eh?
-Mentre tu invece parlavi di dragoni alati che sputavano brina e ghiaccio invece che fuoco. Ti piaceva l’idea di attaccare, vero, Shiro? E tu sei cambiato, da allora…?
Lei aveva sorriso.
Lui aveva pensato che non sapeva proprio perché passava le sue ricreazioni con questa sciocchina anziché starsene da qualche parte, in pace, per conto suo.
-Ehi, buongiorno, Hitsugaya – lo salutò Renji Abarai con un cenno, ma senza un sorriso. Non che Abarai fosse un tipo sorridente, ma di certo era gioviale con gli amici. Con lui aveva provato a fare l’allegrone all’inizio, ma aveva presto capito che non era il tipo giusto.
-‘Giorno – gli rispose, con un cenno del capo. Kira non c’era. Non lo vedeva in giro da un po’, in effetti. Ma non gl’importava, per cui non chiese nulla.
Avrebbe voluto chiedergli di Hinamori, piuttosto, chiedergli cosa stesse facendo, perché non uscisse mai di casa. Naturalmente stava studiando, questo lo sapeva, vedeva la luce accesa ogni sera fino a tarda notte. Ma non la vedeva mai andare fuori né rientrare. Evidentemente avevano orari diversi; e, anche se gli era saltata in testa l’idea di controllare dalla finestra quando rincasava, si era dato immediatamente dello stupido perché quello, diamine, sarebbe stato davvero un modo stupido per perdere tempo prezioso.
Non gli chiese nemmeno di lei. Era troppo orgoglioso. Era lui il suo vicino di casa, no? Era tenuto a saperlo, più di Abarai. Era con lui che aveva passato la sua infanzia, non con lo stupido Abarai, né con l’ancora più stupido Kira. E anche se non sapeva quasi più nulla di lei, non la vedeva più e avrebbe voluto vederla, non disse nulla. Era l’unico modo per conservare la sua superiorità.
Non era questione di Hinamori, ma solo di superiorità.
Nel frattempo Abarai si era allontanato e Toshiro si diresse verso la sua classe; prese posto al suo banco, in seconda fila vicino alla finestra. Non gl’importava stare nelle prime file – non aveva mica niente da nascondere, lui – ma era fondamentale poter stare vicino alla finestra. Da lì poteva illudersi di essere per metà fuori dall’aula. Poteva guardare l’erba verde riflettere la luce del sole e cullarsi dolcemente al soffio del vento. I campi sportivi si estendevano promettendo giochi, estate e risate.
E quando si rese conto che lui non vi avrebbe preso parte, perché non ne era parte, pensò che non gli sarebbe dispiaciuto salire su quel pruno volante e partire, alla volta di mondi incantati al di fuori del tempo reale.












(Nda: scusate il ritardo, anche se non particolarmente pesante… scrivo queste note principalmente per avvertire chi segue questa storia che potrebbe non essere aggiornata a breve (questo stesso capitolo era stato scritto in concomitanza col precedente). Le idee ci sono sin dall’inizio e naturalmente questa storia, che nei miei progetti è lunga e densa di contenuti, sarà portata avanti; purtroppo, ora come ora, non so quando.
Ringrazio chi mi ha recensito e mi scuso di non rispondere personalmente come di consueto. Alla prossima)
  
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