Tightrope.
L’ultimo
mio acuto era risuonato
a lungo nell’arena, sovrastando le grida eccitate di un
pubblico probabilmente
sordo e cieco, che s’accontentava di un sorriso di facciata e
due orecchie rosa
da coniglio. Avevo fatto del mio meglio in un ruolo che avevo sempre
amato, ma
a cui avevo rinunciato per avere la SUA
di voce, così come aveva fatto del suo meglio Ken che, alla
batteria, era
davvero poco più di un dilettante appena talentuoso ed
entusiasta. Yukihiro era
un discorso a parte, virtuoso alla batteria come al basso che gli avevo
momentaneamente ceduto: troppo serio e preso dalla musica per facili
dilettantismi. Per questo mi è sempre piaciuto.
I
P’unk erano nati per gioco e
per sfida, come valvola di sfogo e come esperimento: per capire se non
ci
riusciva di divertirci come era successo secoli prima a scambiarci i
ruoli e
giocare per il gusto di farlo.
E
non ci riusciva, ecco l’amara
verità.
Non
più almeno, perché una volta
haido strappava la chitarra a Ken come un invasato e cominciava a
dimenarsi
come tale. Riuscendo al più a spettinarsi, comunque,
ché come chitarrista non
sarebbe mai arrivato alle vette a cui pure aveva aspirato in passato,
prima che
gli togliessi ogni velleità in tal senso, blandendolo in
principio, e
mettendolo poi davanti alle prove evidenti non fosse il caso
accantonare il
talento innato della sua voce per quello vagheggiato di una chitarra
che
comunque non impugnava con la stessa fermezza di Hiro. O lo stesso
trasporto di
Ken. Che gliela cedeva un po’ preoccupato, ma la batteria gli
piaceva, non era
bravo la metà di Yukki, ma, in fondo, nemmeno ci teneva. I
chitarristi
concludono di più, l’eccezione c’era
stata, ma, per quanto quel capitolo della nostra
storia non fosse più una ferita aperta e dolorosa, rimaneva
comunque un’eco
nostalgica, come di un ricordo che fa scivolare giù una
lacrima su un sorriso.
Ma
i sorrisi non c’erano più. Non
veri, almeno, che alle telecamere sapevamo regalarne a iosa, stendendo
le
labbra in mille modi diversi, abbozzando ghigni divertiti, sorrisi
timidi o
consapevoli o felici o imbarazzati o qualsiasi altra sfumatura ci fosse
richiesta dal momento. Ma di sorrisi veri, sentiti, nemmeno
l’ombra. Pensare
che eravamo riusciti a sorridere – coprendo le lacrime,
è vero, ma erano
sorrisi reali almeno - persino in quel maledetto ’97 che
sembrava volesse
schiacciarci senza appello. Comunque ancora sorridevamo. E non tanto
alle
telecamere o alle macchine fotografiche, quanto tra noi, in backstages
non
monitorati, in uscite non programmate, in un appartamento condiviso in
una
città straniera, che ci aveva accolti regalandoci una nuova
verginità pubblica.
Ci avevamo anche pianto e parecchio, a dire tutta la verità,
ma, in ogni caso,
erano sentimenti veri. Reali.
Mi
sono sorpreso spesso a
ripensare a quei giorni. E’ strano no? Stava andando tutto
– prosaicamente
parlando - a puttane, ci avevano deportato di punto in bianco in una
città
lontana dicendo che dovevamo giocare ai bravi ragazzi per ripulire la
nostra
immagine, gironzolando per strade di campagna o fingendo un appetito
che,
francamente, proprio non avevamo. A partire proprio da haido, che pure,
da che
lo conoscevo, si era sempre ingozzato come un maiale facendo sorgere
spontanea
la domanda ‘Ma dove la
metterà tutta
quella roba, visto che è così piccolo?’.
Io almeno, me lo ero sempre
chiesto. In quel periodo temetti di non farcela per la prima volta da
che
esistevano i L’Arc~en~Ciel; non avevo affrontato lo sconforto
e la rabbia che
mi colsero allora nemmeno quando Hiro ci lasciò al palo
proprio quando la
stampa cominciava ad occuparsi di noi. O quando Pero decise di mollare
alla
vigilia delle registrazioni del nostro primo album. In quei momenti
pensai solo
a rimboccarmi le maniche, come avevo sempre fatto, ed a rassicurare la
voce del
mio arcobaleno e dei miei sogni. Perché io, una voce come la
sua, l’avevo
sempre sognata.
In
tutti i sensi poi.
Camminavo
sulla corda tesa della
vita e dello showbiz come un equilibrista, col sorriso sulle labbra e
la paura
ben celata nel petto perché non la vedesse nessuno, nemmeno
il sottoscritto
nello specchio. Non mi sentivo invincibile, ma comunque qualcosa di
molto
vicino, perché io VOLEVO. Ho sempre pensato fosse la parola
magica: volere e
potere – inutile retorica a parte - erano due sinonimi per
me, poco importava
se i libri di grammatica non erano d’accordo. Io ci credevo.
E con questa
convinzione sono sempre andato avanti dritto per la mia strada, teso
sulla
corda che mi ero scelto. Nonostante tutto e tutti.
Nonostante persino me stesso.
Ma,
in quel ‘97 maledetto,
sembrava la volontà non servisse più a nulla: io
volevo andare avanti, ma non
potevo. I giornali non me lo permettevano, le radio non me lo
permettevano, la
Sony non me lo permetteva. Persino haido non me lo permetteva. Proprio
lui. Ero
furioso e deluso e frustrato. Stavamo colando a picco, scivolando
sempre più in
basso. Rimanevo in equilibrio sulla mia corda aggrappandomi con le
unghie alle
mie convinzioni, alle mie responsabilità, cercando di
trattenere i miei compagni
-quelli rimasti, almeno, non credo sarei
riuscito ad accettare l’abbandono di nessun altro in quel
momento-, ma non
riuscivo a muovere un solo passo in avanti, frenato da tutto quello che
avevo
sempre creduto di poter modellare per mio piacere. Per mio volere.
Avrei
dovuto chiudere tutto
allora, mettere una croce sull’Arcobaleno e ricominciare dal
principio, magari piazzandomi
proprio davanti a quel microfono di cui mi ero privato per uno stronzo
egoista,
capace di fingere e scimmiottare se stesso in qualsiasi circostanza,
tranne quando
quel suo talento di attore avrebbe piuttosto fatto comodo a ME. Ma non
potevo,
non avrei mai potuto, perché quello su cui tutti sembravano
voler sputare era
il mio sogno. Era il mio arcobaleno, era il mio lavoro, era la mia
vita. Era la
corda sulla quale avevo scelto di camminare. Non avrei mai permesso a
nessuno
di portarmelo via.
Dovevo
solo tenderla di più e
rendere più stabile possibile l’appoggio,
bilanciare meglio i pesi: c’era stata
una battuta arresto, la corda aveva oscillato violentemente, mi ero
dovuto
piegare rischiando di perdere la presa, ma potevo andare avanti. Dovevo. Per il mio arcobaleno avevo
rinunciato a troppe cose, inghiottito troppo veleno e troppe delusioni
e troppe
frustrazioni. All’Arcobaleno avevo sacrificato un pezzo
consistente del mio
cuore e della mia vita, non potevo rinunciarci senza lottare. E
così ho fatto.
Ho ristabilito l’equilibrio ed ho ripreso a muovermi sulla
corda senza lasciare
indietro nessun altro pezzo. E’ stata dura, dio se lo
è stata: certe notti
sembravano non voler finire mai, alcuni giorni erano troppo brevi per
tutto
quel che c’era da fare. Ken si allontanò da me con
una nettezza che mi
spaventò: lo so, ho sempre lasciato intuire di non aver
bisogno di nessuno,
sempre proclamato la mia libertà emotiva. Beh,
un cazzo. Ken lo conoscevo da troppo tempo per poter
accettare a cuor
leggero quel distacco: con lui avevo giocato a baseball dopo la scuola
da
bambino, parlato di sesso e ragazze come solo degli adolescenti alle
prime armi
–vagheggiate, tra l’altro-
possono
fare, con lui ho scoperto la musica che mi avrebbe cambiato la vita,
con lui ho
imparato a suonare il basso, con lui ho progettato il primo gruppo e
cominciato
a sognare. Non potevo accettare uscisse dalla mia vita. E,
intendiamoci, ho
detto ‘vita’.
Sapevo che per il
gruppo sarebbe rimasto e avrebbe continuato a suonare e fare del suo
meglio.
Rischiavo di sbilanciarmi ancora.
A
Londra avevamo tutti abbastanza
autonomia, non ci conosceva nessuno e non rischiavamo di essere
assaliti dai
fans o dalle domande di giornalisti a cui avrei preferito fortemente
sputare in
un occhio. Anche se non sarebbe stato molto diplomatico. Comunque
potevamo
gironzolare come e quanto ci pareva nei limiti consentiti dal buonsenso
e dagli
orari di lavoro. Ken ne aveva ampiamente approfittato per dileguarsi il
più
possibile. Mentre haido… beh, haido era un discorso diverso,
meglio parlarne in
seguito e non spezzare il filo del discorso.
Dunque
Ken si era dato alla
macchia, e quando c’era, se non faceva proprio finta di non
notarmi, mi
rispondeva a monosillabi o frasi stentate. Roba da buttarlo
giù dalla finestra.
Il problema era avessi pure intuito il perché del suo
comportamento e, se fosse
stata semplicemente la delusione e la rabbia per quanto ci stava
succedendo,
l’avrei pure capito. Ma non era così,
perché con haido si comportava sempre
allo stesso modo, anzi, era persino più attento e meno
invasivo di come era
sempre stato. Anche con Yukihiro si comportava in modo naturale e
disinvolto,
riusciva persino a farlo ridere con qualche battuta, a metterlo a suo
agio – perché,
diciamocelo, stare dietro a tre
zombies, anche se per lavoro, non doveva essere il massimo -.
Solo con me
era distante, come se fossi io il problema. Gli avrei scuoiato la gatta
e fatto
trovare la pelliccia sul cuscino per sfregio, tanto il suo
atteggiamento mi
faceva imbestialire. Alla fine non l’ho fatto, ovviamente,
dato che Elizabeth
non ha nemmeno mai immaginato –credo.
A
volte mi guarda male pure lei- quel che avrei voluto fare al
suo bel pelo
grigio. Alla fine, sul suo cuscino, Ken ci trovò me, e non
dev’essere stata
un’esperienza piacevole, un po’ perché
avevo due occhiaie che sembravo il nonno
brutto di Dracula e non ero un belvedere, un po’
perché mi ero stufato di fare
quello comprensivo e condiscendente -quando
nessuno si prendeva la briga nemmeno di fingersi tale, con me-
ed ero
incazzato nero. E si vedeva pure
attraverso le occhiaie. Contrariamente a quel che mi
aspettavo, Ken non fu
sorpreso di vedermi o, almeno, non lo lasciò vedere. Mi
fissò per qualche
secondo senza espressione, poi cominciò a togliersi la
giacca e la buttò
disordinatamente –sottolineo il ‘disordinatamente’,
pur sapendo quanto odiavo il disordine- sul letto come se nulla fosse.
“Sono
stanco morto tetsu, potresti farmi la morale domani? Lo so che
è tardi e
domattina dobbiamo lavorare, ma sono stato ad un concerto
e…” “Tralascia i
discorsi inutili, Ken, lo sai che non sono qui per fare il leader. Che
diavolo
sta succedendo?” “Che diavolo sta
succedendo?” “Non fare il finto tonto, sono
già abbastanza stressato di mio senza che ti ci metta pure
tu con i tuoi
giochetti.” “Non capisco di cosa parli, tetsu.
Quello che sta succedendo mi
pare abbastanza palese senza che te lo venga a ricordare io, o
no?”
“Maledizione Ken, non sto parlando del gruppo e lo sai
benissimo!” “Ah lo
saprei? Onestamente, tetsu, che cosa vuoi?” “Voglio
sapere che sta succedendo,
Ken. Perché mi eviti, che diavolo ti ho fatto? Sto facendo
di tutto per
rimettere le cose a posto, non ci dormo la notte e lo sai. Quando ti ho
convinto ad unirti al gruppo ti avevo giurato che saremmo diventati
grandi, ti
ho giurato che non te ne saresti pentito. Beh, sono ancora convinto di
poter
mantenere quella promessa, io-”. Non mi diede il tempo di
terminare, perché
cominciò ad incazzarsi lui. O meglio, temo già
fosse tremendamente arrabbiato
ed aspettasse solo l’occasione per esplodere. Pareva
gliel’avessi data. A quel
punto doveva solo sputare il rospo.
“Certo
che ne sei convinto! Tu
sei sempre convinto di quello che fai, giusto? Il gruppo prima di
tutto, i
L’Arc~en~Ciel prima di tutto! Ma prima di che??? Non dovremmo
essere NOI il
gruppo? Eppure guarda come siamo ridotti, haido sembra una larva, io
non so più
che diavolo sta succedendo e Sakura è in galera! Dove cazzo
siamo arrivati, eh?
A che cosa ha portato quel che abbiamo fatto? Ad antidepressivi ed una
siringa,
ecco a cosa!”.
Eccolo
lì il punto, il nodo
gordiano in cui si allacciavano tutti i suoi silenzi. Stava dando la
colpa a
me. A ME. Mi puntava contro il dito
come se avessi riempito io il secchio di merda che ci avevano tirato
addosso.
Come se l’avessi messa io la siringa in mano a Sakura,
quando, e lo sapeva fin
troppo bene dato che c’era anche lui, avevo tentato piuttosto
di togliergliela.
Da non crederci. Mi stava accusando di aver provocato il crollo di
haido e di
aver spinto Sakura a drogarsi. Soprattutto quello poi, che sapeva bene
ad haido
non avrei mai potuto fare del male neppure volendo.
Ed
era troppo, più di quanto
potessi sopportare. Che colpa ne avevo io se Sakura non aveva avuto la
forza e
le palle per continuare col cervello lucido ed aveva scelto la strada
più
facile? Quale era stata la mia colpa, quella di spronarli ad
impegnarsi? Quella
di aver lavorato come un mulo per guadagnarci una copertina in
più? Perché le
nostre canzoni risuonassero di sera tra i grattacieli di Shibuya o in
radio? Era
colpa mia? Sperai davvero non lo pensasse sul serio e fossero parole
dettate
dalla rabbia, perché l’avrei ucciso ed in galera
ci sarei finito anch’io
insieme al suo adorato Sakura. Purtroppo non ne ero del tutto convinto
e le sue
parole non fecero altro che alimentare la mia paura. E non potevo
accettarlo:
non era colpa mia, non poteva essere colpa mia. Non avevo alcun motivo
di
sentirmi in colpa e non era giusto pretendesse fosse il contrario.
Il
discorso che seguì non lo
ricordo molto bene. Ricordo che urlai molto, però, cosa che
non avevo fatto
molto spesso. Anche Ken ricominciò ad urlare e, se non si
arrivò alle mani, fu
solo perché, mentre urlavo, mi ero pure messo a piangere.
Sono sempre stato una
frana nel gestire questo tipo di situazioni e, con Ken, non avevo
neanche mai
davvero litigato, quindi non ero preparato a quel che stava succedendo.
Io odio non essere preparato, divento
vulnerabile.
Almeno
in quell’occasione, il
fatto fossi un piagnone, fu un bene, comunque. Se ci penso ancora mi
vergogno
per quel che gli dissi. E, in buona sostanza, vuotai il sacco
anch’io. Cosa si
era messo in testa, che quella situazione mi facesse piacere? Che fossi
contento Sakura fosse finito dentro mettendoci in quel casino? Che
fossi
contento Sakura avesse deciso di buttare nel cesso la sua vita, prima
ancora
della band? Credeva davvero non m’importasse nulla di quel
gorilla rumoroso che
calamitava le attenzioni di tutti –e,
davvero, proprio di tutti.-? Beh, proprio perché
m’importava tanto di lui
c’ero rimasto tanto male e, quel febbraio maledetto, non me
lo sarei più
dimenticato. Proprio perché gli avevo dato tanto tempo,
tanta fiducia, mi ero
sentito poi così tradito: non aveva solo rischiato di
rompere irrimediabilmente
il mio ‘giocattolo’, come diceva Ken, ma di
spezzare i miei sogni. Ed i miei
sogni sono la mia vita, sono la cosa più importante: il
fatto avessi accettato
di dividerli con loro -non solo di
renderli partecipi, ma proprio di DIVIDERLI- non voleva
proprio dire
niente? Credeva forse non ricordassi più quanto ci eravamo
divertiti insieme,
tutti e quattro, quanto avevamo riso in quelle saune da due soldi nel
Kenkou? E
persino in Marocco, con haido che rognava per ogni scemenza, dal caldo
alle
vecchie imbroglione. Io ricordavo tutto invece, per questo mi
c’incazzavo
ancora di più. Per questo avrei voluto avere Sakura sotto
mano e strozzarlo con
le mie mani. Ma no, Sakura è la vittima ed io sono il
carnefice. E se lo pensava
anche lui che mi conosceva da tanti anni, doveva pure per forza essere
così. Vero? Ero uno stronzo insensibile, giusto, Ken?
Non
lo so per quanto ho urlato e
pianto, e non so nemmeno cosa mi aspettassi dopo. Però Ken
se ne stette zitto
per un po’, poi prese la giacca e se ne andò senza
nemmeno un cenno,
richiudendo piano la porta dietro di sé. Io rimasi fermo
ancora per un po’ con
il fiatone e la gola in fiamme, poi tornai in camera mia per
controllare haido
non si fosse svegliato. Succedeva spesso si addormentasse nella mia
stanza con
una scusa o con un’altra. Il letto era grande e non mi
dispiaceva dividerlo ed,
in più, potevo controllarlo meglio. Quella sera mi sentivo
svuotato da tutto,
ma ero sempre stato un tipo abitudinario, quindi feci quel che facevo
tutte le
sere e mi accertai dormisse e fosse coperto. La prima era una
preoccupazione
inutile data la quantità di antidepressivi e sonniferi che
prendeva, ma almeno
mi tenevo occupato. Gli rimboccai meglio le coperte e mi stesi accanto
a lui:
era mezzanotte passata ed avevo appena perso un amico. “L’amico”, in
realtà. Comunque sia, l’avevo perso, poco ma
sicuro, e
non avevo nemmeno la forza di lamentarmi. La
corda si allentava.
L’orologio
ticchettava con
cadenza regolare lo scorrere del tempo ed, inutile precisarlo, era
l’unico
rumore riempisse l’appartamento. Alle 2 del mattino Ken non
era ancora
rientrato ed io non avevo cambiato posizione né,
probabilmente, espressione.
Alle 3 mi ero ripassato per la duecentesima volta l’immagine
di Ken che mi accusava
in mente ed ero di nuovo arrabbiato. Giravo per casa come un animale in
gabbia,
col cellulare in mano, deciso a chiamarlo e dirgliene ancora quattro,
ma non
riuscivo a decidere come cominciare. Mentre stavo per digitare il
numero,
comunque, qualcuno mi precedette e mi ritrovai sul display un nuovo
messaggio.
Ken.
Erano le 3:24 del mattino.
Mi
tremava un po’ la mano quando
premetti il tasto per aprirlo, ma avevo un principio di Parkinson dopo
aver
finito di leggerlo. Non sono un tipo particolarmente sentimentale,
forse
perché, in fondo, non mi fido davvero delle intenzioni di
nessuno. Però
esistono persone che riescono a penetrare le barriere di chiunque e Ken
era una
delle pochissime persone che potesse dire di aver superato le mie. Per
farla
breve, mi ritrovai a leggere un messaggio che, se non fosse stato per
il numero
telefonico e per il momento contingente, avrei preso per uno scherzo
scemo di
quel deficiente: Ken, nonostante le apparenze, quando si tratta di
sentimenti,
è un tipo quasi più abbottonato di me e non ne
parla mai a sproposito (tranne
quando è ubriaco, perché allora, quando gli
prende la sbronza triste o quella
sentimentale – Ken ha una vasta
gamma di
sbronze -, ti abbraccia in continuazione e ripete ogni due
minuti che ti
vuole bene. Le prime volte la cosa mi toccava, anche, poi una volta mi
mollò
per abbracciare e sbrodolare amore su un palo della luce e rividi le
mie
opinioni.). Eppure mi mandò quel tipo di messaggio che,
quando te lo manda una
ragazza pensi “wow, che carina!”
e
sei tutto contento, ma se lo fa un amico, beh, tralasciando facili e
scontate
battute sull’omosessualità, ti sciogli. E
io mi sciolsi.
La
mattina dopo, perché alla fine
ero andato a letto e mi ero pure addormentato, lo trovai in cucina con
una
faccia orribile che preparava la colazione per tutti. LUI.
“Buongiorno
Tetchan, la bella
addormentata non s’è ancora svegliata? Mi sa che
come Principe Azzurro vali
poco, allora.”.
Pace
fatta.
Fortunatamente
riuscimmo a
risolvere la situazione così in fretta, o non sono sicuro
che avrei retto un
mese intero in Europa; Germania o Inghilterra che fosse.
Con
haido, come ho anticipato, il
discorso era molto, molto diverso, ci conoscevamo da molto meno tempo,
ma non
per questo il nostro rapporto era meno importante. Semplicemente, era
diverso. Se
Ken, poi, era arrabbiato e se l’era presa col sottoscritto,
haido era a pezzi
e, sempre al sottoscritto, si era aggrappato e, con lui, non sarebbe
stato
facile risolvere. Infatti non fu facile e di ripercussioni ce ne sono
state tante.
Soprattutto su di me, ma di questo racconterò poi.
Con
haido avevo sempre avuto un
bel rapporto, forse perché avevamo cominciato con il piede
giusto: io lo
viziavo e blandivo per quant’era bravo come autore,
già allora, e per la sua
voce meravigliosa e lui viziava e blandiva me per quanto ero bravo come
leader.
Ci facevamo bene all’ego a vicenda, insomma, e questo
è sempre un ottimo modo
per cominciare un rapporto, no? Il nostro cominciò
così, senza troppi slanci
emotivi, professioni d’amicizia eterna o altro:
semplicemente, fu un incontro
professionale che soddisfò entrambi sotto diversi punti di
vista. Io mi ero
innamorato della sua voce, mica di lui. Non è la stessa
cosa. Cambiò in
seguito, col passare del tempo, solo più in seguito posso
dire che diventammo
davvero amici. Avevamo poco più di vent’anni,
allora, non eravamo più
ragazzini, ma nemmeno ancora uomini. haido, al contrario di me
– che sono silenzioso, non timido.
E’ diverso -
è una persona molto insicura e molto timida, eppure fu
proprio lui ad
avvicinarsi per primo in modo più diretto. A piccoli passi,
ma il nostro
rapporto cominciò a diventare più profondo e
più bello. A volte era
insopportabile per quanto sapeva essere appiccicoso ed invadente, ma,
in buona
sostanza, nonostante fosse più grande di me di quasi un
anno, finì per
diventare il mio fratellino. O un’altra sorellina. E, come
tale, potevo odiarlo
ed amarlo con altrettanta intensità. Non erano sempre rose e
fiori chiaramente,
ma, la sua cieca fiducia nelle mie capacità e nel mio
giudizio, m’infondevano
una sicurezza tutta nuova e piacevole. Così come le mie
parole avevano sempre
effetto su di lui, nel bene come nel male: proprio come per un
fratellino più
piccolo. A volte mi sentivo oppresso, ma non credo avrei saputo
rinunciare alle
sue telefonate continue per chiedermi di venire da me, o alle sue
continue
richieste di un parere: prima ancora che un balsamo per
l’ego, lo erano
diventate per il cuore. Insomma, avevamo cominciato con il piede giusto
e ne
era scaturita una bella amicizia. Le cose non mutarono nemmeno con
l’arrivo di
Ken-chan e, successivamente, con quello di Sakura. Forse Sakura ci mise
un po’
più di tempo a far breccia nel suo guscio, ma alla fine ci
riuscì. E ci riuscì
davvero bene. Forse questa è un’ulteriore ragione
per avercela con Yasunori
Sakurazawa, dopotutto. Non dico sia interamente colpa sua se haido si
è ridotto
in quello stato e, di certo, comunque non ne aveva
l’intenzione. Eppure haido
si era molto legato a lui. Credo che per lui, Sakura, fosse un
po’ quello che
Ken è per me: L’Amico.
Sakura lo
trattava da suo pari, non con la condiscendenza che, lo ammetto, a
volte –spesso, in realtà-
io usavo con lui.
Però continuavamo a volerci bene come sempre, nonostante
tutto. Io lenivo la
sua strana insicurezza con l’unico mezzo fosse davvero utile
con lui, la
fisicità. A parte i fanservice, ci baciavamo spesso nei
backstages, senza
malizia e senza vergogna. L’ho detto, eravamo come due
fratelli, non ci ho mai
visto nulla di male nell’abbracciarlo o baciarlo e a lui
faceva piacere, si
tranquillizzava. E lui continuava, a suo modo e senza saperlo, a farmi
sentire
davvero importante, nonostante le case discografiche e i manager. Ken
scherzava
spesso sul nostro rapporto, anche se a volte aveva una strana
espressione e, in
privato, mi faceva discorsi bizzarri. Onestamente non ho mai capito le
sue
preoccupazioni, haido era una persona molto fisica con tutti, anche con
lui,
cercava spesso il contatto. E, comunque, stava sempre incollato a
Sakura, non a
me. Non più almeno.
“Non è la quantità
del tempo, ma la qualità, quella che conta.”
Mica ho mai capito dove volesse arrivare. Allora ci
ridevo e non mi
sembrava importante.
Mentre
eravamo a Londra haido
dormiva spesso nel mio letto, come ho già detto, ma quello
era davvero il minimo:
dopo l’arresto di Sakura –al quale, tra
l’altro, assistette. Ma non ha mai
voluto raccontare i particolari di quel giorno neppure a me-
cominciò a
soffrire di tremende crisi d’ansia. Non voleva dormire,
mangiava pochissimo,
cominciava spesso a tremare senza apparente ragione. A volte mi si
stringeva
contro il braccio senza dire niente, se ne stava semplicemente seduto
attaccato
al mio braccio con lo sguardo perso nel vuoto: le prime volte tentavo
di
parlargli, di calmarlo, ma era evidente non mi sentisse nemmeno.
Così, quando
succedeva, lo lasciavo semplicemente fare, lasciavo che mi strizzasse
il
braccio e cercavo di continuare quel che stavo facendo. Lui rimaneva
così per
un po’, poi, senza dire nulla, si alzava lentamente ed andava
fuori a fumarsi una
sigaretta. Non era mai stato un gran chiacchierone, ma quel silenzio mi
turbava, mi faceva paura. Come diceva Ken, haido sembrava una larva,
era appena
l’ombra di quel che era stato. Ero quasi sollevato quando lo
trovavo nel mio
letto che fingeva di dormire in modo che non potessi dirgli di tornare
nel suo
–dovevo pur mantenere le apparenze-,
in quel modo potevo monitorare meglio la situazione, accertarmi che il
mattino
seguente ci sarebbe stato ancora. E la mia, purtroppo, non era semplice
paranoia. haido non aveva solo una cera orribile, soprattutto non aveva
la
forza e –temo- la voglia,
di andare
avanti. Se non pensò al suicidio con serietà, di
certo pensò, seriamente, di
lasciare la band: per tornarsene a Wakayama dai suoi, per fare il
solista, non
lo sapeva nemmeno lui con chiarezza, credo.
Non
è una bella cosa da dire, ma,
sebbene mi facesse male vederlo in quello stato, la mia paura maggiore
era se
ne andasse anche lui. In che modo non era importante, al momento, ero
terrorizzato dall’idea ci lasciasse ed avrei fatto qualsiasi
cosa perché non
succedesse. Credo fu quella paura, più della reale
preoccupazione nei suoi
confronti, a farmi diventare la sua ombra ed ad innescare il domino di
avvenimenti e sentimenti che hanno poi portato a dove siamo:
probabilmente non
sono così freddo come mi piace pensare e sbandiero pure con
discreto orgoglio.
Un altro scossone alla corda.
Cominciai
a telefonargli spesso,
ad andare a trovarlo anche troppo di frequente. haido mi ha sempre
accusato di
essere un assenteista quando non entrava in conto il lavoro, ma solo il
piacere
della compagnia: inutile dire avesse ragione, ma non per i motivi che
pensa
lui. Davvero. D’altronde,
Nishikawa-kun,
pur non conoscendomi poi molto e frequentandomi ancora meno, mi
gelò proprio
puntandomi il dito e dicendomi esattamente quel che c’era
dietro quei miei
silenzi e la mia freddezza: “Alla
fine
pensi talmente tanto a cosa dire e a come dirlo che non riesci
più a chiamare o
a rispondere ai messaggi degli altri.”. Il problema
fu che lo disse durante
una doppia intervista per una delle maggiori riviste musicali del paese
ed il
giornalista si sia, ovviamente, segnato tutto. Ho riso e non
l’ho ucciso solo
in nome dei vecchi tempi di Osaka, quando pure abbiamo rischiato di
finire a
suonare insieme. Mi sono sentito in mutande ed è stato
terribilmente
imbarazzante.
Comunque
sia, con una scusa o con
un’altra, gli ero sempre tra i piedi; non so nemmeno dove
trovassi il tempo,
onestamente, dato tutto quel che c’era da fare, la gente da
incontrare, i
meeting con i managers e i discografici: un casino. Eppure facevo in
modo di
ritagliarmi uno spazietto per andarlo a trovare o per chiamarlo, anche
solo per
chiedergli come stava. Domanda inutile, ma era un punto di partenza.
All’inizio
mi dava la classica risposta che si dà per togliersi di
torno un seccatore:
“Tutto a posto.”. Tutto a posto? Non demorsi ed,
alla fine me lo ritrovai tra
le braccia a piangere come una fontana, ad urlare e bestemmiare e
maledire
tutto e tutti. Forse persino me. Poi si addormentò stremato
ed inaugurò così le
nostre convivenze notturne che si protrassero per quasi tutto il 97. Di
certo
furono una costante del nostro soggiorno europeo.
Non
è che parlassimo moltissimo
in quel periodo, ma sicuramente ci avvicinammo molto, in modo simile ed
allo
stesso diverso che in precedenza, quando ancora non c’era
Sakura. Comunicavamo
soprattutto a gesti, toccandoci spesso e cercando il contatto fisico
con più
frequenza che in passato: haido mi abbracciava spesso ed io lo lasciavo
fare, mi
poggiava la testa su una spalla mentre suonavo e non mi arrabbiavo. Ma
non era
solo lui, anch’io mi avvicinai di più, nonostante
le mie onnipresenti
reticenze, e spesso ero proprio io a cercarlo, scompigliandogli i
capelli o
facendogli una carezza furtiva quando aveva le guance ancora ispide per
la
barba del mattino.
Era
ancora il mio fratellino ed
aveva bisogno di me, quelle erano le uniche parole che riuscivo a
dirmi, forse
per lavarmi la coscienza. Forse per tranquillizzarmi, non lo so. Fatto
sta che
mi comportai da bravo fratello maggiore e mi presi cura di lui.
Quando
tornammo a Tokyo le cose
cambiarono parecchio, ovviamente: lì ci conoscevano tutti e
se da un lato
c’erano i fans che, pareva, non vedessero l’ora
tornassimo per sentirci
suonare, dall’altro c’erano giornalisti che, allo
stesso modo, non vedevano
l’ora di rivederci, ma probabilmente per limarsi ancora un
po’ le unghie su di
noi. Figuriamoci se l’avrei permesso.
Avevamo
ancora una cera orribile
–e haido ancora si ammalava di
frequente
dato che era molto debilitato- ma presenziammo in parecchie
trasmissioni in
tv ed in radio, facemmo sentire la nostra voce ovunque si potesse.
Ovviamente
la Sony ci coprì le spalle a dovere dati i guadagni che
avevamo fruttato e gli
investimenti che eravamo costati: non è un caso se nessun
conduttore ci chiese
mai nulla di Sakura, nonostante la cosa fosse troppo succosa per non
destare le
dovute curiosità.
Comunque
sia eravamo tornati.
Meglio, ci eravamo ‘Reincarnati’.
Che
non fosse del tutto un bene,
lo scoprii sin troppo presto. Camminavo dritto e sicuro sulla mia corda
nuovamente tesa e salda con ostentata sicurezza e nemmeno immaginavo
che sarebbe
stata proprio la voce dei miei sogni, il mio appiccicoso fratellino, a
darmi il
nuovo scossone. Proprio quando meno me lo sarei aspettato.
Ricordo
che in quel periodo
uscivo con Kaori.
Prima
di lei c’erano stati altri
volti che ora neppure ricordo, qualche piccola avventura rimasta tra le
mura di
casa mia, per fortuna. Di Ken meglio non dire nulla, la sua vita
è sempre stata
molto attiva e caotica, diciamo solo che è un tipo molto
socievole in tutti i
sensi e chiudiamo qui. Yuki poi, nonostante sia una persona
apparentemente
distaccata e timida, ha sempre avuto parecchio seguito, semplicemente,
come il
sottoscritto, preferiva lasciare le sue questioni di letto fuori dalla
vita
pubblica. Anche haido aveva avuto qualche storia, soprattutto una che
sembrava
essere importante, ma finì in una bolla di sapone: ne
soffrì parecchio, ma di
buono c’è che contribuì non poco alla
sua ripresa, dandogli il tipo di aiuto e
consolazione che un amico non poteva offrirgli. Se
capite cosa intendo.
Poi
arrivò Megumi.
Non
è una leggenda metropolitana
il fatto l’avesse notata subito e ci avesse sbavato pure se
era stretta in
tailleurs francamente inguardabili e palesemente stonati su quella
figuretta
sottile. Ma era davvero molto carina, non bellissima come certe modelle
che
pure avevamo frequentato, ma decisamente un tipo interessante,
esteticamente
parlando. Credo, comunque, che quel che ha attratto haido siano stati
gli
occhi: Megumi ha degli occhi non solo grandi e belli, ma molto dolci,
oserei
dire quasi materni. Ed infatti puntava soprattutto a farsi una
famigliola
felice, più che una carriera sfolgorante: era ambiziosa,
insomma, ma entro
certi limiti. Per lui, una così, doveva davvero
rappresentare un sogno.
Cominciò
a vederla con frequenza
nello stesso periodo in cui io conoscevo meglio Kaori, nemmeno ci
fossimo messi
d’accordo. Ad entrambi, le nostre rispettive compagne,
piacevano davvero molto
e stavamo molto bene. Lentamente e con fatica, ma stavamo tutti uscendo
dal
baratro. Quello fu un periodo che oserei dire ‘felice’,
nonostante tutto. L’esperienza europea ci aveva cambiati
molto, inutile negarlo, di certo non eravamo più i ragazzi
che si divertivano
come deficienti in backstages che fingo mi facciano vergognare a
rivederli, per
quanto erano scemi. Eravamo tutti cresciuti, in un modo o
nell’altro, anche se
ci sforzavamo ancora di fare i simpatici più per
tranquillizzare il pubblico e
noi stessi che per reale convinzione: semplicemente avevamo un
po’ perso la
voglia di giocare come conseguenza
fisiologica alla brusca interruzione del nostro circo. Avevamo visto
quel che
rimaneva quando lo spettacolo finisce, il tendone vuoto e buio non
è per niente
attraente, e noi ci avevamo vissuto per troppi mesi per non rimanerne
segnati
da una crescita repentina.
Ma
posso dire fossimo comunque
felici e soddisfatti da quel che il futuro ci prospettava. Lavoro,
ovviamente.
Dopo il Reicarnation Tour, che fu
un
insperato e commovente successo, ci aspettava la serie di concerti
più lunga
avessimo mai affrontato, un tour de force
in tutti i sensi. Davvero.
Fu
proprio verso la fine del
Light my Fire che notai qualcosa che non avrei dovuto, nemmeno quel
nome
maledetto fosse un vaticinio. Perché io mi bruciai.
Non
so come tutto sia cominciato,
ancora adesso, anche sezionando gli avvenimenti in minute frazioni, non
riesco
a spiegarmi quel che mi successe. Però successe e fu un
fulmine a ciel sereno:
dovevo aspettarmelo, stava andando tutto fin troppo bene. Era andato
tutto fin
troppo bene, in realtà, dato che il tour era arrivato alla
sua conclusione e
mancavano pochissime date alla chiusura in grande stile.
Non dimenticherò mai quel momento,
quella frazione di secondo maledetta
che ha ipotecato tutti i miei sogni, il mio futuro, la mia stessa vita.
Stavamo
suonando ‘Kaze ni kienaide’,
una delle tante
ultime preghiere di haido che io o Ken avevamo tentato di mascherare
dietro una
melodia veloce ed accattivante. Forse la colpa è un
po’ anche nostra se il
pubblico ascolta senza sentire davvero. Forse. Comunque sia, stavamo
suonando
quella canzone ed haido era particolarmente allegro, particolarmente
incline al
fanservice, voleva cantare e voleva divertirsi e divertire. E aveva
quasi
staccato il collo a Ken per abbracciarlo mentre cantava. E’
stato divertente e,
in un certo senso, addirittura liberatorio, come se ci fossimo
affrancati da un
peso od un tabù che non osavamo pronunciare. Eravamo pieni
di energia, il
pubblico urlava, ci incitava, haido era pieno di vita e voglia, eravamo
tutti
esausti per il lungo tour, ma avevamo lasciato la stanchezza in un
angolino
della nostra mente sostituendola all’adrenalina che ci
scorreva nelle vene come
un fiume in piena. Dopo Ken, fu il mio turno però.
Mi
viene da ridere a pensare che
non è nemmeno stato un fanservice particolarmente memorabile
per il pubblico.
Voglio dire, alla fin fine mi aveva solo abbracciato. Niente a che
vedere con
il bacio –vero- che ci
eravamo
scambiati sul palco di una brutta live house nel ‘92. O il
morso sul collo che
gli avevo rifilato al Nissin Power del ’95. O con il perenne
coro a due voci,
guancia a guancia, che improvvisavamo durante un Carnevale benedetto e
maledetto insieme. Ma potrei elencare decine di altri episodi divisi in
tour
più o meno recenti: era solo un modo per compiacere il
pubblico.
Quella volta, però, fu diverso. Troppo.
Haido
si era avvicinato subito
dopo l’ultimo ritornello, mentre io e Yuki accompagnavamo gli
ultimi riff di
Ken. Il ‘classico’
guancia a guancia
era un opzione non spendibile dato che non c’erano
più parti cantate, ma mi ero
aspettato s’inventasse comunque qualcosa. Invece mi
passò semplicemente un
braccio oltre le spalle tirandomi verso di lui. Solo questo.
Il
mio errore fu alzare lo
sguardo per guardarlo e ridere insieme.
Haido
non stava ridendo. Aveva un
sorriso strano, sghembo, di quelli un po’ maliziosi che gli
piaceva tanto
regalare alle telecamere.
Si dice che, quando stia per cambiare qualcosa, lo
si senta, che
nell’aria ci sia qualcosa di diverso. Se è vero,
allora è probabile sia anche
vero che la mia sensibilità sia da rottamare,
perché io, il colpo che fece
tremare la mia corda, non lo sentii arrivare. No: lo incassai e basta,
e fu un
colpo durissimo.
Haido
mi aveva abbracciato come
mille altre volte ed io, come mille altre volte, gli avevo sorriso e mi
ero
proteso verso di lui per rendergli più semplice
l’accesso al mio collo. Poi mi
voltai per ridere insieme. Come mille altre volte, appunto.
Vi è mai successo di perdere
completamente - anche solo per un istante-
il contatto con la realtà?
Io
sono un sognatore, poco da
fare. Se non lo fossi stato, dopotutto, non ci sarebbe stato nessun
arcobaleno.
Eppure, nonostante questo, sono sempre stato anche una persona
profondamente
concreta. Un ossimoro? Non credo: ci vuole praticità,
costanza, decisione e
pazienza per realizzare i propri sogni. Tutte qualità
piuttosto concrete,
direi. E, per tutti, io sono una persona MOLTO concreta, troppo
concreta,
anche. Quasi arida. Ma non mi sono mai adontato per simili
apprezzamenti, chi
parla così è probabilmente un altro fallito che
si maschera dietro o propri
sogni rimasti tali per ignavia, che preferisce sminuire gli altri,
quelli come
me, quelli che non hanno avuto paura di osare fino in fondo. Poveretti,
al più
mi fanno pena.
Come
dicevo, sono sempre stato un
sognatore, con la testa fra le nuvole, ma gli occhi ben piantati su
quel che
avevo davanti.
Quella
sera d’autunno però, con i
riflettori contro che non mi permettevano di sentire il vento
già fresco
d’ottobre, quella sera qualcosa dentro di me si
spezzò. O forse sarebbe meglio
dire che si spezzarono tante piccole cose: avevo varcato la soglia dei
trent’anni da un pugno di giorni, la mia storia con Kaori
procedeva bene, il
gruppo andava a gonfie vele. Era tutto perfetto; finì tutto
nel momento esatto
in cui incontrai lo sguardo di haido.
Mi
sfilarono davanti agli occhi i
primi concerti dei Jerusalem, ricordai le strette allo stomaco che mi
prendevano
ogni volata che il loro minuscolo cantante attaccava la prima nota. Mi
tornarono in mente i primi approcci, le prime telefonate, le prime
risate, i
primi musi lunghi, le prime canzoni a due voci, i primi abbracci e i
primi baci
scambiati per ridere e per fanservice, i primi litigi e le
riappacificazioni.
E
le lacrime. I mesi precedenti
mi ripiombarono addosso con violenza inaudita. Risentii sulla punta
delle dita
la consistenza delle carte che firmavo e dei fogli che riempivo di note
e
parole. Ma, soprattutto, le mie dita ricordarono la stoffa delle
coperte che
rimboccavano, la traccia umida che strofinavano via da guance a volte
morbide
ed infantili altre ispide e trascurate, i capelli corti e spenti che
crescevano
sempre troppo in fretta. Ed il calore. Risentii con vibrante
intensità il
calore della sua pelle sotto i polpastrelli. Erano anni che avevamo
abbandonato
la nostra giostra, al contempo nota e segreta, di piccoli ed innocenti
scambi
di baci. Eppure sentivo il calore delle sue labbra sulle mie, come se
ci
fossimo sfiorati solo pochi secondi prima.
Gli
sorridevo, ma avevo le
ginocchia tremanti. Continuavo a suonare, ma erano semplicemente le mie
dita
che a seguire per inerzia un ritmo provato e riprovato mille volte.
Nei
pochi secondi che rimanemmo
in contatto il mio cervello rielaborò otto anni di vita in
comune secondo
un’interpretazione del tutto nuova, diversa e sconvolgente
che mi lasciò
stordito: in quel breve lasso di tempo divenni spettatore passivo della
mia
vita srotolatami davanti, come in un film muto vidi labbra muoversi a
pronunciare parole che non avevano senso dato che era la
gestualità a contare
davvero.
“Non è la quantità, ma la
qualità che conta.”
Ken
stava evidentemente parlando
di me, non di haido, mi aveva semplicemente fatto comodo pensare il
contrario.
Come
ho già detto, ho ripensato
spesso a quei momenti, li ho sminuzzati ulteriormente in tante
piccolissimi
istanti riordinandoli con la meticolosità
dell’otaku che sono e del malato
terminale che spreca il tempo a cercare d’individuare il
momento esatto in cui
si è ammalato. Come un otaku, non ho fatto altro che
aggiungere dettagli su
dettagli ad un quadro fin troppo ricco ed astratto. Come un malato, non
sono
arrivato alla radice di un bel niente. Come
se servisse a qualcosa, poi.
Ma
nemmeno sono riuscito a
prendere atto del mio stato. ‘Stato’, poi, non
è che mi sia svegliato gay a
trent’anni, sia chiaro: ho avuto un momento di sbandamento,
il mio circuito
emotivo ha fatto un po’ di capricci, l’adrenalina
in circolo ha fatto il resto.
Tutto qui.
Non è vero, non era così
semplice.
Poteva
esserlo per haido che non
si era accorto di niente ed aveva continuato a cantare come al solito,
che
dietro le quinte dopo il concerto ci aveva sorriso stanco per poi
accendere il
cellulare e chiamare Megumi.
Io
non chiamai Kaori. Non accesi
nemmeno il cellulare. Mi sentivo stanco, frustrato, triste ed agitato.
E nello
stomaco mi si agitava qualcosa di vago che non avevo alcun interesse ad
identificare. Ora come ora posso anche dirlo: senso di colpa.
Era
qualcosa che avevo sempre
rifuggito, un sentimento che trovavo ridicolmente inutile ed ipocrita.
Ho
sempre pensato che, quando si compie un’azione, si debbano
sempre avere ben
presenti le cause e le conseguenze. Certo, gli imprevisti possono
capitare, ma
sono appunto questo: imprevisti, qualcosa che non è dipeso
dalla nostra
volontà. A che pro sentirsi in colpa, dunque?
Se
faccio una cosa è perché voglio
farla, perché è giusto farla o perché
le circostanze m’impongono quella scelta.
Pentirsene dopo di chiama semplicemente ipocrisia, io odio gli ipocriti
ed ho
sempre accuratamente evitato di finirci nel mezzo.
Il
problema vero di questa storia
assurda era che non ci fosse un perché. Se ci fosse stato,
d’altronde, avrei
potuto farmene una ragione, sarei stato costretto a farmene una. Invece
era
tutto talmente fumoso che, i pochi sprazzi che riuscivo a percepire
oltre
quella nube informe che era diventata la mia coscienza, non riuscivano
comunque
a darmi indizi od indicarmi una strada da seguire. Ed io non riesco ad
improvvisare, non troppo o troppo a lungo, almeno.
A
peggiorare ulteriormente le
cose era la presenza di Kaori, perché, parallelamente a quei
sentimenti
insensati che mi ero scoperto a nutrire per haido, c’erano
quelli,
sensatissimi, che avevo per lei. Io non so dire se fosse veramente
amore, o la
mia fosse semplicemente un’infatuazione, un innamoramento
passeggero, ma mi
sentivo bene quando stavo con lei e volevo continuare a sentirmi in
quel modo.
Ma
quali erano le mie
alternative? Stare lontano da haido? Impossibile, lavoravamo insieme e
ci
capitava di rimanere bloccati in studio anche 20 ore su 24. Scelta
decisamente
da scartare dato che avrei accettato tutto, tranne battute
d’arresto per il
gruppo, non dopo quello che avevamo appena superato. L’unica
soluzione che
trovai fu quella di non lasciarmi tempo a disposizione: nemmeno un
minuto.
Dire
che furono mesi frenetici è
dire poco, me ne rendo perfettamente conto anch’io, ma non
potevo fare a meno
di progettare, progettare e progettare, ovviamente sostenuto dalla casa
discografica che intanto si fregava le mani e si preparava a contare
gl’incassi. Ce ne furono tanti, lo si deve dire, incassi,
soddisfazioni ed
affetto: vendemmo quanto nemmeno credevamo di poter fare e qualsiasi
cosa, dai
cd ai photobook, suonammo ovunque e sempre in sold out, ricevemmo premi
ed
onori, varcammo i confini del Giappone per portare la nostra voce
dall’altra
parte del mare.
Vendevamo
anche se sono stato in
grado di sputare veleno in forma di ballata un po’ su tutti,
ma avevo talmente
tanta tensione da tirar fuori che non ho potuto fare a meno di
descrivere un
coraggio che nessuno sembrava avere e d’imputare la mia
perfetta tristezza al
diretto interessato. Che intanto
rifioriva, ma questa è un’altra storia ancora.
Stava
per giungere il mio
ennesimo compleanno e i L’Arc~en~Ciel risuonavano ovunque,
persino da qualche
parte oltre il Pacifico. Ero talmente impegnato e felice che avevo
quasi
dimenticato il mio ‘problema’.
Quasi,
purtroppo. Ma, quando un suo gesto o una sua parola rischiavano di
farmi
tremare di nuovo, riacquistavo l’equilibrio sulla mia corda
lavorando ancora
più duramente. Dove trovassi l’energia,
onestamente, non lo sapevo. Sapevo solo
che se mi fossi distratto, lasciato andare anche solo per un istante
come
quella maledetta sera, sarei stato perduto e non potevo permetterlo.
Nel
frattempo stavo perdendo
altro, ma stupidamente non me ne accorsi: non mi accorgevo praticamente
più di
quel che succedeva al di fuori del mio microcosmo chiamato
L’Arc~en~Ciel.
E Kaori non ne faceva parte.
Non
so se cominciai a darla per
scontata –nonostante, a causa dei
rispettivi lavori, ci vedessimo molto poco- o semplicemente
non avessi
capito quanto in realtà quella storia mi stesse a cuore,
fatto sta che stavo concentrando
tutte le mie risorse fisiche, mentali ed emotive per il gruppo e per me
stesso.
In
amore non ci si può
accontentare delle briciole e lei non aveva alcuna intenzione di farlo,
naturalmente. Era per questo che mi era piaciuta subito, in fondo,
perché aveva
il viso dolce, ma era una ‘dura’
che
ti guardava negli occhi, che si vestiva come le pareva quando le pareva
e
sapeva imporre il suo stile in un mondo fin troppo inquadrato come
quello della
Avex o di qualsiasi altra major musicale: niente a che vedere con le
leziosaggini da umile geisha che sapevano regalare le sue colleghe,
cazzute
come e più di molti uomini, magari, ma dispostissime a
fingersi rassicuranti
stereotipi appena un po’ più discinti.
Solo
che mi ero sbagliato: per
essere uno che odia chi giudica dalle apparenze, mi ero calato nel
ruolo in
modo perfetto. O forse no, perché Kaori era davvero una
ragazza forte e l’ha
dimostrato anche in seguito –al
contrario
di me-, ma non avevo considerato avesse solo
vent’anni. E a quell’età puoi
essere forte, furba, cattiva e dura quanto ti pare: sono armi che non
sai
usare.
Kaori
aveva vent’anni e credo mi
volesse davvero bene: per questo forse mi aspettò per tanto
tempo.
Kaori
aveva vent’anni e si
sentiva già vecchia in un mondo che le aveva mangiato
l’adolescenza: però io,
il suo ragazzo, colui che avrebbe dovuto proteggerla, non me ne accorsi
nemmeno.
A
guardare tutto sulla distanza,
mi accorgo di aver semplicemente ripetuto gli stessi errori: sono stato
cieco e
sordo per l’ennesima volta a bisogni che non riguardavano il
gruppo o me in
prima persona. Anche Kaori stava sfiorendo, ma temo l’unico
se ne fosse accorto
fosse Ito, che ha continuato sempre a sostenerla e seguirla, anche
dopo, come
un fratello ed un amico vero.
Kaori
non mi ha mai parlato dei
suoi problemi durante le nostre chiacchierate, anche telefoniche
–quasi solo telefoniche, in
realtà. Era
difficile vedersi dato che in due settimane i L’Arc~en~Ciel
potevano anche fare
il giro del mondo un paio di volte- ma questo ovviamente non
mi assolve:
che stesse crollando a pezzi lo sapevano praticamente TUTTI. Il nostro
è un
ambiente fin troppo ristretto dove tutti sanno sempre tutto di tutti. E
ne
malignano abbondantemente di conseguenza.
L’unico
ad essere sfuggito a
quest’aura legge, a bene vedere, è stato Sakura:
anche se si era praticamente
buttato da solo nella polvere, erano tutti pronti con la mano tesa per
tirarlo
fuori.
Solo
che io ero troppo
preoccupato e concentrato su altre voci. E parlavano di NOI,
sempre e solo dei L’Arc~en~Ciel.
Ed
ero preoccupato di tradirmi.
Perché anche quello era un rischio: che sparlassero ridendo
su haido e Sakura
era stato semplicemente un passo obbligato, persino scontato. Ci
ridevano su
persino loro, giocavano a fare i fidanzati e flirtavano in pubblico
senza
vergogna. La cosa non mi ha mai disturbato, sapevamo benissimo quei due
fossero
due pagliacci perversi: ma si volevano troppo bene per rovinare tutto.
E poi,
diciamocelo: qualcuno potrebbe aver avuto magari dei dubbi su haido
–ma a guardarlo appena sveglio al
mattino se
li sarebbe fatti pure passare, nonostante i capelli lunghi, i boccoli e
il
visetto delicato-, ma su Sakura? Per fortuna queste cose
rimangono quasi
sempre private, ma tra lui e Ken, non so chi sia il maiale
più spudorato. Non
che abbia nulla da ridire sul fatto si divertissero un po’,
ma raramente ho
incontrato persone tanto promiscue e felici di esserlo. Io non ero come
loro,
però, e neppure haido a ben vedere, che delle ragazze che
frequentava appena un
po’ più a lungo, s’innamorava sempre:
non ho mai saputo se definirlo stupido,
leggero o troppo romantico.
Avevo
paura qualcuno s’accorgesse
che adoravo quel suo lato così naif, però. Che a
volte avrei dato chissà cosa
per tornare indietro sui palchi di quelle live house da due soldi,
quando non
ci conosceva nessuno, Ken non ci prendeva in giro e Sakura solo il nome
di un
fiore.
Salvo
rimanere orripilato dalla
mia stessa follia e ricontrollare per l’ennesima volta
l’ennesima scaletta.
Mentre
Kaori combatteva con i
suoi demoni a Tokyo, io combattevo contro i miei in Thailandia a Hong
Kong, a
Taiwan. Senza nemmeno il conforto di potermi liberare delle mie angosce
facendo
spese o passeggiando semplicemente, stretto tra lo staff manageriale ed
haido.
Senza
Ken e senza Yukki.
Prima
della partenza c’era stato
talmente tanto lavoro per l’organizzazione che non ho avuto
nemmeno il tempo di
riflettere sulle implicazioni di quei soggiorni: sono solo dieci
giorni, mi
dicevo, ci sarà talmente tanto da fare che non avremo
nemmeno tempo per respirare,
figurarsi se ci sarà il rischio riesca a pensare a qualcosa
di diverso che al
lavoro.
Furono
dieci giorni da sogno e da
incubo. Erano anni che io e haido non viaggiavamo più da
soli, che non ci
vedevamo più da soli: era dai tempi degli Heavenly
che non facevamo più promotions in gruppi separati. Mai
all’estero, poi. Certo
c’era il menagement con noi, lo staff addetto alle pubbliche
relazioni, le
guardie del corpo (che non erano mai abbastanza). Ma non era la stessa
cosa, la
sensazione di essere comunque in un mondo a parte, di essere separati
dagli
altri rimaneva: anche perché nessuno di loro si sarebbe mai
precipitato in
camera nostra senza bussare, per bagordi improvvisati o anche solo per
spianarsi su uno dei nostri letti come accadeva sempre quando
c’erano Ken o
Sakura in giro. Quando c’era anche lui succedevano spesso
cosa del genere, si
finiva per ubriacarsi, farsi foto sceme e persino ad imbastire scenette
idiote:
come quando haido –che come me era
ancora
solo un po’ brillo- finì per
punzecchiare un Sakura saturo d’alcol per
un’intera notte facendogli dire le cose più
assurde. Non la si finiva più di
ridere.
Invece
c’eravamo solo noi due.
Non
so ancora se ringraziare o
meno l’esaltata o, più probabilmente, le esaltate,
che mi hanno quasi staccato
un braccio appena arrivati in aeroporto in Thailandia. Potrà
sembrare una
sciocchezza, ma, nonostante il dolore, quell’incidente mi
diede la possibilità
di staccarmi dal gruppo e starmene per conto mio nella mia stanza
quando non
dovevamo presenziare in TV, rilasciare interviste o recarci a qualche
party di
rappresentanza. Non durò a lungo, ma mi diede il tempo e
l’opportunità di
notare una cosa, l’ennesima, che non mi piacque: haido non venne una sola volta in camera mia.
Certo, avevo chiesto
di non essere disturbato, avevo detto di voler riposare. Ma una volta
non si
sarebbe fatto problemi, non se li era fatti nel 95 quando fui colto da
un
malore e svenni nel bel mezzo di una registrazione. Anche allora chiesi
di
poter riposare, ma me lo ritrovavo sempre a bussare alla mia porta.
So
che questo avrebbe dovuto
tranquillizzarmi, era quello che volevo, no? Stargli lontano, non
dargli
l’opportunità di capire. Invece mi sentivo
inquieto. Durante le interviste,
poi, era ancora peggio: era affabile con tutti, disteso, sorridente.
Pur
sapendo che ci avrebbero ricamato su, pretese che mettessimo gli
orologi
personalizzati che ci eravamo fatti fare in una gioielleria di Tokyo,
con i
nostri nomi stampati sul quadrante, si sedeva sempre troppo vicino
senza
ragione, arrivò addirittura a passarmi le dita tra i capelli
di fronte a tutti
quando la giornalista sottolineò che cambiavo spesso look e
colore di capelli.
Spente
le telecamere, però,
tornava in camera sua, finiva per andarsi a fumare una sigaretta con
Saito o uno
qualsiasi dello staff sapendo che non l’avrei seguito, oppure
telefonava. A
casa o a Megumi o a qualche amico. Ma non stava praticamente mai con me.
Una
volta volati ad Hong Kong, mi
guardò addirittura ironico quando gli chiesi di
accompagnarmi in un centro
benessere per dei massaggi: avevo la spalla praticamente a pezzi e ne
avevo un
disperato bisogno. Non venne. E mi chiese a malapena come stavo quando
ritornai
in albergo. Non che fosse scostante o non fosse gentile,
tutt’altro: solo che
non sembrava più lui, non era più lo stesso haido
di qualche mese prima.
Durante quel viaggio avrei dovuto preoccuparmi di evitarlo, ma finii
per
corrergli dietro come una trottola: persino quando volle andare a
vedere il
panorama della città dalle montagne limitrofe ed in piena
notte, cosa di cui
avrei fatto volentieri a meno dato che il mio amore per i grattacieli
ha
comunque un limite.
Tornare
a casa dopo l’ultima
tappa a Taiwan fu un sollievo, tornammo alla routine delle
registrazioni e agli
altri. Risparmio le battute che Ken non risparmiò a me: non
credo avesse capito
la situazione- lo spero vivamente almeno-,
ma gettò una notevole dose di sale sulla ferita.
Tornai
anche da Kaori,
ovviamente, e mi vergogno a dire che ancora una volta sottovalutai la
situazione. Preso dai miei crucci vecchie e nuovi, guardavo il suo
sorriso e me
lo facevo bastare; poco importava fosse palesemente e dolorosamente
finto.
Ho
sempre imputato ad haido un
egoismo fastidioso e sfacciato, a pensarci bene. Il mio era meno
vistoso, ma
altrettanto reale e deleterio a quanto pare, perché solo
quello può
giustificare la mia totale cecità di giudizio: ed erano
scene già vissute,
appena pochi anni prima. A Tokyo, come a Londra o tra le montagne
tedesche.
Eppure continuavo a pensare andasse tutto bene, che almeno Kaori
rimanesse la
mia isola felice, il mio rifugio dal mondo. Mi sono ostinatamente
rifiutato di
guardare in faccia la realtà per quella che era preferendo
filtrarla,
purificarla e renderla accettabile. Perdendo, però,
l’unica possibilità avessi
di recuperare un rapporto che appassiva insieme ad uno dei tasselli.
Non mi
chiedevo nemmeno perché ci fossero giorni in cui non voleva
nemmeno uscire di
casa, altri in cui praticamente mi pregava di raggiungerla o di potermi
raggiungere e finivamo per fare l’amore macchinalmente, senza
nemmeno esserci
scambiati due parole, prima.
Probabilmente
ci stavamo
chiedendo reciprocamente aiuto: io non le avevo mai lasciato intuire di
avere
dei problemi diversi da quelli che potevano concernere il gruppo, in
fondo come
avrei potuto? Cosa avrei potuto dirle, che lei era la donna che avevo
scelto e
che probabilmente amavo, ma che ero presumibilmente anche innamorato
del mio
vocalist? Non scherziamo, non riuscivo a
dirle neppure a me stesso quelle cose.
Ma
ero il suo ragazzo ed ero più
grande di lei di troppi anni perché non si aggrappasse a me
per un aiuto. Solo
che il mio campo visivo era irrimediabilmente saturo di altro, la mia
mente
protesa verso altro. Non riuscivo più a staccarmi dal mondo
che mi ero preconfezionato
ad arte per nascondere i miei desideri, chiuso in quel guscio non
vedevo più in
là del mio naso e nulla volevo vedere. Lei era diventata il
mio nido
rassicurante, perché era come me: e camminava sulla sua
corda senza abbassare
lo sguardo. Solo che quella era una mia proiezione mentale, non la
realtà. E
quella mi schiaffeggiò duramente qualche tempo dopo,
lasciandomi basito
nonostante il largo preavviso che avevo scientemente deciso di non
tenere in
considerazione.
L’ho
accusata di aver lasciato la
mia mano. Sì, ho fatto anche questo, non l’ho
aiutata quando ne aveva bisogno e
l’ho accusata di non aver capito nulla. E’
incredibile cosa si riesca a fare
quando ci si vuole solo lavare la coscienza. Sapevo che la colpa non
era di
Kaori, ma non riuscivo nemmeno a dire che, sì: forse la
colpa era proprio mia
se era finita in quel modo. Se fossi stato più attento, se
avessi tramutato in
azioni i sentimenti che sapevo di provare per lei, probabilmente
saremmo stati
insieme ancora a lungo, forse ci saremmo sposati ed ora avremmo anche
un
bambino. Forse.
Forse,
semplicemente, parlarne
ora è del tutto inutile, perché Kaori ha
continuato ad aspettarmi in silenzio,
probabilmente attendendo una mia parola che non arrivò mai,
finché non ha
deciso di pronunciarsi lei. E mi
lasciò irrimediabilmente
indietro.
Questo
però avvenne solo dopo.
Dopo mesi e mesi spesi in sala registrazione in cui ci parlavamo solo
per
telefono, dopo l’ultimo countdown del millennio che non
passammo insieme.
Il 2000 si aprì male e si concluse anche
peggio, v’è da dirlo.
Kaori
mi lasciò poco prima si San
Valentino, qualche giorno dopo il compleanno di haido. Non ricordo
precisamente
la nostra conversazione, forse perché in realtà
io parlai pochissimo e lei era
una ragazza di poche parole, non girava mai attorno alle questioni.
Cosa avrei
potuto dirle, poi? Sospetto di essere rimasto fermo a fissarla come un
deficiente, ma non sapevo davvero cosa ribattere a tutto quel che mi
stava
dicendo, ero andato a casa sua per prendere un tè e fare due
chiacchiere,
rilassarci e magari fare l’amore come facevamo ormai troppo
di rado: mi aveva
preso alla sprovvista e tutto quel che riuscivo a fare era stare a
guardare
inebetito il suo volto reso inespressivo e freddo dagli psicofarmaci
che già
allora era costretta ad assumere. Solo che io non me n’ero
accorto.
Non
riesco a credere di essermi
congedato da una storia di quasi tre anni –una storia
veramente importante di
quasi tre anni- dicendo “Come vuoi.”.
Eppure l’ho fatto.
Quando
non so cosa dire finisco
sempre per stare zitto o scegliere le parole sbagliate: Kaori si mise a
piangere silenziosamente chiedendomi di andar via. Non so nemmeno se si
potesse
dire che stava piangendo, il suo viso era completamente immobile.
Comunque feci
quel che mi aveva chiesto senza nemmeno tentare di consolarla. In fondo
aveva
scelto lei, era lei che mi stava lasciando, quello depresso avrei
dovuto essere
io. Invece lei piangeva ed io non riuscivo neppure a cambiare
espressione. Ma
le uniche sensazioni che riuscii a provare furono delusione e rabbia. Soprattutto la seconda, poi.
Ne
parlai con Ken solo dopo
parecchi giorni e solo perché, mentre eravamo a casa mia per
non so più quale
motivo, esasperato dal mio rognare continuo, si offrì molto
prosaicamente di
chiamare Kaori per pregarla di farmi scopare di più.
Altrettanto prosaicamente
gli feci presente che poteva pure passarmi sua sorella dato che io e
Kaori ci
eravamo lasciati. Credo la notizia l’abbia sorpreso
abbastanza da fargli
dimenticare quel pugno che mi sarei davvero meritato per aver tirato in
ballo
la sua adorata sorellina in quel modo. Invece fece quel che faceva
più o meno
da venticinque anni, si sedette e mi costrinse a vuotare il sacco.
A
volte credo che chiamare Ken
quella lontana estate del ’92, sia stata la mia trovata
più geniale:
probabilmente saremmo diventati grandi lo stesso, ma cosa avrei fatto
io senza
un amico come lui? Perché sono sicurissimo, in un punto
qualsiasi della
parabola delle nostre vite, ci saremmo persi di vista, molto
probabilmente proprio
per causa mia, quindi sono più che felice di averlo
strappato ai suoi numeri ed
i suoi disegni per portarlo nel mio mondo altrettanto fantasioso e
geometrico
insieme.
Ken
non era mai stato generoso
con me, mai almeno quando me lo sarei aspettato: mi diede del cretino,
ad
esempio, quando passai sopra al fatto haido avesse cominciato a
corteggiare
Yoshikawa quando sapeva benissimo ci uscissi io. Ma cosa avrei dovuto
fare,
prenderlo a botte e dare importanza ad una ragazzina che nemmeno valeva
il
disturbo? Parliamoci chiaro, stavamo scalando le classifiche gradino
dopo
gradino, cominciavamo finalmente ad ingranare alla grande ed avrei
dovuto
rovinare tutto per una ragazza? Quello si sarebbe stato un clamoroso
gesto da
cretino, praticamente come piazzarsi davanti gli ostacoli da solo. Non
ha mai
capito il mio punto di vista, sebbene nemmeno lui avesse
un’alta opinione di
Yoshikawa. Mi ha rimproverato di essere sempre troppo generoso con la
persona
sbagliata ed al momento sbagliato.
Anche
quando gli parlai della mia
rottura con Kaori non si comportò come mi sarei aspettato:
non mi consolò,
cioè. Nemmeno una parola.
Intendiamoci, non mi piace essere commiserato, ma
un minimo di
partecipazione dal proprio migliore amico la si pretende per contratto.
Invece
niente, si limitò a
guardarmi ed a scuotere la testa, poi mi diede una pacca sulla spalla
“Hai
perso un’occasione d’oro,
Tetchan, forse due. Poteva davvero risolvere tutti i tuoi
problemi.”
A volte mi fa paura pensare che forse lui mi
conosce meglio di quanto
non creda o possa dire io di me stesso o di lui.
Però
è una specie di
consapevolezza anche incredibilmente consolante, questa, sapere
cioè che per
qualcuno conti tanto che nemmeno riesce a vedere lo strato di trucco e
cerone
che la vita ti modella addosso.
“Ho
paura che l’amore non sia una
cosa per me, Ken-chan, non riesco proprio a capirli certi
meccanismi.” “Se
riuscissi ad evitare di sezionare persino i sentimenti vivresti meglio,
Tetchan: l’amore non è come i tuoi modellini
Gundam, non si può scomporre, non
si può quantificare e non si può spiegare in
alcun modo. Non si controlla,
soprattutto, questo è il problema principale.”
“Vedi? Non è per me, non posso
farci nulla.” “Non mi ricordavo fossi
così vigliacco, Tetchan.”
“Cosa?”
“Vigliacco. Non è vero che non ne capisci niente,
probabilmente è proprio il
contrario, invece, e te la stai semplicemente facendo
addosso.”
Aveva
ragione? Purtroppo credo di
sì, anzi, sicuramente ci aveva visto giusto.
Avevo
sicuramente paura, ma non
riuscivo ad accettarlo: avevo avuto paura di guardare davvero Kaori
preferendo
la scontata tranquillità delle apparenze piuttosto che
mettermi in gioco
inoltrandomi nelle sue profondità. Avevo avuto paura di
farmi guardare da lei,
soprattutto, timoroso com’ero di risultarle noioso, di non
essere all’altezza
di QUEL tetsu che aveva inventato
un
sogno che riempiva gli stadi in quattro minuti dal niente. E avevo
paura di
perderla quella visione. Avevo paura di non riuscire più a
sognare e volare
alto, perché i miei desideri erano stati intaccati da
qualcun altro, da lui che
non voleva saperne di uscire dal mio cuore, né da quello di
nessun altro. Avevo
paura di quel che provavo per haido, avevo paura di quei sentimenti
inconfessabili che mi legavano a lui, lo odiavo per quella stessa
ragione,
avevo paura mi schiacciasse con la sua personalità, ma anche
che se ne andasse.
Avevo paura di troppe cose per poter davvero
pensare lucidamente.
Però
dovevo andare avanti.
Avevamo la progettazione del nuovo album da portare a termine, la
registrazione
dei singoli, le interviste, i concorsi, la promozione: non si riusciva
nemmeno
a respirare, avevo troppo da fare per aver tempo persino di piangere.
Credo mi
avrebbe fatto bene, ma non riuscivo più a tirar fuori una
lacrima, non per me
stesso, almeno: potevo spendere fiumi di lacrime su un libro, un manga
o un
anime stupido. Potevo e l’avevo pure fatto. Insieme ad haido,
poi, ma erano
ancora giorni non sospetti, quando ai miei occhi era solo un amico o un
fratellino che stava crescendo. Quando era solo il mio vocalist ed
avevamo una
canzone da scrivere.
Ma
non volevo ripensarci, farlo
mi aiutava ancora meno.
Mi
concentravo sulla composizione
dei nuovi brani avvinto dall’innovatività di
Yukihiro e dalla sua profonda
competenza: parlare con lui di musica aveva il potere di farmi sentire
un
ignorante, lo ammetto. Però mi piaceva farlo
perché mi accorgevo di poter
davvero imparare molto da lui ed allargare i miei orizzonti
compositivi.
Già:
riuscivo sempre ad imparare
molto dai miei batteristi; ironico, no?
Non
so come riuscii a tirare
avanti fino all’uscita dell’album, come riuscii ad
organizzare il tour, come
riuscii a terminare l’anno in generale, eppure in qualche
modo ce la feci: come
ho già detto, il 2000 fu un anno di merda,
checché ne dicano i risultati.
Gli
Every Little Thing si
ritirarono dalle scene a tempo indeterminato, la Avex cercò
di minimizzare, ma
furono costretti ad ammettere che Kaori non era più in grado
di andare avanti:
i suoi attacchi di panico si erano ulteriormente aggravati, lo stress
della
pressione mediatica la stava inesorabilmente schiacciando.
Onestamente
non saprei dire se ci
sia rimasto peggio per aver capito di essere un completo idiota, per
l’occhiata
fugace e palesemente sorpresa che mi regalò Yukki, quella
obliqua di Ken che
comunque non disse nulla –ma mi fece capire che avremmo
passato la serata
insieme, lo volessi o meno- o per l’alzata di spalle di
haido, che spense la TV
con uno sbuffo noncurante.
“Come
se ci fosse qualcosa di cui
sorprendersi. Vado a prendermi un caffè, qualcuno ne
vuole?”
Io
odio MTV. E odio l’idiota che
ha pensato fosse così indispensabile avere un televisore in
studio.
E
haido: non riuscivo a
capacitarmi del suo atteggiamento. Perché aveva pronunciato
quelle parole?
Sapeva
benissimo che io e Kaori
stavamo insieme, ovviamente, così come sapeva che ci eravamo
lasciati da poco. Meglio, che lei aveva
lasciato me.
Perché
avevo l’impressione ne fosse
compiaciuto?
Quella
sensazione non mi aveva
colpito all’improvviso, sia chiaro, era un sospetto che mi
portavo dietro da un
po’, solo che, come un po’ tutto quel che
riguardava haido da vicino, non ero
mai riuscito ad inquadrarlo nel modo giusto.
Però
sapevo con sicurezza non
avesse alcun diritto di ironizzare in quel modo, non su
quell’episodio in
particolare, non su Kaori. Non su quel fallimento che vedeva invece,
lui
trionfante.
Perché
lui e Megumi avevano
resistito a tutto: agli orari massacranti, alle assenze, alla stampa,
ai fans.
La sua vita privata, benché gelosamente custodita, correva
di pari passo a
quella pubblica: a gonfie vele. haido diventava ogni giorno
più sicuro e
sereno, ogni giorno più sfrontato e più bello.
Soprattutto più bello: nessuno
avrebbe mai potuto staccargli gli occhi di dosso, uomo o donna che
fosse,
benché fossero anche passati da anni i tempi in cui vestiva
il ruolo della
bambola e del fantasma e della geisha. Stava cambiando, ma non avrei
saputo
dire se in meglio o in peggio dato che il pubblico lo amava sempre di
più.
Mentre io non riuscivo praticamente più a parlarci tanto il
suo nuovo
atteggiamento mi risultava seccante.
Il
commento sulla fine della mia
relazione con Kaori, la velata- e nemmeno
poi tanto- critica che mi aveva mosso con quelle parole, era
stata solo la
goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Io a Kaori volevo bene, se
le avevo
fatto del male l’avevo fatto in modo del tutto inconsapevole:
questo non
giustifica la mia cecità, d’accordo, ma mai e poi
mai l’avrei abbandonata se mi
fossi accorto del suo malessere. E lui lo sapeva bene, non
l’avevo abbandonato quando
ne aveva avuto bisogno.
Ma
evidentemente aveva poca
memoria a differenza del sottoscritto.
O,
più probabilmente, non gl’interessava
ricordare e non gl’interessavano le ripercussioni che le sue
parole potevano
avere. Non su di me.
Che
si arrivasse ad una rottura
credo fosse inevitabile. O meglio, non ci furono plateali litigi o
richieste
evidenti d’indipendenza: vista da una certa distanza, la
sospensione delle
nostre attività come gruppo nella primavera del 2001,
è stata solo una tappa
fisiologica, qualcosa che era necessario avvenisse. Perché
se vedi sempre le
stesse facce, tutti i giorni e per mesi di fila, alla fine te ne saturi
e non
ne puoi più. Non era anche il mio caso, ma dovetti cedere e
fare buon viso a
cattivo gioco: e fingere di essere d’accordo.
Ma
intanto suonavamo, il tour di
promozione di Real si protrasse
fino
alla fine del 2000 e non nel migliore dei modi. L’ho detto,
il 2000 è stato
letteralmente un anno di merda.
Sanno
tutti quel che successe
verso la fine di novembre di quell’anno: durante una garetta
di go-kart, haido
si frattura le costole. Questa, ovviamente fu la notizia più
rilevante. Il
fatto fosse stato lo stesso haido a provocare l’incidente
perché non riusciva a
vincere nessuna gara –perché
le vinceva
tutte il sottoscritto- e che, nella sua smania di
protagonismo, si fosse
tirato dietro pure Ken, sembrò passare in secondo piano. Non per me però.
I
sentimenti abitano in un territorio
insidioso e ingannevole come quadri impressionisti, dove la luce e
l’ombra si
fondono a creare immagini che cambieranno allo scoccare
dell’ora successiva,
senza intaccarne per questo la sostanza. Quella, anche se non vista,
rimane
sempre la stessa, basta solo cercarla, sebbene a volte implichi
difficoltà non
indifferenti: haido non è l’unico pigro tra noi,
credo di esserlo anch’io benché
in modo completamente diverso. La sua è una pigrizia tutta
esteriore, languida
e, a ben vedere, neppure tanto dannosa dato che è comunque
sempre disposto ad
accantonarla quando c’è da lavorare. E’
la mia ad essere davvero deleteria,
perché, alla frenesia apparente del voler sempre fare fare
fare, si accompagna
un torpore emotivo che raramente sono riuscito a superare e solo con
pochissime
persone. Ho sempre odiato chi giudica dalle apparenze, l’ho
già detto. Eppure,
senza volerlo, nel bene come nel male, è qualcosa che ho
sempre fatto con i
sentimenti: non vado mai a fondo, né permetto qualcuno lo
faccia con me. Per
timore, certo, a volte per disinteresse manifesto. Ma, altre volte, per
pura e
semplice pigrizia, come se non valesse la pena fermarsi a riflettere
sulla
natura di un battito di troppo del proprio cuore, perché
tanto ci si abitua a
sentirli.
Ma
è un grosso errore, perché i
sentimenti cambiano quando meno ce lo si aspetta. O rimangono intatti e
sempre
uguali quando si crede siano invece irrimediabilmente mutati. Capire la
natura
dei battiti del proprio cuore equivale a conoscere davvero se stessi,
forse, o
almeno, quel che si prova. La mia
pigrizia non mi ha mai permesso di approfondire, invece.
Credevo
di odiare Sakura. Dopo il
suo arresto, e lo scandalo che ne è seguito, ero talmente
arrabbiato con lui
che avrei voluto ucciderlo con le mie mani. E per mesi mi sono macerato
in
quell’odio senza interrogarmi sul perché mi
venisse pure stranamente da piangere
quando l’occhio mi cadeva su certe vecchie foto. Ho scritto Perfect blue chiuso in quel sentimento
ostile in cui, credevo, fosse mutato quello d’amicizia che mi
legava
precedentemente a lui. Solo che, se fossi stato più attento,
mi sarei accorto
che non era cambiato nulla: era mutata la
luce, ma la sostanza rimaneva la stessa.
In
quel 2000 senza fine mi
ritrovai a fare i conti con quella mia cronica incapacità di
lettura profonda.
Ma, devo dirlo, fu anche una sorta di sollievo: il fatto, haido,
cominciasse
vistosamente a darmi su i nervi, il fatto trovassi sempre
più insopportabili le
sue uscite, il fatto litigassimo per ogni sciocchezza, mi diede un
senso di
conforto che non avrei immaginato. Il gruppo ne risentiva e gliene
facevo una
colpa, certo, ma ne risentivano anche i sentimenti che nutrivo per lui.
E
questo andava bene.
Anche
se mi colpì più di quanto
avrei immaginato la notizia che aveva deciso di sposarsi. Non che fosse
un’autentica sorpresa, lui e Megumi sembravano davvero felici
insieme, ed intendo
VERAMENTE felici. E poi era
raggiante
come un bambino quando ce lo disse, quei suoi occhi enormi brillavano
di gioia
purissima, ed erano secoli che non appariva più tanto
intimamente felice.
Ne
fui un po’ turbato, ma mi
congratulai con lui insieme agli altri, i nostri dissapori
temporaneamente
accantonati per dividere quella notizia festosa e festeggiarla a
dovere. Si
sarebbero sposati il giorno di Natale di quello stesso anno. Una scelta romantica, una scelta da haido.
Prima
però c’era da portare avanti
il tour, ovviamente: l’errore fu concederci un pomeriggio
spensierato tra una
data e l’altra, per ricaricare le pile, e scegliere di farlo
ai go-kart. Perché
successe quel che successe ed haido e Ken finirono
all’ospedale, il primo con
un bel po’ di costole fratturate, il secondo con gli
addominali ed il plesso
che tendevano al viola melanzana e la schiena conseguentemente a pezzi.
Forse
è stato davvero un bene
abbia optato per la realizzazione del sogno che mi vedeva fascinoso
musicista,
piuttosto che velocissimo driver di formula 1: scene del genere non
sono facili
da reggere, anche se sei davanti e ne sei solo spettatore grazie ad uno
specchietto retrovisore che non dimentichi mai di guardare.
Ammetto
che, in quel momento,
decifrai alla perfezione i battiti del mio cuore, battiti in meno,
comunque:
stavo morendo di paura ed angoscia e mi occorsero pochi secondi per
decidere di
spegnere il motore in mezzo alla pista e precipitarmi verso quello che
temetti
essere la fine di tutto. Ma non c’entravano i
L’Arc~en~Ciel.
Quando
vidi uscire Ken
dall’angusta vettura sulle sue gambe, mi accorsi di aver
trattenuto il fiato
per l’intero tragitto e mi permisi di respirare di nuovo. Lui non usciva però, dovettero
tirarlo fuori due addetti alla
pista: tremava di dolore ed era ripiegato su se stesso, come se non
riuscisse a
stare più dritto. Vennero entrambi trasportati in ospedale
e, per l’intero percorso
in macchina con Yukki, cercai disperatamente di concentrarmi sulla
guida e
sulla strada, perché mi veniva da piangere e da urlare: e
continuavo a
ripetermi fosse tutta colpa di haido e solo sua se c’era
andato di mezzo anche
Ken. Non m’importava che fosse stato lui a subire le
conseguenze peggiori della
sua avventatezza, non m’importava stesse soffrendo in modo
evidente, non
m’importava del tour da concludere. Pensavo solo fosse un
bastardo ed uno
stupido che per poco non aveva ammazzato il mio migliore amico. E tutto
per una
stupidissima gara di go-kart. Dire che in quel momento lo odiai
è davvero poco.
So che la mia è stata una reazione spropositata agli eventi,
ma in quel momento
era l’unica potessi e volessi permettermi: Ken era il mio
migliore amico ed
haido non doveva più essere speciale. Non
per me. Credo che, se non mi fossi abbandonato a quel rancore
irrazionale,
sarei ricascato nella trappola del Light
my fire ed era una cosa che non potevo assolutamente
permettere succedesse.
haido soffriva terribilmente, tanto da non riuscire neppure a piangere
o
gridare, persino respirare era diventato uno strazio ed era evidente ad
ogni
rantolo strozzato che emetteva. Ma rifiutai ostinatamente di farmi
intenerire,
mi negai con forza di provare la minima pietà,
perché la compassione sarebbe
stato il combustibile che avrebbe fatto bruciare più forte
il mio inferno. La
rabbia, anche se può suonare ossimorico, funzionò
come sabbia su quelle braci
mai veramente dome.
Lo
so. Reazione spropositata,
stupida e sicuramente da biasimare: nonostante i nostri rapporti non
fossero
proprio idilliaci in quel particolare momento della nostra vita,
eravamo
comunque colleghi e soprattutto amici. Io non ho nemmeno finto mi
dispiacesse.
Sì,
decidere di sospendere le
attività del gruppo era stato solo un bene,
perché il tour si concluse in un
successo solo di facciata: noi eravamo a pezzi, soprattutto
emotivamente. E, se
io mi mostravo totalmente indifferente ad ogni cosa riguardasse haido,
in quel
frangente fu lui a venirmi dietro. Ma non come in passato, quando
chiedeva solo
attenzioni, rassicurazioni; ogni scusa era buona per darmi addosso,
fustigarmi
con quello che credeva sarcasmo o guardarmi dall’alto al
basso, cosa che suona
persino comica se si pensa che, pur non essendo io particolarmente
alto, lo
stacchi di mezza testa abbondante. Quel che allora non sapevo,
è che avrebbe
approfittato dello hiatus anche per affilare quelle armi e fino alle
estreme
conseguenze.
Nei
tre anni e mezzo circa in cui
non lavorammo come gruppo vidi haido una sola volta, il giorno dei
festeggiamenti per il suo matrimonio. Poi calò il sipario,
sulla band come sulle
nostre vite.
E,
una volta di più, ne fui
contento, perché QUELLO
non avrebbe
dovuto dirlo. QUELLO, non avrebbe
dovuto farlo.
Il
primo ad intraprendere il
grande passo da solista sono stato io. Buffo, no? Ero il più
reticente a
concederci la pausa, ma alla fine sono stato il primo ad approfittarne
nel
pieno senso del termine: perché Yukki realizzò un
vecchio progetto ed una
vecchia passione nell’Alcove
di
maggio, ma, alla fin fine, nulla era stato scritto né
deciso. E comunque, quel
live fu qualcosa di talmente alieno ai lavori che divideva con i
L’Arc~en~Ciel,
che davvero non si riusciva ad immaginare quel Yukihiro fosse lo stesso
che
picchiava sulla batteria dietro haido. Una rivoluzione in piena regola.
Non
si poteva dire altrettanto di
quel che feci io o, più tardi, haido: quando Kaori mi
lasciò non riuscii a
stare con le mani in mano, ma scrissi, scrissi e scrissi traducendo in
parole e
musica i miei stati d’animo. Non ero stato il solo a farlo,
ma lo scoprii solo
in seguito.
Ero
arrabbiato, ma anche
profondamente triste e, da qualche parte, nutrivo la debole speranza
potesse
comunque risolversi tutto, dove quel ‘tutto’
abbracciava fin troppi aspetti della mia vita.
Ma
allora mi sforzavo di pensare
solo a Kaori e di odiare haido, anche se qualcuno diceva si fosse
fermato ad
aspettarmi come un fesso per ore davanti ad una macchina che credeva la
mia.
Non ci ho mai creduto davvero, forse non ho voluto crederci:
perché farlo
avrebbe implicato haido mi cercasse ancora come faceva una volta e
questo avrebbe
fatto franare le mie difese.
Non
ci scambiammo nemmeno una
telefonata comunque, l’unico che sentivo era Ken e qualche
volta incontravo
Yukki, ma sempre per caso o perché mi aveva dato
appuntamento lui: Nishikawa
non aveva ancora palesato al Giappone –ma
lo avrebbe fatto da lì a poco e non mi sono mai maledetto
abbastanza per aver
accettato quella doppia intervista- le sue brillanti
deduzioni da psicologo
della mutua, ma i miei sintomi erano sempre stati evidenti per tutti.
Qualche
mese dopo il mio debutto
solista, anche haido decise di venire allo scoperto: e se il suo
singolo di
debutto mi aveva fatto temere, il successivo ascolto del suo album mi
diede
conferme che proprio avrei fatto a meno di avere. Quel maledetto album
non era
solo la radiografia delle sue emozioni, era la messa in versi di 12
mesi
all’inferno, erano una lettera d’amore ed una
richiesta di perdono, un richiamo
ed un’assoluzione. Per un maledetto fiore nero,
però, un fiore che rimetteva
radici e tornava a vivere da solo. Perché fu in quel periodo
che anche Sakura
cominciò a farsi risentire più forte e lo fece
nei modi a lui più congeniali:
suonando e parlando.
Lo
ammetto, sono rimasto
parecchie notti ad aspettare il suo programma radiofonico, finendo per
ascoltarlo fino alla fine: ho sempre adorato il suo gusto musicale,
d’altronde.
Forse è stato durante quelle notti che ho ripensato a quando
ci facevamo
compagnia nella reciproca insonnia tanti anni prima, seduti su futon
sfatti a
suonare la chitarra ad orari decisamente improponibili. Sì,
forse è stato
proprio allora che mi sono accorto che, in fondo, uno scimmione scemo
con la
fissa per i panda e i porno –non
necessariamente in quest’ordine- non si poteva
proprio odiare, anche se
sono stato sulle mie ancora per un po’ prima di accettare
quel dato di fatto.
Però
questo non voleva dire
potessi accettare impunemente quelle parole da haido. Certo, per lui
era facile
soffermarsi a fissare su carta quel che provava, proprio TUTTO
quel che provava. Per lui era facile chiedere perdono, sapeva
che ci sarebbe sempre stato qualcuno disposto a concederglielo. Era
facile per
lui accordarlo, quel perdono, perché le sue ferite erano
state ben suturate e
strette in fasce di seta. Aveva sofferto certo, ma si era anche
sfogato, si era
concesso di piangere e chiedere aiuto, cosa che non avevo potuto fare
io,
invece, perché a me non è mai stato concesso
tempo.
Sì,
i sentimenti abitano in un
luogo strano e illuminato da soli che ruotano senza un tempo preciso,
almeno i
miei: perché non c’è stata mai una
volta che sia riuscito a leggerli nel modo
giusto.
Però
credevo davvero di essere
guarito dal mio male per lui.
Ne
fui al tal punto sicuro che
tentai di riallacciare i rapporti con Kaori: se stavo bene, potevo
essere
d’aiuto anche a lei. O almeno la pensavo così.
Kaori
non si era ancora rimessa
completamente in salute, ma stava già decisamente meglio
rispetto all’anno
precedente e, mi dispiace doverlo dire, si sorprese parecchio del mio
ritorno.
Ma, se aveva un’opinione tanto bassa di me come persona, in
fondo, era colpa
mia, quindi ingoiai il rospo senza reclamare. Ero
assolutamente sicuro di potercela fare.
Le
mie previsioni non furono del
tutto esatte, tuttavia, anche se ritornammo insieme, fu solo per un
breve
periodo e, alla fine, ci lasciammo ugualmente. Senza traumi e senza
lacrime,
però, di comune accordo e rimanendo persino, se
così si può dire, amici.
Purtroppo credo ci fossimo fatti troppo male in passato per poter
ricominciare
daccapo senza arrivare al punto di rinfacciarci tutto, un giorno o
l’altro. E
non erano buone basi su cui costruire un rapporto duraturo.
E mettemmo il punto.
Quello
stesso punto tentai di
rimarcarlo anche su un’altra storia che volevo disperatamente
archiviare. Solo
che haido era sempre ovunque ed ignorarlo, per quanto ci potessi
provare, era
impossibile. Soprattutto poi, se mi staccava persino nelle chart di
vendite
dopo aver detto che sì, i L’Arc~en~Ciel oramai gli
stavano stretti, aveva
bisogno di libertà e spazio per poter scrivere la
SUA musica
senza restrizioni. Già.
Per
la prima volta dopo anni, mi
permisi di piangere a causa sua. Solo che le mie furono lacrime di
rabbia e
nulla di meno, perché quelle parole sapevo di non
potergliele proprio
perdonare: perché non erano vere e non erano giuste.
Perché dietro c’era tutta
l’ipocrisia di chi è arrivato in alto lavorando,
certo, ma sapendo di avere
sempre il culo parato dagli altri. Da un altro deficiente che, alla
bisogna,
aveva sempre una parola di conforto e si prendeva pure le lavate di
capo
peggiori.
Dieci
anni liquidati e buttati
nel cesso con poche frasi dette senza pensare, com’era in
fondo suo costume.
Perché solo se non si ha sale in zucca si può
rifilare alla stampa le proprie
paure e sentimenti
più intimi, come pure
aveva fatto, e pretendere poi di tenere nascosta la propria vita
privata. Come
se un nome di battesimo valesse più delle lacrime spese per
un amico.
Fui
davvero tentato di chiamarlo,
dopo quella sua meravigliosa uscita, ma alla fine non lo feci, non
volevo
fargli capire quanto le sue parole mi avessero ferito e dargliela
vinta:
perché, c’era da premettere, che le sue accuse
fossero rivolte al sottoscritto
l’avevo colto alla perfezione, era con me che ce
l’aveva, me che stava
tacitamente sfidando.
Ma
sbagliava a pensare mi
abbassassi al suo livello.
Passarono
ancora un anno, un
nuovo disco di HYDE –col quale si premurò si
rovinarsi a dovere la voce- e
parecchia acqua sotto i ponti, come si suol dire, ma
quell’intervista è rimasta
un punto rosso al centro del mio cervello. Perché io ho
sempre avuto la brutta
abitudine di non dimenticare nulla.
Rimase
fissa lì tutto il tempo,
durante le interviste che rilasciavo, durante le performances che
eseguivo,
durante gli Events della Danger, di cui, le uniche note positive furono
le
chiacchiere con Ken e Sakura. Sì, già allora io e
Sakura eravamo tornati in
buoni rapporti. O meglio, avevamo riallacciato i rapporti,
perché non si può
dire si fossero mai veramente guastati: probabilmente, se ci fossimo
rincontrati prima, o mi fossi semplicemente deciso ad alzare una
maledetta
cornetta, saremmo tornati a ridere insieme molto prima. Sakura non
poteva
essere biasimato per non averci provato, si sentiva responsabile e,
dopo Perfect blue, pure decisamente
in
imbarazzo, perché era un gorilla, ma per niente scemo e
certe stoccate gli
erano arrivate eccome.
Non
abbiamo mai parlato di
quello, però: non mi ha chiesto chiarimenti ed io non gliene
ho dati, in fondo
erano del tutto inutili visti i trascorsi e gli uomini che eravamo
diventati.
Erano inutili soprattutto perché ci eravamo dati il tempo di
pensare,
assimilare e capire l’altro senza inutili imposture di
comodo, guardando i
fatti per quello che erano. Erano passati quasi cinque anni e potevamo
permetterci di farlo e persino di rimpiangere il tempo perso senza
preoccuparci
sembrasse inopportuno.
haido,
quelle preoccupazioni,
invece, non le aveva mai avute. E forse il leggero senso di vertigine
che
ancora mi scoprivo a provare nei suoi confronti, derivava da quello: il
suo
mondo interiore era talmente diverso dal mio che nemmeno
l’attrazione di un
buco nero avrebbe potuto avvicinarli. Perché lui era
riuscito persino a
scrivere una lettera d’addio ad un morto per ringraziarlo di
essergli stato
amico. Io non riuscivo nemmeno a rispondere alle e-mails dei vivi senza
sentirmi uno stupido. Quel lato del suo carattere mi aveva sempre,
sempre
fregato e non riuscivo a fare a meno di provare una sorta
d’invidia per quel
tipo che nemmeno conoscevo, ma per il quale si era preso la briga di
dire ‘grazie’,
anche se in ritardo. Però poi ricordavo
che quel ‘grazie’,
io, non l’avevo
mai sentito dalle sue labbra, ed il puntino rosso diventava
più vivido e
cancellava la vertigine.
Fu
con quello spirito che lo
rincontrai a 2003 già inoltrato per
l’organizzazione degli Shibuya 7Days,
il nostro grande ritorno come L’Arc~en~Ciel.
La
pausa aveva fatto bene un po’
a tutti, Yukihiro in primis temo, dato che, forse proprio
perché era l’ultimo
arrivato e non aveva vissuto lo strazio degli ultimi due anni nella
band, era
anche quello che aveva probabilmente risentito più degli
altri di una tensione
che non riusciva a giustificare.
haido,
se pure si era aspettato
una mia reazione, non lo diede a vedere e si comportò come
se nulla fosse
accaduto, scherzando con Ken e ricordando quanto si erano divertiti
durante la
tournè dei S.O.A.P. a
cui aveva
partecipato anche lui: come ai vecchi
tempi, eh Ken?
Ken
ebbe il buon gusto di non
replicare, non davanti a me almeno, limitandosi a ridere. Io stavo per
tirargli
dietro il basso, ma me lo avevano appena consegnato ed era un peccato
rovinare
quella meraviglia sulla sua testa vuota.
E
poi avevamo da lavorare e senza
il cantante non sarebbe stato possibile. Anche se, visto come si era
ridotto le
corde vocali, credo sarebbe stato meglio fare a meno di lui: che
cantasse male
durante i suoi shows non m’importava assolutamente niente, ma
le cose
cambiavano quando il nome sui manifesti era quello dei
L’Arc~en~Ciel.
Pretendevo tutto fosse perfetto ed all’altezza del nome che
ci eravamo fatti,
non m’interessava nient’altro. Men che meno uno
stupido che non curava lo
strumento con cui si guadagnava da vivere, ma, anzi, faceva di tutto
per
danneggiarlo: che gli piacesse l’alcool era cosa nota, ma
almeno una volta
sapeva pure quando fermarsi. O, se non altro, ascoltava la voce della
ragione.
Mi ascoltava quando gli dicevo di smettere. Nell’ultimo
periodo, invece, quella
brutta abitudine si era più che aggravata. E, se non gli
davo apertamente
dell’alcolizzato, era soprattutto perché non
volevo capisse quanto pure la cosa
mi preoccupasse. Perché, sì, ero anche
preoccupato e non potevo farne a meno
nonostante tutto. Ma ero comunque troppo orgoglioso e troppo arrabbiato
con lui
per farglielo capire. Soprattutto troppo deluso.
Malgrado
tutto filò tutto liscio,
non ci furono particolari battibecchi né incidenti, il
pubblico ci acclamò
nonostante le performances non proprio indimenticabili e Ken si
ritrovò troppo
concentrato a tentare di portarsi a letto una ragazzina -troppo giovane
per lui
ma per fortuna a norma di legge- per prestare davvero attenzione alle
scuse di
haido per la sua voce: perché, come suo solito, piuttosto
che prendersi la
responsabilità di una sbornia di troppo e di sigarette in
eccesso, pensò bene
di colpevolizzare quello che, fino a poco prima, aveva definito come
“uno dei tour più belli
della sua carriera”,
dicendo che aveva cantato troppo senza riposare le corde vocali. Il che
era
anche vero, ma decisamente inutile da sottolineare. La lavata di capo
pareva
avergli fatto dimenticare tutte le belle serate accanto al suo adorato
Yacchan.
Come ai vecchi tempi.
Finito
il tour de force di quella
settimana interminabile, però, ritornammo anche alla routine
che avevamo
lasciato tre anni prima: prove, registrazioni, riunioni, composizioni
più o
meno estemporanee. E capitava pure di ritrovare il bel feeling dei
giorni
passati, nei giorni buoni. In quelli cattivi finivamo per starcene
semplicemente a lavorare ognuno per i fatti propri o a perdere tempo
come
potevamo, perché sarebbe bastata una scintilla per far
esplodere una nuova
Hiroshima. No, non è del tutto vero, per onor di cronaca si
deve anche
aggiungere che, i due poli dell’innaturale tensione che
spesso e volentieri si creava
in studio, eravamo io ed haido, Ken e Yukki potevano essere spettatori
inermi
come inconsapevoli vettori della scarica finale. Nei giorni ‘cattivi’ Yukki si barricava
dietro la
sua consolle od il computer e remixava e componeva fino a perdere la
cognizione
del tempo, di quando in quando riemergeva con un’immancabile
sigaretta per
prendersi un caffè od una cioccolata, ma soprattutto per
accertarsi non ci
fossimo ammazzati nel frattempo, temo.
Ken
invece… beh, Ken è sempre
stato troppo intuitivo per non capire che, se non ci avessimo messo su
una
toppa, lo strappo tra me e haido si sarebbe allargato fino a dividere
del tutto
il tessuto che componevamo, fino a rovinare tutto: perché io
ero il leader ed
haido il cantante, non eravamo solo due archi colorati
dell’arcobaleno, ma
quelli portanti.
Forse
fu proprio grazie a lui che
la nostra personale atomica non esplose allora. Anche se era
semplicemente
stato posticipato il timer, ma questo nessuno poteva prevederlo. Ken
finì per
fare da cuscinetto tra me e haido in modo talmente naturale che quasi
non ce ne
accorgemmo: passava tantissimo tempo trascinandomi in giro per locali o
semplicemente facendomi da padre confessore o valvola di sfogo. E
placcava
haido. Ogni qual volta ci fosse richiesta una promotion, lo incastrava
in
un’accoppiata che un tempo avremmo forse preferito fare
insieme. Oppure lo
trascinava in infinite chiacchierate su qualche stupido b-movie
dell’orrore. O
placava entrambi sottoponendoci tracce che ci obbligavano a rimetterci
al
lavoro e collaborare. Ken era decisamente troppo intelligente, troppo
maturo e
troppo uomo per due come noi che, in fondo, si stavano comportando
proprio come
bambini capricciosi.
Sopravvivemmo
a Smile e persino al tour che ne
seguì e
lo facemmo, insperatamente bene. Voglio dire: era lavoro. Nessuno si
faceva più
illusioni sulla natura dei nostri incontri, non c’era
più il piacere
d’incontrarsi, di fermarsi durante le prove per strimpellare
un riff dei Deep
Purple o dei Dead End, e nessuno mi tirava più dietro niente
quando cantavo e
cantavo e cantavo persino quando tutti erano stremati e avrebbero
voluto solo
silenzio, nessuno mi prendeva più in giro per quella mia
mania canora mai
veramente doma. Ed era triste.
Fu
triste anche sapere dai
giornali che Megumi era incinta e ci sarebbe stato a breve un piccolo
Takarai
junior. Ma quando tirai fuori l’argomento con Ken cercando di
trattenere più
che potevo la mia amarezza, capii anche che ero l’unico a non
sapere ancora
nulla, perché haido ne aveva parlato eccome.
Che
avrei dovuto fare? Accusai il
colpo senza fare una piega e decisi di mettere, su haido e quel che
aveva
rappresentato, quella famosa pietra che non mi ero ancora risolto del
tutto a
far rotolare. E il giorno dopo lo accolsi con un largo sorriso ed un
paio di graziose
scarpette bianche da neonato, semplici e senza sesso. Tanti
auguri, papà.
Ma
fu l’unica piccola rivincita
che mi concessi, la faccia che aveva fatto ricevendo quel regalo e quel
“grazie tetsu”
masticato male, furono
tutto quel che serviva al mio ego ed alla mia rivalsa.
Nacque
un bambino delizioso,
comunque, piccolo e tenero come mi piaceva ricordare lo stesso haido,
con due
occhi enormi e la testa già piena di sottilissimi e soffici
capelli neri. Bello
esattamente come poteva essere il figlio di haido e
dell’amore.
Intanto
lavorammo come matti, per
il gruppo e per noi stessi. O meglio: io lavorai per il gruppo, loro
tre si
dedicarono alle loro carriere soliste. Dopo l’uscita del mio
album il novembre
precedente, non avevo più voglia di mettermi in gioco. Non
che giudichi
fallimentare il mio esordio, ma l’aver dovuto cambiare
etichetta per riconquistare
un po’ di visibilità dai vertici Sony è
stata una cosa che mi sarei evitato
volentieri. Partecipai a qualche trasmissione musicale, feci un
po’ di
promozione, ma nulla di più. Oramai ero di nuovo teso e
concentrato al mio
progetto principale, la mia corda.
Scrivevo
musica ed organizzavo le
promotions in vista anche e soprattutto dell’Otakon a cui
eravamo stati
invitati per l’estate del 2004. Insieme alla Sony prendemmo
contatti con una
piccola casa discografica americana disposta a pubblicare negli U.S.A.
il
nostro ultimo album: poteva essere l’inizio del nostro grande
lancio oltre
oceano, nel mercato che aveva visto nascere e crescere anche Morrie. E
dovevamo
preparare tutto a dovere per risultare perfetti e nulla di meno. Non
avrei
accettato nulla di meno ed era meglio haido lo sapesse per tempo.
In
effetti non si può dire non
sia stato un successo, persino maggiore di quello che ci eravamo
aspettati poi:
l’arena era gremita di fans acclamanti che conoscevano le
nostre canzoni a
menadito. LORO. Perché
haido pensò
bene di dimenticarne una e pure tra le più recenti.
E’ difficile riassumere le
immagini che mi passarono in mente in quei quattro minuti scarsi
d’imbarazzo
purissimo: più o meno vedevano tutte il caro vocalist
strozzarsi con le sue belle
extensions bionde da varie angolazioni.
Verso
la fine –e relativo la la la ripetuto-
sono
davvero stato tentato di spaccargli il basso in testa, fosse nuovo o
meno, non
riuscivo a credere avesse dimenticato le parole di quella canzone, tra
l’altro
pure abbastanza semplice! Eppure l’aveva completamente
scordata, non ne
ricordava nemmeno un verso. E Ken rideva. Perché, sebbene
facessi di tutto per
non alzare lo sguardo –per non spaventare il pubblico
più che altro: ero nero-
che Ken fosse divertito dalla situazione era quasi scontato. Non
così per me,
però. Ed ho pure dovuto far buon viso a cattivo gioco
quando, sulla canzone
successiva, haido s’è inventato dal nulla un
fanservice non previsto e – per il
sottoscritto- del tutto fuori luogo: perché non ho passato
mesi ad evitarlo ed
odiarlo solo per poi farmi fregare da una strusciata non richiesta e
qualche
palpata di troppo. Preferisco considerare quello come il suo modo per
chiedere
scusa al pubblico, altrimenti dovrei pensare mi stesse prendendo in
giro: però
poteva anche attaccarsi ai pantaloni di Ken.
Decisi
di lasciar perdere per
quieto vivere, dopotutto non era successo nulla
d’irreparabile ed era accaduto
spesso dimenticasse le parole delle canzoni: ci avevamo riso su un
sacco di
volte, ci eravamo presi persino in giro da soli in una di quelle
stupidissime
trasmissioni che sarebbe sempre meglio evitare, ma che fanno pure
ascolti da
record ed è quindi bene frequentare.
E
poi eravamo talmente eccitati e
contenti per il successo e l’affetto ottenuti che proprio non
mi era sembrato
il caso di fare recriminazioni e rovinare la bella atmosfera che si era
ricreata.
E
siamo all’ultimo atto di questa
storia che, a tratti, risulta grottesca e melensa persino a me che
l’ho
vissuta. Perché ormai sono qui a raccontare un epilogo che,
quindici anni or
sono, non avrei mai creduto potesse segnare la fine della mia storia.
La fine
della parabola dell’Arcobaleno. Credo. Anzi: spero,
perché, senza di me, la mia
corda non si tocca. E non credo d’aver molta voglia di
destreggiarmi ancora con
i miei giochi da funambolo. Tanto, come lui
mi ha cordialmente fatto notare, è tutto finito, non sono
più il motore di
nulla. E’ andato tutto in pezzi e nemmeno ne avevo preso
coscienza.
Come
avevo già anticipato, lo
scossone finale alla mia corda l’ha dato proprio haido:
forte, preciso ed
assolutamente voluto e meditato. Ma non gliene faccio una vera colpa,
nemmeno
ora che le circostanze mi sono alleate e potrei giocare senza rimorsi a
fare la
vittima. Non è un ruolo che mi si addice particolarmente,
nella vita ho sempre
preferito essere coerente con me stesso: e lo sarò fino in
fondo. Quindi mi
prendo anche le mie responsabilità, perché,
benché si sia arrivati a questo
punto, mi piace pensare di aver avuto uno dei ruoli principali in
questa recita
sconclusionata: non avrei mai dovuto cedere al fascino di una figura
che avevo
in fondo creato. Invece, come uno stupido
Pigmalione mi sono infatuato della Galatea sbagliata.
Il
2004 non si chiuse poi tanto
male, ci fu il consueto Danger Crue Event che ci portò
un’irriverente
collaborazione con una Sayaka Aoki decisamente in piena forma e con la
lingua
sempre tagliente: devo precisare chi furono le vittime predilette? Se
si escludono
Ken –che finì pure per corteggiarla e metterla
addirittura in imbarazzo- e
Yukki che era impermeabile pure all’acqua, rimanevamo solo io
e haido,
purtroppo. Devo dire che, stare sotto il fuoco nemico del suo sarcasmo
pungente, ci diede perfino l’illusione di un riavvicinamento.
Comunque, mentre
cantavo in versione P’unk un nostro vecchio successo,
riuscivo solo a pensare
che mi sentivo un idiota alla mercé di una virago con troppo
senso
dell’umorismo e nessuno per lo stile. Ma passò
anche quella e, anche
quell’ultima uscita dell’anno, fu un trionfo.
Ricominciammo
a lavorare a pieno
regime per il nuovo album in progetto ed il 2005 ci vide per
l’ennesima volta
scalare le classifiche con l’ennesimo singolo di successo. E
fu così anche per
i successivi fino al varo vero e proprio dell’album:
nell’aria c’era
stranamente calma, lavoravamo, componevamo, suonavamo, ridevamo,
litigavamo, ma
senza eccessi molesti. Persino io ed haido. Sembrava tutto si stesse
spontaneamente appianando e, in fondo, sarebbe stato anche una naturale
e giusta
risoluzione per delle tensioni che non avevano una vera radice.
Invece
era solo la calma prima
della tempesta.
Eppure
m’illusi che quello
potesse essere un nuovo punto di partenza, che il 2005 potesse essere
l’anno
giusto per ricostruire il gruppo ad immagine di un’icona
sempre brillante. Era
cominciato bene, in fondo: Ken era perfino riuscito a portarsi a letto
la sua
famosa ragazzina –e non tanto per
dire,
perché Rena Tanaka era celebre a prescindere dal nome del
suo accompagnatore.
Ed aveva dodici anni meno di lui- ed era felice, soddisfatto
e creativo. Ed
io credetti di toccare il cielo con un dito quando qualcuno alla Danger
mi
passò la telefonata di qualcuno che mi aveva cambiato
l’esistenza quando ero
appena un ragazzino: Morrie voleva tornare in Giappone. Morrie voleva
ritornare
a cantare. Morrie voleva me per il
suo nuovo progetto musicale.
Che
posso dire? Ero eccitato come
un bambino davanti ad una grossa fetta di torta al cioccolato. Non
stavo più
nella pelle, non vedevo l’ora di incontrarlo per definire i
particolari del
progetto, non vedevo l’ora di vederlo, punto. Morrie era
sempre stato il mio
mito ed il mio punto di riferimento musicale, il mio personale dio
delle note.
E non esagero. Essere contattato da lui in persona per una
collaborazione era
più di quanto avessi mai osato sognare dai tempi in cui mi
sarei accontentato
di fargli anche solo da rodie-portasciugamani.
Sì,
il 2005 sarebbe stato un anno
perfetto, ne ero assolutamente convinto e nulla avrebbe potuto farmi
cambiare
idea.
Ci riuscì Seul ad un mese esatto dal mio
trentaseiesimo compleanno.
Awake fu varato il giorno dopo il
solstizio d’estate: era un album
che parlava di pace e comunione, ma composto da qualcuno che
già si preparava
alla guerra fredda.
Ognuno
di noi ci riversò le sue
preferenze e le sue esperienze soliste amalgamandole per creare una
sensazione
d’unità stilistica che risultò,
però, solo apparente. Perché, che Ophelia
parlasse invece di morte, di un
amore ch’ era piuttosto ossessione e suonasse sinistramente
vicino a quei Raggi
X che volevo solo accantonare, era fin troppo evidente. Ma decidemmo
comunque
d’includerla, fu l’unica sua canzone che haido
lottò per inserire nell’album
senza che si riuscisse a capirne il motivo profondo. Io non lo capii
almeno:
pretesi solo di modificarne gli arrangiamenti per renderla almeno
musicalmente
più vicina al resto dei brani dell’album.
Forse
fu quell’apparente futile
discussione a riportare in campo vecchi non-detti e rancori, ma, senza
che me
ne avvedessi, haido tornò assente e polemico. E decisamente
troppo aggressivo e
prevaricatorio.
Partire
in tour con quello spirito
non fu né piacevole né beneaugurante, ma mi ero
in qualche modo abituato ai
suoi sbalzi d’umore degli ultimi anni, quindi lasciai correre
senza prestargli
eccessiva attenzione: non ne valeva la pena, ero troppo preso da altro
e
preferivo non concentrarmi troppo sulla sua persona e pormi di
conseguenza
domande inopportune.
Ma
fu un grave errore.
Probabilmente, se mi fossi deciso ad affrontarlo subito, ci saremmo
evitati
quasi cinque anni di sguardi sghembi e silenzi maceranti e saremmo
ancora
amici. Se non avessi dato come sempre tutto per scontato, se non avessi
avuto tanta
paura, soprattutto, mi sarei reso al più ridicolo per
qualche minuto, ma
saremmo stati tutti più sereni. Invece.
Il
tour partì agli inizi di un
agosto caldissimo e asfissiante, di quelli che tolgono davvero la
voglia di
muoversi a chiunque. Ma ogni sera eravamo sul palco di una nuova
città per far
sentire la nostra voce e le nostre note: sembrava addirittura ci
divertissimo.
Non era vero, perché la situazione dietro le quinte stava
degenerando a folle
velocità e nemmeno Ken o Yukki riuscivano più a
fare da pacieri tra me e haido,
più cercavo di evitarlo e più quello stupido mi
cercava, più giocavo sul filo
di un’indifferenza ch’era davvero solo di facciata,
più haido calcava la mano
lanciandomi frecciate fin troppo mirate. Ero al limite della
sopportazione, ma
continuavo ad impormi la calma dei forti, dicendomi che avevamo il tour
da
portare a termine, che avrei pensato poi a risolvere una situazione che
non
riuscivo più fisicamente a sostenere: perché
haido mi stava logorando. Mi aveva
sfiancato emotivamente e continuava a farlo psicologicamente, ero
arrivato ad
un punto tale che avrei persino potuto colpirlo pur di farlo stare
zitto e mi
fermava solo il pensiero che sarei, così, passato
automaticamente in torto.
Perché haido non mi ha aveva mai vistosamente offeso,
portava avanti le sue
opinioni con troppa stizza, ma faceva solo quello: solo io potevo
cogliere e
riconoscere lo sguardo che aveva negli occhi mentre mi parlava, mentre
allungava una battuta o ironizzava su una mia decisione. Non
riuscivo più a sopportarlo.
Ma
si degenerò solo più avanti.
Agli
inizi di settembre, come
previsto, giungemmo all’Incheon International Airport e, come
era successo per
il nostro viaggio precedente, ci accolse un bagno di folla: la Corea
ci acclamava, ma
tendeva le mani quasi esclusivamente verso haido. Non mi lasciai
indispettire
più di tanto dalla cosa, in fondo lui era il vocalist e
frontman del gruppo,
che fosse anche il più amato era un corollario scontato.
Anche se ci sono
rimasto un po’ male quando è giunto intatto al
pullman riservatoci: le esaltate
non erano riuscite a prendersene neppure un pezzo piccolissimo e mi
sarebbe
davvero piaciuto fargli assaggiare anche quel lato della
notorietà. E ridergli
in faccia se avesse chiesto un bel massaggio ristoratore.
Il
tre settembre giunse senza
incidenti, la tensione e l’ansia che c’incuteva
quel vecchio stadio Olimpico avevano
zittito ogni residua belligeranza persino in haido che aveva passato i
giorni
precedenti in stato quasi ascetico. Soprattutto, zitto.
E
ci siamo: il resto l’hanno
visto tutti. Siamo entrati in scena col cuore in gola ma decisi a dare
il
massimo. Abbiamo fatto gli scemi sulle nostre automobiline ognuno a suo
modo,
ho lanciato plettri e sorrisi e baci e mi sono messo delle ridicole
orecchie
rosa da coniglio. Che però avevo comprato eccitatissimo per
quanto mi
piacevano. Un’idiozia, d’accordo, ma tutti abbiamo
le nostre debolezze: le mie
sono le cose stupide. Se non lo fossero state, dopotutto, haido non
sarebbe
entrato nel ristretto novero delle mie preferenze.
Iniziammo
con Round and round versione
P’unk~en~Ciel,
una piccola concessione al mio ego canoro: doveva essere divertente. Fu
un
disastro.
Feci
del mio meglio per coprire
le sbavature di una chitarra che spesso e volentieri se ne andava per i
fatti
propri. O di un coro inesistente. Perché haido non mi fece
da controcanto, non
accennò nemmeno una sillaba del coro ed anzi, ogni volta che
il testo imponeva
la seconda voce, si dileguava e compariva fin troppo lontano da
qualsiasi
microfono. La voce di Yukki non era adatta a farmi da controcanto e lo
sapeva
benissimo, l’effetto sarebbe stato troppo stridente, quindi
se ne stette zitto
suonando il basso a testa china, aggiungendo qualche nota estemporanea
e
precisa quando le mancanze di haido si facevano più marcate.
Ma
il pubblico applaudiva:
quell’idiota aveva mandato a puttane l’intera
performance e nessuno se n’era
accorto. Che nessuno mi venga a rinfacciare la nota isterica che feci
risuonare
a fine canzone: si pensi ad un virtuosismo canoro dal gusto
retrò.
“Ma
si può sapere che diavolo ti
è preso?” “Andiamo Ken, non fare il
bacchettone adesso, ci siamo divertiti,
no?” “Divertiti? Hai praticamente rovinato la
canzone!” “Questo non è vero. Il
leader-san ha tappato tutti i buchi alla perfezione. Come al
solito.”
Io
non riuscii ad aggiungere
niente allo sfogo di Ken, sarebbe stato inutile dire altro in quel
momento,
avevamo uno show appena iniziato da portare avanti: e lo spettacolo
deve sempre
continuare.
E continuò.
Il
mattino dopo, prima di
colazione, ho preso da parte haido con molta calma e gli ho chiesto di
venire
in camera mia. E, con tutta calma, si è alzato e mi ha
seguito sorridendo, come
se non fosse successo nulla ed andassimo a fare due chiacchiere in
allegria.
Come se non dovessi trattenermi a fatica dal prenderlo per il collo. A
sapere
come si sarebbe chiusa la conversazione, penso mi sarebbe convenuto
farlo.
“Allora?”
chiusi nell’intimità
della mia stanza, però, non avevamo più motivo
per imbastire una recita che
aveva stancato tutti. “Allora cosa?” E si accese
una sigaretta. Sapeva quanto
odiassi il fumo, sapeva che la situazione non era facile e sarebbe
bastato un
niente per farla degenerare, eppure si accese quella stramaledetta
sigaretta,
guardandomi in sottecchi con un mezzo sorriso soddisfatto: stavo
perdendo la
calma e se n’era accorto perfettamente. “Il
concerto è andato bene, no? Cos’è,
Ooishi ancora non ti ha ancora detto quanto sei bravo?
Strano… Mi ha rotto le
scatole fino a poco fa.” Un altro sguardo, fintamente ingenuo
e palesemente
compiaciuto.
“Non
è questo il problema è lo
sai benissimo!” cercavo di controllarmi, di non lasciar
trapelare quanto avevo
accusato quella stoccata. Perché il leader ero IO e Ooishi
–o chi per lui- aveva
sempre reso conto a
me di ogni successo come di ogni passo falso. Sempre. “Si
può sapere cosa ti
sei messo in testa? Cosa credevi di fare rovinando l’intro
dello spettacolo,
eh? Quella maledetta canzone l’hai scritta tu, maledizione,
ti è piaciuto tanto
rovinarla?” “Già, l’ho scritta
io… Quindi potevo farci quel che mi pareva,
giusto? E non l’ho rovinata, ho solo fatto vedere quanto sei
bravo anche tu: hai cantato proprio
bene,
Ogawa, davvero.”
Se
quello era uno scherzo, io non
mi stavo divertendo per niente. Ero anzi scioccato dalla sua faccia
tosta,
umiliato dal suo annuire serio e soddisfatto mentre
m’insultava.
Si può odiare una persona fino a credere
di poterne morire? Si può allo
stesso tempo amarla, finendo per riversare quell’odio su se
stessi,
amplificando quella sensazione di oppressione che pare poter spegnere
il cuore
definitivamente?
Non
lo so, forse è possibile.
Perché una consapevolezza m’attraversò
la mente come un freccia nel momento
meno indicato, andando a conficcarsi al centro dell’encefalo,
in profondità:
perché mi trattava in quel modo, se io l’avevo per
contro sempre protetto ed
amato? E non mi era possibile liberare i pensieri da
quell’unico, ricorrente
interrogativo che mi schiacciava anche con il peso della sua
sostanziale
rivelazione. Che non ero guarito, cioè. Che i miei
sentimenti non erano mai
davvero cambiati, li avevo semplicemente spostati in un luogo in ombra
per
paura di vederli, ma erano ancora intatti e brillanti nonostante tutti
i miei
tentativi e le mie fughe.
Chissà
cosa sarebbe successo se mi
fossi davvero messo a piangere come avrei disperatamente voluto. Lo so,
a quasi
quarant’anni è ridicolo frignare ancora come un
ragazzino, ma ne sentivo
l’impellente bisogno. Come sentivo il bisogno di prendere a
pugni lui e poi
baciarlo fino a staccargli quelle labbra letali buone solo a cantare
poesia e
vomitare rancore.
Ma
non avrei mai potuto farlo.
Perché ero sempre IO il leader e potevo e dovevo essere
padrone della
situazione. Perché avevo ancora abbastanza orgoglio da non
svendere le mie
lacrime ed i miei sentimenti a chi non li meritava. Perché
tra i due ero sempre
stato io il più forte, ad elargire l’ultima
carezza come l’ultima stoccata.
Oppure
avevo il cuore e la mente
talmente in subbuglio da credere anche di essere perfettamente padrone
della
situazione e della ragione.
“Chi
diavolo credi di essere per
potermi parlare così? Chi diavolo ti dà la
presunzione di poterti ritenere
superiore a me? Quella canzone tu l’hai scritta per il
gruppo, l’hai scritta
perché Io te ne ho data la possibilità,
perché IO ti ho messo davanti al
microfono per fartela cantare!” “E credi sarebbe
stata la stessa cosa se
l’avessi cantata tu, allora?”
“C-cosa?” “Coraggio,
parla. Sarebbe stata la stessa cosa se non ci fossi stato io a cantare?
Se non
ci fossero stati la mia faccia e i miei capelli e le mie smorfie e la
mia voce?
Allora?” “Tu questo non puoi dir-”
“Certo che posso, Ogawa. E sai perché?
Perché è la mia faccia quella che comprano, la
mia voce quella che ascoltano.
Sempre. E lo sai benissimo anche tu che è così,
altrimenti non ti saresti
accontentato delle briciole e staresti ancora a cantare le tue canzoni
come
invece non hai mai avuto il coraggio di fare!” “Non
è questione di coraggio, la
cosa che m’interessa di più è solo il
mio gruppo! E che io canti o meno non è
un problema tuo! Ricordati che se sei diventato qualcuno è
solo grazie a me ed
al mio lavoro, solo perché ti ho voluto per il mio gruppo,
solo perché non ti
ho lasciato affondare nella mediocrità come avresti
meritato!”
Non
era vero niente e lo sapevo
benissimo, haido non era mediocre ed aveva lavorato quanto me per il
gruppo.
Quel possessivo costante non era giusto, perché il gruppo
era nostro, di quattro persone e
compagni.
Ma ero troppo fuori di me per accorgermi davvero di quel che dicevo,
perché
erano soprattutto le parole di haido che occupavano ogni mio spazio
mentale.
Quelle ed il pensiero insinuante avesse anche perfettamente ragione.
Oggettivamente,
un pugno me lo
sarei anche meritato. Anzi: magari fossimo arrivati alle mani! Quella
sarebbe
stata una reazione più che normale, una reazione che, tra i
vari epiloghi,
avrebbe contemplato anche quello di un chiarimento, di una
riappacificazione o
di un distacco comunque civile. Perché alle botte possono
seguire anche le
parole. A quel che fece haido, no.
Perché
anche lui non sopportava
le mie parole a quanto pare, ma trovò il modo peggiore per
zittirmi e rimarcare
qualcosa che avevo fino a quel momento rivendicato per me. Il possesso.
Mi afferrò per il colletto della
camicia spingendomi con violenza a sedere sul divano, per poi
afferrarmi il
mento con una mano costringendomi ad aprire la bocca e baciarmi.
Sì. Un bacio vero di
quelli che non ci eravamo mai
scambiati, violento, prevaricatorio, inutile e volgare come sarebbe
stato bene
in un porno forse. E, con gli occhi spalancati, non potevo far altro
che
respirare la sua nicotina e fissare le sue pupille cattive che a loro
volta mi
guardavano.
“Io
non sono tuo, tetchan. È
esattamente il contrario,
invece: sei tu ad essere mio,
adesso.
Tu, il gruppo, tutto. La gente vuole me e senza la mia faccia non
andresti da
nessuna parte. E lo sai. Ricordatelo, tetchan.
Se fossi tu a sparire non se ne accorgerebbero nemmeno, per me
piangerebbero
per anni. E non solo stupide ragazzine.”
E
mi lasciò così, senza fiato, le
labbra umide e la bocca impastata di pungente nicotina. E di amara
verità. Lui era
andato via, ma l’eco delle sue parole era rimasto intatto tra
quelle pareti e
sulle mie labbra: aveva ragione lui?
Non
so quanto sono rimasto fermo
a fissare il vuoto, semplicemente seduto lì dove mi aveva
abbandonato come
l’ultima delle preoccupazioni importanti. Mi parvero ore, ma
probabilmente sono
stati solo pochi minuti, perché la mia rabbia e la mia
disperazione esplodono
sempre decisamente in fretta quando ogni freno inibitorio viene
distrutto. E i
miei si erano involati appena haido aveva messo piede nella mia camera,
poco da
fare.
Mi
sentivo raggirato e preso in
giro, deluso e disperatamente rabbioso. Disperato
soprattutto.
Non
pensavo a cosa facevo mentre
scaraventavo contro la parete tutto quello che mi stava a portata di
mano, con
gli occhi offuscati di rabbia e di lacrime e la gola stretta in un
grido senza
voce. Non si salvò neppure il grazioso vaso di cristallo che
decorava l’angolo
dello scrittoio: scaraventai anche quello in terra generando tante
piccole
schegge brillanti che saltarono ovunque come uno zampillo, fino a
vendicarsi
dell’onta subita conficcandosi anche nella mia mano destra. E
facevano
terribilmente male. Forse è stato quello ad impedire
distruggessi altro, forse
è stato quel dolore improvviso e finalmente riconducibile ad
una causa certa,
reale e visibile a placarmi. Quello era l’unico dolore che
volevo sentire, per
il resto, quel che è venuto dopo non lo ricordo e non
m’interessa nemmeno
particolarmente saperlo.
Perché ora sono qui tranquillo a
raccontarmi finalmente una storia
compiuta, sospeso in un luogo lattiginoso e riposante.
Se non fosse stato per lo zelo di una banale
inserviente tetsu sarebbe
morto. So che sarebbe morto e ora saremmo in una camera ardente a
piangere un
corpo dissanguato e non dietro la porta di una rianimazione che almeno
tiene
viva la speranza. Perché almeno è ancora vivo.
Non riesco a piangere. Vorrei farlo, avrei bisogno di farlo, ma mi
sento vuoto, prosciugato.
È colpa mia.
Sono l’unico a saperlo ed ho paura di dirlo,
benché speri Ken superi la
disperazione e lo smarrimento in cui è caduto ed arrivi allo
scontato risultato
di un’equazione fin troppo semplice. E mi prenda a pugni fino
a farmi sputare
tutto il rancore, il dolore e il tormento che ho dentro e non riesco a
tirar
fuori.
Volevo fargli del male, ma solo perché
lui ne aveva fatto a me, volevo
mi guardasse finalmente per quello che ero diventato e vedesse cosa
aveva
deciso di buttare via troppi anni fa.
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