Dè a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe? di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Dè a tha thu_2
ATTO I: TOCCATA E FUGA [1]
{ APRILE
1912 }
SCENA I:
IL RAGAZZO DAL VOLTO DI CERA
Un
brusio basso e sconnesso si levava dalla ressa della locanda in cui mi
trovavo,
dando quel lieve tocco d’allegria in più a quel
posto quasi polveroso che,
altrimenti, sarebbe stato un vero e proprio mortorio.
Con l’arrivo della primavera,
non
era raro vedere luoghi come quello ghermiti di gente che arrivava da
ogni dove.
C’era chi raggiungeva Londra solo per puro piacere personale,
chi per affari da
lungo tempo rimandati, e poi chi, come mille altri signorotti
d’alto rango, per
avere l’occasione d’ammirare o
d’imbarcarsi presto sulla più grande nave mai
costruita fino ad allora [2].
Era una cosa che stupiva e
meravigliava anche me, ad esser sincero, ma la notizia legata a quel
mastodontico esemplare era ben presto passata in secondo piano,
lasciando che
concentrassi altrove le mie attenzioni.
Non che ci fosse poi molto altro
d’eclatante, alla fin fine. Da quando ero partito per
raggiungere Londra erano
passati quasi due secoli, e l’unica cosa che mi aveva
realmente interessato, in
quel lasso di tempo, era stato il caso di un certo Jack lo
squartatore [3].
Non
che lodassi i suoi atti, sia ben chiaro. Ma il male insito nella mia
natura
aveva fatto sì che mi incuriosissi al punto di seguire di
nascosto le indagini
della polizia.
Durante il corso di una vita
così
lunga, il
più delle volte ci si
stufava, e occupare il tempo
in quel modo, al
principio, mi era sembrato un ottimo svago. Adesso invece avevo ben
poco da
fare, oltre all’osservare il laborioso operare degli esseri
umani. Spesso
faticavo persino a credere che un tempo ero stato anch’io
come loro, un comune
uomo che svolgeva le proprie mansioni nelle terre del clan per
adempiere ai
compiti d’un futuro Laird [4].
E
probabilmente sarebbe stato così, se non avessimo perso lo
scontro con i
britannici. Avrei occupato il posto di mio padre e avrei vissuto in
Scozia fino
alla fine dei miei giorni, a vegliare sulla nostra gente e sui
territori che ci
spettavano di diritto. C’era anche da dire, però,
che se quella battaglia non
avesse mai avuto luogo, io non mi sarei ritrovato lì, a
distanza di
centosessantasei anni, seduto ad un tavolo di una piccola locanda nel
West End [5]
di
Londra. In un certo modo contorto e perverso, la cosa aveva in fin dei
conti
avuto i suoi vantaggi. “Non tutti i mali vengono per
nuocere”, non si diceva
forse così?
Rincorrendo quei pensieri, mi
ritrovai a far vagare di poco lo sguardo sulla clientela lì
presente. Il
chiacchiericcio era allegro e frettoloso, ma gli argomenti di
discussione erano
ben lontani dal mio interesse. Scostai dunque gli occhi per stornarli
in
direzione d’una cameriera che avanzava a fatica fra i tavoli,
ma che aveva a
sua volta un’aria divertita dipinta in viso. Era accentuata
dal sorriso
presente sulle sue labbra rosee e carnose, e persino gli sguardi che
regalava
ai clienti sembravano dare quell’impressione.
Sbuffai senza poterne fare a meno.
Cosa avessero tutti per essere così allegri proprio non lo
capivo. Mi ritrovai
dunque ad alzarmi e a lasciare qualche spicciolo sul tavolino, pagando
così
quel bicchiere di liquore che avevo ordinato ma che non avevo toccato
per
niente. Mi diressi verso l’uscita a grandi falcate,
ritrovandomi ben
presto nel bel mezzo d’un acquazzone in piena regola. Odiavo
Londra solo per
quel motivo. In quei due secoli l’avevo lasciata
più di una volta per passare
un paio d’anni altrove, sfruttando quella mia
longevità per vedere posti come
Parigi o Amsterdam, ma in nessuna di quelle città mi ero
davvero sentito come a
casa mia. Forse il motivo era che Londra era quanto di più
simile ad Edimburgo
apparisse ai miei occhi. Sentivo nostalgia della Scozia, e questo non
potevo
negarlo, ma non mi sentivo per niente pronto a tornarci.
Mi diedi dell’idiota da
solo per l’essermi perso nuovamente fra i miei più
disparati pensieri,
sistemandomi in dosso il mio pesante giaccone da viaggio e calcandomi
subito
dopo il cilindro in testa, così da potermi avviare sotto
quella pioggia
torrenziale. Incrociavo passanti che
sgattaiolavano svelti per cercare di bagnarsi il meno possibile,
persino coppie
con figli che tentavano di frenare l’entusiasmo dei bambini,
che si divertivano
a giocare nelle pozzanghere create dall’acqua.
Per un lungo periodo di tempo mi
concentrai solo sul suono che le mie scarpe producevano sul lastricato
bagnato,
godendomi al tempo stesso il picchiettare della pioggia che diveniva
man mano
più intenso. Si creò ben presto un vasto via
vai di persone, ancor più frettolose di quanto non fossero
prima. Io camminavo
invece tranquillo, senza preoccuparmi più di tanto delle
gocce che continuavano
a cadere. Mi fermai persino dinanzi ad una vetrina, osservando
distratto le
merci e al tempo stesso il mio vago riflesso.
Ero cambiato così tanto, in
quegl’ultimi due secoli. La prova che ero tutto
fuorché un vampiro l’avevo lì,
esattamente davanti ai miei occhi. Stavo invecchiando. Non come avrebbe
potuto
farlo un essere umano, certo, ma stavo invecchiando. Si riuscivano
già a
scorgere i primissimi cenni dell’età sui
lineamenti del mio viso. Quando avevo
lasciato la Scozia ero poco più d’un ragazzino,
mentre adesso l’ombra che
ricambiava il mio sguardo era quella di un uomo di trentacinque anni o
poco
più. Non ero mai stato bello e non lo ero nemmeno adesso, ma
la corta e ben
curata barba che possedevo nascondeva almeno in parte i lineamenti
troppo
pronunciati del mio viso, facendo così in modo che
l’attenzione non venisse
richiamata dal mio naso un po’ aquilino ma, piuttosto, dai
miei occhi d’un
verde sorprendentemente chiaro. In un modo tutto mio, insomma, avevo
una
bellezza fuori dal comune.
Ma chi avrebbe mai detto,
incontrandomi per caso per strada, che quella maschera che mostravo non
ero
realmente io? Per molti sarei dovuto essere molto più
vecchio di quanto non
apparissi, e dovevo tutto a quella mia strana natura. Probabilmente ero
davvero
una sottospecie di demone, chi poteva dirlo.
Avevo letto molti libri
sull’argomento e, anche se non avevo trovato quasi nulla che
avesse potuto aiutarmi
a comprendere, quella mia ferma convinzione ancora restava. Avevo
difatti
scoperto che la possessione da parte di spiriti maligni non era per
niente
rara, dunque avevo cominciato a studiare per anni quel determinato
caso.
Spaziando fra le varie mitologie e il folklore di diversi popoli, i
miei studi
avevano rivelato l’esistenza di demoni e spiriti, come i
Rakshasa [6]
o gli
Youkai [7],
per
fare un esempio, che avrebbero potuto spiegare almeno in parte
ciò che ero. Che
certe notizie fossero vere o meno, però, poco importava.
Ciò che contava
davvero era l’essere lì, ancora in vita, a godere
delle bellezze del mondo.
Fu proprio a quei miei pensieri
che decisi di riprendere la mia traversata, così da poter
tornare a casa.
Condividevo un appartamentino con un altro uomo, Henry Laurent, che
dieci anni addietro aveva
lasciato la Francia per venire a vivere lì in Inghilterra.
Non gli avevo mai
chiesto il motivo e nemmeno me ne importava, dato che lui non aveva
fatto a sua
volta domande sul mio conto. Ci eravamo conosciuti per caso una sera
fra i
boulevard di Parigi e, tra una chiacchiera e l’altra, appena
aveva saputo del
mio imminente ritorno a Londra aveva insistito affinché lo
portassi con me. A
patto che non mi disturbasse, gli avevo tenuto presente, avrebbe potuto
fare
ciò che più gli aggradava. Era stato un ottimo
espediente per spezzare un po’
la monotonia che mi avvolgeva, ed era da allora che ci trovavamo a
dividere lo
stesso tetto, anche se il più delle volte non rispettava i
patti e lasciava
ovunque i suoi colori. Si auto-definiva un pittore, ma fino a quel
momento non
aveva avuto granché successo. Forse perché, a
parere di molti, i suoi quadri
mancavano di buon gusto. Io li trovavo solo un po’
eccentrici, ma non del tutto
da buttare. Cosa mai poteva essere qualche testa mozzata da un angelo
della
morte, in confronto ai quadri di Caravaggio? [8]
Henry diceva che ero io ad
ispirarlo, il più delle volte. Da quando avevo scoperto la
mia passione per il
piano, dettata forse anche dalla strana melodia che avevo udito e che
mi aveva
spinto fino a Londra, avevo comprato quello stesso strumento per dare
sfogo
alle mie repressioni. E quelle rare volte che lo suonavo, Henry
cominciava a
dipingere quei suoi sanguinosi quadri con lo sguardo perso nel vuoto,
come se
fosse posseduto dal demonio. E su quel particolare dettaglio avrei
avuto
davvero molto da dire. Ma la mia vita non andava oltre
quelle semplici cose, e me ne rammaricavo. Avevo quella che molti
avrebbero
definito immortalità, sebbene la definizione non fosse per
nulla esatta, e non
la sfruttavo per niente come avrei realmente dovuto.
Sentivo però dentro di me una
bizzarra sensazione, come se qualcosa, o per meglio dire qualcuno,
sarebbe ben
presto arrivato a portare scompiglio in quella mia lunga e noiosa vita.
E fu
proprio in quel preciso istante che lo vidi di sfuggita con la coda
dell’occhio, col volto simile a quello d’una
maschera di cera; ma quando mi
voltai del tutto, lui già non c’era più.
[1]
È l’opera per organo più conosciuta di
Bach.
Probabilmente si tratta di uno dei primi brani da lui
composti, visto che si creda sia stata scritta tra il 1703 e il 1707,
esattamente durante il periodo della sua giovinezza.
In questo contesto,
naturalmente, non si intende la sua opera, ma un semplice gioco di
parole tra
la toccata e fuga dei due protagonisti principali.
[2]
Ovviamente,
anche se non viene per niente specificato né al principio
né durante tutta la
storia, la nave a cui si accenna è il Titanic, la nave
britannica della Olympic
Class ultimata nel marzo del 1912 e salpata dal porto di Londra il 10
aprile
dello stesso anno. La storia, dunque, è ambientata parecchi
giorni prima della
fatidica notte in cui la nave affondò.
[3]
Serial Killer che, durante l’autunno del
1888, commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti
distretti.
Prendeva di mira solo le
prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le
sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa. Alla
polizia e ai giornali,
durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano
il caso,
dov’erano molte le persone che cercavano di fornire
informazioni sul serial
killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero
considerate
abbastanza inutili.
[4]
Letteralmente significa “Signore”, deriva
dall’inglese “Lord” ed è
gaelico scozzese.
[5] È
il
principale distretto incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno
dei 32
distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di
città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar
Square, mentre Oxford Street è
una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
[6]
Demoni o spiriti malvagi dell’induismo, molti
dei quali erano esseri umani assai crudeli nella loro precedente
reincarnazione. I Rakshasa sono noti per la loro abitudine di rovinare
le
cerimonie sacre, dissacrare tombe, molestare sacerdoti e possedere
esseri
umani.
Hanno l’abilità di
cambiare aspetto e fare magie, e spesso compaiono in forma di uomini,
cani, e
grandi uccelli. Non sempre, però, appaiono come malvagi -
sebbene il loro
aspetto sia orribile a vedersi - ma, anzi, a volte prendono a ben
volere una
persona, aiutandola e, generalmente, facendola diventare ricca.
[7]
Traducibile
con la parola apparizione, spirito o più semplicemente
demone, gli youkai sono
creature del folklore giapponese.
Spesso rappresentati con
tratti grotteschi e terrificanti, non mancavano però i
demoni con fattezze
umane o animali. I più noti erano i Nekomata (Gatto a due
code evolutosi dal
gatto normale), gli Tsuchigumo (Ragni di terra considerati per
l’appunto
demoni, descritti come esseri giganteschi), gli Inugami (Shikigami
dall’aspetto
di un cane, che una volta generati possono anche diventare indipendenti
e
rivoltarsi al loro creatore) e infine i Kitsune, demoni volpe che
avevano la
capacità di acquisire un aspetto umano e confondersi dunque
fra gli uomini.
Avevano inoltre il
potere di impossessarsi degli esseri umani, di appiccare il fuoco, di
entrare
nei sogni e di creare illusioni spesso indistinguibili dalla
realtà. Proprio
per la loro capacità di possessione, dunque, chiamata
“Kitsunetsuki”,
traducibile ovvero come “Luna di volpe” o simile,
il protagonista crede che
abbiano un qualche legame con la sua posizione attuale.
[8]
Qui si
intendono quadri come, tanto per citarne alcuni, “La testa di
Medusa”,
“Giuditta e Oloferne”, “Salomè
con la testa del Battista” e “Davide e
Golia”.
Ovviamente, il tutto è detto in chiave vagamente ironica da
chi racconta.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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