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Autore: My Pride    24/02/2011    7 recensioni
Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei.
Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
[ Prima classificata allo «Yaoi Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al contest «L'amore ai tempi di EFP» valutato da Lady Viviana ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Miglior Personaggio secondario al contest «Let's talk about a Beatle» indetto da DakotaDeveraux ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ATTO I: TOCCATA E FUGA [1] { APRILE 1912 }
SCENA I: IL RAGAZZO DAL VOLTO DI CERA
 
    Un brusio basso e sconnesso si levava dalla ressa della locanda in cui mi trovavo, dando quel lieve tocco d’allegria in più a quel posto quasi polveroso che, altrimenti, sarebbe stato un vero e proprio mortorio.
    Con l’arrivo della primavera, non era raro vedere luoghi come quello ghermiti di gente che arrivava da ogni dove. C’era chi raggiungeva Londra solo per puro piacere personale, chi per affari da lungo tempo rimandati, e poi chi, come mille altri signorotti d’alto rango, per avere l’occasione d’ammirare o d’imbarcarsi presto sulla più grande nave mai costruita fino ad allora [2]. Era una cosa che stupiva e meravigliava anche me, ad esser sincero, ma la notizia legata a quel mastodontico esemplare era ben presto passata in secondo piano, lasciando che concentrassi altrove le mie attenzioni.
    Non che ci fosse poi molto altro d’eclatante, alla fin fine. Da quando ero partito per raggiungere Londra erano passati quasi due secoli, e l’unica cosa che mi aveva realmente interessato, in quel lasso di tempo, era stato il caso di un certo Jack lo squartatore [3]. Non che lodassi i suoi atti, sia ben chiaro. Ma il male insito nella mia natura aveva fatto sì che mi incuriosissi al punto di seguire di nascosto le indagini della polizia.
    Durante il corso di una vita così lunga,
il più delle volte ci si stufava, e occupare il tempo in quel modo, al principio, mi era sembrato un ottimo svago. Adesso invece avevo ben poco da fare, oltre all’osservare il laborioso operare degli esseri umani. Spesso faticavo persino a credere che un tempo ero stato anch’io come loro, un comune uomo che svolgeva le proprie mansioni nelle terre del clan per adempiere ai compiti d’un futuro Laird [4]. E probabilmente sarebbe stato così, se non avessimo perso lo scontro con i britannici. Avrei occupato il posto di mio padre e avrei vissuto in Scozia fino alla fine dei miei giorni, a vegliare sulla nostra gente e sui territori che ci spettavano di diritto. C’era anche da dire, però, che se quella battaglia non avesse mai avuto luogo, io non mi sarei ritrovato lì, a distanza di centosessantasei anni, seduto ad un tavolo di una piccola locanda nel West End [5] di Londra. In un certo modo contorto e perverso, la cosa aveva in fin dei conti avuto i suoi vantaggi. “Non tutti i mali vengono per nuocere”, non si diceva forse così?
    Rincorrendo quei pensieri, mi ritrovai a far vagare di poco lo sguardo sulla clientela lì presente. Il chiacchiericcio era allegro e frettoloso, ma gli argomenti di discussione erano ben lontani dal mio interesse. Scostai dunque gli occhi per stornarli in direzione d’una cameriera che avanzava a fatica fra i tavoli, ma che aveva a sua volta un’aria divertita dipinta in viso. Era accentuata dal sorriso presente sulle sue labbra rosee e carnose, e persino gli sguardi che regalava ai clienti sembravano dare quell’impressione.
    Sbuffai senza poterne fare a meno. Cosa avessero tutti per essere così allegri proprio non lo capivo. Mi ritrovai dunque ad alzarmi e a lasciare qualche spicciolo sul tavolino, pagando così quel bicchiere di liquore che avevo ordinato ma che non avevo toccato per niente. Mi diressi verso l’uscita a grandi falcate, ritrovandomi ben presto nel bel mezzo d’un acquazzone in piena regola. Odiavo Londra solo per quel motivo. In quei due secoli l’avevo lasciata più di una volta per passare un paio d’anni altrove, sfruttando quella mia longevità per vedere posti come Parigi o Amsterdam, ma in nessuna di quelle città mi ero davvero sentito come a casa mia. Forse il motivo era che Londra era quanto di più simile ad Edimburgo apparisse ai miei occhi. Sentivo nostalgia della Scozia, e questo non potevo negarlo, ma non mi sentivo per niente pronto a tornarci.
    Mi diedi dell’idiota da solo per l’essermi perso nuovamente fra i miei più disparati pensieri, sistemandomi in dosso il mio pesante giaccone da viaggio e calcandomi subito dopo il cilindro in testa, così da potermi avviare sotto quella pioggia torrenziale. Incrociavo passanti che sgattaiolavano svelti per cercare di bagnarsi il meno possibile, persino coppie con figli che tentavano di frenare l’entusiasmo dei bambini, che si divertivano a giocare nelle pozzanghere create dall’acqua. Per un lungo periodo di tempo mi concentrai solo sul suono che le mie scarpe producevano sul lastricato bagnato, godendomi al tempo stesso il picchiettare della pioggia che diveniva man mano più intenso. Si creò ben presto un vasto via vai di persone, ancor più frettolose di quanto non fossero prima. Io camminavo invece tranquillo, senza preoccuparmi più di tanto delle gocce che continuavano a cadere. Mi fermai persino dinanzi ad una vetrina, osservando distratto le merci e al tempo stesso il mio vago riflesso.
    Ero cambiato così tanto, in quegl’ultimi due secoli. La prova che ero tutto fuorché un vampiro l’avevo lì, esattamente davanti ai miei occhi. Stavo invecchiando. Non come avrebbe potuto farlo un essere umano, certo, ma stavo invecchiando. Si riuscivano già a scorgere i primissimi cenni dell’età sui lineamenti del mio viso. Quando avevo lasciato la Scozia ero poco più d’un ragazzino, mentre adesso l’ombra che ricambiava il mio sguardo era quella di un uomo di trentacinque anni o poco più. Non ero mai stato bello e non lo ero nemmeno adesso, ma la corta e ben curata barba che possedevo nascondeva almeno in parte i lineamenti troppo pronunciati del mio viso, facendo così in modo che l’attenzione non venisse richiamata dal mio naso un po’ aquilino ma, piuttosto, dai miei occhi d’un verde sorprendentemente chiaro. In un modo tutto mio, insomma, avevo una bellezza fuori dal comune. Ma chi avrebbe mai detto, incontrandomi per caso per strada, che quella maschera che mostravo non ero realmente io? Per molti sarei dovuto essere molto più vecchio di quanto non apparissi, e dovevo tutto a quella mia strana natura. Probabilmente ero davvero una sottospecie di demone, chi poteva dirlo.
    Avevo letto molti libri sull’argomento e, anche se non avevo trovato quasi nulla che avesse potuto aiutarmi a comprendere, quella mia ferma convinzione ancora restava. Avevo difatti scoperto che la possessione da parte di spiriti maligni non era per niente rara, dunque avevo cominciato a studiare per anni quel determinato caso. Spaziando fra le varie mitologie e il folklore di diversi popoli, i miei studi avevano rivelato l’esistenza di demoni e spiriti, come i Rakshasa [6] o gli Youkai [7], per fare un esempio, che avrebbero potuto spiegare almeno in parte ciò che ero. Che certe notizie fossero vere o meno, però, poco importava. Ciò che contava davvero era l’essere lì, ancora in vita, a godere delle bellezze del mondo.
    Fu proprio a quei miei pensieri che decisi di riprendere la mia traversata, così da poter tornare a casa. Condividevo un appartamentino con un altro uomo, Henry Laurent, che dieci anni addietro aveva lasciato la Francia per venire a vivere lì in Inghilterra. Non gli avevo mai chiesto il motivo e nemmeno me ne importava, dato che lui non aveva fatto a sua volta domande sul mio conto. Ci eravamo conosciuti per caso una sera fra i boulevard di Parigi e, tra una chiacchiera e l’altra, appena aveva saputo del mio imminente ritorno a Londra aveva insistito affinché lo portassi con me. A patto che non mi disturbasse, gli avevo tenuto presente, avrebbe potuto fare ciò che più gli aggradava. Era stato un ottimo espediente per spezzare un po’ la monotonia che mi avvolgeva, ed era da allora che ci trovavamo a dividere lo stesso tetto, anche se il più delle volte non rispettava i patti e lasciava ovunque i suoi colori. Si auto-definiva un pittore, ma fino a quel momento non aveva avuto granché successo. Forse perché, a parere di molti, i suoi quadri mancavano di buon gusto. Io li trovavo solo un po’ eccentrici, ma non del tutto da buttare. Cosa mai poteva essere qualche testa mozzata da un angelo della morte, in confronto ai quadri di Caravaggio? [8]
    Henry diceva che ero io ad ispirarlo, il più delle volte. Da quando avevo scoperto la mia passione per il piano, dettata forse anche dalla strana melodia che avevo udito e che mi aveva spinto fino a Londra, avevo comprato quello stesso strumento per dare sfogo alle mie repressioni. E quelle rare volte che lo suonavo, Henry cominciava a dipingere quei suoi sanguinosi quadri con lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse posseduto dal demonio. E su quel particolare dettaglio avrei avuto davvero molto da dire. Ma la mia vita non andava oltre quelle semplici cose, e me ne rammaricavo. Avevo quella che molti avrebbero definito immortalità, sebbene la definizione non fosse per nulla esatta, e non la sfruttavo per niente come avrei realmente dovuto.
    Sentivo però dentro di me una bizzarra sensazione, come se qualcosa, o per meglio dire qualcuno, sarebbe ben presto arrivato a portare scompiglio in quella mia lunga e noiosa vita. E fu proprio in quel preciso istante che lo vidi di sfuggita con la coda dell’occhio, col volto simile a quello d’una maschera di cera; ma quando mi voltai del tutto, lui già non c’era più
.





[1] È l’opera per organo più conosciuta di Bach.
Probabilmente si tratta di uno dei primi brani da lui composti, visto che si creda sia stata scritta tra il 1703 e il 1707, esattamente durante il periodo della sua giovinezza.
In questo contesto, naturalmente, non si intende la sua opera, ma un semplice gioco di parole tra la toccata e fuga dei due protagonisti principali.

[2] Ovviamente, anche se non viene per niente specificato né al principio né durante tutta la storia, la nave a cui si accenna è il Titanic, la nave britannica della Olympic Class ultimata nel marzo del 1912 e salpata dal porto di Londra il 10 aprile dello stesso anno. La storia, dunque, è ambientata parecchi giorni prima della fatidica notte in cui la nave affondò. 
 
[3] Serial Killer che, durante l’autunno del 1888, commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa. Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte le persone che cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.
 
[4] Letteralmente significa “Signore”, deriva dall’inglese “Lord” ed è gaelico scozzese.
 
[5] È il principale distretto incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32 distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar Square, mentre Oxford Street è una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
 
[6] Demoni o spiriti malvagi dell’induismo, molti dei quali erano esseri umani assai crudeli nella loro precedente reincarnazione. I Rakshasa sono noti per la loro abitudine di rovinare le cerimonie sacre, dissacrare tombe, molestare sacerdoti e possedere esseri umani.
Hanno l’abilità di cambiare aspetto e fare magie, e spesso compaiono in forma di uomini, cani, e grandi uccelli. Non sempre, però, appaiono come malvagi - sebbene il loro aspetto sia orribile a vedersi - ma, anzi, a volte prendono a ben volere una persona, aiutandola e, generalmente, facendola diventare ricca.
 
[7] Traducibile con la parola apparizione, spirito o più semplicemente demone, gli youkai sono creature del folklore giapponese.
Spesso rappresentati con tratti grotteschi e terrificanti, non mancavano però i demoni con fattezze umane o animali. I più noti erano i Nekomata (Gatto a due code evolutosi dal gatto normale), gli Tsuchigumo (Ragni di terra considerati per l’appunto demoni, descritti come esseri giganteschi), gli Inugami (Shikigami dall’aspetto di un cane, che una volta generati possono anche diventare indipendenti e rivoltarsi al loro creatore) e infine i Kitsune, demoni volpe che avevano la capacità di acquisire un aspetto umano e confondersi dunque fra gli uomini.
Avevano inoltre il potere di impossessarsi degli esseri umani, di appiccare il fuoco, di entrare nei sogni e di creare illusioni spesso indistinguibili dalla realtà. Proprio per la loro capacità di possessione, dunque, chiamata “Kitsunetsuki”, traducibile ovvero come “Luna di volpe” o simile, il protagonista crede che abbiano un qualche legame con la sua posizione attuale.

[8] Qui si intendono quadri come, tanto per citarne alcuni, “La testa di Medusa”, “Giuditta e Oloferne”, “Salomè con la testa del Battista” e “Davide e Golia”. Ovviamente, il tutto è detto in chiave vagamente ironica da chi racconta.  



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