Epilogue.
« L’etimologia della parola
“misantropia” deriva dal greco
μῖσος ("odio") +
ἄνθρωπος
("uomo, essere umano") e fu adottata nella psicologia per descrivere
l’atteggiamento di chi prova odio totale o sfiducia nei
confronti del genere umano, per cui ricerca l’evasione
nell’arte, nell’alienazione,
nell’isolamento finché queste non lo intercalano
in una propria dimensione ideale.
Fondata su queste basi, la misantropia assume varie forme che
assecondano la naturale propensione del soggetto, e che lo indurranno
ad uno stato di totale chiusura verso il mondo circostante (scelta
destinata a sfociare in casi di eremitismo, suicidio o assunzione di
stupefacenti) o a tracce di odio e avversione nei confronti della
società e dell’individuo in particolare (studi
clinici rinvengono con maggiore frequenza tipologie simili di pazienti).
A seguito di ricerche mirate, i ricercatori psicoanalitici notarono che
tratti peculiari dell’atteggiamento misantropo si
riscontrarono in pazienti che soffrono di altri disturbi, per esempio,
angoscia esistenziale, apatia o atteggiamenti parossistici, o
tormentati da una profonda delusione.
Considerata sotto quest’ultimo aspetto, la misantropia non
sarebbe più una prova di avversione verso il genere umano,
ma una forma di chiusura, che, spinta dalla preservazione, induce il
soggetto a rifuggire ulteriori possibilità di delusione.
Uno dei motivi che mi ha spinto a occuparmi dei vari aspetti della
misantropia, nacque in seguito al tentativo di uno psicologo norvegese,
Trafalgar Law [1], di dimostrare come una degenerazione della forma
seconda possa indurre il soggetto ad agire con atti di violenza
esplicita nei confronti del genere umano. Il paziente affetto da tali
condizioni, che l’analisi clinica ha poi portato a definire
“dissociato” (termine da intendere nel senso
letterale della parola) , presenta una delle caratteristiche
fondamentali, accantonata nello studio clinico per ragioni a noi ancora
sconosciute: la tematica del sogno perduto.
A causa di questo sconvolgimento, il paziente si è reso
inaccessibile ai metodi tradizionali della psicanalisi e ogni sforzo
terapeutico ha finito col rivelarsi vano.
Questa sfiducia nell’umanità, propria del
misantropo, nell’accezione del caso clinico osservato dal
norvegese, merita un ulteriore approfondimento. Anche un paziente
affetto da una forma elevata, nella casistica finora nota, non si
allontanerebbe dai protocolli sociali a lui tanto noti quanto
disprezzati. Per volerla enunciare con parole semplici, si potrebbe
dire che nessun misantropo giungerebbe a commettere un omicidio.
Tuttavia, il caso recente del paziente ricoverato al Santa Maria ci
mostra che la ripercussione della profonda delusione scaturita dal
sogno infranto può influire attivamente sul modo del malato
di rapportarsi con il mondo esterno. È soltanto a causa di
questa condizione di angoscia che è pensabile contemplare
l’eventualità di una simile degenerazione e non,
seguendo la traccia proposta precedentemente [2] da Trafalgar Law,
limitandosi ad avanzare la teoria di un possibile terzo stadio
misantropo, destinato a sfociare in un’inestinguibile forma
di violenza ai danni della società.
Nel caso del paziente in questione, è stato il progressivo
accumularsi di nevrosi a determinare il crollo e non, come finora
sostenuto, una degradazione della forma di misantropia in sé.
L’analisi, di fatti, ci ha mostrato che egli non ha affatto
interrotto le sue relazioni con le persone ed i medici.
Le intrattiene ancora nella propria dimensione; cioè, sotto
un punto di vista puramente utilitaristico, ha sostituito
l’impianto della semplice conversazione con una forma
colloquiale mirata a ridare vigore alla radice secca lasciata dal sogno
infranto, rafforzandolo.
Ne ebbi la prova il pomeriggio in cui mi recai all’ospedale.
Avevo già avuto modo di conoscere il caso clinico,
pienamente intercalato nella propria misantropia ma ancora
sufficientemente fiducioso da richiedere la consultazione con un nuovo
psicologo. Penso che fu soltanto per questa condizione che ritenne
legittimo raccontarmi i suoi precedenti senza mostrare alcuna
reticenza.
Tuttora non so quanto conoscesse di me, ma ad ogni modo si
comportò in modo impeccabile, come un paziente qualsiasi. Vi
furono brevi visite, alternate da altrettante richieste mute. Fu
soltanto durante l’ultimo incontro che, prima della consueta
seduta, cominciò col chiedermi, una volta diventato esterno
al caso, di dargli una voce nella storia. Mi auguro che voi tutti
potrete convenire con me nell’ammettere che alle basi di
questo comportamento vi sono ben pochi degli indizi ritenuti validi dal
dottor Trafalgar a sostegno della propria tesi. Ciò di cui
in quell’ultima seduta venni a conoscenza era in grado di
spiegare i – frammentari – particolari appresi dopo
aver letto un primo trattato sul caso Regū, sempre ad opera
dell’esimio collega norvegese: che a istigarlo a compiere
l’omicidio non furono i propri ideali misantropi
(nell’articolo brutalmente estremizzati) , quanto piuttosto
le fratture che, di fronte all’angoscia del sogno infranto,
il subconscio era stato incapace di risanare al momento. Mentre
guardavo l’uomo seduto al mio fianco parlare e discutere
amabilmente, ebbi modo di approfondire quel campo dello studio
misantropo spesso volontariamente frainteso. Nel racconto del sogno
infranto del paziente di proteggere e poter sempre vegliare sulla
propria madre rividi l’origine delle nevrosi che lo avevano
condotto fino a quel punto e, sbigottito, gli chiesi se fosse stata per
semplice avversione nei confronti del genere umano o per preservare e
rivendicare il ricordo della donna (lasciata a morire dal compagno
durante un tragico incidente in mare) che commise il delitto e se, ora,
non temesse di passare il resto della propria vita a rimpiangere
quell’unica azione. Alla prima domanda scosse vibratamente la
testa, in segno di diniego, poi mi sorrise in modo disteso e tranquillo
e rispose in tono scherzoso, riprendendo una frase che avevo
già avuto modo di sentire durante uno dei nostri primi
incontri: “Il tempo, quando hai qualcosa per cui valga la
pena uccidere, solitamente è l’ultimo dei
problemi.”
Credeva che continuare a perseverare nella propria condizione sarebbe
stato sufficiente a ridare vita al proprio sogno.
[1] Specialista nello studio di casi di misantropia e alienazione del
paziente, noto nel proprio campo per aver avanzato la teoria di un
terzo stadio misantropo
[2] Si veda a proposito la sua esposizione su “Io
come Dio” nella trattazione del terzo stadio
misantropo »
Quando arrivò ai confini del Santa Maria un vento pungente
invadeva la via, sovrastata da una prigione fatta di vetri e squallidi
padiglioni ospedalieri. Si era lasciato alle spalle
l’università di psicologia e i suoi passi lo
avevano condotto fino alla genesi di quella scelta. Sottobraccio, in
uno scatolone, teneva le quattro cose che possedeva in
facoltà. L’eco del proprio pensiero e
dell’articolo ancora rimbombava in quelle aule tappezzate di
perbenismo, senza mai riuscire ad oltrepassare le mura. La voce di un
pazzo non arrivava a chi su di lui si sarebbe poi costruito un nome.
In pochi istanti, da una delle finestre di quegli edifici, comparve
l’ombra sbiadita di Sanji Regū. Sul volto, come segni di un
parassita tronfio e pesante, spiccavano le prime tracce della malattia.
Victor sollevò gli occhi al cielo e si fermò a
contemplare quello spettacolo di miseria. L’uomo si spegneva
poco a poco, costretto in un camice che presto gli avrebbe fatto anche
da sudario. Complicanze dovute alla presenza di liquido nei polmoni,
avevano detto i medici. L’aver passato troppo tempo in acqua
nel tentativo di ridar vita ad un morto lo stava uccidendo a sua volta.
Lo psicologo indicò con un cenno del capo i plichi del
trattato al bordo del davanzale. A piè di pagina intravide
annotazioni e richiami. Erano le puntualizzazioni che Sanji aveva
voluto fare a chi, pur avendolo conosciuto con il solo scopo di
cambiarlo, alla fine lo aveva accettato per com’era e ne
aveva scelto di prendere le difese. Gli ultimi ringraziamenti da parte
di un misantropo corrotto che, in quanto tale, non avrebbe per alcuna
ragione al mondo desiderato farne. Ma che, proprio in quanto
corrotto,alla fine aveva deciso di porli in maniera che nessuno,
benché meno la persona a cui fossero indirizzati, potesse
riceverli. Del resto, Sanji conosceva gli abissi della mente umana
meglio di chiunque altro. Persino più dello psicologo che
gli era stato mandato nel tentativo di capire quelli che lo
tormentavano.
Victor lo cercò un’ultima volta con lo sguardo.
L’ultima. Sanji rispose col sorriso di un bambino a cui era
stata strappata qualcosa di importante troppo presto.
L’infanzia, forse.
O, più semplicemente, era soltanto gratitudine.
Poi sparì nell’oscurità che avvolgeva
la camera alle sue spalle. Tenebre che servivano a rendere meno
opprimente il cinismo che aveva inglobato la clinica. Questo, ne era
certo, lo sapevano entrambi.
Victor sprofondò le mani nelle tasche del soprabito e fece
per andarsene ancora prima che l’altro avesse tempo di
richiudere le imposte. Per uno psicologo non esisteva niente
più denigrante di questo.
Vedere un misantropo che, per aver amato troppo il genere umano, alla
fine aveva deciso di trascorrere il proprio inferno in terra.
Note Finali:
● Pur avendo scelto di rendere Sanji misantropo, ho preferito lasciare
immutati alcuni aspetti del carattere, quelli che per lo meno ho
considerato i capisaldi: la tematica del sogno ed il rispetto, in
questo caso estremizzato dall’ideale misantropo, per le donne.
● La malattia di Sanji è la causa per cui, pur essendo
accusato di omicidio, ha ancora la possibilità di restare in
ospedale. Il particolare ho voluto metterlo in evidenza con la presenza
del braccialetto elettronico, tipico dei condannati agli arresti
domiciliari.
● Non esiste alcun tipo di terzo stadio misantropo. Il tutto, trattati
compresi, è stata una mia invenzione ai fini della storia.
● Suppongo sia inutile ribadire che, a dispetto
dell’accanimento terapeutico di medici ed infermieri, non
fosse intenzione di Sanji salvarsi. Il particolare ho voluto metterlo
in evidenza, oltre che con i metodi usati degli infermieri per curarlo,
anche con il fumo, tratto caratteristico del Sanji di One Piece, ma, in
questo caso, anche mezzo usato per dar modo alla malattia di avanzare.
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Come tutte le cose belle era anche giusto che questa storia giungesse a termine. Come? Non è bella? E che ci posso fare io! Lamentatevi all'ufficio reclami.
Usopp: psss pss psss!
Coso, davvero. Non fa più ridere. .-.
* continua a fissarla con fare indignato
Ok, ok! Per carità! Usopp dice che è nel cuore di ognuno di voi.
* palla di fieno
Ecco! Sei contento adesso?
* se ne va mortificato.
...
Vabè.
Insomma, tutto questo gran papello per dirvi che la storia è finita. Andate in pace. Che davvero non ho parole per ringraziare chiunque mi abbia commentata, preferita, aggiunta chi lo sa dove, o usata come esca per gatti in una via di Roma.
Grazie, di tutto Quore. *O*
Per chiunque abbia commentato, le risposte sono al solito posto. Basta spostare lo zerbino.
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