Un oscuro angelo_5
ATTO
V: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
Piangi e ti disperi,
cancellando
tutto il
resto;
ma cadi e ti
rialzi
ad un passo
dalla
fine.
Le strade apparivano desolate, a
quell’ora della
notte.
Non un suono si levava ad infrangere
quel silenzio, rendendo la quiete quasi irreale. Camminando accanto a
quei due
giovani per quei distretti bui, sorpassando gente e persone che avevano
un'aria più losca dei suoi accompagnatori, persino al
signore di
Beul an latha
quel mondo
appariva etereo, quasi distaccato dalla comune concretezza alla quale
era
abituato. Le poche luci lì presenti erano così
offuscate e cupe da far sembrare
ancor più fattibile quella sensazione, tanto che, mentre
continuava ad
avanzare, il gelo e l’angoscia avevano cominciato a farsi
sempre più spazio nel
suo animo.
Avevano lasciato la ricca villa non
più d’un’ora addietro, uscendo insieme a
quegli altri ospiti. Non avevano preso
strade simili, separandosi; lui era salito in carrozza con Sir William
e il suo
giovane fratello, osservando l’allontanarsi delle restanti
creature per quanto
gli era stato concesso. L’unica a degnarlo di una vera e
propria attenzione era
stata la ragazzina di nome Juliette, che gli aveva rivolto un sorriso e
mostrato le zanne prima di scomparire. In religioso silenzio, poi,
quella
carrozza era partita; si erano fermanti non molto lontano dal East End [2],
un quartiere che il nobil uomo non
aveva mai visitato per ovvi motivi. Era lì che si
concentravano i più poveri
fra i distretti di Londra, e sembrava, d’altronde, che fosse
in quella zona che
il serial killer agisse. Adesso si trovavano a vagare proprio da quelle
parti,
ma l’unico che temeva qualcosa era lui. Non lo dava a vedere
a causa del suo
orgoglio, anche se faceva continuamente guizzare gli occhi da una parte
all’altra. Non aveva, inoltre, osato chiedere il
perché di quella sosta e il
loro andare a piedi, guardandosi da solo le spalle poiché
sapeva che di quegli
esseri non c’era da fidarsi.
Si ritrovarono ben presto a svoltare
in un vicolo, dove vaghi suoni e rumori gli giunsero alle orecchie:
risate
sguaiate, musica proveniente probabilmente da una tavernetta da quattro
soldi;
riuscì persino a distinguere l’odore del piscio e
del liquore annacquato,
storcendo il viso in una smorfia per il tanfo. Vide poi, qualche attimo
dopo, i
primi moribondi gettati ai cigli delle strade o adagiati contro i muri,
sudici
quanto il posto che li circondava se non di più. Bambini dai
vestiti
logori frugavano fra le vesti dei sicuri cadaveri, scappando
poi veloci con
il misero bottino ottenuto. Non più di qualche sterlina,
molto probabilmente, ma
che per loro
sembrava equivalere anche a troppo.
Lord Dellinton si perse negli occhi di
un uomo -
stranamente distinto, dato il luogo in cui si trovavano - che gli
passò accanto e distolse subito lo sguardo,
adocchiando solo di sfuggita i volti marmorei dei suoi due
accompagnatori:
sembravano l’uno più indifferente
dell’altro, come se quelle fossero cose che
vedevano ogni singola notte. Fu a quel punto che capì il
motivo per cui, forse,
si trovavano lì. Dovevano sfamarsi e l’avevano
portato a caccia. Si tenne per
sé una nuova domanda, continuando a seguirli senza proferir
parola. Non
sembravano nemmeno molto propensi alla conversazione, in quel momento.
Quando i due giovani si fermarono,
trovando le loro vittime, lui guardò ancora una volta
altrove per non vedere quello sfacelo; gli
era
bastata la scena a cui aveva assistito in casa per fargli comprendere
quel
perverso meccanismo. Un pensiero lo fulminò nel sentire
comunque quel succhiare
e deglutire e gli ultimi aneliti di vita di quel povero disgraziato:
anche
quando era lui a fare la parte del cibo quel vampiro aveva in volto
quella
stessa espressione? L’aveva vista solo di sfuggita, ma sul
suo viso aveva letto
un qualcosa paragonabile solo alla lussuria. Era questo ciò
che provavano i
vampiri nell’uccidere? Un qualcosa di simile alla sensazione
che derivava
dall’atto sessuale? Il solo rifletterci gli fece arricciare
ancora una volta la
punta del naso, cercando inoltre di resistere all’impulso
d’allontanarsi per
scappare via. Non aveva la benché minima idea di dove si
trovasse; sarebbe
stato solo preda di poco di buono, dato il ricco modo in cui era
vestito.
Trasalì quando
sentì una mano su una
spalla, ritrovandosi ad osservare gli occhi verde ambra che
appartenevano al
più giovane dei due. L’altro si stava ancora
nutrendo, cingendo la sua vittima
in un abbraccio letale e possessivo. «Sei ancora convinto che
questo
nostro modo d’agire sia sbagliato?» gli
domandò con voce sicura, senza la
benché minima traccia di quel sadico divertimento che
sembrava caratterizzare
invece il fratello maggiore.
L’uomo non rispose, ma
s’affrettò a non guardare oltre quelle iridi
ferine. Nemmeno
il
giovane disse altro, come se non gli fosse mai interessata una vera e
propria
risposta; tornò invece accanto al fratello, lasciando il
signore di Beul an
latha ad attendere non molto distante. Fu solo quando lasciarono quei
vicoli e
salirono nuovamente sulla carrozza - il cocchiere li aveva attesi fin a
quel
momento - che il Lord riacquistò quel minimo di calma e
razionalità che lo
caratterizzavano.
Si sedette su quel morbido sedile
dopo che si furono accomodati gli altri due, attendendo ancora una
volta che
partissero alla volta della residenza che occupava lì a
Londra. C’era un
qualcosa che per lui non quadrava, nell’aria. Se fossero gli
sguardi o il
silenzio di William e Arthur non avrebbe saputo dirlo con certezza
nemmeno lui.
Fatto stava che, quando arrivarono - poco prima che scendesse per
lasciarsi
finalmente alle spalle quella notte -, le parole che il vampiro
più grande gli
rivolse lo raggelarono.
Si fermò con una mano su uno
sportello e si voltò, cercando di dare un’aria
saccente e distaccata
all’espressione dipinta sul suo viso. «Perdonami,
cosa hai detto?» chiese,
fingendosi il più cordiale possibile. Ma
l’occhiata che gli venne rivolta
fu ben diversa dalle solite a cui era abituato. Appariva fredda,
inespressiva,
come se ad osservarlo fosse una statua di marmo.
«Prendi
ciò che ti occorre
senza farti vedere da nessuno e torna indietro»,
ripeté William, paziente
nonostante l’espressione. «L’incontro che
potresti fare in casa potrebbe non
piacerti».
«Che mucchio di
sciocchezze»,
replicò Lord Dellinton, senza prestargli altra attenzione.
Per quella sera ne
aveva avuto abbastanza.
«Non sono sciocchezze, te ne
renderai conto tu stesso», parve protestare ancora una volta
William, senza
nessuna sfumatura nella voce. Il suo volto lasciava intendere solo una
vaga
cortesia: non c’era nient’altro che rivelasse
ciò che lui, all’interno di
quella casa, aveva avvertito.
Il signore di Beul an latha
scostò
la mano dallo sportello e si voltò verso entrambi,
osservando prima il minore
per appuntare poi la sua totale attenzione sul viso del maggiore.
«Voglio che
tu mi lasci in pace», quasi ordinò, come se quello
potesse servire ad essere
ascoltato.
«Non lo vuoi davvero,
altrimenti non
saresti venuto sin qui», ribatté immediatamente
l’altro, accavallando
disinvolto le gambe.
«Sono venuto per dirti
addio».
«Quanto sei sciocco a
convincerti
che sia così», fece ancora il vampiro, gettando un
rapido sguardo al fratello
che sorrideva come se fosse divertito. «Sei venuto
perché non sei riuscito a
starmi lontano».
Lord Dellinton scosse di poco il
capo, rivolgendogli poi uno sguardo risoluto e ricco di mille emozioni.
«Io
rivoglio la mia vita», replicò solenne, riuscendo
solo a strappare una piacevole
risata ad entrambi. I lineamenti del viso di William si erano persino
addolciti.
«Ancora non ti sei reso conto
che
non hai più una vita da anni, ormai?»
s’intromise nel discorso Arthur,
alzandosi per scendere le scalette della carrozza e avvicinarsi al
Lord. «Mo bhràthair te l’ha rubato tempo
addietro, è inutile ostinarsi».
Joseph scosse ancora una volta il capo,
indietreggiando verso l’entrata
mentre non perdeva di
vista nessuno dei due. «State mentendo entrambi»,
dichiarò, forse più per
convincere se stesso che accusare loro. Ma una nuova risata si fece
sentire,
prima che fosse William a parlare ancora una volta.
«E che
bisogno avremo di
farlo?» chiese, scrollando di poco le spalle come se nulla
fosse.
«Perché siete
vampiri».
«Non tutti mentiamo, mio
sciocco
amante».
«C’è
persino chi dice che non
siamo
affatto bravi», soggiunse il minore, cominciando a girare
intorno al moro come
una tigre che si preparava a balzare sulla sua preda. Ben presto
anche William scese dalla carrozza, raggiungendo gli altri due
per
guardarsi distrattamente intorno. Faceva vagare lo sguardo in ogni
dove, quasi
con svogliatezza, soffermandosi giusto per pochi attimi sul paesaggio
che li
circondava per tornare poi a guardare il giovane fratello e il nobil
uomo.
Il sorriso non aveva abbandonato il
suo volto, anche se quello stesso sorriso rassomigliava ad uno
derisorio o di
scherno. «Continui ad aggrapparti ai tuoi ideali come se
valessero ancora
qualcosa», buttò lì, sbottando per la
prima volta. Nonostante apparisse
tranquillo, difatti, dalla voce sembrava quasi indispettito. Non aveva
mai
sentito quel tono, Lord Dellinton, tanto che si ritrovò a
deglutire anche non
volendo. Il suo viso però ostentava ancora
quell’espressione spavalda e fiera,
un’espressione che l’aveva sempre caratterizzato.
«Anche tu avrai avuto i tuoi
ideali,
un tempo», replicò, ignorando la rapida occhiata
che gli venne lanciata dal
minore dei due. «Fatico a credere che un ragazzo come te
fosse già così».
Non ebbe nemmeno il tempo di
accorgersene, subito dopo, che sentì le mani
di William afferrarlo per il
solino che aveva alla gola, venendo quasi issato da terra mentre lo
sguardo
chino si perdeva in quegli oscuri oblii che erano adesso gli occhi del
castano.
«Se tu fossi nato nell’epoca in cui sono nato io
non parleresti affatto in
questo modo», ribatté, forse rabbioso.
«Ho veduto la prima alba del tuo paese [3],
la
ribellione alla Corona [4]
e
persino la sconfitta dei giacobiti secoli dopo. Meglio tacere su cose
che non
conosci», disse ancora, mostrandogli senza remore le zanne.
«Ora vai in casa,
se proprio lo desideri. Ma ricorda che ti ho messo in
guardia».
Lasciò andare la presa solo
quando
sentì una mano del moro posarsi sul suo avambraccio, vedendo
la sua bocca
muoversi senza emettere suono, come se non avesse voce. Si accorse solo
in quel momento
d’essersi fatto guidare dalla rabbia e di aver stretto
troppo, rischiando quasi
di strozzarlo. Ma non fece una piega, limitandosi ad osservarlo mentre
si
massaggiava la gola e tossiva, indietreggiando. Senza perdere altro
tempo, poi,
Lord Dellinton diede loro le spalle e si precipitò dentro,
lasciandoli lì ad
osservare la sua figura che scompariva.
Guardandolo ancora con la coda
dell’occhio, Arthur si avvicinò al fratello
maggiore, assumendo quasi un
cipiglio bambinesco. «Pensavo che ti fossi deciso a porre
fine a tutta questa
pagliacciata», asserì, come se fosse vagamente
irritato. «Quell’uomo ti ha
rubato molto più tempo del previsto».
Con lo sguardo ancora perso in
direzione della casa, William arricciò appena le
labbra per dar vita ad
un’espressione contrariata. «Non c’era
bisogno che fossi tu a ricordarmelo,
Arthur», rispose, in tono quasi dolce nonostante il viso
contratto in una
specie di smorfia. «Ho intenzione di chiudere la questione
stanotte stessa, non
temere», soggiunse poi, voltandosi verso di lui per
sorridergli in un
lampeggiar di zanne. «Ma dovrai fare anche tu la tua
parte».
«Aspettavo soltanto che tu me
lo
dicessi, mo bhràthair», ribatté,
tornando ad assumere quella vaga
tranquillità che sembrava far da pilastro portante a tutto
il suo essere.
«Bada a non lasciarti sfuggire
l’occasione», gli ricordò immediatamente
il maggiore, serio. «Deve essere sul
punto della disperazione, e io ho lavorato troppi anni per arrivare
fino a
questo momento».
«Andrà tutto come
stabilito, non
temere».
Nessuno dei due disse altro o
aggiunse qualcosa, poi. Si limitarono solo ad avanzare in direzione
della
residenza dopo aver chiuso lo sportello e fatto un rapido cenno al
cocchiere,
che chinò brevemente il capo prima di spronare i cavalli a
partire. Lo
seguirono con lo sguardo finché la carrozza non
sparì del tutto dalla loro
vista, attraversando il piccolo giardino per giungere alla porta.
Proprio all’interno di quella
casa,
frattanto, v’era chi si affaccendava in silenzio e frugava in
ogni dove, quasi
fosse alla ricerca di qualcosa. Sembrava agitato e frettoloso, anche se
di
tanto in tanto non mancava di gettare uno sguardo fuori dalla finestra
posta a
lato della stanza, quasi a ridosso del muro. Sospirò di
sollievo quando trovò
il tanto agognato oggetto della sua ricerca, infilandosi in tasca
quella
piccola ampolla prima d’attraversare l’ampio
salone. Si sarebbe dapprima
disfatto di quella una volta per tutte, ponendo così fine ad
una parte della
follia che lo stava lentamente consumando. Ma si fermò poco
lontano
dall’ingresso quando vide una figura accucciata accanto al
camino,
riconoscendola quando le fiamme guizzarono creando riflessi arancioni
sui suoi
capelli, illuminandogli anche il viso.
«Jason?»
chiamò sorpreso, quasi
credendo d’essere impazzito. Suo figlio non sarebbe dovuto
trovarsi lì, ma ad
Inverness. Che ci faceva così lontano da casa? Quella doveva
senz’altro essere
una visione mostratagli dalla sua follia, non poteva essere altrimenti.
Dovette
però ricredersi quando lo vide voltarsi, incontrando quegli
occhi azzurri nei
quali danzavano, rispecchiandosi, le fiamme.
Come un bambino colto sul fatto a
compiere una marachella, Jason abbassò il
capo non appena incrociò lo sguardo
del
genitore, osservando il pavimento con fin troppo
interesse. Non
aveva
il coraggio d’alzare il viso, forse per non vedere
l’espressione sbigottita e
al contempo infuriata che segnava il volto del tutore. Era la prima
volta, in
fondo, che s’allontanava così tanto da casa senza
nessuno con sé; la residenza
era riuscito a trovarla solo perché, negli anni passati, si
erano recati a
Londra per diversi eventi, altrimenti non avrebbe mai potuto
arrischiarsi ad
intraprendere quel viaggio. Montando in sella al suo cavallo, difatti,
aveva
lasciato a sua volta il vecchio maniero per seguire il padre, dovendo
sostare
più volte in locande o taverne per rifocillare sia se stesso
che il suo
destriero. Provare a raccontare quel suo vagabondare al tutore,
però, non
sarebbe servito a nulla; probabilmente avrebbe solo fatto valere la sua
autorità paterna, ammonendolo per quell’atto tanto
stupido quanto sconsiderato.
«Che cosa ci fai
qui?» gli venne
chiesto infine, ma non osò comunque alzare lo sguardo.
Il ragazzo si strinse solo un
po’ nelle spalle,
come se si vergognasse a rispondere. «Ecco, io...»
provò ad articolare qualche
parola, forse tentando nel contempo di metter su una scusa abbastanza
plausibile. Ma nemmeno lui sarebbe stato in grado di spiegare
ciò che lo aveva
spinto a seguire il moro fin lì, quindi la scelta migliore
fu quella di restare
ancora una volta in silenzio. Sentì i passi del tutore
giusto
qualche attimo dopo, ritrovandosi a sussultare come poche sere addietro
quando
sentì entrambe le sue grandi mani sulle spalle.
«Devi andartene da qui,
Jason», asserì Lord Dellinton, accorato ed
imperativo al tempo stesso. «Devi andartene
subito».
Forse fu proprio quel tono sparuto a
dargli il coraggio d’alzare il viso,
rispecchiandosi in quei pozzi
d’onice che, forse anche a causa delle fiamme, sembravano
rilucere
sinistramente. Non capì il perché di quelle
parole, sentendo però la stretta
aumentare; che avesse avuto ragione nel credere che il padre stesse
nascondendo
qualcosa a tutti loro? Già l’esser partito senza
dir nulla non lasciava spazio
a fraintendimenti.
«Perché dovrei
farlo,
m’Athair?»
riuscì finalmente a domandare, sentendosi come se si fosse
tolto un peso. «Cosa
sta succedendo? Cosa vi sta succedendo?»
Gli occhi di Lord Dellinton
guizzarono serpentini ovunque, come se distogliendo lo sguardo avesse
potuto
eludere la domanda. Ma ben sapeva che non era così. Suo
figlio non era affatto
stupido. «Ti racconterò tutto, te lo
giuro», esordì poi, aumentando la presa sulle
sue spalle esili. «Ma per adesso lascia questa residenza, te
ne prego». Detto
ciò allontanò le mani, lasciando ricadere le
braccia lungo i fianchi per
avvicinarsi al caminetto acceso.
Il ragazzo volse lo sguardo verso di
lui e l’osservò fissare le fiamme, contemplarle
con una luce di follia che
quasi gli brillava negli occhi azzurri. Restò interdetto per
quel modo di fare:
mai come in quel momento, l’uomo che stava osservando non gli
sembrava affatto
il tutore con cui era cresciuto. «M’Athair,
perché dite tali cose?» domandò
insistente, provando ad avvicinarsi. Ma lo vide infilare una mano in
tasca ed
estrarre una piccola ampolla, facendo oscillare lentamente il liquido
rossastro
al suo interno.
Joseph si voltò verso di lui,
sorridendogli senza la benché minima traccia
d’emozione. «Perché ho intenzione
d’infrangere il patto stretto con un angelo delle tenebre,
figlio mio», gli
rispose semplicemente, senza che quella vena di pazzia avesse
abbandonato
quelle polle cerulee.
Jason sbatté le palpebre con
fare perplesso,
tentando di dire qualcosa. Ciò che lo fermò non
fu lo sguardo del genitore,
bensì il gesto che fece subito dopo: chiuse la mano intorno
all’ampolla dopo
averla guardata un’ultima volta, gettandola poi fra le
fiamme. Le stesse ebbero
un guizzo e un fremito, come se avessero preso vita, ritraendosi poi
all’interno del caminetto prima d’esplodere in
lingue di fuoco, quasi d’un
cobalto tendente al violaceo. Boccheggiò, il ragazzo, non
credendo ai propri
occhi. Contrariamente a Lord Dellinton, che aveva assistito alla scena
senza
battere ciglio. Proprio lui si voltò ancora una volta verso
il giovane,
facendogli rapidamente cenno di seguirlo.
Vedendo che non rispondeva, fu
lui stesso ad avvicinarsi, afferrandolo per un braccio per trascinarlo
via con
sé. «Se proprio non vuoi andartene da solo
dobbiamo affrettarci», esordì di
punto in bianco, in tono spiccio. «Non riusciremo ad andare
troppo lontano,
altrimenti».
«M’Athair,
cosa...?» provò a
chiedere il ragazzo, ripresosi parzialmente, ma ottenne solo risposte
vaghe
mentre attraversavano il salotto e si dirigevano verso le cucine,
passando per
il corridoio secondario dov’erano situate le stanze dei
domestici. La maggior
parte erano vuote, per il momento, ma una era occupata dal vecchio
cocchiere;
dovettero quindi fare più silenzio possibile mentre
passavano, affrettando il
passo solo quando non furono a portata d’orecchio. Si
ritrovarono ben presto ad
uscire dalla porta delle cucine, collegata con il giardino che
attraversarono
immersi nella stessa quiete di poco prima.
Il ragazzo continuava a non capire
lo strano comportamento del tutore mentre si lasciavano alle spalle la
residenza ma, d’un tratto, furono entrambi costretti a
fermarsi. Dinanzi a loro
si trovavano due figure, entrambe elegantemente vestite e
d’aspetto
aristocratico, differenti solo nei tratti del viso e poco altro.
«Sir... Sir William?» chiamò
dopo aver
riconosciuto una delle due figure, ma una mano del padre
l’afferrò per un braccio e lo fece indietreggiare
di malo modo, come se volesse
metterlo al sicuro da un qualche pericolo.
«Vattene, Jason»,
gli sussurrò Joseph,
in tono accorato e spaventato. E forse fu proprio quello a convincerlo,
indietreggiando rapido mentre provava comunque a far vagare lo sguardo
dall’uno
all’altro senza comprendere la situazione.
«Quasi stentavo a credere che
mi
avresti reso le cose difficili», si fece sentire la voce
pacata del biondo, le
cui parole erano rivolte a Lord Dellinton, che l’osservava
con sfida. «Pensavo
d’averti in pugno, ormai».
«A quanto pare ti
sbagliavi»,
ribatté prontamente con la medesima voce,
indietreggiando a sua volta per
raggiungere il ragazzo. «Se ti bruciassi, succederebbe la
stessa cosa che è
accaduta al tuo sangue?» domandò poi, quasi in
tono sarcastico.
William arricciò il naso
in una smorfia, lasciando ben intravedere quanto l’esser
venuto a conoscenza di
ciò che aveva fatto lo irritasse profondamente. Senza
parlare, gli si avvicinò,
fermandosi solo quando fu a pochi passi da lui prima
d’allargare di poco le
braccia, quasi stesse invitando l’uomo a colpirlo.
«Allora fallo, se è vero che
vuoi liberarti di me», disse semplicemente, come se la cosa
non lo sfiorasse
minimamente nonostante l’espressione del viso. «Ma
so per certo che non
parleresti così, se ti privassi di ciò che ti
è più caro», sussurrò
sibillino,
quasi in un tono velatamente minaccioso.
«Di cosa diavolo
stai...» cominciò
l’uomo, ma un urlo di dolore interruppe le sue parole. Lord
Dellinton si voltò
di scatto, sgranando gli occhi esterrefatto quando le sue polle scure
si
posarono su quella scena: poco lontano da lui si trovava Jason, tenuto
immobile
per i fianchi dall’esile braccio di Arthur. Il volto di
quest’ultimo era
nascosto nell’incavo del collo del ragazzo, la cui bocca era
ora spalancata in
un grido senza voce; gli occhi, di solito d’un azzurro
iridescente, erano vacui
e inespressivi. Perdeva copiosamente sangue da un’arteria
lacerata, dove ben si
riuscivano a scorgere le zanne appuntite del vampiro, macchiate di
vermiglio.
«Jason!»
esclamò Joseph, sconvolto,
correndo verso di loro per scostare con un gesto brusco Arthur che,
contrariamente a ciò che si sarebbe aspettato, non fece una
piega. Fu invece
lui stesso a scansarsi maggiormente, leccandosi le labbra mentre li
osservava
con un vago sorriso ad illuminargli il volto. Troppo agitato per
badargli, Lord
Dellinton non gli prestò la benché minima
attenzione, chinandosi in terra per
stringere a sé il corpo del figlio adottivo. I profondi
occhi azzurri di lui
erano nascosti dalle palpebre, abbassate e lievemente tremanti; la
bocca, dalla
quale scorreva all’angolo un finissimo rivoletto di sangue,
era schiusa per dar
vita a respiri irregolari e frammentati. Sembrava che anche il solo
farlo gli
provocasse dolore, data l’espressione dipinta sul suo viso.
All’uomo tremarono le mani, a
quella
vista. In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta
ore
addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i
suoi occhi
inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo,
pensò angustiato, non
di nuovo, per l’amor del
Cielo.
Non voleva vedere nuovamente suo
figlio spegnersi fra le sue braccia. Avrebbe preferito morire con lui,
piuttosto che continuare a vivere con quel nuovo dolore nel cuore. Con
delicatezza, quasi temesse che anche il minimo tocco potesse fargli del
male,
sollevò piano il capo del ragazzo, adagiandolo attentamente
sulle sue cosce. Spasmodico
cominciò a passargli delicatamente le dita sulle guance,
sulle labbra, fra i
capelli mori quasi completamente fradici di sudore. Umidità
e sangue. Questi
gli unici odori che l’uomo sentiva.
«Jason, Jason», lo
chiamò ancora, in
un rauco sussurro spezzato. «Rispondimi, figlio
mio». Ma il
ragazzo non riusciva a parlargli, muoveva solo la bocca senza emettere
suono. E ciò
non fece altro che
angustiare maggiormente l’uomo, che gli premette il palmo
d’una mano sul collo
per tentare d’arrestare l’emorragia.
Sentì il calore del sangue contro la
pelle, quello stesso liquido vermiglio scorrergli fra le dita; e i
respiri del
giovane erano sempre più irregolari, quasi gli mancasse il
fiato. «Perché lo hai fatto!»
strillò fuori
di sé, rivolto al più giovane dei due vampiri.
«Che ragione avevi di farlo!»
William si strinse appena nelle
spalle, come se l’asprezza delle sue parole per lui non
avesse alcun peso o senso.
Sembrava perfettamente tranquillo. «Perché forse
in questo modo non farai cose
stupide», rispose infine, con semplicità inaudita.
«È mio figlio!»
strepitò
Joseph,
accalorato. «Mio
figlio, dannazione!» Non riusciva a credere che
l’avesse
lì, agonizzante fra le sue braccia, e che l’unica
cosa che riuscissero a fare
quei due fratelli fosse solo guardare. In un impeto d’ira si
issò - dopo aver sdraiato
in terra il ragazzo - quasi in un unico movimento, scattando verso
Arthur per
afferrargli senza riguardi il collo con una mano, come se
quell’unico gesto
potesse servire realmente a qualcosa. «Se lui
muore», cominciò, in un sibilo
rabbioso «non mi darò pace. Troverò il
modo d’ammazzare entrambi».
Il minore lo guardò pacato, a
quelle
parole. Non tentò di liberarsi dalla presa, bensì
si limitò semplicemente a
posare una mano sulla sua. «E se ti dicessi che non esiste
nessun modo?» esordì
calmo, distogliendo lo sguardo da quegli occhi scuri per puntarlo oltre
la
spalla del moro, precisamente dov’era riverso il ragazzo.
«Se ti dicessi che,
qualsiasi cosa tu faccia, ciò non comporterebbe alcun
risultato?»
La stretta aumentò,
così come
l’ardore in quelle polle d’onice. «Non
siete immortali», ribatté Lord
Dellinton, astioso. «Fingete di esserlo, ma non lo
siete».
Fu a quel punto che sentì
anche la
presa di Arthur divenire più salda, quasi volesse spezzargli
le ossa della
mano. Si limitò invece a scansargliela con
facilità, quasi fosse appartenuta ad
un bambino di cinque anni. «Mentre sei qui a minacciarci,
lì c’è tuo figlio che
muore. Te ne rendi conto, vero?» gli mormorò in
tono soave, facendo qualche
piccolo passo indietro. Ridacchiò, poi, nel vedere il volto
dell’uomo
tramutarsi da una maschera d’odio ad un’espressione
di consapevolezza, prima
che abbandonasse temporaneamente la sete di vendetta per tornare svelto
accanto
al figlio. Gli aveva preso delicatamente una mano e
gliel’aveva stretta forte,
sporcandola con il sangue che macchiava la sua. Cominciò poi
a mormorargli
qualche parola nella sua lingua, come se in quel modo potesse calmare
anche il
battito impazzito del proprio cuore.
Lord Dellinton vide quegli occhi
aprirsi di poco e cercarlo, ma sembrava che la scintilla della vita
stesse
scemando a poco a poco. Non riusciva a vederlo così, non
poteva sopportarlo.
Era tornato a premergli una mano sul collo, certo, ma non aveva idea di
quanto
sarebbe riuscito ancora a resistere. Se lo issò quindi in
braccio, rimettendosi
in piedi con lui; l’avrebbe portato via da lì,
anche a costo di venir
ostacolato da quelle due creature che lo stavano osservando.
«M-M’Athair», la voce di Jason gli
giunse in un bisbiglio stridulo e strascicato, quasi troppo basso per
poter
essere udito e compreso. Gli mormorò solo qualche altra
parola di conforto per
calmarlo, facendo poi in modo che reclinasse un po’ la testa
verso il suo
petto.
«Andate già
via?» domandò
divertito
Arthur quando lo vide, incrociando tranquillamente le braccia al petto
per
squadrare poi la postura dell’uomo. Proprio lui non gli
rispose affatto,
dandogli le spalle con tutto il coraggio che era riuscito a
raccogliere. Non
aveva tempo per i loro giochetti; doveva portare suo figlio da un
medico,
immediatamente. Affrettò quindi il passo con il cuore che
gli batteva
all’impazzata, meravigliandosi di non esser seguito quando
s’azzardò a lanciare
uno sguardo dietro. Ma dovette ricredersi prima di svoltare
l’angolo, ritrovandoli
entrambi dinnanzi a sé. Era in trappola e non poteva
fuggire: qualsiasi strada
provasse a prendere li ritrovava sempre lì, sempre davanti a
lui ad attenderlo
come spettrali presenze. Si arrese all’evidenza, crollando
con tutto il proprio
peso sulle ginocchia mentre stringeva convulsamente a sé il
ragazzo. I suoi
respiri ormai si erano ridotti al minimo, era già un
miracolo che avesse resistito
così a lungo; gli aveva stretto debolmente la mano, ma anche
quel gesto
sembrava divenir meno sicuro.
Non si curò dei passi che
udì subito
dopo, restando con lo sguardo puntato sul volto pallido del figlio. Ma
fu
proprio nel guardarlo che un pensiero malsano gli balenò
nella mente,
facendogli alzare di scatto la testa. «Tu puoi
salvarlo!», gridò d’un tratto,
voltandosi verso William che, fino a quel momento, aveva osservato la
scena
come se si fosse estraniato dal mondo.
Sentendo tali parole, sbatté
più volte
le palpebre, stirando poi le livide e sottili labbra in un ammaliante
sorriso.
Scoprì le zanne, senza avere l’accortezza
d’occultarle alla vista del suo
interlocutore. «Salvarlo?», domandò lui,
sollevando finemente un sopracciglio.
«Och, mo chridhe... sei sempre
stato così ingenuo», mosse qualche passo verso di
loro, abbassandosi alla loro
stessa altezza per sorridere ancora. «Tutto ciò
che io potrei fare sarebbe solo
completare l’opera di mio fratello e condannarlo».
«Ma
vivrà!» insistette l’uomo,
comportandosi
quasi come un bambino capriccioso al quale era appena stato negato un
gioco. Sapeva
che, compiuto quel passo, non sarebbe potuto più tornare
indietro. Tuttavia,
ciò che maggiormente gli premeva era non perdere suo figlio.
Un gesto
egoistico, il suo, ne era ben consapevole.
«Cosa ti da il diritto di
decidere
per lui?» si fece sentire la voce di William - interrompendo
così i suoi
pensieri -, con una tonalità così calda che quasi
stentò a credere gli
appartenesse. Non avrebbe voluto rispondere, né sentiva di
avere abbastanza
tempo per farlo. La stretta della mano del figlio diveniva sempre
più debole,
senza permettergli di ragionare con freddezza e lucidità. Ma
di una cosa era
certo: non voleva vederlo morire. In cuor suo, però, sapeva
che ciò sarebbe
accaduto lo stesso. Avrebbe salvato suo figlio solo per vederlo morire;
l’avrebbe condannato all’Inferno, un Inferno dal
quale non sarebbe più riuscito
a fuggire. Ma, in quel caso, l’omicidio non appariva
più come un errore, per
lui. Appariva come un’ultima possibilità per il
suo unico figlio. «Ti darò
qualunque cosa tu chieda», provò l’uomo,
sentendo quel groppo in gola aumentare
mentre lo sguardo era chino sul pallido volto del moretto.
L’ombra d’una risata
giunse però in
risposta, lieve come la pioggia che sarebbe presto tornata a lacrimare
sul
mondo. «Oh, ma io ho già tutto ciò che
voglio», sussurrò ancora, quasi spietata
e tagliente, quella voce al suo orecchio. «Io ho
te».
Lord Dellinton non distolse lo
sguardo dal volto del giovane anche quando udì quelle
parole, sebbene sentisse
un peso opprimente nel petto. «Se hai me, non lasciare che io
perda lui»,
insistette, come se quello potesse far maggiormente presa sul suo
biondo
interlocutore.
Ci fu un silenzio carico
d’attesa,
subito dopo; non un suono o un respiro sembrava infrangerlo, tanto che
l’uomo
fu quasi certo che anche i battiti del suo cuore sarebbero stati
perfettamente
udibili. Sentì poi un lungo sospiro, poi gelide dita
s’intrecciarono fra i suoi
capelli scuri. «Pur di non volerlo perdere lo condanni dunque
alla dannazione
eterna?» gli venne chiesto, quasi nello stesso sussurro di
pocanzi, e voltò di
poco lo sguardo verso il vampiro per fondere i suoi occhi cerulei in
quei pozzi
d’oro.
«Io non...» rispose,
quasi colto
alla sprovvista, ma ancora una volta quelle dita gli carezzarono la
cute,
reclinandogli poi la testa all’indietro.
«Non sprecarti in parole
inutili»,
fece immediatamente William, mostrandogli le zanne. «Dimmi
solo se lo vuoi o
no».
Lord Dellinton si leccò le labbra,
stringendo ancor più a sé il corpo del ragazzo.
«Non voglio perdere un altro
figlio», ribatté, riprendendo ad accarezzargli
spasmodicamente le guance
gelide.
Gli giunse alle orecchie un altro
sospiro, prima che con la coda dell’occhio vedesse il vampiro
inginocchiarsi
accanto a lui. «Implorami, allora», gli disse,
quasi con sagacia. «Prostrati
dinnanzi a me e implorami di salvarlo».
L’uomo scosse la
testa, autoritario; non si sarebbe abbassato a tanto. L’aveva
umiliato anche
troppo, durante quegli anni. «Nay, questo non lo
farò».
«Ciò significa che
il tuo orgoglio
vale più della vita di tuo figlio?»
replicò William con fare saccente,
inarcando un sopracciglio. «Eppure non mi sembrava che tu la
pensassi così,
pochi attimi prima».
Come colpito in pieno da quella
constatazione, il Lord chinò lo sguardo per
osservare il volto del
figlio, i cui respiri irregolari e spezzati gli giungevano lievi alle
orecchie.
Tremava fra le sue braccia, biascicando parole che non avevano alcun
senso; le
palpebre continuavano a tremare e il viso diveniva sempre
più freddo. Aveva
quasi smesso di lottare, lasciando che il soffio della vita
abbandonasse il suo
corpo. Il suo orgoglio valeva davvero più della vita del
proprio
figlio? La risposta a quella domanda era più che ovvia.
«Ti prego... non potrei sopportare di perdere anche
lui», sussurrò Joseph,
voltandosi definitivamente verso il vampiro con le sopracciglia
corrugate dalla
preoccupazione.
Fu a quel punto che William
sollevò
appena un angolo della bocca in un sorriso, assaporando quelle parole
come se
le stesse gustando sulla punta della lingua. «Allora chiudi
gli occhi, mo chridhe», mormorò poi, ammaliante,
alzando di poco una mano per fargli scorrere due dita sul viso.
«Chiudi gli
occhi e non pensare ad altro. Sarò io l’ultima
cosa che ti sarà concessa di
vedere».
Forse inconsciamente, Lord Dellinton
si ritrovò ad obbedire a quelle parole. Abbassò
le palpebre, sentendo poi quel
tocco gelido sfiorarle delicatamente per carezzarle con altrettanta
accidia.
Ebbe quasi la sensazione che, man mano che quella carezza si spostava,
ogni
preoccupazione, ogni angoscia o tormento venisse spazzato via, sepolto
sotto
uno spesso strato di ghiaccio. Quello stesso ghiaccio che gli
percorreva adesso
il corpo, facendogli correre brividi inspiegabili lungo la schiena.
Udì vagamente una voce giungere alle sue orecchie, scoprendo
in un secondo
momento che quella voce sommessa e rauca apparteneva a suo figlio.
Voltò subito
il viso nella sua direzione per vedere come stesse, vedendo
però intorno a sé
solo tenebre ed ombre. Persino quando provò ad alzare le
palpebre non distinse
nulla, sentendo solo quella voce cominciare a chiamarlo e quelle gelide
carezze
riprendere, insistenti. S’agitò, tentando di
parlare a sua volta, di
rispondergli; ma non un suono uscì dalle sue labbra mentre
quell’oblio
s’intensificava e lo inghiottiva.
Un sussurro si fece largo fra
quelle tenebre, un sussurro che prometteva sangue e passione, dolore e
morte: il sussurro d’un demonio. Ma quello che lo stringeva
in
quell’abbraccio di
morte era il suo angelo. Un angelo oscuro che, nel corso degli anni,
l’aveva inesorabilmente
condotto all’Inferno.
~ END ~
[1]
Titolo
di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 27 marzo del 2005,
facente
parte della serie “Precious Wonders”.
Tradotto, si rifà principalmente a tutto ciò che
succede nel
capitolo fino alle note di chiusura, visto ciò che accade
durante quella notte.
[2]
Prossimo
al vecchio porto di Londra, proprio per tale
motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in
cui stare.
La
sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di
umorismo e valori
della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo
Squartatore a
Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray,
povertà
affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La
verità, forse un po’ cruda, è che
nell’East End si concentrano alcuni dei
quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi
che ciò comporta.
[3]
Si
riferisce
ovviamente a quando venne fondato il Regno di Scozia, precisamente
intorno
l’843 dal re Cináed I.
[4]
Qui
ci si
riferisce invece alle guerre d’indipendenza che scuotevano la
Scozia,
precisamente alla famosa battaglia di Stirling Bridge nel 1297 in cui
gli scozzesi si
ribellarono sotto la guida di William Wallace, e quella di Bannockburn
in cui
Robert Bruce, incoronato re di Scozia, ottenne una vittoria
schiacciante contro
l’antica rivale del suo regno.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia era stata originariamente scritta per un contest indetto da
Selhin
e Seiko,
“Dalla Frase
alla Storia”,
ma ho poi pensato saggiamente di trasformarla in un'originale,
giacché i personaggi che avevo utilizzato si discostavano un
po'
troppo dai loro caratteri e sarebbero apparsi così
decisamente
OOC.
Ecco perché, dunque, sono nati personaggi come Sir William,
crudele vampiro per antonomasia, e Joseph, uomo che ha sempre avuto
tutto grazie alla propria posizione ma che è stato
più
volte beffato da un destino crudele che ha colpito lui stesso e la sua
famiglia. Il solo personaggio che ho lasciato è Jason,
ragazzo
creato nel lontano 2008 da me e Red Robin per gioco, e che ormai fa
parte della nostra vita quotidiana, per così dire. Un po'
come
se fosse nostro figlio, se proprio vogliamo metterla in questi termini.
Comunque sia, la storia gioca più sugli aspetti psicologici
di
tutti i personaggi e sulla natura crudele degli esseri umani e dei
mostri, sulla soggiogazione che essi possono provocare e sulla
debolezza dell'animo, intersecando così realtà e
immaginazione in un gioco di ombre e sguardi che conduce ad una
drammatica conclusione. Ovviamente l'accenno a Jack lo Squartatore,
dato il periodo, era d'obbligo, e lo si può benissimo
notare,
anche se solo accennato, quando Joseph gli passa vicino. Era una tale
piccolezza per la trama che non ho ritenuto obbligatorio spiegarlo
durante la stessa.
Spero che vi sia piaciuta e che l'abbiate in qualche modo apprezzata.
Alla prossima ♥
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scrittori.
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