E così, questa, è la nostra storia... di Tsukuyomi (/viewuser.php?uid=68762)
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23. Addestramento di DM
Tornato in Sicilia, la nostalgia e la curiosità avevano
avuto la
meglio su di lui; perciò prima di scalare l’Etna e
recarsi nel luogo che le stelle gli suggerivano di raggiungere,
aveva deciso di cercare la sua vecchia casa, solo per vedere se le cose
erano cambiate. Non si sorprese più di tanto nell'apprendere che
niente era più come lo ricordava. La tenuta era diversa e
ospitava una nuova famiglia: il pollaio era stato abbattuto per far
posto a un rigoglioso prato all'inglese, che si estendeva per buona
parte della tenuta fino al primo filare di piante da frutto. Quegli
alberi non c'erano, e quelli che invece ricordava bene, come il salice
sotto il quale aveva sepolto il cane, erano svaniti.
La casa era stata ingrandita e le era stato cambiato il
colore; la vite canadese iniziava ad arrampicarsi lungo la facciata e
nel giro di pochi anni forse avrebbe ricoperto la casa intera. Non era
più casa, e fu l'unico pensiero che fu capace di formulare.
Indeciso su cosa provare, decise di risalire la montagna. Sentiva di
dover costeggiare un pigro fiumiciattolo ingrossato dalle piogge,
attraversare il bosco che vedeva arrampicarsi sui costoni in
lontananza, forse avrebbe dovuto guadare qualche fiume più
grande e più agitato, magari avrebbe dovuto evitare di essere
investito da una probabile eruzione, recarsi nei pressi della gola
dell'Etna e lì, forse, avrebbe trovato colui che cercava e che
lo avrebbe addestrato a cavaliere.
Dopo poche centinaia di passi, affrontati con rabbia, rallentò
l'andatura a causa di un fastidio all'addome che andava aumentando. Ebbe
l’impressione che
qualcuno gli stesse infilando una mano in bocca e cercasse di
rivoltargli lo stomaco dall’interno. Le gambe non riuscirono a
reggerlo e si piegarono a metà di un passo, le ginocchia si
schiantarono sulla terra battuta e avvertì la gola bruciare.
Vomitò, preda di conati tanto forti da levargli il fiato. Rimase
piegato su se stesso finché
lo stomaco non fu completamente vuoto. Con la vista annebbiata dalle
lacrime e la gola in fiamme, infilò la testa sotto il pelo
dell'acqua.
«Che diavolo è successo? È cambiato
tutto.» mormorò. Infilò la testa ancora
un’altra volta nel fiume e poi si lasciò cadere
all’indietro.
Seduto nel fango, scrutò con attenzione ciò che lo
circondava. Si sentì truffato dai ricordi; ricordava così
bene quell’albero, e il giorno in cui aveva scavato quella buca
assieme al padre. Era così dispiaciuto di aver perduto quel
compagno di giochi. Si domandò se non si fosse
inventato tutto. Pensò anche di aver sbagliato tenuta, magari la
casa che tanto lo aveva turbato era quella di qualcun'altro, e la sua
giaceva immobile nel tempo ad aspettare il suo ritorno. Si diede dello
stupido, sapeva bene che quella casa era stata la sua. Chissà se
il corpo di Cane era ancora sotto quell'albero o se assieme alle radici
erano state tolte anche le ossa.
Scavò a fondo nella memoria e ricordò di averlo avuto
davvero un cane, non se lo stava inventando e per la prima volta
sentì la mancanza di ciò che aveva conosciuto.
Non gli
era mai importato troppo né dei genitori né del cane,
tantomeno della sua casa e della proprietà, del
fiume e della campagna, ma ora che niente era rimasto a testimoniare
quel passato, si accorse di quanto fosse lacerante quel cambiamento. La
gola attanagliata in una morsa stretta, i
muscoli del viso che si contraevano da soli finché non
avvertì il tepore della prima lacrima.
La seconda lacrima scese quando infilò la mano nella borsa per
cercare la foto che Miach aveva maldestramente rimesso insieme col
nastro adesivo. Guardò il volto materno sorridergli dalla carta.
«Mamma...» sussurrò.
La terza scivolò lungo il naso
quando afferrò la fotografia con entrambe le mani, sul
margine superiore. La quarta quando la strappò.
Infilò una mano nel fango e ne sollevò un pugno. Poi un
altro ancora. Adagiò i pezzi della foto nella melma e la
ricoprì. «Sono solo.» si disse.
Si alzò in piedi e asciugò le lacrime con il dorso della
mano, sporcandosi il viso.
Riprese la sacca, la buttò sulle
spalle e si incamminò trascinando i piedi. Gli mancavano le
forze, per quanto si sforzasse di procedere, avvertiva una forza
misteriosa trattenerlo a valle. Forse non aveva tutta la forza che
credeva di avere, il pugno a Leurak e l'aver portato via l'elmo a Joao
non erano più imprese tanto grandi a ripensarci. Le lacrime
avevano continuato a cadere, finché
le ultime, le più lente, non si erano asciugate sulla pelle.
Sì, era debole. Debole, debole, debole.
Procedette trascinando i piedi, assorbendo la coscienza
della sua nuova condizione: era solo, davvero solo. Completamente solo
e terribilmente debole. Tanto debole da voler negare a se stesso di
esserlo.
Attraversò la valle e arrivò finalmente alle pendici
dell'Etna. Levò lo sguardo alla ricerca della cima nascosta dalle
nuvole e - probabilmente - dal fumo del vulcano.
Si voltò indietro, replicando l'errore dell'Orfeo mitologico.
Ora la sua vecchia casa era lontana, non
l’avrebbe più vista e non gli avrebbe più ricordato
cose spiacevoli. Quindi, forse, avrebbe potuto fare in modo che
anche la sua debolezza rimanesse lontana, almeno il tempo necessario
per trasformarla in forza. E la solitudine sarebbe diventata un'arma
potente.
Sentì abbaiare e gli venne naturale girarsi e
guardarsi attorno per cercare il cane. Forse quella zona era più
popolata di quello che sembrava, forse c'era un gregge nelle vicinanze
e
se c'era una gregge, c'era un cane pastore che lo avrebbe attaccato se
ritenuto una minaccia. L’abbaio era lontano e veniva dalla
montagna; si mosse incontro all’animale. Lo avrebbe zittito lui
se avesse insistito con quel verso.
Percorse quasi un chilometro. Il suono che percepiva era sempre uguale,
non si era avvicinato e non si era allontanato; sembrava quasi che si
spostassero assieme.
«Dove sei, bestiaccia?» ringhiò, carico di voglia di far male e riversare su qualcosa il dolore che provava.
Gli parve di scorgere una sagoma con la coda dell’occhio e si
voltò di scatto, ma non vide niente. Eppure l’animale era
vicino; riusciva a sentirlo chiaramente. Chiuse gli occhi e si
concentrò su quel verso. In quel modo, gli sembrava di poterlo
vedere. Era uguale a quello che aveva
avuto anni prima.
Riaprì gli occhi e si guardò intorno. Una fiammella
azzurra gli vorticava attorno alla testa, per poi procedere a zigzag e
fermarsi di scatto. Angelo aprì la mano perché il
piccolo fuoco vi si poggiasse e quando avvenne il contatto, ci fu
un’esplosione di luce.
Il cane era lì, etereo e privo di consistenza, ma con i tratti
di un tempo. Saltava invitando il ragazzo a giocar: fece un giro su
se stesso per mordersi la coda, saltò e batté le zampe
anteriori sul terreno.
«Cane!» esclamò Angelo, aprendogli le braccia, come
quando faceva anni prima. Allora il cane gli poggiava le zampe sulle
spalle e lo faceva cadere.
La bestia non rispose come di consueto al richiamo: si limitò ad
avvicinare il muso alle dita ella mano destra e tentare una
leccata, ma la lingua del cane passò attraverso la mano.
«Sei venuto per accompagnarmi? Bene, andiamo!»
Tenne lontana dalla mente ogni domanda su come fosse possibile la
presenza del cane. Se avesse evitato di porsi delle domande, se quelle
domande non avessero avuto risposta, poteva significare che non era
così solo come pensava. Era vero che i segni del suo passato
erano stati cancellati, ma la presenza di Cane era reale per lui. Lo
vedeva e lo sentiva. Se Cane camminava al suo fianco e si mordeva la
coda, non era più solo.
Il cane lo precedette di qualche passo trotterellando, e assieme si dinoccolarono tra sentieri battuti e passaggi scoscesi.
Al tramonto, Angelo pensò fosse il caso di fermarsi. Si
addentrò nella foresta e cercò un riparo. Trovò
delle grosse rocce ammassate tra gli alberi, tra di esse c’era
spazio sufficiente a ospitarlo. S’intrufolò lì in
mezzo e si sedette, Cane si accucciò ai suoi piedi. Si
addormentarono subito.
Ebbe molti incubi durante la notte, rivisse il suo passato, poi
morì una bambina, affogata nelle acque in piena di un fiume
lontano, che stringeva la mano di un vecchio morto da solo nel suo
letto, che camminavano diversi metri avanti a un uomo caduto in un
burrone. Dopo l’ennesimo incubo, in cui la vita di perfetti
sconosciuti gli si dipanava davanti per poi, per poi unirsi al ricordo
di quella vista in precedenza, aprì gli occhi di scatto. Il
cuore pompava all’impazzata, la fronte era umida di sudore
così come gli abiti e aveva i brividi. Uno sciame di lucciole
gli danzava attorno seguendto traiettorie semicircolari. Chiuse gli
occhi e li riaprì, pensando di dormire ancora.
Non erano lucciole, ma fuochi fatui, e ognuno aveva una storia da mostrargli. Cane era sparito.
Senza aspettare l’alba, Angelo si rialzò in piedi e si rimise in marcia.
Camminò nel bosco, il sentiero rischiarato dalla luce emessa dai fuochi fatui che continuavano a vorticargli attorno.
Al sorgere del sole, i fuochi svanirono. Non li vedeva più
eppure continuava a sentirne la presenza, li dove fluttuavano
l’aria era più densa ed elettrica. Respirava
affannosamente, con la sensazione che la gravità fosse maggiore,
eppure non si fermò, procedette per tutta la giornata,
nutrendosi in marcia con i frutti che vedeva. Poco prima del tramonto
giunse quasi alla cima della montagna. Non sapeva quanti chilometri
avesse percorso, ma si trovava sopra le nuvole che il giorno prima gli
avevano precluso la vista della cima del vulcano. Non vedendo la valle,
non sapeva dire di quanto fosse salito, benché avesse la
sensazione di aver raggiunto la luna per quanto aveva marciato.
Trovò una grotta, ampia e scura, che si apriva su una parete
rocciosa. La parte che circondava l'apertura era liscia e levigata,
granito che sembrava lavorato, e più ci si allontanava
più la levigatura diventava grossolana, fino a scomparire del
tutto. In quei punti il granito era misto al nero basalto.
Angelo si avvicinò all'entrata e appena fu davanti, Cane
riapparve sulla soglia, fece un giro su sé stesso nel tentativo
di azzannarsi la coda e corse dentro. Senza farsi pregare, Angelo lo
seguì.
Pochi metri dopo l’apertura, un dedalo di gallerie si dipanava
verso l’interno del vulcano. Scorse una debole luce brillare nel
punto in cui si dirigevano, quando furono vicini Angelo si rese conto
di essere giunto in un’altra grotta. La volta di granito era
ampia e abbracciava quel posto strano. Procedette fino ad arrivare in
un'altra grotta, buia.
«Bene arrivato, ragazzo.»
Si accese un lume davanti a lui, retto da un vecchietto ricurvo che gli
sorrideva mostrando la mancanza degli incisivi superiori.
«Ce ne hai messo ad arrivare.» continuò. «Hai fame?»
Angelo si guardò intorno. Pile di libri e torce spente. Due teschi umani, uno sul pavimento e uno sopra un libro.
«Sei muto?»
«No, signore.»
Il vecchietto rise. «Due giorni di viaggio per arrivare da Atene.
Gli aspiranti non sono più quelli di una volta.» si
diresse verso un cunicolo. «Seguimi.»
Camminava ricurvo e lento, trascinando i piedi; lo condusse in un’altra grotta, più piccola e illuminata.
C’erano diversi tavoli di legno, artigianali, disposti lungo il
perimetro della sala, che reggevano complesse strutture di alambicchi e
ampolle.
«Che razza di posto è questo?» domandò
Angelo, guardandosi intorno, indeciso se scoppiare a ridere per le
stranezze o attaccare.
«Il mio laboratorio.»
«E cosa sei, un dottore?»
Il vecchio rise. Portò una mano al ventre e lo tenne stretto mentre le risate lasciavano il posto a una tosse convulsa.
«Oh, che ridere.» mormorò Angelo. «Risate senza fine...»
Il vecchio si riprese. Estrasse un pezzo di stoffa dalla manica,
soffiò il naso e lo rimise a posto. «Sono un negromante,
figliolo. Puoi considerarmi un dottore di anime. Un guaritore
forse!»
«Che stai blaterando?»
«Se sei qui, significa che le vedi! Che sei capace di guardare
oltre la vita, oltre quel sottile confine che separa il mondo degli
uomini da quello degli spiriti. Saprai anche attraversarlo,
immagino.»
Angelo incrociò le braccia al petto. «Non so di cosa stai parlando.»
Il vecchietto rise ancora.
«Che cazzo avrai da ridere tanto.»
«Come ti chiami, ragazzo?»
«Angelo. Angelo Salvatore.»
L’uomo, nell’udire il nome del ragazzo, cominciò di nuovo a ridere. «Ridicolo.» concluse.
Angelo aggrottò le sopracciglia. «Se hai finito, puoi anche iniziare con l’addestramento.»
«Non ti si addice questo nome.»
«Lo penso anche io, ma non credo di poterci fare molto.»
«Puoi cancellarlo!» disse sollevando l’indice in
alto. «Vieni con me, ti mostrerò una cosa.»
Lo condusse nell’angolo più lontano dall'entrata della
sala, gli fece spostare un tavolo. Sotto di esso si trovava una botola
chiusa con un coperchio di legno, con le pareti di roccia scendere in
profondità e confondersi col buio. Era stretto.
«Passaggio segreto?»
«Zitto, zuccone! Ti ho detto di seguirmi, non di domandare. Impara a rispettare gli ordini.»
Angelo sussultò. Il vecchietto rise ancora. «Ci cascate tutti! Oh, beata e ingenua giovinezza!»
Il vecchio serrò gli occhi e iniziò a brillare di una
luce viola e rosata. Avvicinò la mano e sulle pareti apparvero i
pioli di una scala.
Si calò all’interno del pozzo, sedendosi sul bordo
opposto, e si lasciò cadere, solo allora afferrò il primo
piolo.
Angelo fece lo stesso, ma il pozzo era troppo stretto e ad ogni
movimento
sbatteva i gomiti contro la roccia dietro di lui, e le ginocchia contro
i pioli. Attese che il vecchietto fosse lontano e quando
pensò che fosse arrivato, lasciò la presa sul piolo per
poi afferrare uno di quelli successivi, facendo così brevi
cadute.
Arrivati in fondo, il vecchio scoccò le dita e si accesero due
lunghe file di torce ancorate alle pareti. Fiamme azzurre illuminarono
la grotta.
«Queste sono anime dei morti.» disse, aprendo le braccia.
«Ciò è quello che i morti possono ancora fare nel
mondo dei vivi! Ti sembrerà poco, ma non lo è. Gli
spiriti non appartengono a questa realtà, a questo mondo, ma
molti di loro sono tanto forti e soffrono a tal punto che non riescono
ad andarsene. Restano qui, in attesa che i loro patimenti vengano
alleviati.»
«Che cosa c’entra con il mio nome?»
L’uomo portò una mano alla fronte e si massaggiò le tempie.
«Figliolo, hai la stessa intelligenza di questo basalto! Se
questi spiriti possono oltrepassare la linea dello spazio e del tempo a
loro piacimento, cosa vuoi che sia per te cambiare nome? Sono vivi pur
essendo morti!»
«Allora? Cosa dovrei fare? Suicidarmi e cambiare nome?»
«Per Atena! Che male ho fatto? »
«Senti, vecchiaccio. Sono qui per essere addestrato a cavaliere e
non per ascoltare le tue cazzate su morti e affini. E poi chi accidenti
sei?»
«Al Zubanah!» rispose. «Negromante. Tuo maestro e dio in terra. Credevo di avertelo già detto.»
Tornarono in superficie, e quando il tavolo fu rimesso a posto, Angelo
domandò quando sarebbe iniziato il suo addestramento.
«È già iniziato, fanciullo.» rispose il vecchio.
«Beh, io non mi sento più forte di prima.»
Il maestro si incamminò lungo un corridoio, le pareti erano
ricoperte di muschio, il pavimento era scivoloso e riluceva al chiarore
delle torce, condusse Angelo in un altro cunicolo e da lì lo
portò fino a una sala chiusa da una porta di legno marcescente,
con inserti in ferro arrugginito. La roccia era stata scavata lasciando
quella che sembrava essere una culla.
«Dovrai cercarti del pagliericcio o dormire sarà
più scomodo del necessario, a meno che non ti piaccia
così.» gli disse
indicandogliela. «Pensa al tuo nuovo nome nottetempo.»
Ridacchiò, chiudendosi la porta alle spalle.
Angelo gettò la sacca sul pavimento e si guardò attorno.
Non c’era niente se non quella sorta di rialzo di roccia scavata.
Raccolse la sacca, si coricò e la adagiò come cuscino.
Era dannatamente scomodo. «Mi sembra di essere in un
sarcofago» si disse.
Il suoi pensieri, poi, volarono veloci, riportandogli alla mente la
strada da poco percorsa e tutti quei fuochi. Era sollevato di non
averne più
visto neanche uno dall’accensione di quelle strane
torce spirituali. Ripensò al cane e ai genitori, agli alberi e
al fiume, al Santuario e ai maestri, agli amici con cui aveva siglato
promesse più o meno tacite e scivolò nel sonno.
Il giorno dopo, il vecchio lo svegliò portandogli una scodella contenente un liquido giallastro e puzzolente.
«Che roba è?» domandò storcendo il naso.
«La colazione. Zitto e mangia.»
Obbedì e in pochi sorsi la svuotò. Il sapore non era
cattivo come l’odoreaveva lasciato presagire. Somigliava a brodo di
pollo aromatizzato con qualche erbaccia che non seppe riconoscere.
«Per ognuna di queste che consumerai, dovrai fare un progresso o
ti getterò nella lava e riderò mentre ti contorcerai
durante il primo istante, e guarderò la tua carne bruciare e
consumarsi.»
Angelo lo guardò sollevando un sopracciglio. «Attento che non sia io a gettarti dentro la lava, vecchio.»
L’uomo sorrise, mostrando il buco tra i denti anteriori.
«Mi piaci, ragazzino. Ora andiamo.» e lo condusse di nuovo
attraverso la botola, accese le torce con lo
schiocco delle dita e seguì la scia luminosa fino a una porta.
«C’è puzza di uova marce.» osservò Angelo, arricciandoi il naso con fastidio.
Il vecchio fece scattare il chiavistello. e la porta si aprì
lentamente, mostrando una sala illuminata da
rocce che isolavano una sorta di piscina al centro della sala stessa.
Erano vagamente fluorescenti e brillavano di luce propria. L'ambiente
così
rischiarato era rilassante, peccato per la puzza,
pensò Angelo. Lungo le pareti scorrevano numerosi rivoli d'acqua
che andavano a gettarsi nella piscina centrale.
Al Zubanah si tolse la tunica e si immerse.
«Certo che sei ridotto male, vecchio.» Angelo rabbrividì nel vedere il corpo del maestro.
Numerose cicatrici disegnavano sull'intero corpo un reticolo chiaro, la
pelle rugosa sembrava essere un sacco troppo grande per il contenuto, eppure Angelo, guardandolo ebbe l’impressione che in
gioventù dovesse aver avuto un fisico imponente e muscoloso.
«Sono più giovane di quello che immagini e più
vecchio di quel che pensi.» gli disse, ridacchiando. «Entra anche tu.» e s’immerse fino alla gola.
Angelo si spogliò, lanciando i vestiti vicino alla porta
ed entrò. Al Zubanah gli andò vicino, prima che
s’immergesse del tutto, e gli afferrò un braccio. Lo
avvicinò al volto e passò un dito sulla pelle tesa
dell’avambraccio, saggiando la durezza del muscolo sottostante.
Gli prese le spalle e affondò le dita ossute.
«Girati.» disse, lasciando andare la presa.
Osservò con cura la schiena e tastò la scapola destra con un dito, dopodiché lo lasciò andare.
«Con il giusto addestramento dovresti riuscire a sviluppare
un’ottima massa muscolare. Hanno fatto un buon lavoro al Grande
Tempio.» disse. «Ma non sei al massimo delle tue
potenzialità. Hai un petto ampio che può essere sfruttato.»
«Finita la visita?» domandò Angelo con fastidio.
Il vecchio rise. «Mi ucciderai, un giorno o l'altro.»
Quando il bagno fu finito, Al Zubanah condusse Angelo ancora più
in profondità, aprì una porta e lo spinse dentro,
chiudendola immediatamente.
«Ehi vecchio, fammi uscire!» Udì solo risate oltre
la porta. «Mi hai sentito? Ti ho detto di farmi uscire!»
«Uscirai quando sarai pronto.»
Angelo sferrò un calcio frontale nel punto dove c’era il
chiavistello, che scricchiolò. Ne sferrò un altro, ma la porta non scricchiolò.
«Usa il cervello, ragazzo! Questa porta non cadrà con un
calcio; neanche con cento!» ridacchiò il vecchio.
«Perchè mi hai chiuso qui dentro?» gridò.
«Che domande, per farti uscire! Mi sembra ovvio.»
Angelo colpì la pesante porta con una scarica di pugni, ogni
colpo era
più forte del precedente e si ferì presto le nocche. Il
sangue colò
lungo il legno fino al pavimento. Il rumore dei pugni aveva coperto
quello che Al Zubanah gli diceva dall'altra parte. La porta non
sarebbe caduta, esattamente come gli era stato detto.
«Sei pazzo! Come faccio a uscire se non mi apri?» urlò ancora una volta.
Al Zubanah rise di cuore. «È quello che dicono in molti.
Trova il modo per uscire da lì e io continuerò il tuo
addestramento, figliolo.»
Una strana sensazione s'impadronì del ragazzo, che
avvertì il torace appesantirsi e il respiro spezzarsi, come se
avesse qualcosa sopra. Un sentimento simile alla disperazione cercava
di rubargli la ragione, ma la contrastò, impedendosi di iniziare
a scoppiare a piangere.
«E se non dovessi riuscirci?» balbettò.
«Morirai.» rispose laconico il vecchio. Poggiò una
mano sulla porta. «Non cedere alle loro lusinghe. Non farti
rapire.»
«Lusinghe?» domandò.
«Di chi? Quali lusinghe?»
Non ottenne nessuna risposta. Frustrato, tirò altri calci alla porta, poi una serie di pugni,
urlando ogni volta che colpiva il legno con una parte ferita. Non
sentì più la voce del maestro.
«Quel bastardo se n’è andato. E mi ha lasciato qui!»
Poggiò le spalle alla porta e si lasciò scivolare fino a
sedersi. Vide la sua ombra proiettarsi nel raggio di pochi metri,
rendendosi conto che l’unica fonte di luce in quel posto era la
porta. Si alzò e mosse qualche passo nell’oscurità.
Cane ricomparve davanti a lui e abbaiò.
«Fuori dai piedi!» sbottò Angelo, continuando a
muoversi a tentoni. Poggiò una mano sulla parete e avanzò
lentamente, senza staccarsi. Si bagnò i polpastrelli con la
condensa che ricopriva la roccia. Dopo diversi metri sentì il
gorgoglio dell’acqua. Cane lo seguiva fedelmente e in silenzio.
Intuì di trovarsi a un bivio, decise di non staccare la mano dal
muro e proseguire. Dopo i primi metri percorsi, il chiarore della porta
era svanito e non riusciva a vedere niente se non l'azzurrognola
trasparenza del cane. Doveva affidarsi esclusivamente ai suoi sensi,
facendo leva soprattutto sull'intuito.
Girovagò a lungo, infine si trovò davanti alla porta dalla quale era entrato. Spostarsi non era servito a molto.
«Non c’è niente qui!» urlò e
tirò un colpo di palmo al muro. Cane abbaiò due volte.
«Che accidenti vuoi tu, eh?» sferrò un calcio alla
bestia, ma il piede lo attraversò. «Vecchi pazzi, cani
morti, che altro mi manca!?»
La porta si aprì appena.
«Sei deludente ragazzo. Divertente, ma deludente.» il vecchio lo fece uscire. Scuoteva la testa a ogni parola.
Tornarono in superficie, nella grotta-laboratorio. Una volta lì,
il vecchio fece un segno su un vecchio calendario, cinque giorni
più avanti, poi prese un’ampolla contenente un liquido
nero che
emanava riflessi rossi. Ne versò una goccia dentro un alambicco
pieno di un liquido trasparente. La goccia non si sciolse, rimase
sospesa a galleggiare nel liquido. Accese un fornello.
Quando il liquido iniziò a bollire, la goccia nera salì
di livello, diventando grande quanto un fagiolo e perdendo la forma
perfettamente sferica.
«Che fai?» domandò Angelo, curioso.
«Taci.»
Al Zubanah aumentò la fiamma e la goccia si dissolse. Lungo la
spirale di vetro dell’alambicco si formarono molte goccioline
rosso brillante, che piano piano scivolavano in un bicchiere.
Quando il procedimento fu concluso, Al Zubanah bevve il liquido.
«Stanotte, mi assisterai.» annunciò e poi
andò via, lasciando il ragazzo da solo nel laboratorio.
Incuriosito, Angelo si avvicinò agli strumenti. Diede
un’occhiata rapida oltre la porta, per accertarsi che il
negromante si fosse allontanato. Quando fu sicuro di essere solo, prese
in mano il bicchiere e lo sollevò in alto e lo guardò in
controluce. Il bicchiere era perfettamente pulito e trasparente.
Deluso, lo avvicinò alle naricie annusò, ma non
sentì nessun odore.
Quella notte, la luna sorse piena e Angelo seguì l’uomo attraverso i cunicoli. Arrivarono in superficie.
«Resta qui.» gli disse Al Zubanah.
Il vecchio sparì tra i cespugli, dopo pochi minuti comparve
Cane, che si sedette accanto ad Angelo e aspettò con lui. Il
ragazzo lo fissò e il cane abbaiò due volte.
Era trascorsa poco più di un’ora quando il vecchio tornò. Trascinava un cadavere.
«Dammi una mano.» gli disse, prima che Angelo potesse fare
domande. «Prendi la parte di sopra che è la più
pesante e io sono vecchio e deboluccio ormai.»
Angelo fece passare le mani sotto le ascelle del corpo e seguì
le istruzioni che gli dava il vecchio sui cunicoli da prendere.
Giunsero in un’altra sala, a metà strada tra la scia di
anime e la sala dall'odore di uova marce. Era una stanza piccola e ben
illuminata. Al centro si trovava un altare in pietra e vi adagiarono
sopra il corpo.
Il vecchio prese poi un grosso coltello e aprì il ventre del
cadavere. Infilò una mano ed estrasse l’intestino. Angelo
fece una smorfia di disgusto e trattenne un conato. Sentì le
guance gonfiarsi, ma riuscì a trattenersi.
Al Zubanah svuotò completamente l’addome, rimuovendo con
cura organi e stomaco e riponendoli in un contenitore di pietra.
«Curioso.» disse, spostando lo sguardo dalla cavità ad Angelo.
«Schifoso, piuttosto.» lo corresse.
«Citrullo! Guarda qui!» gli indicò un punto della
spina dorsale. «Vedi questa vertebra? Vedi come spunta dal sangue
rappreso?»
«Quindi?»
«Quello sei tu!»
«Sarei una vertebra?»
«No, sei un imbecille! Cosa sai di necromanzia, figliolo?»
Angelo ci pensò su. «Niente.» ammise, sollevando le spalle.
«Da non crederci! Che accidenti hai fatto al Grande Tempio?»
«Combattuto.»
«Non impareranno mai. Ti sei chiesto il motivo per cui quel cane ti segua?»
«Mi è affezionato. Era mio.»
«È tuo ancora adesso. E sai che funzione ha il cane?»
«Abbaiare?»
Al Zubanah volse gli occhi al cielo e mormorò qualcosa.
Abbassò il volto e scosse la testa. «Il cane ha la
funzione di psicopompo, è un traghettatore di anime.»
«Aspetta un attimo! Mi stai dicendo che sono morto?»
«Oh Atena, mia dea, perchè hai scelto proprio lui?
Perchè? Sono sicuro ci fossero tanti bravi ragazzi lì
fuori, il mondo è grande, ma hai posato il suo sguardo su questo
giovane che non sa neanche dove poggia i piedi. Perché mia
dea?»
«Vecchio rincoglionito, vedi di spiegarti.» ruggì. Iniziava a perdere le staffe.
Il vecchio gli si portò accanto, lo prese sottobraccio e lo
portò davanti alla roccia. Descrisse un semicerchio con il
braccio davanti a lui, e piano piano accorsero centinaia di fuochi
fatui. Presero il loro posto sulla roccia e mostrarono la lava
ribollire.
«Lava?» domandò Angelo, cercando di sfilare la mano ossuta del vecchio da sotto il braccio.
«L’Etna. Noi siamo al suo interno, ma troppo in alto per poter vedere davvero tutto questo.»
«E allora? Cosa c’entra con la necromanzia, con il cane, e con la vertebra?»
«Sei troppo frettoloso, se non mi fai parlare non saprai mai la storia. La vuoi ascoltare, sì o no?»
«E ascoltiamola, ma vediamo di non perderci parlando di niente.»
«Io non parlo a vanvera. Stai forse dicendo che parlo a vanvera?»
«No, dico solo che ti mancano diversi giorni della settimana e forse qualche rotella.»
«La vuoi ascoltare, la storia? Vuoi addestrarti e tornare in
Grecia vincitore o preferisci tornarci ora e farti ridere dietro anche
dai sassi? Cosa vuoi?»
«Forza. Nient’altro che pura forza. Una potere tale da schiacciare gli dei.»
«Ora ragioniamo, per cui taci una buona volta o ti ci butto in quella lava!»
Angelo deglutì e decise che in fondo la mano del vecchio non gli dava fastidio, Al Zubanah fissava la lava.
«Allora? Come continua questa storia?»
«Dov’ero arrivato?»
«Non ci credo! Vecchio, mi stai mettendo a dura prova.»
«Prova! Certo! Sotto questa lava, figliolo, giace il Tartaro.
Dove riposano i Titani, uno dei tanti luoghi dove i morti si accalcano
per entrare nell’Ade e prendere il posto designato.»
«E la vertebra?»
«Ma perchè ti interessa tanto quello stupido osso?»
«Mi hai dato della vertebra e vorrei sapere perchè.»
«Quella che ho eseguito poco fa è un’antichissima
tecnica di divinazione. Io pongo una domanda a un cadavere, e
osservando come le vertebre spuntano dal sangue semi rappreso sono in
grado di dirti il tuo passato.»
«Chiedi a me se ti interessa il mio passato. Cosa vuoi sapere?»
«So già tutto quello che mi interessava sapere, ragazzo. E
tu potresti non essere un testimone attendibile, ricorda. »
Angelo si liberò finalmente della mano del vecchio e fece un
passo indietro. « Non attendibile? So cosa mi è
successo.»
«Sbagli. Gran parte dei tuoi ricordi è modificata e
influenzata dalle sensazioni, dalla nostalgia e dal dolore. Dalla vita
stessa. Ricorderai un momento triste molto più triste di quello
che è stato, sempre che non sia stato tanto triste da essere
stato cancellato per permetterti di andare avanti. I cadaveri non
mentono, ragazzo. Non mentono mai.»
«E cosa hai chiesto del mio passato?»
«Se hai usato poteri particolari.»
«Sì, li ho usati.»
«Lo so bene.»
«Allora potevi chiedermelo senza dover uccidere quel poveraccio.»
«Non ho ucciso nessuno, io. È stato sepolto stamattina, e
ora tu andrai a rimettere il corpo nella sua tomba.»
Angelo si rifiutò. Al Zubanah gli spiegò che si trattava
di una prova. Avrebbe osservato i suoi spostamenti da lontano,
saggiando così la sua agilità e la sua capacità di
muoversi in silenzio.
Avvolsero assieme il cadavere in un lenzuolo, Angelo se lo caricò sulle spalle e uscì.
Due fiammelle celesti vorticarono attorno all’uomo, fino a posarsi sull’altare.
«È lui, vero?» domandò.
Le fiammelle esplosero in un bagliore bianco, prendendo le sembianze che avevano avuto in vita.
Annuirono.
«Mi prenderò cura io di lui.» disse loro. «Potete andare, ora.»
La donna scosse la testa.
«Vi ha dimenticato. È solo ormai, è solo da tanto tempo. Lasciate che segua la sua strada, ora.»
L’anima si portò le mani al volto, l’uomo le
passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé.
«So bene che è difficile, ma la vostra presenza non lo
aiuterà a essere un uomo migliore di quello che è
destinato a essere.»
L’uomo tese la mano al negromante e scosse la moglie
affinché facesse lo stesso. Lei piangeva. Allungò
comunque la mano, ma fu Al Zubanah a non accettare.
«Vi lascerò questa notte perché possiate dirgli
addio. Vi rivedrete un giorno. Ci rivedremo tutti, prima o poi.»
Le due anime si trasformarono nuovamente in fiammelle azzurre e si inseguirono oltre la porta. Angelo era tornato.
«Ora non sei stupido come un anno fa,» lo prese in giro il
vecchio. «Quindi ci sono ottime probabilità che tu sia in
grado di attraversare quella porta. Il tuo cosmo è più
potente, così come lo sono i tuoi muscoli. Il settimo senso
è dietro l’angolo, ragazzo!»
Angelo sorrise, compiaciuto del riconoscimento, e seguì in
laboratorio il vecchio, che gli preparò la brodaglia al sapore
di pollo e spezie.
«Che accidenti è questa sbobba?»
«Un aiuto» sogghignò. «Diciamo sciamanico!» gli porse la ciotola.
«E che ci devo fare?»
«Berlo, al resto penserà lui.»
Angelo bevve in due sorsi il liquido, poi fu condotto nuovamente alla
porta. «Ci vediamo tra due minuti.» disse, mentre Al
Zubanah la chiudeva.
Immerso nella semioscurità, diede un leggero colpo con le nocche
al legno. Non sentì niente dietro di lui e immaginò che
il negromante fosse andato via.
«Cane?» chiamò, e la bestia si materializzò davanti a lui. «Tu sei uno psicopompo, no?»
Il cane abbaiò due volte.
«E allora psicopompami fuori da qui.»
Il flebile chiarore che emanava il cane, rischiarava le pareti di
roccia. Lo seguì come il cane aveva fatto con lui in vita, e
oltre. Giunsero al bivio. Un anno prima era rimasto attaccato alla
parete, prendendo il sentiero di destra; il cane svoltò a
sinistra. La galleria era lunga, negli ultimi cento metri, la
pendenza era così marcata da costringere il ragazzo a scendere
di lato, come un granchio. La roccia era scivolosa, avvertì
qualcosa di più viscido della roccia bagnata sotto il piede e
perse l’equilibrio, scivolando in avanti a battendo il fianco
esterno della coscia sinistra.
«Ma dai!!» gridò. «Sono caduto come una bambina!»
Si sollevò poggiandosi alla parete rocciosa. Il cane si sedette. Davanti a lui l’intersezione di molti cunicoli.
«Beh? Dove si va, adesso?» gli domandò.
Cane abbaiò, Angelo sollevò una mano per accarezzarlo. La
sua mano sfioro il pelo e un tenue fumo azzurro-grigio si
sollevò dal punto di contatto. Cane svanì in una nuvola.
La sua essenza si divise ed entrò in ogni cunicolo.
«Che accidenti succede?» spaventato, Angelo, si
guardò freneticamente intorno. Il suo sguardo saettò da
un’apertura all’altra, ma non seppe scegliere in quale
entrare.
Si sedette nel punto in cui si era accucciato l’animale e
squadrò con maggior attenzione e tranquillità le
possibilità che aveva.
Ripensò alla discesa. “Sotto questa lava c’è il Tartaro”.
Si accorse che il pavimento era tiepido. Controllò, poggiando i
palmi, la temperatura della strada davanti a ogni galleria. Scelse di
proseguire lungo la più calda di tutte.
Scese ancora in profondità, finché non sbucò in
una grotta. Era davanti a un lago di magma che ribolliva. La pelle
scottava, il sudore gli colava lungo la fronte, il collo e la schiena.
Le braccia erano avvolte da una patina di bagnato.
«E adesso?» si chiese. «Io devo uscire, non devo arrivare al centro della Terra!»
Sputò nella lava, osservò la saliva nebulizzarsi e svanire prima del contatto.
Si trovava su uno spuntone di roccia, sembrava non esserci nessun
passaggio, niente che lo potesse condurre oltre il lago. “Il
settimo senso è dietro l’angolo”.
Fino a quel momento, era stato in grado di raggiungere il settimo senso
solo due volte, entrambe per caso. Non sapeva bene come raggiungerlo
un’altra volta, soprattutto con coscienza di farlo.
L’addestramento verteva su quello. «Maledetto vecchiaccio,
non mi ha insegnato niente di utile!» sbottò. Ripercorse i
suoi passi, cercando il punto in cui si dipanavano le grotte.
Camminò a lungo, macinando molta più strada di quanta ne
avesse percorsa all’andata, ma del punto di partenza non
c’era traccia.
Fece nuovamente la strada a ritroso, tornando davanti al letto di magma.
«D’accordo,» mormorò. «Indietro non si torna.»
Dal soffitto, pendevano numerose stalattiti. Una di esse, quasi al centro del lago, sembrava penetrare dentro la lava.
«Quella non c’era prima.» osservò Angelo,
chiedendosi se quel nuovo elemento non fosse la risposta che cercava.
Comprese di trovarsi in un luogo vivo, in grado di cambiare
aspetto.
Arse il cosmo e il caldo si fece meno opprimente. Spiccò un
balzo e si aggrappò alla stalattite più vicina, poi
saltò su un’altra, fino ad arrivare al centro.
Avrebbe dovuto saltare più lontano, ora. Dall’entrata la
distanza tra quelle due stalattiti gli era sembrata inferiore. Si
sporse, sempre abbracciato alla roccia, riuscì a puntellare un
piede e si diede lo slancio necessario. Afferrò la stalattite
centrale, che svanì sotto il suo tocco, facendolo precipitare
nella lava.
Arse il cosmo più che poté e chiuse gli occhi,
rannicchiandosi in posizione fetale durante la caduta, incrociando le
braccia attorno alla testa.
Aspettava il contatto con il magma, presentiva il dolore che gli
avrebbe causato. Immaginava la sua pelle accartocciarsi e bruciare,
lasciando esposti i muscoli, poi le ossa. Avrebbe smesso di esistere
lì, in una bolla di lava nel cuore dell’Etna. Avrebbe
preferito qualcosa di diverso, magari morire al Santuario.
Sentiva il corpo avvolto da uno strano tepore, completamente diverso da
quello del magma. Vinto dalla curiosità di vedere cosa gli stava
accadendo, spostò le braccia e aprì un occhio. Era
completamente immerso nella lava. Un arancione brillante abbracciava
completamente il suo campo visivo.
Sono già morto? Si guardò i palmi delle mani, poi i dorsi. Sorrise e aprì anche l’altro occhio. No, non vedo attraverso. Fece una capriola e con un rapido guizzo cambiò direzione, cercando l'uscita dal lago. Un momento, devo respirare! Combattè contro l’impulso di inspirare. Non posso respirare lava!
Si tappò il naso con due dita e strizzò gli occhi. Se non
voleva morire davvero, avrebbe dovuto lasciar fare al suo corpo, ma non
era intenzionato a farlo.
Qualcosa lo stava proteggendo, gli fu ovvio in quel momento. Ma cosa?
Nuotò per risalire, una volta fuori avrebbe potuto respirare.
Per quanto nuotasse, per quanto le sue bracciate fossero poderose, non
raggiunse la superficie, che sembrava allontanarsi.
Non riuscì più a trattenere il riflesso di dilatare i
polmoni e vinto dall’istinto, aprì la bocca e
respirò.
Non accadde niente, poteva respirare. Decise di essere rimasto a mollo
nella lava fin troppo a lungo. Era arrivato il momento di uscire,
trovare il vecchio e fargli passare la stessa esperienza. Si
concentrò. Il cosmo, forse, lo avrebbe aiutato a trovare la
strada giusta.
L’arancione lasciò il posto al nero. Miriadi di stelle
puntellavano l’oscurità e lui si sentiva risucchiato verso
un punto preciso. L’universo scorreva attorno a lui come un fiume
in piena. Stelle, pianeti, nebulose gli sfrecciavano accanto. Sono io a muovermi!
Giunse dinnanzi a un’ammasso stellare, gigantesco. Attorno a lui,
presero a vorticare un’infinità di fuochi fatui. Gli
girarono attorno e si diressero verso quelle stelle disposte come se
fossero una porta.
«Sekishiki...» sussurrò.
Le anime si bloccarono. Il tempo sembrò fermarsi.
«Mekai Ha!» urlò a pieni polmoni.
Un vortice si formò nel punto in cui le stelle erano più
vicine e s’ingigantì. Angelo vi saltò dentro,
seguito dalle anime.
Aveva piegato lo spazio e il tempo, creando un passaggio verso
l’Aldilà. Un terreno brullo e grigio si distese sotto di
lui. Una rupe scoscesa a un fianco, una profonda voragine
dall’altra. Riconobbe il luogo in cui era già stato. Vi
aveva condotto i genitori una volta.
Riconobbe una bambina. Lo aveva tormentato in sogno, mentre si dirigeva
verso la dimora del negromante molto tempo prima. Poco distante
c’era il vecchio, assieme a lui l’uomo precipitato nel
dirupo. Si avvicinò al trio e li invitò a seguirlo fino
alla voragine.
«Potete andare.» disse loro, ma bambina - spaventata - iniziò a piangere.
Angelo si avvicinò e la prese in braccio. La consegnò al
giovane, che si tuffò nel baratro stringendola a sé. Il
vecchio li seguì subito dopo.
Diede il nome alla voragine nel momento in cui il corpo del vecchio scomparve alla sua vista. «Yomotsu Hirasaka.»
Ripensò al laboratorio del negromante, chiuse gli occhi. Li
aprì e si trovò sospeso a mezz’aria sul tavolo da
lavoro. Precipitò sugli alambicchi.
«Dannazione! Perchè questa roba è qui?» urlò.
«Io vorrei sapere perchè tu sei qui invece!» gli
rispose Al Zubanah, mettendosi le mani tra i pochi capelli rimastigli
in testa.
Angelo si guardò intorno, comprese quello che aveva fatto e un
ghigno vittorioso gli si disegnò sul volto. «Ho superato
la prova!»
Il negromante si avvicinò al calendario e cerchiò il
giorno. I giorni precedenti erano segnati con una croce. «Grande
invenzione i calendari, non trovi?» gli disse.
Angelo spostò lo sguardo a destra e a sinistra. Poi di nuovo a
destra e poi sul negromante. «Ehm, sì. Aiutano a contare i
giorni» rispose. Si sedette sul tavolo. «Mi spiace per
questo.» Sollevò la spirale dell’alambicco.
«Nove giorni.»
«Eh?»
«C’hai messo nove giorni a uscire dalla porta.»
«Ma se saranno passate al massimo, ma esagerando eh, due ore!»
«Ti sembra. In realtà, sono trascorsi nove giorni. Vedo che sei solo.»
«Siamo solo io e te, qui. Con chi avrei dovuto essere?»
«Avevi un cane.»
«È svanito quando l’ho toccato.»
«Oh. Bene.»
«Ora che si fa? Il settimo senso l’ho raggiunto e mantenuto
per nove giorni, direi di essere stato straordinario, senza falsa
modestia.»
Al Zubanah raccolse il bacile di rame sul quale aveva da poco
incastonato l’apparato di vetro dell’alambicco ormai in frantumi. Lo
soppesò in mano, lo lanciò in aria, lo afferrò e
lo scagliò sulla faccia del discepolo. «Zuccone! Il
settimo senso lo hai raggiunto per un’ora e ventisei minuti, cosa
credi di avere fatto? Stupido! Il fatto che in quella grotta il tempo
scorra più velocemente rispetto al mondo reale, significa che il
tuo progresso è stato ridicolo. Ora devi imparare a viaggiare da
qui, dal nostro mondo.»
L’allegria di Angelo svanì. «Quindi è come se avessi fatto niente?»
«Esattamente. Il tuo mondo di appartenenza è questo. Puoi
andare dall’altra parte quando ti pare, ma devi imparare a
farlo.»
«E come?»
«E che ne so io.»
«Ma sei il mio maestro! Se non lo sai tu chi deve saperlo?»
Il vecchio, raccolse il fornello.
«E non provare a lanciarmelo!» intimò Angelo.
«Sei lento di riflessi, pischello. Vedi di rimediare. Da domani
ti sottoporrò a un allenamento molto più duro. Hai grande
potenzialità, ma sei pigro e ti accontenti del minimo. Devi
aspirare molto più in alto.»
«Aspiro a essere un cavaliere d’oro.»
«Non basta! Devi aspirare a qualcosa di più grande.»
«Un dio?»
«Perchè no? Gli dei possono tutto. O quasi. Un cavaliere
d’oro può tanto, ma niente di paragonabile a un
dio.»
«Ho sentito di cavalieri d’oro che hanno sconfitto gli dei! La conosci la storia di Manigoldo?»
«Conosco? Ho fatto molto di più! Io ho vissuto la storia
di Manigoldo prima che Manigoldo facesse quello che ha fatto! Sono
stato suo discepolo.» concluse.
L’espressione di Angelo mutò. Non aveva più dubbi,
quell’uomo era completamente pazzo. «Tu vuoi farmi credere
di aver conosciuto Manigoldo? Di avere duecento anni?»
«Duecentocinquantanove. Per essere precisi.»
«Ne dimostri mille!»
«Conosci un altro bicentenario, cosa ti sorprende?»
«E chi?»
«Il Gran Sacerdote, uno dei due sopravvissuti alla Guerra Sacra del diciottesimo secolo.»
Angelo si sentì uno stupido.
«Andiamo ad allenarci.» disse. «Ma prima sistema questo macello.»
Sparì oltre la porta. Angelo si sentì piccolo e debole.
Il progresso che aveva fatto gli sembrò una minima cosa.
Due anni dopo, Angelo aveva adottato un soprannome.
«Lo hanno detto le stelle.» sostenne quando Al Zubanah gli
domandò come mai un soprannome così curioso.
«Ah, se lo hanno detto le stelle... scommetto che si tratta di una previsione!» ridacchiò fino a farsi venire un brutto attacco di tosse.
«Piuttosto, sei pronto a partire?»
Il ragazzo annuì.
«Verrò per il torneo.» concluse il vecchio.
«Davvero hai conosciuto Manigoldo?»
«Sì, sono stato suo discepolo per ben due giorni.»
asserì con orgoglio. «Poi è morto. Cerca di non
fare la sua fine il giorno del torneo o inizierò a pensare di
portare sfortuna. Salutami i tuoi.» Voltò le spalle al
ragazzo e questi si teletrasportò fuori dal dedalo di gallerie e si
volse indietro per osservare l’entrata di quella che era stata la
sua casa per tre anni. Due fiammelle gli vorticarono attorno.
Ormai avvezzo alla loro vista sorrise. Avrebbe dato loro la pace
eterna, ma prima che potesse sfiorarle queste presero le sembianze di
due persone che un tempo aveva conosciuto bene. La madre e il padre gli
sorrisero e lo abbracciarono, facendo in modo che fosse il loro bambino
a condurli finalmente nel luogo al quale appartenevano. Una lacrima
scese lungo il viso di Death Mask.
Levò lo sguardo verso l’entrata della stramba dimora di Al Zubanah, ma era svanita.
«Vecchio, pazzo e rincoglionito.» sentenziò.
Bruciò il cosmo e apparve dietro una colonna divelta, davanti
all'ingresso del Santuario, in mezzo a un'orda di turisti vogliosi di
souvenir e fotografie.
___________
È giunto il momento degli addestramenti! Da ora in poi, fino al
ritorno in Grecia, ci sarà un capitolo per ogni gold saint.
Volevo iniziare con Mu e andare in ordine zodiacale, ma poi i fan dei
custodi degli ultimi templi avrebbero avuto da ridire, così ho
deciso che sceglierò a caso e caso vuole che il mio preferito
sia Death Mask, che di conseguenza è stato il primo sfigato. Se
siete interessati a leggere un capitolo prima di un altro, potete
comunicarmelo mandandomi un messaggio o scrivendolo in recensione se
avete intenzione di recensire.
Grazie di cuore a chiunque legge, recensisce, inserisce qui-lì-là.
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