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Autore: Tsukuyomi    21/04/2011    5 recensioni
Salve a tutti! Finalmente prendo coraggio e pubblico.
Questa fanfic mi ronza in testa da tanto di quel tempo che ormai si scrive da sola.
Per il momento avrete sotto agli occhi dei futuri Gold Saint, ancora bambini e innocenti (più o meno), alcuni ancora non si conoscono e altri sì, alcuni sono nati nel Santuario e altri no, alcuni dovranno imparare il greco e, di qualcuno, non si sa per quale recondito motivo, non si conosce il nome. Spero che apprezziate. La storia è ambientata ai nostri giorni, per cui, le vicende conosciute avranno luogo nel futuro.
Genere: Comico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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23. Addestramento di DM Tornato in Sicilia, la nostalgia e la curiosità avevano avuto la meglio su di lui; perciò  prima di scalare l’Etna e recarsi nel luogo che le stelle gli suggerivano di raggiungere, aveva deciso di cercare la sua vecchia casa, solo per vedere se le cose erano cambiate. Non si sorprese più di tanto nell'apprendere che niente era più come lo ricordava. La tenuta era diversa e ospitava una nuova famiglia: il pollaio era stato abbattuto per far posto a un rigoglioso prato all'inglese, che si estendeva per buona parte della tenuta fino al primo filare di piante da frutto. Quegli alberi non c'erano, e quelli che invece ricordava bene, come il salice sotto il quale aveva sepolto il cane, erano svaniti.
La casa era stata ingrandita e le era stato cambiato il colore; la vite canadese iniziava ad arrampicarsi lungo la facciata e nel giro di pochi anni forse avrebbe ricoperto la casa intera. Non era più casa, e fu l'unico pensiero che fu capace di formulare.
Indeciso su cosa provare, decise di risalire la montagna. Sentiva di dover costeggiare un pigro fiumiciattolo ingrossato dalle piogge, attraversare il bosco che vedeva arrampicarsi sui costoni in lontananza, forse avrebbe dovuto guadare qualche fiume più grande e più agitato, magari avrebbe dovuto evitare di essere investito da una probabile eruzione, recarsi nei pressi della gola dell'Etna e lì, forse, avrebbe trovato colui che cercava e che lo avrebbe addestrato a cavaliere.
Dopo poche centinaia di passi, affrontati con rabbia, rallentò l'andatura a causa di un fastidio all'addome che andava aumentando. Ebbe l’impressione che qualcuno gli stesse infilando una mano in bocca e cercasse di rivoltargli lo stomaco dall’interno. Le gambe non riuscirono a reggerlo e si piegarono a metà di un passo, le ginocchia si schiantarono sulla terra battuta e avvertì la gola bruciare. Vomitò, preda di conati tanto forti da levargli il fiato. Rimase piegato su se stesso finché lo stomaco non fu completamente vuoto. Con la vista annebbiata dalle lacrime e la gola in fiamme, infilò la testa sotto il pelo dell'acqua.
«Che diavolo è successo? È cambiato tutto.» mormorò. Infilò la testa ancora un’altra volta nel fiume e poi si lasciò cadere all’indietro.
Seduto nel fango, scrutò con attenzione ciò che lo circondava. Si sentì truffato dai ricordi; ricordava così bene quell’albero, e il giorno in cui aveva scavato quella buca assieme al padre. Era così dispiaciuto di aver perduto quel compagno di giochi. Si domandò se non si fosse inventato tutto. Pensò anche di aver sbagliato tenuta, magari la casa che tanto lo aveva turbato era quella di qualcun'altro, e la sua giaceva immobile nel tempo ad aspettare il suo ritorno. Si diede dello stupido, sapeva bene che quella casa era stata la sua. Chissà se il corpo di Cane era ancora sotto quell'albero o se assieme alle radici erano state tolte anche le ossa.
Scavò a fondo nella memoria e ricordò di averlo avuto davvero un cane, non se lo stava inventando e per  la prima volta sentì la mancanza di ciò che aveva conosciuto.
Non gli era mai importato troppo né dei genitori né del cane, tantomeno della sua casa e della proprietà, del fiume e della campagna, ma ora che niente era rimasto a testimoniare quel passato, si accorse di quanto fosse lacerante quel cambiamento. La gola attanagliata in una morsa stretta, i muscoli del viso che si contraevano da soli finché non avvertì il tepore della prima lacrima.
La seconda lacrima scese quando infilò la mano nella borsa per cercare la foto che Miach aveva maldestramente rimesso insieme col nastro adesivo. Guardò il volto materno sorridergli dalla carta.
«Mamma...» sussurrò.
La terza scivolò lungo il naso quando afferrò la fotografia con entrambe le mani, sul margine superiore. La quarta quando la strappò.
Infilò una mano nel fango e ne sollevò un pugno. Poi un altro ancora. Adagiò i pezzi della foto nella melma e la ricoprì. «Sono solo.» si disse.
Si alzò in piedi e asciugò le lacrime con il dorso della mano, sporcandosi il viso.
Riprese la sacca, la buttò sulle spalle e si incamminò trascinando i piedi. Gli mancavano le forze, per quanto si sforzasse di procedere, avvertiva una forza misteriosa trattenerlo a valle. Forse non aveva tutta la forza che credeva di avere, il pugno a Leurak e l'aver portato via l'elmo a Joao non erano più imprese tanto grandi a ripensarci. Le lacrime avevano continuato a cadere, finché le ultime, le più lente, non si erano asciugate sulla pelle. Sì, era debole. Debole, debole, debole.
Procedette trascinando i piedi, assorbendo la coscienza della sua nuova condizione: era solo, davvero solo. Completamente solo e terribilmente debole. Tanto debole da voler negare a se stesso di esserlo.
Attraversò la valle e arrivò finalmente alle pendici dell'Etna. Levò lo sguardo alla ricerca della cima nascosta dalle nuvole e - probabilmente - dal fumo del vulcano.
Si voltò indietro, replicando l'errore dell'Orfeo mitologico. Ora la sua vecchia casa era lontana, non l’avrebbe più vista e non gli avrebbe più ricordato cose spiacevoli. Quindi, forse, avrebbe potuto fare in modo che anche la sua debolezza rimanesse lontana, almeno il tempo necessario per trasformarla in forza. E la solitudine sarebbe diventata un'arma potente.
Sentì abbaiare e gli venne naturale girarsi e guardarsi attorno per cercare il cane. Forse quella zona era più popolata di quello che sembrava, forse c'era un gregge nelle vicinanze e se c'era una gregge, c'era un cane pastore che lo avrebbe attaccato se ritenuto una minaccia. L’abbaio era lontano e veniva dalla montagna; si mosse incontro all’animale. Lo avrebbe zittito lui se avesse insistito con quel verso.
Percorse quasi un chilometro. Il suono che percepiva era sempre uguale, non si era avvicinato e non si era allontanato; sembrava quasi che si spostassero assieme.
«Dove sei, bestiaccia?» ringhiò, carico di voglia di far male e riversare su qualcosa il dolore che provava.
Gli parve di scorgere una sagoma con la coda dell’occhio e si voltò di scatto, ma non vide niente. Eppure l’animale era vicino; riusciva a sentirlo chiaramente. Chiuse gli occhi e si concentrò su quel verso. In quel modo, gli sembrava di poterlo vedere. Era uguale a quello che aveva avuto anni prima.
Riaprì gli occhi e si guardò intorno. Una fiammella azzurra gli vorticava attorno alla testa, per poi procedere a zigzag e fermarsi di scatto. Angelo aprì la mano perché il piccolo fuoco vi si poggiasse e quando avvenne il contatto, ci fu un’esplosione di luce.
Il cane era lì, etereo e privo di consistenza, ma con i tratti di un tempo. Saltava invitando il ragazzo a giocar: fece un giro su se stesso per mordersi la coda, saltò e batté le zampe anteriori sul terreno.
«Cane!» esclamò Angelo, aprendogli le braccia, come quando faceva anni prima. Allora il cane gli poggiava le zampe sulle spalle e lo faceva cadere.
La bestia non rispose come di consueto al richiamo: si limitò ad avvicinare il muso alle dita ella mano destra e tentare una leccata, ma la lingua del cane passò attraverso la mano.
«Sei venuto per accompagnarmi? Bene, andiamo!»
Tenne lontana dalla mente ogni domanda su come fosse possibile la presenza del cane. Se avesse evitato di porsi delle domande, se quelle domande non avessero avuto risposta, poteva significare che non era così solo come pensava. Era vero che i segni del suo passato erano stati cancellati, ma la presenza di Cane era reale per lui. Lo vedeva e lo sentiva. Se Cane camminava al suo fianco e si mordeva la coda, non era più solo.
Il cane lo precedette di qualche passo trotterellando, e assieme si dinoccolarono tra sentieri battuti e passaggi scoscesi.
Al tramonto, Angelo pensò fosse il caso di fermarsi. Si addentrò nella foresta e cercò un riparo. Trovò delle grosse rocce ammassate tra gli alberi, tra di esse c’era spazio sufficiente a ospitarlo. S’intrufolò lì in mezzo e si sedette, Cane si accucciò ai suoi piedi. Si addormentarono subito.
Ebbe molti incubi durante la notte, rivisse il suo passato, poi morì una bambina, affogata nelle acque in piena di un fiume lontano, che stringeva la mano di un vecchio morto da solo nel suo letto, che camminavano diversi metri avanti a un uomo caduto in un burrone. Dopo l’ennesimo incubo, in cui la vita di perfetti sconosciuti gli si dipanava davanti per poi, per poi unirsi al ricordo di quella vista in precedenza, aprì gli occhi di scatto. Il cuore pompava all’impazzata, la fronte era umida di sudore così come gli abiti e aveva i brividi. Uno sciame di lucciole gli danzava attorno seguendto traiettorie semicircolari. Chiuse gli occhi e li riaprì, pensando di dormire ancora.
Non erano lucciole, ma fuochi fatui, e ognuno aveva una storia da mostrargli. Cane era sparito.
Senza aspettare l’alba, Angelo si rialzò in piedi e si rimise in marcia.
Camminò nel bosco, il sentiero rischiarato dalla luce emessa dai fuochi fatui che continuavano a vorticargli attorno.
Al sorgere del sole, i fuochi svanirono. Non li vedeva più eppure continuava a sentirne la presenza, li dove fluttuavano l’aria era più densa ed elettrica. Respirava affannosamente, con la sensazione che la gravità fosse maggiore, eppure non si fermò, procedette per tutta la giornata, nutrendosi in marcia con i frutti che vedeva. Poco prima del tramonto giunse quasi alla cima della montagna. Non sapeva quanti chilometri avesse percorso, ma si trovava sopra le nuvole che il giorno prima gli avevano precluso la vista della cima del vulcano. Non vedendo la valle, non sapeva dire di quanto fosse salito, benché avesse la sensazione di aver raggiunto la luna per quanto aveva marciato.
Trovò una grotta, ampia e scura, che si apriva su una parete rocciosa. La parte che circondava l'apertura era liscia e levigata, granito che sembrava lavorato, e più ci si allontanava più la levigatura diventava grossolana, fino a scomparire del tutto. In quei punti il granito era misto al nero basalto.
Angelo si avvicinò all'entrata e appena fu davanti, Cane riapparve sulla soglia, fece un giro su sé stesso nel tentativo di azzannarsi la coda e corse dentro. Senza farsi pregare, Angelo lo seguì.
Pochi metri dopo l’apertura, un dedalo di gallerie si dipanava verso l’interno del vulcano. Scorse una debole luce brillare nel punto in cui si dirigevano, quando furono vicini Angelo si rese conto di essere giunto in un’altra grotta. La volta di granito era ampia e abbracciava quel posto strano. Procedette fino ad arrivare in un'altra grotta, buia.
«Bene arrivato, ragazzo.»
Si accese un lume davanti a lui, retto da un vecchietto ricurvo che gli sorrideva mostrando la mancanza degli incisivi superiori.
«Ce ne hai messo ad arrivare.» continuò. «Hai fame?»
Angelo si guardò intorno. Pile di libri e torce spente. Due teschi umani, uno sul pavimento e uno sopra un libro.
«Sei muto?»
«No, signore.»
Il vecchietto rise. «Due giorni di viaggio per arrivare da Atene. Gli aspiranti non sono più quelli di una volta.» si diresse verso un cunicolo. «Seguimi.»
Camminava ricurvo e lento, trascinando i piedi; lo condusse in un’altra grotta, più piccola e  illuminata.
C’erano diversi tavoli di legno, artigianali, disposti lungo il perimetro della sala, che reggevano complesse strutture di alambicchi e ampolle.
«Che razza di posto è questo?» domandò Angelo, guardandosi intorno, indeciso se scoppiare a ridere per le stranezze o attaccare.
«Il mio laboratorio.»
«E cosa sei, un dottore?»
Il vecchio rise. Portò una mano al ventre e lo tenne stretto mentre le risate lasciavano il posto a una tosse convulsa.
«Oh, che ridere.» mormorò Angelo. «Risate senza fine...»
Il vecchio si riprese. Estrasse un pezzo di stoffa dalla manica, soffiò il naso e lo rimise a posto. «Sono un negromante, figliolo. Puoi considerarmi un dottore di anime. Un guaritore forse!»
«Che stai blaterando?»
«Se sei qui, significa che le vedi! Che sei capace di guardare oltre la vita, oltre quel sottile confine che separa il mondo degli uomini da quello degli spiriti. Saprai anche attraversarlo, immagino.»
Angelo incrociò le braccia al petto. «Non so di cosa stai parlando.»
Il vecchietto rise ancora.
«Che cazzo avrai da ridere tanto.»
«Come ti chiami, ragazzo?» 
«Angelo. Angelo Salvatore.»
L’uomo, nell’udire il nome del ragazzo, cominciò di nuovo a ridere. «Ridicolo.» concluse.
Angelo aggrottò le sopracciglia. «Se hai finito, puoi anche iniziare con l’addestramento.»
«Non ti si addice questo nome.»
«Lo penso anche io, ma non credo di poterci fare molto.»
«Puoi cancellarlo!» disse sollevando l’indice in alto. «Vieni con me, ti mostrerò una cosa.»
Lo condusse nell’angolo più lontano dall'entrata della sala, gli fece spostare un tavolo. Sotto di esso si trovava una botola chiusa con un coperchio di legno, con le pareti di roccia scendere in profondità e confondersi col buio. Era stretto.
«Passaggio segreto?»
«Zitto, zuccone! Ti ho detto di seguirmi, non di domandare. Impara a rispettare gli ordini.»
Angelo sussultò. Il vecchietto rise ancora. «Ci cascate tutti! Oh, beata e ingenua giovinezza!»
Il vecchio serrò gli occhi e iniziò a brillare di una luce viola e rosata. Avvicinò la mano e sulle pareti apparvero i pioli di una scala. Si calò all’interno del pozzo, sedendosi sul bordo opposto, e si lasciò cadere, solo allora afferrò il primo piolo. Angelo fece lo stesso, ma il pozzo era troppo stretto e ad ogni movimento sbatteva i gomiti contro la roccia dietro di lui, e le ginocchia contro i pioli. Attese che il vecchietto fosse lontano e quando pensò che fosse arrivato, lasciò la presa sul piolo per poi afferrare uno di quelli successivi, facendo così brevi cadute.
Arrivati in fondo, il vecchio scoccò le dita e si accesero due lunghe file di torce ancorate alle pareti. Fiamme azzurre illuminarono la grotta.
«Queste sono anime dei morti.» disse, aprendo le braccia. «Ciò è quello che i morti possono ancora fare nel mondo dei vivi! Ti sembrerà poco, ma non lo è. Gli spiriti non appartengono a questa realtà, a questo mondo, ma molti di loro sono tanto forti e soffrono a tal punto che non riescono ad andarsene. Restano qui, in attesa che i loro patimenti vengano alleviati.»
«Che cosa c’entra con il mio nome?»
L’uomo portò una mano alla fronte e si massaggiò le tempie.
«Figliolo, hai la stessa intelligenza di questo basalto! Se questi spiriti possono oltrepassare la linea dello spazio e del tempo a loro piacimento, cosa vuoi che sia per te cambiare nome? Sono vivi pur essendo morti!»
«Allora? Cosa dovrei fare? Suicidarmi e cambiare nome?»
«Per Atena! Che male ho fatto? »
«Senti, vecchiaccio. Sono qui per essere addestrato a cavaliere e non per ascoltare le tue cazzate su morti e affini. E poi chi accidenti sei?»
«Al Zubanah!» rispose. «Negromante. Tuo maestro e dio in terra. Credevo di avertelo già detto.»
Tornarono in superficie, e quando il tavolo fu rimesso a posto, Angelo domandò quando sarebbe iniziato il suo addestramento.
«È già iniziato, fanciullo.» rispose il vecchio.
«Beh, io non mi sento più forte di prima.»
Il maestro si incamminò lungo un corridoio, le pareti erano ricoperte di muschio, il pavimento era scivoloso e riluceva al chiarore delle torce, condusse Angelo in un altro cunicolo e da lì lo portò fino a una sala chiusa da una porta di legno marcescente, con inserti in ferro arrugginito. La roccia era stata scavata lasciando quella che sembrava essere una culla.
«Dovrai cercarti del pagliericcio o dormire sarà più scomodo del necessario, a meno che non ti piaccia così.» gli disse indicandogliela. «Pensa al tuo nuovo nome nottetempo.» Ridacchiò, chiudendosi la porta alle spalle.
Angelo gettò la sacca sul pavimento e si guardò attorno. Non c’era niente se non quella sorta di rialzo di roccia scavata. Raccolse la sacca, si coricò e la adagiò come cuscino. Era dannatamente scomodo. «Mi sembra di essere in un sarcofago» si disse.
Il suoi pensieri, poi, volarono veloci, riportandogli alla mente la strada da poco percorsa e tutti quei fuochi. Era sollevato di non averne più visto neanche uno dall’accensione di quelle strane torce spirituali. Ripensò al cane e ai genitori, agli alberi e al fiume, al Santuario e ai maestri, agli amici con cui aveva siglato promesse più o meno tacite e scivolò nel sonno.
Il giorno dopo, il vecchio lo svegliò portandogli una scodella contenente un liquido giallastro e puzzolente.
«Che roba è?» domandò storcendo il naso.
«La colazione. Zitto e mangia.»
Obbedì e in pochi sorsi la svuotò. Il sapore non era cattivo come l’odoreaveva lasciato presagire. Somigliava a brodo di pollo aromatizzato con qualche erbaccia che non seppe riconoscere.
«Per ognuna di queste che consumerai, dovrai fare un progresso o ti getterò nella lava e riderò mentre ti contorcerai durante il primo istante, e guarderò la tua carne bruciare e consumarsi.»
Angelo lo guardò sollevando un sopracciglio. «Attento che non sia io a gettarti dentro la lava, vecchio.»
L’uomo sorrise, mostrando il buco tra i denti anteriori. «Mi piaci, ragazzino. Ora andiamo.» e lo condusse di nuovo attraverso la botola, accese le torce con lo schiocco delle dita e seguì la scia luminosa fino a una porta.
«C’è puzza di uova marce.» osservò Angelo, arricciandoi il naso con fastidio.
Il vecchio fece scattare il chiavistello. e la porta si aprì lentamente, mostrando una sala  illuminata da rocce che isolavano una sorta di piscina al centro della sala stessa. Erano vagamente fluorescenti e brillavano di luce propria. L'ambiente così rischiarato era rilassante, peccato per la puzza, pensò Angelo. Lungo le pareti scorrevano numerosi rivoli d'acqua che andavano a gettarsi nella piscina centrale.
Al Zubanah si tolse la tunica e si immerse.
«Certo che sei ridotto male, vecchio.» Angelo rabbrividì nel vedere il corpo del maestro.
Numerose cicatrici disegnavano sull'intero corpo un reticolo chiaro, la pelle rugosa sembrava essere un sacco troppo grande per il contenuto, eppure Angelo, guardandolo ebbe l’impressione che in gioventù dovesse aver avuto un fisico imponente e muscoloso.
«Sono più giovane di quello che immagini e più vecchio di quel che pensi.» gli disse, ridacchiando. «Entra anche tu.» e s’immerse fino alla gola.
Angelo si spogliò, lanciando i vestiti vicino alla porta ed entrò. Al Zubanah gli andò vicino, prima che s’immergesse del tutto, e gli afferrò un braccio. Lo avvicinò al volto e passò un dito sulla pelle tesa dell’avambraccio, saggiando la durezza del muscolo sottostante. Gli prese le spalle e affondò le dita ossute.
«Girati.» disse, lasciando andare la presa.
Osservò con cura la schiena e tastò la scapola destra con un dito, dopodiché lo lasciò andare.
«Con il giusto addestramento dovresti riuscire a sviluppare un’ottima massa muscolare. Hanno fatto un buon lavoro al Grande Tempio.» disse. «Ma non sei al massimo delle tue potenzialità. Hai un petto ampio che può essere sfruttato.»
«Finita la visita?» domandò Angelo con fastidio.
Il vecchio rise. «Mi ucciderai, un giorno o l'altro.»
Quando il bagno fu finito, Al Zubanah condusse Angelo ancora più in profondità, aprì una porta e lo spinse dentro, chiudendola immediatamente.
«Ehi vecchio, fammi uscire!» Udì solo risate oltre la porta. «Mi hai sentito? Ti ho detto di farmi uscire!»
«Uscirai quando sarai pronto.»
Angelo sferrò un calcio frontale nel punto dove c’era il chiavistello, che scricchiolò. Ne sferrò un altro, ma la porta non scricchiolò.
«Usa il cervello, ragazzo! Questa porta non cadrà con un calcio; neanche con cento!» ridacchiò il vecchio.
«Perchè mi hai chiuso qui dentro?» gridò.
«Che domande, per farti uscire! Mi sembra ovvio.»
Angelo colpì la pesante porta con una scarica di pugni, ogni colpo era più forte del precedente e si ferì presto le nocche. Il sangue colò lungo il legno fino al pavimento. Il rumore dei pugni aveva coperto quello che Al Zubanah gli diceva dall'altra parte. La porta non sarebbe caduta, esattamente come gli era stato detto.
«Sei pazzo! Come faccio a uscire se non mi apri?» urlò ancora una volta.
Al Zubanah rise di cuore. «È quello che dicono in molti. Trova il modo per uscire da lì e io continuerò il tuo addestramento, figliolo.»
Una strana sensazione s'impadronì del ragazzo, che avvertì il torace appesantirsi e il respiro spezzarsi, come se avesse qualcosa sopra. Un sentimento simile alla disperazione cercava di rubargli la ragione, ma la contrastò, impedendosi di iniziare a scoppiare a piangere.
«E se non dovessi riuscirci?» balbettò.
«Morirai.» rispose laconico il vecchio. Poggiò una mano sulla porta. «Non cedere alle loro lusinghe. Non farti rapire.»
«Lusinghe?» domandò. «Di chi? Quali lusinghe?»
Non ottenne nessuna risposta. Frustrato, tirò altri calci alla porta, poi una serie di pugni, urlando ogni volta che colpiva il legno con una parte ferita. Non sentì più la voce del maestro.
«Quel bastardo se n’è andato. E mi ha lasciato qui!»
Poggiò le spalle alla porta e si lasciò scivolare fino a sedersi. Vide la sua ombra proiettarsi nel raggio di pochi metri, rendendosi conto che l’unica fonte di luce in quel posto era la porta. Si alzò e mosse qualche passo nell’oscurità. Cane ricomparve davanti a lui e abbaiò.
«Fuori dai piedi!» sbottò Angelo, continuando a muoversi a tentoni. Poggiò una mano sulla parete e avanzò lentamente, senza staccarsi. Si bagnò i polpastrelli con la condensa che ricopriva la roccia. Dopo diversi metri sentì il gorgoglio dell’acqua. Cane lo seguiva fedelmente e in silenzio.
Intuì di trovarsi a un bivio, decise di non staccare la mano dal muro e proseguire. Dopo i primi metri percorsi, il chiarore della porta era svanito e non riusciva a vedere niente se non l'azzurrognola trasparenza del cane. Doveva affidarsi esclusivamente ai suoi sensi, facendo leva soprattutto sull'intuito.
Girovagò a lungo, infine si trovò davanti alla porta dalla quale era entrato. Spostarsi non era servito a molto.
«Non c’è niente qui!» urlò e tirò un colpo di palmo al muro. Cane abbaiò due volte.  
«Che accidenti vuoi tu, eh?» sferrò un calcio alla bestia, ma il piede lo attraversò. «Vecchi pazzi, cani morti, che altro mi manca!?»
La porta si aprì appena.
«Sei deludente ragazzo. Divertente, ma deludente.» il vecchio lo fece uscire. Scuoteva la testa a ogni parola.
Tornarono in superficie, nella grotta-laboratorio. Una volta lì, il vecchio fece un segno su un vecchio calendario, cinque giorni più avanti, poi prese un’ampolla contenente un liquido nero che emanava riflessi rossi. Ne versò una goccia dentro un alambicco pieno di un liquido trasparente. La goccia non si sciolse, rimase sospesa a galleggiare nel liquido. Accese un fornello.
Quando il liquido iniziò a bollire, la goccia nera salì di livello, diventando grande quanto un fagiolo e perdendo la forma perfettamente sferica.
«Che fai?» domandò Angelo, curioso.
«Taci.»
Al Zubanah aumentò la fiamma e la goccia si dissolse. Lungo la spirale di vetro dell’alambicco si formarono molte goccioline rosso brillante, che piano piano scivolavano in un bicchiere.
Quando il procedimento fu concluso, Al Zubanah bevve il liquido. «Stanotte, mi assisterai.» annunciò e poi andò via, lasciando il ragazzo da solo nel laboratorio.
Incuriosito, Angelo si avvicinò agli strumenti. Diede un’occhiata rapida oltre la porta, per accertarsi che il negromante si fosse allontanato. Quando fu sicuro di essere solo, prese in mano il bicchiere e lo sollevò in alto e lo guardò in controluce. Il bicchiere era perfettamente pulito e trasparente. Deluso, lo avvicinò alle naricie annusò, ma non sentì nessun odore.
Quella notte, la luna sorse piena e Angelo seguì l’uomo attraverso i cunicoli. Arrivarono in superficie.
«Resta qui.» gli disse Al Zubanah.
Il vecchio sparì tra i cespugli, dopo pochi minuti comparve Cane, che si sedette accanto ad Angelo e aspettò con lui. Il ragazzo lo fissò e il cane abbaiò due volte.
Era trascorsa poco più di un’ora quando il vecchio tornò. Trascinava un cadavere.
«Dammi una mano.» gli disse, prima che Angelo potesse fare domande. «Prendi la parte di sopra che è la più pesante e io sono vecchio e deboluccio ormai.»
Angelo fece passare le mani sotto le ascelle del corpo e seguì le istruzioni che gli dava il vecchio sui cunicoli da prendere. Giunsero in un’altra sala, a metà strada tra la scia di anime e la sala dall'odore di uova marce. Era una stanza piccola e ben illuminata. Al centro si trovava un altare in pietra e vi adagiarono sopra il corpo.
Il vecchio prese poi un grosso coltello e aprì il ventre del cadavere. Infilò una mano ed estrasse l’intestino. Angelo fece una smorfia di disgusto e trattenne un conato. Sentì le guance gonfiarsi, ma riuscì a trattenersi.
Al Zubanah svuotò completamente l’addome, rimuovendo con cura organi e stomaco e riponendoli in un contenitore di pietra.
«Curioso.» disse, spostando lo sguardo dalla cavità ad Angelo.
«Schifoso, piuttosto.» lo corresse.
«Citrullo! Guarda qui!» gli indicò un punto della spina dorsale. «Vedi questa vertebra? Vedi come spunta dal sangue rappreso?»
«Quindi?»
«Quello sei tu!»
«Sarei una vertebra?»
«No, sei un imbecille! Cosa sai di necromanzia, figliolo?»
Angelo ci pensò su. «Niente.» ammise, sollevando le spalle.
«Da non crederci! Che accidenti hai fatto al Grande Tempio?»
«Combattuto.»
«Non impareranno mai. Ti sei chiesto il motivo per cui quel cane ti segua?»
«Mi è affezionato. Era mio.»
«È tuo ancora adesso. E sai che funzione ha il cane?»
«Abbaiare?»
Al Zubanah volse gli occhi al cielo e  mormorò qualcosa. Abbassò il volto e scosse la testa. «Il cane ha la funzione di psicopompo, è un traghettatore di anime.»
«Aspetta un attimo! Mi stai dicendo che sono morto?»
«Oh Atena, mia dea, perchè hai scelto proprio lui? Perchè? Sono sicuro ci fossero tanti bravi ragazzi lì fuori, il mondo è grande, ma hai posato il suo sguardo su questo giovane che non sa neanche dove poggia i piedi. Perché mia dea?»
«Vecchio rincoglionito, vedi di spiegarti.» ruggì. Iniziava a perdere le staffe.
Il vecchio gli si portò accanto, lo prese sottobraccio e lo portò davanti alla roccia. Descrisse un semicerchio con il braccio davanti a lui, e piano piano accorsero centinaia di fuochi fatui. Presero il loro posto sulla roccia e mostrarono la lava ribollire.
«Lava?» domandò Angelo, cercando di sfilare la mano ossuta del vecchio da sotto il braccio.
«L’Etna. Noi siamo al suo interno, ma troppo in alto per poter vedere davvero tutto questo.»
«E allora? Cosa c’entra con la necromanzia, con il cane, e con la vertebra?»
«Sei troppo frettoloso, se non mi fai parlare non saprai mai la storia. La vuoi ascoltare, sì o no?»
«E ascoltiamola, ma vediamo di non perderci parlando di niente.»
«Io non parlo a vanvera. Stai forse dicendo che parlo a vanvera?»
«No, dico solo che ti mancano diversi giorni della settimana e forse qualche rotella.»
«La vuoi ascoltare, la storia? Vuoi addestrarti e tornare in Grecia vincitore o preferisci tornarci ora e farti ridere dietro anche dai sassi? Cosa vuoi?»
«Forza. Nient’altro che pura forza. Una potere tale da schiacciare gli dei.»
«Ora ragioniamo, per cui taci una buona volta o ti ci butto in quella lava!»
Angelo deglutì e decise che in fondo la mano del vecchio non gli dava fastidio, Al Zubanah fissava la lava.
«Allora? Come continua questa storia?»
«Dov’ero arrivato?»
«Non ci credo! Vecchio, mi stai mettendo a dura prova.»
«Prova! Certo! Sotto questa lava, figliolo, giace il Tartaro. Dove riposano i Titani, uno dei tanti luoghi dove i morti si accalcano per entrare nell’Ade e prendere il posto designato.»
«E la vertebra?»
«Ma perchè ti interessa tanto quello stupido osso?»
«Mi hai dato della vertebra e vorrei sapere perchè.»
«Quella che ho eseguito poco fa è un’antichissima tecnica di divinazione. Io pongo una domanda a un cadavere, e osservando come le vertebre spuntano dal sangue semi rappreso sono in grado di dirti il tuo passato.»
«Chiedi a me se ti interessa il mio passato. Cosa vuoi sapere?»
«So già tutto quello che mi interessava sapere, ragazzo. E tu potresti non essere un testimone attendibile, ricorda. »
Angelo si liberò finalmente della mano del vecchio e fece un passo indietro. « Non attendibile? So cosa mi è successo.»
«Sbagli. Gran parte dei tuoi ricordi è modificata e influenzata dalle sensazioni, dalla nostalgia e dal dolore. Dalla vita stessa. Ricorderai un momento triste molto più triste di quello che è stato, sempre che non sia stato tanto triste da essere stato cancellato per permetterti di andare avanti. I cadaveri non mentono, ragazzo. Non mentono mai.»
«E cosa hai chiesto del mio passato?»
«Se hai usato poteri particolari.»
«Sì, li ho usati.»
«Lo so bene.»
«Allora potevi chiedermelo senza dover uccidere quel poveraccio.»
«Non ho ucciso nessuno, io. È stato sepolto stamattina, e ora tu andrai a rimettere il corpo nella sua tomba.»
Angelo si rifiutò. Al Zubanah gli spiegò che si trattava di una prova. Avrebbe osservato i suoi spostamenti da lontano, saggiando così la sua agilità e la sua capacità di muoversi in silenzio.
Avvolsero assieme il cadavere in un lenzuolo, Angelo se lo caricò sulle spalle e uscì.
Due fiammelle celesti vorticarono attorno all’uomo, fino a posarsi sull’altare.
«È lui, vero?»  domandò.
Le fiammelle esplosero in un bagliore bianco, prendendo le sembianze che avevano avuto in vita.
Annuirono.
«Mi prenderò cura io di lui.» disse loro. «Potete andare, ora.»
La donna scosse la testa.
«Vi ha dimenticato. È solo ormai, è solo da tanto tempo. Lasciate che segua la sua strada, ora.»
L’anima si portò le mani al volto, l’uomo le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé.
«So bene che è difficile, ma la vostra presenza non lo aiuterà a essere un uomo migliore di quello che è destinato a essere.»  
L’uomo tese la mano al negromante e scosse la moglie affinché facesse lo stesso. Lei piangeva. Allungò comunque la mano, ma fu Al Zubanah a non accettare.
«Vi lascerò questa notte perché possiate dirgli addio. Vi rivedrete un giorno. Ci rivedremo tutti, prima o poi.»
Le due anime si trasformarono nuovamente in fiammelle azzurre e si inseguirono oltre la porta. Angelo era tornato.

«Ora non sei stupido come un anno fa,» lo prese in giro il vecchio. «Quindi ci sono ottime probabilità che tu sia in grado di attraversare quella porta. Il tuo cosmo è più potente, così come lo sono i tuoi muscoli. Il settimo senso è dietro l’angolo, ragazzo!»
Angelo sorrise, compiaciuto del riconoscimento, e seguì in laboratorio il vecchio, che gli preparò la brodaglia al sapore di pollo e spezie.
«Che accidenti è questa sbobba?»
«Un aiuto» sogghignò. «Diciamo sciamanico!» gli porse la ciotola.
«E che ci devo fare?»
«Berlo, al resto penserà lui.»
Angelo bevve in due sorsi il liquido, poi fu condotto nuovamente alla porta.  «Ci vediamo tra due minuti.» disse, mentre Al Zubanah la chiudeva.
Immerso nella semioscurità, diede un leggero colpo con le nocche al legno. Non sentì niente dietro di lui e immaginò che il negromante fosse andato via.
«Cane?» chiamò, e la bestia si materializzò davanti a lui. «Tu sei uno psicopompo, no?»
Il cane abbaiò due volte.
«E allora psicopompami fuori da qui.»
Il flebile chiarore che emanava il cane, rischiarava le pareti di roccia. Lo seguì come il cane aveva fatto con lui in vita, e oltre. Giunsero al bivio. Un anno prima era rimasto attaccato alla parete, prendendo il sentiero di destra; il cane svoltò a sinistra. La galleria era lunga,  negli ultimi cento metri, la pendenza era così marcata da costringere il ragazzo a scendere di lato, come un granchio. La roccia era scivolosa, avvertì qualcosa di più viscido della roccia bagnata sotto il piede e perse l’equilibrio, scivolando in avanti a battendo il fianco esterno della coscia sinistra.
«Ma dai!!» gridò. «Sono caduto come una bambina!»
Si sollevò poggiandosi alla parete rocciosa. Il cane si sedette. Davanti a lui l’intersezione di molti cunicoli.
«Beh? Dove si va, adesso?» gli domandò.
Cane abbaiò, Angelo sollevò una mano per accarezzarlo. La sua mano sfioro il pelo e un tenue fumo azzurro-grigio si sollevò dal punto di contatto. Cane svanì in una nuvola. La sua essenza si divise ed entrò in ogni cunicolo.
«Che accidenti succede?» spaventato, Angelo, si guardò freneticamente intorno. Il suo sguardo saettò da un’apertura all’altra, ma non seppe scegliere in quale entrare.
Si sedette nel punto in cui si era accucciato l’animale e squadrò con maggior attenzione e tranquillità le possibilità che aveva.
Ripensò alla discesa. “Sotto questa lava c’è il Tartaro”.
Si accorse che il pavimento era tiepido. Controllò, poggiando i palmi, la temperatura della strada davanti a ogni galleria. Scelse di proseguire lungo la più calda di tutte.
Scese ancora in profondità, finché non sbucò in una grotta. Era davanti a un lago di magma che ribolliva. La pelle scottava, il sudore gli colava lungo la fronte, il collo e la schiena. Le braccia erano avvolte da una patina di bagnato.
«E adesso?» si chiese. «Io devo uscire, non devo arrivare al centro della Terra!»
Sputò nella lava, osservò la saliva nebulizzarsi e svanire prima del contatto.
Si trovava su uno spuntone di roccia, sembrava non esserci nessun passaggio, niente che lo potesse condurre oltre il lago. “Il settimo senso è dietro l’angolo”.
Fino a quel momento, era stato in grado di raggiungere il settimo senso solo due volte, entrambe per caso. Non sapeva bene come raggiungerlo un’altra volta, soprattutto con coscienza di farlo. L’addestramento verteva su quello. «Maledetto vecchiaccio, non mi ha insegnato niente di utile!» sbottò. Ripercorse i suoi passi, cercando il punto in cui si dipanavano le grotte. Camminò a lungo, macinando molta più strada di quanta ne avesse percorsa all’andata, ma del punto di partenza non c’era traccia.
Fece nuovamente la strada a ritroso, tornando davanti al letto di magma.
«D’accordo,» mormorò. «Indietro non si torna.»
Dal soffitto, pendevano numerose stalattiti. Una di esse, quasi al centro del lago, sembrava penetrare dentro la lava.
«Quella non c’era prima.» osservò Angelo, chiedendosi se quel nuovo elemento non fosse la risposta che cercava. Comprese di  trovarsi in un luogo vivo, in grado di cambiare aspetto.
Arse il cosmo e il caldo si fece meno opprimente. Spiccò un balzo e si aggrappò alla stalattite più vicina, poi saltò su un’altra, fino ad arrivare al centro.
Avrebbe dovuto saltare più lontano, ora. Dall’entrata la distanza tra quelle due stalattiti gli era sembrata inferiore. Si sporse, sempre abbracciato alla roccia, riuscì a puntellare un piede e si diede lo slancio necessario. Afferrò la stalattite centrale, che svanì sotto il suo tocco, facendolo precipitare nella lava.
Arse il cosmo più che poté e chiuse gli occhi, rannicchiandosi in posizione fetale durante la caduta, incrociando le braccia attorno alla testa.
Aspettava il contatto con il magma, presentiva il dolore che gli avrebbe causato. Immaginava la sua pelle accartocciarsi e bruciare, lasciando esposti i muscoli, poi le ossa. Avrebbe smesso di esistere lì, in una bolla di lava nel cuore dell’Etna. Avrebbe preferito qualcosa di diverso, magari morire al Santuario.
Sentiva il corpo avvolto da uno strano tepore, completamente diverso da quello del magma. Vinto dalla curiosità di vedere cosa gli stava accadendo, spostò le braccia e aprì un occhio. Era completamente immerso nella lava. Un arancione brillante abbracciava completamente il suo campo visivo.
Sono già morto? Si guardò i palmi delle mani, poi i dorsi. Sorrise e aprì anche l’altro occhio. No, non vedo attraverso. Fece una capriola e con un rapido guizzo cambiò direzione, cercando l'uscita dal lago. Un momento, devo respirare! Combattè contro l’impulso di inspirare. Non posso respirare lava! Si tappò il naso con due dita e strizzò gli occhi. Se non voleva morire davvero, avrebbe dovuto lasciar fare al suo corpo, ma non era intenzionato a farlo.  
Qualcosa lo stava proteggendo, gli fu ovvio in quel momento. Ma cosa?
Nuotò per risalire, una volta fuori avrebbe potuto respirare. Per quanto nuotasse, per quanto le sue bracciate fossero poderose, non raggiunse la superficie, che sembrava allontanarsi.
Non riuscì più a trattenere il riflesso di dilatare i polmoni e vinto dall’istinto, aprì la bocca e respirò.
Non accadde niente, poteva respirare. Decise di essere rimasto a mollo nella lava fin troppo a lungo. Era arrivato il momento di uscire, trovare il vecchio e fargli passare la stessa esperienza. Si concentrò. Il cosmo, forse, lo avrebbe aiutato a trovare la strada giusta.
L’arancione lasciò il posto al nero. Miriadi di stelle puntellavano l’oscurità e lui si sentiva risucchiato verso un punto preciso. L’universo scorreva attorno a lui come un fiume in piena. Stelle, pianeti, nebulose gli sfrecciavano accanto. Sono io a muovermi!
Giunse dinnanzi a un’ammasso stellare, gigantesco. Attorno a lui, presero a vorticare un’infinità di fuochi fatui. Gli girarono attorno e si diressero verso quelle stelle disposte come se fossero una porta.
«Sekishiki...» sussurrò.  
Le anime si bloccarono. Il tempo sembrò fermarsi.
«Mekai Ha!» urlò a pieni polmoni.
Un vortice si formò nel punto in cui le stelle erano più vicine e s’ingigantì. Angelo vi saltò dentro, seguito dalle anime.
Aveva piegato lo spazio e il tempo, creando un passaggio verso l’Aldilà. Un terreno brullo e grigio si distese sotto di lui. Una rupe scoscesa a un fianco, una profonda voragine dall’altra. Riconobbe il luogo in cui era già stato. Vi aveva condotto i genitori una volta.
Riconobbe una bambina. Lo aveva tormentato in sogno, mentre si dirigeva verso la dimora del negromante molto tempo prima. Poco distante c’era il vecchio, assieme a lui l’uomo precipitato nel dirupo. Si avvicinò al trio e li invitò a seguirlo fino alla voragine.
«Potete andare.» disse loro, ma bambina - spaventata -  iniziò a piangere.
Angelo si avvicinò e la prese in braccio. La consegnò al giovane, che si tuffò nel baratro stringendola a sé. Il vecchio li seguì subito dopo.
Diede il nome alla voragine nel momento in cui il corpo del vecchio scomparve alla sua vista. «Yomotsu Hirasaka.»
Ripensò al laboratorio del negromante, chiuse gli occhi. Li aprì e si trovò sospeso a mezz’aria sul tavolo da lavoro. Precipitò sugli alambicchi.
«Dannazione! Perchè questa roba è qui?» urlò.
«Io vorrei sapere perchè tu sei qui invece!» gli rispose Al Zubanah, mettendosi le mani tra i pochi capelli rimastigli in testa.
Angelo si guardò intorno, comprese quello che aveva fatto e un ghigno vittorioso gli si disegnò sul volto. «Ho superato la prova!»
Il negromante si avvicinò al calendario e cerchiò il giorno. I giorni precedenti erano segnati con una croce. «Grande invenzione i calendari, non trovi?» gli disse.
Angelo spostò lo sguardo a destra e a sinistra. Poi di nuovo a destra e poi sul negromante. «Ehm, sì. Aiutano a contare i giorni» rispose. Si sedette sul tavolo. «Mi spiace per questo.» Sollevò la spirale dell’alambicco.
«Nove giorni.»
«Eh?»
«C’hai messo nove giorni a uscire dalla porta.»
«Ma se saranno passate al massimo, ma esagerando eh, due ore!»
«Ti sembra. In realtà, sono trascorsi nove giorni. Vedo che sei solo.»
«Siamo solo io e te, qui. Con chi avrei dovuto essere?»
«Avevi un cane.»
«È svanito quando l’ho toccato.»
«Oh. Bene.»
«Ora che si fa? Il settimo senso l’ho raggiunto e mantenuto per nove giorni, direi di essere stato straordinario, senza falsa modestia.»
Al Zubanah raccolse il bacile di rame sul quale aveva da poco incastonato l’apparato di vetro dell’alambicco ormai in frantumi. Lo soppesò in mano, lo lanciò in aria, lo afferrò e lo scagliò sulla faccia del discepolo. «Zuccone! Il settimo senso lo hai raggiunto per un’ora e ventisei minuti, cosa credi di avere fatto? Stupido! Il fatto che in quella grotta il tempo scorra più velocemente rispetto al mondo reale, significa che il tuo progresso è stato ridicolo. Ora devi imparare a viaggiare da qui, dal nostro mondo.»
L’allegria di Angelo svanì. «Quindi è come se avessi fatto niente?»
«Esattamente. Il tuo mondo di appartenenza è questo. Puoi andare dall’altra parte quando ti pare, ma devi imparare a farlo.»
«E come?»
«E che ne so io.»
«Ma sei il mio maestro! Se non lo sai tu chi deve saperlo?»
Il vecchio, raccolse il fornello.
«E non provare a lanciarmelo!» intimò Angelo.
«Sei lento di riflessi, pischello. Vedi di rimediare. Da domani ti sottoporrò a un allenamento molto più duro. Hai grande potenzialità, ma sei pigro e ti accontenti del minimo. Devi aspirare molto più in alto.»
«Aspiro a essere un cavaliere d’oro.»
«Non basta! Devi aspirare a qualcosa di più grande.»
«Un dio?»
«Perchè no? Gli dei possono tutto. O quasi. Un cavaliere d’oro può tanto, ma niente di paragonabile a un dio.»
«Ho sentito di cavalieri d’oro che hanno sconfitto gli dei! La conosci la storia di Manigoldo?»
«Conosco? Ho fatto molto di più! Io ho vissuto la storia di Manigoldo prima che Manigoldo facesse quello che ha fatto! Sono stato suo discepolo.» concluse.
L’espressione di Angelo mutò. Non aveva più dubbi, quell’uomo era completamente pazzo. «Tu vuoi farmi credere di aver conosciuto Manigoldo? Di avere duecento anni?»
«Duecentocinquantanove. Per essere precisi.»
«Ne dimostri mille!»
«Conosci un altro bicentenario, cosa ti sorprende?»
«E chi?»
«Il Gran Sacerdote, uno dei due sopravvissuti alla Guerra Sacra del diciottesimo secolo.»
Angelo si sentì uno stupido.
«Andiamo ad allenarci.» disse. «Ma prima sistema questo macello.»
Sparì oltre la porta. Angelo si sentì piccolo e debole. Il progresso che aveva fatto gli sembrò una minima cosa.

Due anni dopo, Angelo aveva adottato un soprannome.
«Lo hanno detto le stelle.» sostenne quando Al Zubanah gli domandò come mai un soprannome così curioso.
«Ah, se lo hanno detto le stelle... scommetto che si tratta di una previsione!
» ridacchiò fino a farsi venire un brutto attacco di tosse. «Piuttosto, sei pronto a partire?»
Il ragazzo annuì.
«Verrò per il torneo.» concluse il vecchio.
«Davvero hai conosciuto Manigoldo?»
«Sì, sono stato suo discepolo per ben due giorni.» asserì con orgoglio. «Poi è morto. Cerca di non fare la sua fine il giorno del torneo o inizierò a pensare di portare sfortuna. Salutami i tuoi.» Voltò le spalle al ragazzo e questi si teletrasportò fuori dal dedalo di gallerie e si volse indietro per osservare l’entrata di quella che era stata la sua casa per tre anni. Due fiammelle gli vorticarono attorno.
Ormai avvezzo alla loro vista sorrise. Avrebbe dato loro la pace eterna, ma prima che potesse sfiorarle queste presero le sembianze di due persone che un tempo aveva conosciuto bene. La madre e il padre gli sorrisero e lo abbracciarono, facendo in modo che fosse il loro bambino a condurli finalmente nel luogo al quale appartenevano. Una lacrima scese lungo il viso di Death Mask.
Levò lo sguardo verso l’entrata della stramba dimora di Al Zubanah, ma era svanita.
«Vecchio, pazzo e rincoglionito.» sentenziò. Bruciò il cosmo e apparve dietro una colonna divelta, davanti all'ingresso del Santuario, in mezzo a un'orda di turisti vogliosi di souvenir e fotografie.


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È giunto il momento degli addestramenti! Da ora in poi, fino al ritorno in Grecia, ci sarà un capitolo per ogni gold saint.
Volevo iniziare con Mu e andare in ordine zodiacale, ma poi i fan dei custodi degli ultimi templi avrebbero avuto da ridire, così ho deciso che sceglierò a caso e caso vuole che il mio preferito sia Death Mask, che di conseguenza è stato il primo sfigato. Se siete interessati a leggere un capitolo prima di un altro, potete comunicarmelo mandandomi un messaggio o scrivendolo in recensione se avete intenzione di recensire.
Grazie di cuore a chiunque legge, recensisce, inserisce qui-lì-là.





   
 
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