Il quarto giorno
Basta una scintilla.
Il quarto giorno
Cenere,
desolazione e resti di qualcosa che aveva un nome, si materializzano
davanti al mio sguardo, sulla strada, calvacata a velocità
costante. Il sole alle mie spalle proietta raggi ed ombre sull'asfalto
sconnesso. Il cielo azzurro contrasta una magnificenza avvilita
attraverso un paesaggio distrutto dall'incontrastato fine ultimo
dell'umanità: la guerra. L'annientamento reciproco.
L'estinzione. Tutto intorno è polvere combusta. I pochi edifici
sopravvissuti sono diroccati, guasti, disossati in modo innaturale.
Privati delle parti importanti, sembrano volersi lasciare andare da un
momento all'altro, crollando inesorabilmente in un mucchio informe di
calcinacci. Il sole illumina ancora di più il
cemento cupo. Tutto qui è stato annerito e consumato dalle
fiamme. Alte, roventi fiamme del più grande incendio che la
storia ricordi. E tutto brucia.
Sono rimasti solo
precari resti carbonizzati di abitazioni infestate da cumuli di
sciacalli. Un bel posto dove nascondersi, ma bello per nient'altro. La
città fantasma. Così la chiamano coloro che lambiscono la
zona, e chi ha paura vedendo di aver sbagliato strada, mentre inserisce la
retromarcia e cerca di aggirare il problema. Il pericolo è
dietro ogni angolo, vero, ma il pericolo si nasconde sempre dietro gli
angoli. E quello maggiore sono i "fantasmi". Piccoli gruppi di
predatori nascosti tra le rovine, pronti a tutto. Rari da incontrare,
ma nemici terribili una volta trovati sulla strada.
Ed ai confini di tutta quest'aria
che sa ancora di fuoco e lamento,
casa mia. Bunker di
Stryker, ricavato dalle fondamenta di un villino superstite, sotto la
superficie, inosservato. Davanti ad un complesso di
edifici aggrappati fra loro, devastati e sostenuti dal loro stesso
crollo, in attesa del colpo di grazia che
ponga fine alla loro sofferenza. Accedo tramite un capiente
montacarichi nascosto in un fabbricato accanto, finendo con l'imboccare
un breve corridoio che mi porta all'ingresso di un ascensore.
Appartemento, poligono/laboratorio, ed un terzo livello. Numero uno, appartamento. Mi svesto,
depongo spada, pistole, pugnale. Una rinfrescata è tutto
quello che desidero. Mi getto sotto la doccia, lavando via sudore e
violenza,
rilassando muscoli e pensiero. Mi guardo allo specchio. Nella testa
rimbalzano folli ragionamenti, treni impazziti senza una destinazione, senza
una
stazione in cui riposare. Una barba spessa comincia a coprire il mio
viso. Un rasoio elettrico mi permette di livellarla, una volta legati i
capelli sopra la testa. Guardo in un paio di occhi stanchi,
imploranti riposo. Sotto il mio mento brilla ancora la bruciatura
provocata da Lois. La trovo fuori dal mio bagno. Sta in
silenzio, mi osserva. Addosso ho solo un paio di pantaloni e quando mi
giro, nota il tatuaggio sulla mia schiena.
-Quelle sono...- chiede -...ali?- Mi sposto. Una lampada illumina la mia schiena. -Ali... strappate?-
-Più o meno...- le rispondo. Lei si avvicina. -Non vorrai aggredirmi vero?-
-Cosa significano?-
-Tante cose. Ognuno finisce col vederci quello che vuole.-
La sua attenzione si sposta su un modesto assortimento di cicatrici che
si azzuffano sul resto della mia schiena. Proiettili, scheggie, e
quant'altro.
-E questa?- chiede, riferendosi ad una piuttosto
marcata sul mio fianco, a metà strada tra spalla e vita.
-Una scheggia di metallo mi ha trapassato da
parte a parte, durante un'esplosione. Grazioso ricordo di un inverno di
tanti anni fa.- Lei ci passa sopra le dita, facendomi scorrere un
brivido sul fianco. -Ah... ma, che fai?-
-Scusa.- Ritorna nella
realtà. Mi guarda un'ultima volta e scappa via. Non capisco
questa donna. Ho solo voglia di dormire.
Quando mi sveglio è il quarto
giorno. Ho dormito parecchio ed
è quasi mattina, di nuovo. E' ora di prendere il mio drink al
gusto "homo bellator". Quattro giorni sono passati, quattro ne
restano. Al
prossimo e conclusivo cocktail ed all'operazione "piano A". Tra quattro
giorni celebreranno anche la dipartita di Clark Kent, ed è forse
il caso di parlarne a Lois. Se non altro, è un buon motivo per
levarsela di torno. Mi toccherà anche trovare un modo per non farle
ritrovare la strada di casa, in questo caso la mia. Magari accompagnata
ad un esercito. Non sarà difficile, questa città è
un labirinto fatto di cenere. Ammesso che voglia tornare. Non ci
si tuffa in piscina il giorno dopo essere quasi affogati.
La cerco nella sua prigione di legno e tessuto. Apro la porta e lei
sobbalza, avvolta in un lenzuolo bianco che, lo ammetto, sta molto
meglio a lei di quanto stesse al materasso. Devo parlarle, ma alla
domanda di un po' di privacy per ricomporsi, mi fa cenno di entrare.
-Devi sapere...- esordisco, seduto
all'estremità del letto -che tra quattro giorni ci sarà
il funerale... di Clark.- E mi accorgo di quanto suoni improbabile parlare
del funerale di un uomo che ho spedito personalmente nella bara.
-Ah...- dice. Solo questo.
-Ah... Dici. Solo questo?- Questa donna è un vero casino.
-Cosa dovrei dire? Piuttosto, perché me lo dici?-
-Perché è giusto che tu lo sappia.-
-Detto da uno che non sa la differenza tra giusto e sbagliato...-
-Ecco. Di nuovo. Come al solito, dimostri di non aver capito.- Lei sussulta, come offesa.
-Io?-
-Tipico.
Qualcuno pensa che una cosa è sbagliata solo perché non
coincide con la propria opinione. Facile.-
-Tu giustifichi... un omicidio?-
-Visto che ti piace rispondere alle domande con un'altra domanda, dimmi: quanta gente hai visto morire?-
-Io...-
-Quanta?!-
Lei sta in silenzio, con lo sguado basso, abbracciandosi avvolta in quel lenzuolo.
-Già...- proseguo -Un sacco di gente rischia
la vita e la maggior parte non ce la fa. Nessuno piange per loro.-
-E questo cosa vuol dire?-
-Nessuno merita di morire. Quasi nessuno.- mi correggo -Ma a nessuno importa.-
-Non si può piangerli tutti...- risponde.
Ora mi segue. Poi, continua -Ma allora perché non mi hai ancora
ucciso?-
-Non voglio farti del male. Non mi hai dato motivi.
Non ancora.- puntualizzo. Si volta, cambia radicalmente discorso.
-Come sta il mento?-
-Bene.- si avvicina per controllarmi la ferita.
-Quello era un buon motivo. Eppure, niente.- si chiede.
-E' solo un graffio...-
-Si...?- ancora scrutando la ferita.
E qui, mi accorgo di quanto
fosse sbagliata la mia concezione del termine "folle". In un istante.
Con la mano mi spinge sul letto,
sdraiandomi sulla schiena. Si libera del lenzuolo, facendolo scomparire
dietro le spalle mentre si siede a
cavalcioni su di me. Nuda. Completamente nuda, mi offre la sua
prospettiva migliore. Mi appoggia le mani sui pettorali e si
avvicina a me. Le sue dita scorrono fin sopra i miei addominali. Arriva a pochi centimetri dalle mie labbra. Che
cazzo succede? Sento il suo respiro sulla faccia, e questo mi risveglia dall'assurdo. La afferro per le spalle e la ribalto sul letto. In un istante, si ricopre nuovamente sotto il lenzuolo. Folle.
-Ma che stai facendo?!-
-Perché sono ancora viva?!-
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