Crazy Little Thing Called Love di Sissi Bennett (/viewuser.php?uid=3560)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Make a change! ***
Capitolo 2: *** The bitch is back ***
Capitolo 3: *** Dirty Dance ***
Capitolo 4: *** By the light of the Moon ***
Capitolo 5: *** The hot teacher ***
Capitolo 6: *** Team Bonnie ***
Capitolo 7: *** A gentleman doesn't kiss and tell ***
Capitolo 8: *** The Pumpkin King ***
Capitolo 9: *** Awkward ***
Capitolo 10: *** The english stranger ***
Capitolo 11: *** Blame it on the alcohol ***
Capitolo 12: *** The hangover ***
Capitolo 13: *** Road to Debussy ***
Capitolo 14: *** Happy Birtheve ***
Capitolo 15: *** Slutherine's day ***
Capitolo 16: *** All Damon's women ***
Capitolo 17: *** Baby steps ***
Capitolo 18: *** The ugly truth ***
Capitolo 19: *** Caroline does it so much better ***
Capitolo 20: *** Daddy issue ***
Capitolo 21: *** Family business ***
Capitolo 22: *** Game on ***
Capitolo 23: *** This is what it feels like ***
Capitolo 24: *** La belle et la bête ***
Capitolo 25: *** It's too cliché, I won't say I'm in love ***
Capitolo 26: *** The farewell waltz ***
Capitolo 27: *** Goodbye to Sandra Dee ***
Capitolo 28: *** Eventually ***
Capitolo 1 *** Make a change! ***
Crazy
Little Thing Called
Love
Capitolo
uno: Make a change!
“And I’ve been a fool and
I’ve been blind
I can never leave the past behind
I can see no way, I can see no way
I’m always dragging that horse around
Tonight I’m gonna bury that horse in
the ground
So I like to keep my issues strong
But it’s always darkest before the dawn
Shake it out, shake it out, shake it out
And it’s hard to dance with a devil
on your back
So shake him off”
(Shake it out- Florence and The Machine).
Tornare
a Fell’s Church dopo un mese
trascorso a girare per la Spagna era stata per me, Bonnie McCullough,
un’esperienza
tutt’altro che piacevole; e a dirla tutta ne avrei fatto
volentieri a meno.
Era
stata una bella vacanza; uno stacco dalla solita vita.
Per un mese intero non
ero stata
classificata solo come ‘quella dai capelli rossi’,
non ero rimasta all’ombra
delle mie amiche. In Spagna, lontano da casa, ero finalmente riuscita a
trasformarmi in una persona diversa, più sicura di me, meno
ansiosa di ciò che
pensavano gli altri.
Ma
qui a Fell’s Church tutto sarebbe tornato come prima;
sarei stata Bonnie, l’amica di questo o di quella, sarei
stata solo la ragazza
dai capelli rosso fuoco.
In
fondo non mi era mai pesato molto; dopotutto avevo delle
amiche fantastiche, che mi conoscevano per quella che ero veramente e
non
giudicavano.
In
tanti si erano chiesti che diamine avessi di speciale per
fare parte del gruppo di ragazze più popolari e benvolute
della città.
Ero
carina, ma non bella; simpatica, ma non propriamente uno
spasso; intelligente, ma non un genio. Una ragazza totalmente ordinaria.
E
questo provocava l’antipatia di tutte le altre che erano
rimaste escluse dalle luci della fama. Il che era davvero strano,
perché di me
si sarebbe potuto dire di tutto tranne che fossi antipatica. Cercavo
sempre di
essere gentile con tutti e disponibile. Ero di una bontà
disarmante.
Forse
la mia amicizia con Stefan Salvatore non era molto di
aiuto. Insomma, immaginate se nella vostra piccola città ci
fosse stata una
ragazza totalmente comune, apparentemente senza alcun merito, cui
però era
permesso di essere in confidenza con i più belli e popolari
del liceo. La
domanda sarebbe sorta spontanea: che
diamine ha quella lì di tanto speciale che io non ho?
Non
ero in grado di rispondere perché non lo sapevo neanche
io. In realtà ero tutto fuorché speciale dal mio
punto di vista; eppure ero
stata così fortunata.
Stefan
era un bel ragazzo, riservato ed educato, che con il
suo fare misterioso e sfuggente aveva fatto battere il cuore a molte
ragazze,
ma solo in poche erano riuscite a conquistare il suo; anzi forse
soltanto una
avrebbe potuto arrogarsene il merito: Elena Gilbert, la cui bellezza
folgorava
chiunque.
Conoscevo
Stefan da tutta la vita ed era stato inevitabile
diventare amici. Avevamo la stessa età, eravamo vicini di
casa, entrambi
avevamo perso la mamma da piccoli. Eravamo cresciuti insieme,
aiutandoci a
vicenda, facendoci da spalla, supportandoci nei momenti di
difficoltà.
Neanche
mi ricordavo quando avessimo iniziato a considerarci
quasi come fratello e sorella; era accaduto e basta. Tutto
così naturale e
spontaneo, come se fossimo stati destinati a divenire così
intimi.
Non
ci eravamo visti per un mese intero e non era mai
successo. Di solito facevamo tutti le vacanze insieme; non eravamo
abituati a
stare così lontano.
L’unico
mio pensiero, appena finiti di disfare la mia valigia,
fu quello di attraversare la strada, fiondarmi a casa sua e
abbracciarlo fino a
soffocarlo.
“Mary”
urlai a mia sorella “Vado da Stefan”.
Mary
bofonchiò qualcosa in risposta che io non recepii.
Uscii e andai dall’altra parte della via, trovandomi subito
sotto il portico di
casa Salvatore.
Aprii
la porta con il duplicato delle chiavi che il mio
amico mi aveva dato qualche anno prima per le emergenze.
“Stefan”
chiamai.
Non
ci fu risposta.
Proseguii
su per le scale. Ero certa che il signor Giuseppe Salvatore
non ci fosse; a quell’ora doveva essere al lavoro. Sperai di
avere la stessa
fortuna con Damon, il fratello maggiore di Stefan.
Non
ero mai andata molto d’accordo con quel ragazzo, nemmeno
quando eravamo bambini. Damon era bellissimo e questo era innegabile.
Di una
bellezza disumana, quasi irreale. Ma era anche egoista, arrogante,
opportunista, donnaiolo, sfacciato e troppo sicuro di se stesso e aveva
l’innata capacità di farmi venire i nervi a fior
di pelle con una sola
occhiata.
Sapeva
di avere un certo ascendente sulle persone, in
particolare sulle donne, e se ne approfittava senza ritegno.
Ogni
ragazza che contava a Fell’s Church era passata per il
suo letto; tranne Elena. Damon aveva un debole per lei, da sempre. Il
costante
rifiuto della ragazza non faceva altro che alimentare la sua
fissazione.
“Stefan!
C’è nessuno in casa?”.
Mi
sentii improvvisamente sollevare da dietro e urlai
d’istinto. Quando ritoccai terra, feci qualche passo avanti e
mi girai.
“Stef!”
boccheggiai “Volevi farmi venire un infarto?!”.
Il
ragazzo non mi
ascoltò nemmeno e mi riabbracciò, sollevandomi di
nuovo “Sei tornata
finalmente!” esclamò facendomi fare un mezzo giro
“Fatti un po’ vedere” mi
disse “Ti sei fatta riccia?”.
“Sì”
confermai toccandomi i capelli con un sorrisino
soddisfatto “Ti piacciono?”.
“Stai
molto bene” mi squadrò da capo a piedi
“Hai fatto
qualcos’altro, sembri più …
più …”.
“Tonica?
Allenata? Tutta colpa di Caroline” spiegai “Mi
faceva svegliare tutte le mattine alle sette per andare a correre sulla
spiaggia.
Uno strazio” mi lamentai.
“Sei
in gran forma, Bonnie” si complimentò
“Farai girare la
testa a tutti i ragazzi quest’anno” e
strizzò l’occhio.
“Ma
smettila!” gli tirai uno schiaffetto sulla spalle e mi
buttai sul letto “Dimmi di te piuttosto,
com’è andata al campo estivo per il
football con Matt?”.
“Alla
grande” rispose stendendosi accanto a me “Il posto
era
completamente immerso nel verde, ho conosciuto un sacco di gente e
soprattutto
sono stato lontano da Damon”.
“Va
ancora così male con lui?”.
“Ora
va anche peggio”.
Sapevo
perfettamente a cosa si riferiva: Damon non aveva
accettato la storia del fratello con Elena e questo non aveva avuto
altro
risultato che aumentare la tensione tra loro. Da che ricordassi i due
non erano
mai andati molto d’accordo; non certo per volere di Stefan,
che aveva sempre
fatto di tutto per non scontentare il fratello, specialmente durante
gli anni
dell’infanzia. Stefan cercava di stargli alla larga, di non
dargli noia, di
recuperare il loro rapporto, ma Damon aveva sempre e solo un obiettivo:
tormentarlo. Lo accusava infatti della morte della madre, deceduta poco
dopo
aver dato alla luce il figlio più giovane, per delle
complicazione post-parto.
Aveva covato questo rancore nei confronti del suo fratellino ed era
cresciuto nel
corso degli anni allontanandoli uno dall’altro. Senza
contare, poi, che, mentre
Stefan sembrava incarnare l’essenza del figlio perfetto,
Damon risultava sempre
una delusione su tutti i fronti; cosa che il padre non dimenticava di
sottolineare ogni volta che ne aveva occasione.
Stefan
avrebbe pagato vagonate d’oro per cambiare la sua
situazione, per farsi accettare dal fratello, ma era ben consapevole
che Damon
non lo avrebbe mai perdonato; e ne soffriva senza trovare pace.
Gli
posai una mano sul braccio “Vedrai che prima o poi la
smetterà”.
“No
Bonnie, mi odia”affermò “Ma ormai ci
sono abituato” e
sorrise tristemente “Non voglio annoiarti con i solito
discorsi. Dai, parlami
della Spagna”.
Passammo
così le due ore successive, a raccontarci le nostre
rispettive estati, a ridere e a scherzare; almeno fino a che il rombo
di quella
che sembrava una macchina da corsa non ci interruppe bruscamente.
Io
guardai stranita fuori dalla finestra e Stefan
m’imitò.
Una Ferrai nera luccicante stava percorrendo la via. Ma di chi poteva
essere?
Il
mio stupore crebbe ancor più quando la vidi fermarsi
davanti a casa Salvatore e parcheggiare nel vialetto
d’ingresso.
“E’
di Damon” spiegò Stefan quasi avesse letto i miei
pensieri.
“E
quando l’ha presa???”.
“Qualche
giorno dopo la tua partenza. Papà era furioso!
Credo si sia pentito di avergli cointestato il conto in
banca” ridacchiò
Stefan.
“Tuo
fratello è completamente fuori dal mondo”
commentai
sempre più sbalordita. La famiglia Salvatore era ricca e lo
sapevano tutti, ma
viveva in un quartiere normalissimo, in una casa normalissima che non
faceva
sfoggio di nessuno sfarzo. Era una famiglia che preferiva mantenere un
profilo
basso, anche se avrebbe potuto permettersi i lussi più
sfrenati. Ma Damon era
un caso a parte.
“Credo
fosse geloso del fatto che io guidi una Jaguar”
ipotizzò Stefan.
“Sì
ma è della tua famiglia!” replicai io
“Non hai speso una
fortuna per un capriccio”.
“Ma
papà l’ha data a me e non
a lui” precisò il mio amico
“Sai che smacco per il suo ego!
Battuto un’altra volta da suo insignificante e odioso
fratellino”.
“Tu
non sei né odioso né insignificante”
ribattei “Se lui la
smettesse di fare lo spaccone, forse tuo padre non lo tratterebbe come
uno
stupido incapace”.
“Oh
Bonnie, ti assicuro che Damon è ben lontano da essere
uno stupido incapace” lo difese Stefan.
“Hai
ragione; è peggio!”.
Stefan
rise di gusto e andò a prendere il cellulare che
aveva preso a vibrare insistentemente. “E’
Elena” disse.
“Rispondi”.
Stefan
rifiutò la chiamata e prese a guardarmi seriamente
“Non te l’ho mai chiesto e credo che sia il momento
di farlo” incominciò
facendomi un po’ preoccupare “Ti dà
fastidio che io mi sia messo con la tua
migliore amica?”.
Un
paio di secondi e io scoppiai a ridere tenendomi la
pancia “N-no” pronunciai tra una risata e
l’altra “Stefan, siete due persone
meravigliose e meritare di stare insieme più di chiunque
altro” questa era una
chiara allusione a Damon “Sono strafelice che vi siate
trovati, davvero” lo
rassicurai “E adesso richiamala, perché se la
conosco si starà facendo un
mucchio di paranoie sul perché non le hai
risposto”.
“Te
l’ho già detto che sei la ragazza migliore del
mondo?”
mi disse baciandomi sulla fronte con fare fraterno.
“Lo
so” scherzai. Lo salutai con un gesto della mano,
uscì
dalla sua camera e scesi le scale.
Raggiunsi
l’ultimo gradino e mi bloccai all’ingresso: la
porta di casa si stava aprendo. Per un momento considerai
l’idea di nascondermi
da qualche parte o di ritornare di corsa in camera di Stefan e
rinchiudermi
dentro finché la via non fosse stata libera, ma non ebbi
nemmeno il tempo di
mettere in atto nessuno dei due piani. Ero letteralmente in mezzo
all’entrata,
in piena vista e la porta ormai era completamente spalancata. Lui mi aveva già beccata e io
non avevo
possibilità di svignarmela.
Richiuse
la porta con un semplice gesto del polso. Come al
solito era vestito di nero, portava sempre abiti neri o per lo meno
molto
scuri. Era un po’ abbronzato; non molto dato la carnagione
bianchissima, ma
quel colore dorato gli donava parecchio. Lo osservai togliersi gli
occhiali da
sole e il giubbotto di pelle. Fuori c’erano quaranta gradi
all’ombra, ma pur di
apparire superfigo si sarebbe sciolto al sole. Probabilmente nel
tragitto verso
casa aveva fatto svenire metà della popolazione femminile di
Fell’s Church, la
metà cui era permesso di uscire dopo le sei di sera.
Alzai
il mento con fare altezzoso e lo superai salutandolo
con un freddo “Ciao Damon” e lui mi rispose con lo
stesso identico tono “Bon
Bon”.
Damon
Salvatore aveva coniato un’innumerevole sfilza di
soprannomi appositamente per me, uno più idiota
dell’altro. Andavano dal più
sopportabile ‘Bon Bon’ al denigrante e canzonatorio
‘Uccellino’.
Uccellino.
Poteva
apparire come un nomignolo dolce e affettuoso, ma le
sfumature che gli aveva conferito Damon erano di natura ben peggiore. Perché io ero fragile e fastidiosa come
gli
uccellini che cantavano al mattino svegliando la sua regale persona!
Avevo
quasi raggiunto la porta e stavo per uscire
trionfante, quando la sua voce pronunciò con una nota
derisoria “Cosa cavolo
hai fatto ai capelli?!”.
Mi
voltai e lo guardai stranita “Si chiama permanente,
Damon”.
“Somiglia
a quelle parrucche rosse che usano i clown”
sentenziò tra una risata e l’altra.
“Nessuno
ha chiesto il tuo parere” replicai.
Damon
ghignò alzando le spalle “Senza offesa. Lo dicevo
per
te, ma se preferisci andare in giro come una che ha messo le dita nella
presa
della corrente, fa’ pure”.
“Quanto
sei idiota” commentai indispettita marciando fuori
di casa.
Lo
odiavo, lo odiavo, lo odiavo!
C’era
stato un tempo in cui aveva cercato di farmelo
piacere: non volevo stringerci amicizia, ma almeno provare ad avere un
rapporto
civile. Ma con Damon Salvatore non esistevano le vie di mezzo: o tutto
o
niente, o odio o amore.
No,
forse odio era una parola troppo forte. Io non ero certo
capace di provare un sentimento così forte e netto nei
confronti di qualcuno.
Più
che altro non sopportavo il suo modo di fare da “sono il
più figo del pianeta e tu sei soltanto uno sgorbio che non
merita la mia
attenzione”.
Da
che potessi ricordare non aveva mai avuto molto rispetto
nei miei confronti; mi considerava solo una bambina, fastidiosa e
sprovveduta,
una che non poteva prendersi cura di se stessa, un’inetta in
tutto. Era la
migliore amica del suo odiato fratello e questo bastava per
disonorarmi.
Il
grande difetto di Damon era la sua immensa superbia. A
volte mi stupivo di come la sua testa non venisse schiacciata dal suo
enorme
ego. Si riteneva dieci gradini sopra tutti e se, per un malaugurato
caso,
decideva che qualcuno non era degno della sua compagnia, non si
abbassava
nemmeno a fare un saluto.
Avrei
preferito di gran lunga essere ignorata come tanti
altri, ma il mio legame con Stefan, il fatto che fossimo vicini, che i
nostri
padri fossero amici, tutto ciò ci obbligava a stare a
contatto.
Comunque
dovevo ammettere che i nostri rapporti erano
parecchio migliorati da quando Damon si era diplomato. A scuola mi
aveva fatto
piangere quasi ogni settimana; trovava sempre un modo per imbarazzarmi
davanti
a tutti. Di norma non era un tipo gentile, ma sembrava sfogare tutta la
sua
rabbia su Stefan e la sua arroganza su di me, per cui si era prodigato
con
particolare cura a rendere il nostro primo anno un inferno. Poi
finalmente la
sua esperienza liceale si era conclusa (con gran sollievo degli
insegnanti) ed
era arrivata l’università. Si era trasferito a
Dalcrest* e ritornava raramente
a casa. Forse la lontananza dal padre oppressivo o dal fratello
perfetto, forse
l’incontro con una nuova realtà; non so dire di
preciso che cosa avesse causato
il suo cambiamento, ero solamente certa che fosse maturato.
Rimaneva
sempre il solito spaccone, a tratti maleducato, ma
almeno aveva smesso di torturarmi. Io stessa ero cresciuta, ero
diventata meno
impressionabile e capitava che gli tenessi perfino testa. Non era
più così
facile portarmi sull’orlo delle lacrime.
In
definitiva potevo affermare che il nostro rapporto si
basava più che altro sulla sopportazione forzata. Non
eravamo amici e mai lo
saremo diventati. Ognuno dei due avrebbe proseguito per la sua strada e
non ci
saremmo mancati; e se dopo vent’anni ci fossimo incontrati di
nuovo, ci saremmo
salutati cordialmente e niente di più.
Perché
io e Damon Salvatore eravamo due anime incompatibili.
Costretti dalle circostanze a condividere una parte della nostra vita e
più che
felici di separarci definitivamente quando sarebbe giunto il momento.
Io
amavo** e rispettavo un solo Salvatore e Damon ne era
decisamente l’opposto.
Me
ne stavo semistesa sul dondolo che avevamo in veranda.
Risi ironicamente.
Il
dondolo in veranda. Che cliché. Se ne vedeva almeno uno
in ogni serie tv americana. Gettando un’occhiata intorno ci
si rendeva conto
che tutta la via rispecchiava l’essenza della famiglia media
americana: casette
con il portico, vialetto d’ingresso, giardinetto retrostante,
strade tranquille
che ad Halloween si riempivano di zucche intagliate.
Era
fine estate, la scuola sarebbe ricominciata in pochi
giorni e volevo godermi gli ultimi momenti di pace. Mia sorella e mio
padre
stavano litigando come al solito.
A
Mary mancavano pochi esami per ottenere la sua laurea in
infermeria e aveva
deciso di trasferirsi
in un piccolo appartamento preso in affitto con il suo fidanzato.
Papà
aveva dato ovviamente di matto. Da quando nostra madre
ci aveva lasciato, lui aveva fatto il possibile per crescerci al meglio
e per
colmare quella mancanza; d’altra parte si era talmente
attaccato a noi da non
riuscire nemmeno ad immaginare che un giorno che ne saremmo andate.
In
realtà il problema per me non sussisteva nemmeno: mi
piaceva Fell’s Church, era casa mia, era il mio guscio
protettivo. Mi lamentavo
spesso di quanto le persone fossero provinciali, di come avrei voluto
essere
guardata in modo diverso, ma in fondo al mio cuore avevo una paura
matta di
lasciare il luogo in cui ero nata e cresciuta.
Ormai
mi ero troppo abituata al ruolo di Bonnie la brava
ragazza, mi trasmetteva una sicurezza confortante. Qui avevo delle
amiche, una
famiglia, avevo Stefan e potevo anche fregarmene
dell’opinione di tutti gli
altri; ma là fuori? Come sarebbe stato?
Non
credevo che sarei riuscita ad essere qualcosa di
diverso. Quel mese in Spagna era stata una specie di prova, ma si era
trattato
di poco tempo. Cosa ne sarebbe stato davvero della mia vita una volta
finita la
mia adolescenza?
Le
mie amiche avevano tutto dei piani, più o meno
realizzabili: Meredith avrebbe fatto domanda ad Harvard, Caroline
voleva
trasferirsi a Los Angeles per una carriera da modella, Elena
probabilmente
avrebbe seguito Stefan a New York e sarebbe diventata dirigente di
qualche
azienda. Lei era forte e decisa; ce la vedevo proprio a comandare a
bacchetta
delle povere stagiste.
Io
al contrario non ne avevo la più pallida idea. Quasi
certamente sarei finita in un college di serie B e avrei trovato un
lavoro
mediocre a Fell’s Church. Non ero un tipo ambizioso; avevo
una visione più
romantica della vita: un matrimonio, dei figli, un cane. Eppure
… eppure
sentivo che mancava qualcosa. Avevo solo un anno di tempo per capire
che cosa
fosse e mi pareva pochissimo tempo.
Abbandonai
la testa sul cuscino dietro di me. La porta di
casa si aprì e uscì papà sbuffando. Si
appoggiò contro il muro con fare
esasperato.
“Tu
sei sempre stata più semplice da gestire”
commentò.
Certo,
pensai
amaramente, io dico
sempre di sì.
“Dovresti
lasciarla andare, sai” gli consigliai piegando le
gambe per fargli posto sul dondolo.
Lui
si voltò verso di me fulminandomi “Due contro uno
non
vale”.
“E’
grande papà, ha quasi ventitre anni. Studia e ha
già
cominciato un apprendistato; praticamente si mantiene da sola. Non sta
andando
a vivere con uno sconosciuto, ma con Alec e lo conosci da anni. Non mi
sembra
tanto male come prospettiva”.
“Da
quando sei tu a dare consigli a me?!” chiese incredulo
“Stai crescendo anche tu, gattina?”.
Gattina.
Uccellino. Avrei tanto voluto sapere perché la
gente si divertiva tanto a darmi quei nomignoli; mi facevano sentire
ancora più
piccola di quanto già non fossi.
“Sì,
papà, capita anche a me” risposi “Ho
diciott’anni”.
“Ne
hai diciassette e sette mesi***. Non barare”
precisò lui
“E comunque ci devo pensare, non posso cacciare tua sorella
fuori di casa da un
giorno all’altro”.
“In
realtà non la stai cacciando, è lei che se ne
vuole
andare” gli feci notare con un sorrisino furbo.
“Non
starò a discuterne con te” ribadì mio
padre “Piuttosto,
che ne dici di raccontarmi com’è andata in Spagna.
Non ne hai ancora fatta
parola”.
“Bene.
E’ molto diverso da qui … i loro orari sono
pazzeschi”. Era stato abbastanza destabilizzante abituarsi a
mangiare alle
undici tutte le sere. Negli Stati Uniti cenare alle sette era
considerato già
tardi.
“E
ti sei divertita?”.
“Certo!
Ero con le mie migliore amiche … non potevo chiedere
di meglio” confermai.
“Tutto
qui? Non c’è nient’altro che vorresti
dirmi?”.
Alzai
un sopracciglio: so dove voleva andare a parare e non
erano certo cose di cui volevo discutere con lui. “Non tirare
in ballo
l’argomento ragazzi. La
mia bocca
rimarrà sigillata”.
“E’
solo che non ti vedo mai con nessuno e beh, so che
preferiresti parlarne con una donna; potrei mettere una parrucca se ti
fa
sentire più a tuo agio”.
Io
scoppia a ridere tirandogli un leggerissimo pugno sulla
spalla “Ma smettila!”.
“Se
mi dici che va tutto bene, gattina, io ti credo” disse
mio papà “Però cerca di trovartene uno
con la testa a posto, ok? Il giovane
Salvatore qui davanti sarebbe una scelta che approverei”.
“Stefan
è il mio migliore amico” replicai indignata.
Soltanto l’idea mi sembrava assurda “E poi lui sta
con Elena”.
“In
realtà mi riferivo all’altro”
precisò lui abbassando la
voce e indicando con la testa la casa di fronte a noi. Mi voltai anche
io e
vidi Damon uscire di casa, sicuramente pronto a una nottata di baldoria.
Non
avevo mai capito come mio padre potesse ritenerlo un
ragazzo a posto. Lui lo adorava!
Davvero
non so quell’ammirazione da dove saltasse fuori, dato che era
risaputo che
Damon fosse un’emerita testa di cazzo. Tutti i padri di
Fell’s Church avrebbero
pregato che loro figli stessero lontane da un tipo del genere e invece
il mio
avrebbe festeggiato per il contrario. Vallo
a capire!
Mio
padre si alzò per salutarlo, sventolando la mano
“Ehi
Damon! Mi farai fare un giro prima o poi, vero?”.
Io
mi schiaffai una mano in fronte: papà che chiedeva a
quell’imbecille di fargli provare la macchina era una delle
situazioni più
imbarazzanti cui avessi assistito.
“Certo,
signor McCulluogh” rispose Damon avvicinandosi al
nostro portico “Per lei questo ed altro”.
Rotei
gli occhi irritata. Ovvio che mio padre avesse una
predilezione per lui: Damon era un vero maestro della captatio
benevolentiae****.
Come riusciva quel ragazzo ad arruffianarsi le persone, nessuno mai!
Iniziarono
a parlare di automobili, potenza dei motori,
numero dei cavalli … tutte cose assolutamente
incomprensibili per me e
sostanzialmente inutili.
Cosa
diamine serviva comprare una macchina così veloce
quando non la si poteva usare al massimo delle sue
possibilità senza rischiare
una sanzione o addirittura la vita? Un grande spreco di soldi.
“Sa
signor McCullough, dovrebbe parlare con mio padre; lui
non sa godersi la vita come fa lei”.
Il
mio papà mise su un’espressione un po’
più seria, senza
però mostrare tutto il rimprovero che avrebbe voluto
“Beh Damon, forse avresti
dovuto avvisarlo prima di prelevare tutti quei soldi per comprarti
l’auto”.
“Che
posso dire in mia difesa?” alzò le spalle lui
“Anche io
so godermi la vita”.
Mio
padre ridacchiò “Avresti dovuto esserci, gattina!
Il giorno
in cui l’ha portata a casa … le urla di suo padre
arrivavano fino alla fine
della strada!”.
Tirai
un sorriso e allungai le gambe sul dondolo con fare
annoiato. Certo che avrei voluto esserci: vedere Giuseppe mentre
cercava di staccare
la testa a quel disgraziato di suo figlio, sarebbe stato uno dei
momenti più
belli della mia vita.
“Tuo
fratello è tornato oggi, giusto? Non l’ho ancora
visto.
Come sta? Si è divertito?”
s’informò mio padre.
“Sì”
rispose Damon con fare suppositivo. Era chiaro che non
ne avesse la più pallida idea “Stefan adora il
baseball”.
“Era
un campeggio di football” lo corressi tagliente.
L’indifferenza verso suo fratello era vergognosa e non potevo
proprio
accettarla.
“Sempre
di sport si parla” dissimulò Damon con incredibile
nonchalance, anche se aveva percepito perfettamente tutta la mia
ostilità.
Quando
si trattava di Stefan diventavo estremamente
protettiva.
Anche
mio padre fiutò la tensione che si stava creando e
preferì ripiegare in casa e congedare Damon per impedire che
ci addentrassimo
troppo nell’argomento ‘Stefan’.
“Beh,
è stato un piacere vederti! Salutami tanto tuo
padre”.
“Lo
farò” gli assicurò Damon osservandolo
entrare in casa.
Come
no!
Credevo
che a quel punto il ragazzo se ne sarebbe andato,
magari con un saluto accennato. Invece si lasciò scivolare
sul dondolo, nel
posto prima occupato da mio padre, sedendosi quasi sui miei piedi. Li
ritirai
in fretta e ne arricciai la punta innervosita per
quell’invasione di spazio.
Si
stiracchiò portando le mani dietro la testa, poi mi
guardò piegando leggermente il collo
“Perché sei sempre così fredda con me, gattina?” mi chiese con un
finto
broncio, calcando bene quel nomignolo per prendermi in giro.
“Non
sai nemmeno dove ha passato l’estate tuo fratello”
lo
biasimai “Sei così pieno di te stesso! E non
chiamarmi così”.
“Adoro
quando tiri fuori il tuo lato tenero” ironizzò lui
solleticandomi la pianta del mio piede sinistro con un dito. Lo calciai
via con
poca forza per non fargli male; volevo solo levarmelo di dosso.
“Comunque
quei posti sono tutti uguali per me” sembrò quasi
giustificarsi “Niente divertimento, niente vita sociale,
niente ragazze. Solo
allenamenti e contatto con la natura. La solita noia”.
“Tu
sì che sei un uomo profondo, Damon” commentai con
sarcasmo.
Fece
un sorriso di falsa modestia e continuò “Parliamo
di te
piuttosto. Un intero mese in Spagna? Ti devi essere divertita
parecchio”.
Mi
chiesi come facesse a sapere dove avevo passato l’estate,
poi mi ricordai che con me c’era anche Elena. Era chiaro che
lui fosse così ben
informato sui nostri spostamenti “Sì, mi sono
divertita molto”.
“Anche
Elena si è divertita?”.
Bingo!
Capii perché era rimasto a parlare con me.
Normalmente mi evitava come la peste e quella sera era troppo gentile
per
essere sincero.
“Anche
lei si è divertita, ma non come intendi tu” ci
tenne
a specificare “Elena si diverte solo con il suo
ragazzo”.
Gli
occhi di Damon per un attimo s’indurirono. Odiava quando
qualcuno gli ricordava di quanto suo fratello fosse migliore di lui e
se a
farlo ero io, la sua irritazione aumentava. Mi chiamava la paladina di
Stefan.
Io
non potevo fare altro che difenderlo; gli ero troppo
affezionata e ai miei occhi Damon era una sorta di carnefice e cercavo
di
punirlo ogni volta che mi si presentava l’occasione.
“Questo
perché non ha ancora provato cosa significa stare
con me”.
“Il
tuo ego prima o poi chiederà una stanza tutta per
sé”dissi.
Le
sue labbra si tirarono in un mezzo sorriso, probabilmente
intenerite dal mio pallido tentativo di fare del sarcasmo.
Mi
chiesi pure io da dove venisse tutta quella spavalderia.
Non che normalmente volassero della parola gentili tra noi, ma quella
sera ero
particolarmente sicura di me; cosa che non capitava quasi mai,
soprattutto
quando Damon era coinvolto. Di solito mi metteva soggezione, a volta
paura, e
non mi azzardavo a tirare troppo la corda. Piuttosto chiudevo la
conversazione,
me ne andavo o evitavo di rispondere.
Avrei
potuto rifugiarmi in casa e sottrarmi a quel
confronto, ma qualcosa mi aveva fermato. Era la mia casa, la mia
veranda, il
mio dondolo! Semmai era lui a dover sloggiare. Per cui ero rimasta
lì con lui
tenendogli testa.
Sapevo
bene che mi stava permettendo di essere così
sfrontata. Se avesse alzato di un pelo la voce o se avesse indurito il
tono,
probabilmente avrei abbassato le orecchie come un cucciolo impaurito.
Sembrava,
però, di buon umore e io ne approfittai per
rimetterlo al suo posto. In quel momento mi resi conto che il mio
viaggio in
Spagna era stato più utile del previsto per la mia autostima.
“Rinfodera
gli artigli, gattina.
Volevo soltanto scambiare due parole con la mia adorata
vicina di casa” mi stuzzicò. Si alzò
decidendo finalmente
di liberarmi della sua fastidiosa presenza “Comunque oggi ho
detto una bugia”.
Spostai
lo sguardo su di lui, confusa.
“I
tuoi capelli” si spiegò “Non ti stanno
male”.
Incredula,
storsi la schiena e seguii i suoi movimenti fino
all’altro lato della strada, dov’era parcheggiata
la sua Ferrari.
Damon
Salvatore mi aveva appena fatto un complimento? Forse
quella era una parola un po’ forte.
Riformulai
il pensiero: Damon Salvatore aveva appena detto
una cosa gentile sul mio aspetto?
Era
la prima volta da quando ci conoscevamo e mi sorprese
parecchio. Non aveva detto chissà che, non era neanche un
commento lusinghiero,
anzi era piuttosto mediocre, ma sentirlo proprio da lui appariva una
cosa di un
altro mondo.
Infine
mi rigirai e mi toccai i capelli attorcigliandomeli
tra le dita. Mi piacevano molto; di natura li avevo dritti e abbastanza
fini,
per cui la maggior parte delle volte non avevano una vera forma. Quella
permanente mi dava un tocco grintoso.
Sembrava
una massima banale, ma il look influiva molto sulla
personalità di una ragazza. Bastava un piccolo accorgimento
per farci sentire
subito più forti.
Ed
era così che volevo essere: forte; una che non si
piegava.
Ero
soddisfatta di come mi ero comportata quella sera con
Damon, di come ero riuscita a rispondergli a tono senza abbassare la
testa.
Non
potevo più continuare con la storia della ragazza timida
ed indifesa, non a quasi diciott’anni, non al mio ultimo anno
di scuola
superiore.
Non
potevo promettere a me stessa dei grandi risultati, ma
mi sarei impegnata per far sì che quel lato più
aggressivo del mio carattere,
di solito latente, emergesse un po’ di più.
Saltai
giù dal dondolo e entrai in casa, canticchiando una
canzone che avevo sentito in auto, alla radio, di ritorno
dall’aeroporto.
Mondo
preparati
alla nuova me.
Il
mio spazio:
Prima
cosa: non sto trascurando la mia storia Ashes&Wine
(anzi ne approfitto per avvisarvi che posterò il nuovo
capitolo mercoledì);
solo che mi sono trovata con una voglia matta di iniziare questa nuova
storia e
ho buttato giù il primo capitolo. Sarà che con
l’avvicinarsi dell’estate ho
voglia di un di leggerezza, ma alla fine ho scelto la prima delle trame
che vi
avevo proposto.
Seconda
cosa: parliamo di Crazy Little Thing Called Love.
Questo
è solo un capitolo di assaggio, una specie di sneak
peek. Ho deciso di postarlo così voi lettrici potevate farvi
un’idea di come
sarebbe stata questa nuova storia e magari darmi delle idee per gli
eventi
futuri, dato che non ancora programmato niente.
Non
credo verrà più aggiornata fino a che non
avrò terminato
Ashes&Wine, quindi mi sa che passerà molto tempo
prima che potrete vedere
il secondo capitolo. Ma vi prometto che ci lavorerò su e se
mi renderò conto di
riuscire a portare avanti due storie contemporaneamente, lo
farò con piacere!
Crazy
Little Thing Called Love è ambientata sempre a
Fell’s
Church, ma i nostri protagonisti sono tutti umani. Non ci
sarà il dramma che
avete incontrato nell’altra mia storia; ho intenzione di
scrivere qualcosa che
si avvicini più alla commedia! Ho voglio di farmi quattro
risate e di essere un
po’ ironica. Non so quanto ci riuscirò ma spero
che apprezzerete.
Ho
messo anche l’avvertimento OOC perché si tratta
appunto
di un “altro universo” e si conoscono tutti fin da
bambini, quindi le loro
relazioni saranno un po’ diverse da quelle del libro e di
conseguenza anche i
loro atteggiamenti. Tranquille, non ho intenzione di sconvolgere la
personalità
di nessuno (solo quella di Caroline, scusate ma amo troppo quella della
serie
tv!).
Più
che altro credo che Bonnie sarà quella che
affronterà i
cambiamenti più significativi. Sono un po’ stufa
di vedere , sia nei libri sia
nella serie, il suo personaggio un po’ sottovalutato; insomma
si merita di
ricevere le stesse attenzione che hanno le altre ed è il
momento che qualcuno
dei nostri uomini si accorga di lei!
Non
la trasformerò in una diva o in una mezza sgualdrina che
si ubriaca e si lascia andare con i ragazzi, non ho intenzione di farla
nemmeno
troppo seducente o sfacciata; non sarebbe più Bonnie
altrimenti. Le voglio solo
dare un po’ di sicurezza!
La
stessa che ha mostrato in questo capitolo con Damon,
anche se, come lei stessa ha detto, è stato lui a
permetterglielo. Bonnie lo
conosce da quando è nata quindi può prendersi la
confidenza di parlargli così
schiettamente, ma rimane comunque la solita ragazza tenera e sensibile,
ancora
soggetta al carisma di Damon, anche se non ne è affascinata
come nei libri.
Sarà
principalmente narrata dal punto di vista di Bonnie, ma
anche Damon avrà i suoi i spazi.
Spero
davvero che vi piacerà quanto Ashes&Wine e spero
continuerete a lasciarmi i vostri splendidi consigli e commenti.
A
mercoledì! E grazie in anticipo!!!
*In
Phantom i ragazzi decidono di frequentare il college di
Dalcrest; ho seguito questa linea per Damon.
**
Tra Bonnie e Stefan ci sarà solo un amore fraterno!
Sarà pieno
di bei momenti tra loro, ma non vedrete mai un’interazione
romantica. Anche perché
in questa storia Elena rimarrà SOLO con Stefan. Nessuno
dubbio sulla sua
fedeltà. Damon ha bisogno di un altro percorso.
***Allora
la questione dell’età per me è
abbastanza un
problema. Mi spiego meglio: da quanto ne so io, negli Stati Uniti le
superiori
durano solo quattro anni, quindi i ragazzi all’inizio
dell’ultimo anno, hanno
solo diciassette anni (quante volte ho scritto anno in questa frase??
Ahah). Però
in alcune serie tv (TVD per esempio) compiono diciott’anni
prima di gennaio. Ora
io mi atterrò alle mie conoscenze e qui gli studenti
diventeranno maggiorenni
solo dopo gennaio del loro ultimo anno di scuola, come dovrebbe essere.
In ogni
caso se qualcuno ha capito come funzione questa cosa, per favore mi dia
delle
delucidazioni perché comincio a credere di essere stupida e
di non sapere fare
nemmeno dei calcoli elementari. Anche Internet la pensa come me, ma
fidarsi è
bene, non fidarsi è meglio ahah.
****Captatio
benevolientiae: letteralmente “accattivarsi la
simpatia”; era una tecnica dei retori classici per portare il
favore delle giuria
dalla loro parte.
|
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Capitolo 2 *** The bitch is back ***
Crazy
Little Thing Called
Love
Capitolo due: The bitch is back.
“I pick all my skirts to be a little
too sexy
Just like all of my thoughts they always get a bit naughty
When I'm out with my girls I always play a bit bitchy
Can't change the way I am sexy naughty bitchy me
I like all of my
shorts to be a little too shortly
Unlike all of my guys I like them tall with money
I love all of my nights to end a little bit nasty
Can't change the way I am sexy naughty bitchy me”
(Sexy, naughty, bitchy
me- Tata Young).
La
selezione casuale del mio Ipod partì alle
dieci in punto di mattina, come avevo programmato la sera prima. Saltai
sul
letto, colta alla sprovvista dalla prima canzone che
rimbombò nelle casse.
Mugugnando,
allungai la mano fino a schiacciare
il pulsante di spegnimento; prima o poi mi sarei dovuta decidere a
creare una
playlist adatta per il risveglio. Ero stufa di essere strappata dai
miei sogni
da una musica altissima e assordante.
Il
brano di quel giorno, poi, mi stava
particolarmente antipatico, non tanto per il pezzo in sé,
quanto per la persona
che mi ricordava: Katherine.
Avrei
maledetto per sempre la notte in cui gli
spermatozoi di Grayson* Gilbert si erano dati alla pazza gioia ballando
con gli
ovuli di Miranda, la dolce mogliettina, che un mese dopo si era
scoperta
felicemente incinta non di una bambina, ma di due!
La vita sarebbe stata molto più semplice se il destino si
fosse accontentato solamente di Elena. Un pomeriggio di
diciott’anni prima
Katherine Gilbert era venuta al mondo piangendo istericamente come una
disperata e in poco tempo aveva mostrato il suo lato peggiore, o
meglio, il suo
unico lato, dato che non si sarebbe potuto trovare del buono in lei
nemmeno con
la lente d’ingrandimento.
Non
la vedevo da anni, da quando si era
trasferita a Parigi da zia Judith per sfondare nella moda o
un’altra cavolata
simile.
Aveva
solo tredici anni ma era già molto alta e
bella e altre modelle aveva iniziato così giovani.
L’età non era certo un
problema per una presuntuosa come lei.
Da
quanto mi aveva raccontato Elena, sua sorella
era arrivata sulle passerelle di stilisti importanti, ma zia Judith
l’aveva
sempre tenuta a freno, impedendole di venire risucchiata da quel mondo
e
costringendola ad impegnarsi a scuola; questo aveva tolto chiaramente
del tempo
ai casting.
Elena
si sbellicava dalle risata nel constare
che la sua superbissima gemella non era riuscita a raggiungere i suoi
obiettivi
di popolarità.
Quelle
due non si erano mai potute sopportate:
tanto simili nell’aspetto quanto diverse nella
personalità.
Entrambe
erano ambiziose, ma tutto ciò che
faceva Katherine era corrotto da una certa cattiveria. Era scaltra e
molto
sveglia, s’interessava del proprio bene senza badare a chi
veniva ferito nel
processo; anzi sembrava quasi godere delle sofferenze altrui,
specialmente se
provocate da lei.
Le
piaceva avere il potere sulla sua vita, sulle
persone; era una grande manipolatrice e sapeva accattivarsi i favori di
chi le
risultava utile.
Era
insomma un diavoletto già da piccola: sempre
pronta a seminare zizzania. Magari in questi anni era cambiata in
meglio, anche
se dai racconti di Elena appariva la solita stronza di qualche anno
prima.
Mentre
mi lavavo i denti mi chiesi perché stessi
pensando a Katherine Gilbert. Non mi era mai venuta in mente in cinque
anni,
perché proprio ora?
Forse
era il mio sesto senso ma avevo un brutta
sensazione a riguardo. Con un gesto della mano scacciai la mia paranoia
e
tornai in camera per vestirmi.
Elena
sarebbe passata a prendermi in pochi
minuti per andare al lago a trascorrere la nostra ultima giornata di
libertà.
Aprii
l’armadio e mi bloccai a guardare nel
vuoto. Ero ancora mezza addormentata e non avevo ripreso regolarmente i
ritmi
cui era abituata.
Bei
tempi quelli in Spagna: sveglia all’una,
colazione all’una e mezza, pranzo alle quattro e cena alle
undici.
Adesso,
tornata a casa, le cose erano ben
diverse; comunque alzarsi alle dieci era una vera mazzata per la mia
testa
dolorante e stanca.
Alla
fine mi riscossi e frugai tra i vestiti.
Indossai un abito leggero e sotto un costume di quelli che non avevo
portato in
Spagna.
Dieci
minuti dopo ero seduta sui gradini della
mia veranda in attesa di Elena, che sarebbe arrivata in ritardo come al
solito.
Sbuffai
e mi appoggiai sui gomiti guardando
impazientemente in fondo alla strada nella speranza di scorgere
l’auto della
mia amica.
La
mia attenzione fu invece colta da alcune
grida provenienti dalla casa di fronte. Non mi era difficile immaginare
chi
fossero: Damon e suo padre.
Almeno
una volta a settimana la quiete del
quartiere veniva scossa da scenate del genere. Normalmente era Giuseppe
ad
urlare; suo figlio manteneva una calma surreale, saccente ed irritante
che ti
faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi.
Quel
giorno, però, potevo udire distintamente
anche la voce del ragazzo. Doveva esserci un motivo veramente grave per
scuotere l’impassibile Damon Salvatore.
Fu
così che lo vidi uscire dalla sua villetta
qualche secondo dopo, sbattendo furiosamente la porta, da rischiare di
scardinarla.
Marciò
verso la sua Ferrari posteggiata nel
vialetto, furente e i miei occhi non lo lasciarono un attimo. Non
m’importava
di osservarlo tanto impunemente; sapevo che non si sarebbe mai accorto
della
mia presenza o che comunque non si sarebbe sprecato a girarsi e
salutare. Non
ero né con mio padre né con Elena, per cui non
era costretto a comportarsi come
una persona educata.
Eppure
tentennò prima di aprire la portiera e il
suo sguardo si alzò su di me, incrociando il mio. Mi
gelò.
Non
avevo mai visto una tale malinconia negli
occhi di nessuno, tanto meno nei suoi. Damon non mostrava quasi mai le
sue
emozioni.
Era
dall’altra parte della strada ma non era
difficile capire quanto fosse turbato e mortificato?
No, era proprio infelice. Appariva quasi indifeso.
Non
mi stava simpatico, non mi piaceva neppure
come persona, ma non potevo fare finta di niente. Lo conoscevo da tutta
la vita
e avevo imparato un paio di cose sulla sua nebulosa
personalità. Sapevo che
cosa gli avesse provocato tanta tristezza, perché era la
stessa che mi
attanagliava al ricordo di quella madre che mi aveva abbandonato a
cinque anni.
Su quel punto, io e Damon ci intendevamo perfettamente.
Mi
alzai e feci per attraversare la via e
raggiungerlo. La jeep di Elena mi si parò di fronte,
impedendomi la visuale.
Tirò
giù il finestrino e mi salutò “Ehi Bon!
Scusa il ritardo ma ho litigato con i miei. Dai, salta su! Ci staranno
tutti
aspettando. Bonnie?”.
Io
non l’ascoltai nemmeno; aggirai l’auto per
avere ancora il campo visivo libero ma constatai che Damon era
già salito sulla
sua Ferrari e stava mettendo in moto.
Il
momento era stato spezzato: entrambi eravamo
tornati due anime incompatibili.
“Caroline
dov’è finita?” chiesi mentre mi
spalmavo la crema solare.
“Sarà
da qualche parte a fare i bagni nel
latte”.
Mi
voltai verso Meredith e le diedi una leggera
spinta sulla spalla. La mia amica rotolò sul fianco ridendo
e si mise a pancia
in giù.
“Sul
serio, dov’è?”.
“Non
stavo scherzando” si difese Meredith “Mi ha
detto che doveva prepararsi per il Ballo di Autunno”.
“La
scuola non è nemmeno cominciata!” obiettai
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“E’
il suo ultimo anno, Bonnie” spiegò Meredith
“Vuole fare bingo: reginetta di Homcoming**, Miss
Fell’s Church e reginetta del
Ballo di Fine Anno”.
Corrugai
la fronte. Caroline era sempre stata
una mezza maniaca del controllo, ma mi sembrava esagerato cominciare a
prepararsi per una festa che si sarebbe tenuta una settimana
più tardi.
D’altra
parte Caroline sognava il titolo di
reginetta da tutta la vita ma per un motivo o per l’altro non
era mai stata
eletta. Quando l’anno precedente Elena era stata incoronata
durante il ballo,
per poco Caroline non si era colorata di verde.
Lei
era bellissima, popolare e ammirata ma Elena
era un angelo caduto dal cielo. Era molto sicura delle sue doti e le
piaceva
ricevere attenzioni, anche se non faceva niente per ottenerle. Non
c’era
competizione con Elena Gilbert; era il tipo di ragazza cui tutto
risultava
facile.
Caroline
voleva bene ad Elena, ma avrebbe voluto
batterla, almeno per una volta e non era un mistero per nessuno.
Potevo
capire perché stesse cercando di
preparare tutto nei minimi dettagli; non voleva lasciare niente al
caso,
soprattutto ora che la meravigliosa Gilbert non mostrava più
alcun interesse a
tenere lo scettro. Stefan era tutto ciò che le stava a cuore
e avrebbe ceduto
più che volentieri la sua corona a Caroline.
Quelle
erano delle preoccupazioni che nemmeno mi
sfioravano. Nessuno mi avrebbe mai votata, nessuno mi avrebbe presa in
considerazione. La mia non era falsa modestia e non credevo che la mia
vita si
sarebbe potuta trasformare in una delle solite commedie americane***.
Non lo
volevo neppure.
La
rivolta delle Cenerentole, che assurdo
cliché! Io non ero così, non avevo mai sognato di
essere una principessa né
tanto meno che avrei trovato un principe azzurro.
Una
volta, in quarta elementare, la maestra
aveva assegnato a noi bambine un tema sull’amore nelle favole
della Disney. Io
avevo parlato de “La Bella e la Bestia”, il mio
cartone preferito, perché io
avevo sempre parteggiato per la Bestia.
Facile
innamorarsi di un bel principino, con i
capelli biondi e gli occhi azzurri, che galoppando sul un cavallo
bianco,
salvava dal drago la fanciulla di turno; ma era certamente
più sincero un amore
rivolto ad un mostro, apparentemente brutale e senza sentimenti, che si
alla
fine si dimostrava molto più meritevole di un qualunque
ragazzetto in calza
maglia.
Belle
aveva saputo vedere la luce in quella
bestia che l’aveva imprigionata; era stata capace di donargli
il suo affetto e
di renderlo un uomo migliore; un uomo da amare.
Un
sogno tanto irreale quanto l’idea di me
reginetta di Homecoming, ma ero un’incurabile romantica.
“Non
mi candiderò quest’anno”
dichiarò Elena,
che era stesa di fianco a me, dall’altra parte
“Voglio che Care vinca
quest’anno, è davvero importante per lei e non mi
va che mi porti il broncio
ancora per una settimana come l’ultima volta”.
“Ti
voteranno sicuramente reginetta della
modestia” ironizzò Meredith ed Elena la
guardò torva, ma non poté rispondere
perché una bocca scese sulla sua rubandole un bacio lungo e
appassionato.
“Prendetevi
una camera” mi lamentai mettendomi
una mano davanti agli occhi. Le effusioni tra i miei due migliori amici
non
erano propriamente il mio spettacolo preferito.
“Dove
sei stato fino adesso?” gli domandò Elena
ignorando il mio commento.
“Ho
dovuto calmare, papà” raccontò Stefan
“Ha
litigato con Damon e aveva un diavolo per capello”.
“Li
ho sentiti mentre ero fuori ad aspettarti”
dissi rivolgendomi ad Elena.
“Non
vedo l’ora che cominci
l’università”
borbottò Stefan sdraiandosi accanto alla sua ragazza
“Sono a casa da due giorni
e mi hanno già tirato scemo. Non capisco perché
Damon non se ne stia in camera
sua al campus”.
“A
casa tua c’è la governante, Stef” gli
feci
notare. Quella santa donna di Teophilia
Flowers.
“Magari
vuole stare con la sua famiglia, no?”
replicò Elena.
No,
la mia ipotesi era decisamente più
realistica. Damon non sopportava né suo fratello né suo padre.
Meredith
si era completamente esclusa dalla
conversazione: aveva infilato gli auricolari del suo Ipod nelle
orecchie e
aveva chiuso gli occhi. Non conosceva molto bene Damon e preferiva non
intromettersi.
“Aveva
uno strano sguardo oggi quando l’ho
visto” commentai “Tuo padre ha esagerato
ancora?”.
Stefan
mi guardò serio e annuì
“Papà odia quando
Damon non lo ascolta o lo ignora; quello è l’unico
argomento che lo fa
scattare”.
Elena
non capì di cosa stavamo parlando ma non
indagò. Apprezzavo molto il fatto che non volesse
impicciarsi dei segreti miei
e di Stefan. Rispettava la nostra amicizia e la nostra confidenza;
sapeva che
certe cose sarebbero rimaste solo tra di noi.
“Staserà
tornerà più incazzato del solito e mi
torturerà” sospirò Stefan amareggiato.
“Damon
non è così male, ragazzi” disse Elena
“Lo
dipingete molto peggio della realtà. E non ti odia affatto,
Stefan”.
Adoravo
Elena. Era la mia migliore amica da
sempre, era quasi un’altra sorella e avrei fatto di tutto per
lei, ma proprio
non capivo da dove venisse tutta quella comprensione nei confronti di
Damon;
per qualche motivo finiva sempre per difenderlo.
La
grande dote di Elena era la compassione e in
qualche modo era riuscita a trovare una connessione con Damon e vedeva
solo la
sua parte migliore, che sinceramente mi era del tutto sconosciuta.
Il
maggiore dei Salvatore aveva una passione per
lei e avevano trascorso insieme del tempo. Elena lo considerava solo
come un
amico, ma si era affezionata e si sentiva il dovere di proteggerlo.
“Sei
cieca, Bonnie, se non vedi la sua anima”
mi ripeteva sempre la mia amica “Damon
soffre e non c’è nessuno disposto ad
ascoltarlo”.
Che
Damon avesse delle questioni in sospeso,
questo era chiaro a tutti, ma non gli dava il diritto di essere un
immenso
pezzo di schifo.
“E
tu dovresti smetterla di aizzare l’odio tra
questi due” mi rimproverò.
“Io
non aizzo niente!” protestai indignata “Non
sono una grande fan di Damon, ma non è un segreto. Non si
è mai comportato bene
con me e non vedo perché dovrei essere gentile quando lui me
ne ha fatte di
tutti i colori per anni”.
“Ha
provato ad essere carino con te” ribatté
Elena “Ti ricordi quando ha vinto dei biglietti omaggio per
il parco
divertimenti? Invece d’invitare i suoi amici, ha portato te e
Stefan”.
“Io
me lo ricordo” affermò il mio migliore amico
“Papà l’ha obbligato ad invitare me e
Bonnie”.
Il
sorriso dalla bocca di Elena sparì.
“Non
è stata quella volta che mi ha rotto il
dito?” chiesi.
Elena
sbiancò ulteriormente: tra tutti gli
esempi che poteva scegliere, aveva preso proprio quello sbagliato.
“Sì,
è stata quella volta” confermò Stefan
“Però
non ha fatto apposta: non aveva visto che avevi ancora la mano nella
portiera”.
“Intanto
ho passato tutto il pomeriggio con un
dolore atroce mentre lui si divertiva sull’auto volante. Neanche si è scusato”.
Elena
portò mesta la testa sulla spalla di
Stefan e decise di non aprire più bocca. Voleva mettere
Damon in buona luce e
aveva fatto peggio.
La
verità era soltanto una: Damon Salvatore era
indifendibile ed imperdonabile.
Lo
odiavo, lo odiavo con tutto il cuore.
E
anche Stefan. Li odiavo tutti e due.
A
volte mi chiedevo per quale motivo mi
ostinassi a rimanere a casa quando aveva una camera al campus pronta
per me.
La
risposta era semplice: quella era anche casa
mia e avevo il diritto di rimanerci per tutto il tempo che desideravo.
E se,
nel mentre, riuscivo pure a fare andare su tutte le furie mio padre,
tanto
meglio.
Perché
io lo odiavo.
La
notte prima ero tornato tardi, parecchio
tardi e non credevo proprio che avrei trovato qualcuno in giro. Mio
padre aveva
scelto il momento sbagliato per andare in bagno. Non era la prima volta
che
facevo le ore piccole, avevo ventuno anni, ero grande abbastanza per
decidere
della mia vita.
Lui
aveva provato a rimproverarmi, ma mi ero
chiuso in camera prima che potesse anche solo aprire bocca.
Ero
un illuso se credevo che si sarebbe arreso.
Quella mattina mi aveva inchiodato nell’ingresso e aveva
incominciato una delle
sue solite filippiche, totalmente inutili.
Dopo
così tanti anni avrebbe dovuto imparare che
ormai le sue parole non mi scalfivano più. A meno che non la nominasse; era l’unica cosa
che mi faceva scattare e mio padre
lo sapeva bene. Lo usava per ottenere qualche reazione.
Odiavo
anche questo.
Mio
padre era un inetto, un uomo che non era
nemmeno capace di tenere a bada suo figlio senza nominare il nome della
madre
morta.
Avevo
provato a renderlo fiero di me, davvero! Avevo
fatto del mio meglio ma nessuno poteva competere con la perfezione di
mio
fratello.
Qualunque
merito io avessi, Stefan mi superava
senza nemmeno sforzarsi. Per mio padre solo uno di noi era degno di
portare il
nome dei Salvatore e quello non ero io.
Stefan
lo venerava perché era l’unico genitore
che avesse mai conosciuto. Stefan non aveva idea di quanto nostra madre
fosse
migliore di nostro padre.
Lo
ammirava incondizionatamente e non riusciva a
vedere la merda che in realtà si celava in
quell’uomo.
Mio
padre Giuseppe lo aveva sempre favorito. Non
importava quanto io m’impegnassi, mio fratello stava due
passi davanti a me in
ogni caso.
Così
un giorno avevo smesso di essere come
voleva mio padre e avevo cominciato ad essere come volevo io. Ed era
stato
l’inizio della fine.
Giuseppe
non dimenticava mai di ricordarmi che
ero la sua delusione più grande per svariati motivi. Avrei
dovuto comportarmi
più come Stefan, secondo lui.
Ma
io non ero Stefan; io ero Damon, il figlio
che avrebbe preferito non avere.
Per
questo li odiavo tutti e due. Odiavo mio
fratello perché mi aveva rubato entrambi i genitori e odiavo
Giuseppe perché
non era capace di amarmi quanto mia madre.
Quella
mattina era uscito come una furia, dopo
una delle nostre solite litigate; ero certo di avere
un’espressione stravolta,
mi si poteva leggere in faccia quanto le parole di mio padre mi
avessero
turbato. Non avrei mai voluto che qualcuno mi vedesse in quello stato
ma la
fortuna sembrava essermi avversa, dato che mi ero trovato davanti
quella pulce
di Bonnie McCullough.
Non
ne ero rimasto seccato, comunque. Lei aveva
inteso al volo che cosa fosse successo e io non mi ero preoccupato di
nasconderlo.
Non
mi vergognavo di mostrare il mio dolore a
Bonnie, perché anche lei aveva perso la mamma da piccola e
mi capiva come
nessun’altro.
Era
una ragazzina petulante e immatura,
totalmente accecata dal bagliore di mio fratello, come tutti del resto,
ma non
m’infastidiva averla intorno quando ripensavo alla mia mamma
e a quanto mi
mancasse.
Non
che avessimo mai condiviso molti momenti
commuoventi, aprendo il cuore uno all’altra, ma se ne avessi
avuto bisogno,
sarei andato da lei.
Sentii
una pernacchia di fianco a me, che mi
strappò maleducatamente dalle mie riflessioni. Mi girai con
un sopracciglio
alzato.
Perché
mi ero scelto degli amici così idioti?
Osservai
i due ragazzi seduti con me al tavolo
di Starbucks, che ignari del mio malcontento, giocavano a soffiarsi il
ghiaccio
sciolto con la cannuccia.
Tyler
Smallwood, giocatore di football, testa
calda, pluri- ripetente che per grazia di Dio forse
quell’anno sarebbe riuscito
a diplomarsi.
Sage
de Lioncourt****, mio compagno di stanza,
capelli un po’ lunghi color bronzo, origini francesi. Usava
il suo finto
accento per fare colpo sulle ragazze, ma in realtà non
sapeva che poche parole
di quella lingua, anche se fingeva il contrario.
Non
erano propriamente delle menti geniali e a
volte avrei voluto prenderli a testate solo per farli tacere, ma li
conoscevo
da molti anni e non riuscivo ad immaginarmi un gruppo diverso dal loro.
“Ieri
ho incrociato Elena Gilbert mentre tornavo
a casa. È ancora più bella di quanto
ricordassi” commentò Sage con l’unico
intento di stuzzicarmi “Tuo fratello è il ragazzo
più fortunato della città”.
“Stefan
non sa a che cosa va incontro” grugnii
io senza scompormi più di tanto “Una come Elena
dovrebbe stare con qualcuno
alla sua altezza, non con un ragazzino”.
“Le
servirebbe un uomo, certo” parve concordare
lui “E tu sei chiaramente così maturo e
virile” mi prese in giro con una
risata.
Avrei
dovuto prenderlo a pugni. Sage doveva
ringraziare che gli stessi concedendo tutte quelle confidenze.
“Sappiamo
tutti che prima a poi te la porterai a
letto, Damon” disse Tyler un po’ ingenuamente e io
non mi presi la briga di
correggerlo.
Elena non
era uno sfizio, non la volevo solo per soddisfare le mie voglie. Elena
era la
perfezione scesa tra gli umani e insieme avremmo formato una coppia
esplosiva.
“Basta
parlare della Gilbert” tagliò corto Tyler
“Non è l’unica ragazza sulla faccia
della terra; anzi ce n’è altra tra le sue
amiche che mi farei volentieri”.
Caroline
Forbes, sai che sorpresa! Pensai.
“Bonnie
McCulluogh”.
Per
poco non mi strozzai con il mio frappé.
Avevo sentito bene?!
“La
piccola rossa?” domandò anche Sage in
conferma, stupito quanto me.
“L’ho
vista oggi al lago e fidati: non è più
tanto piccola” e strizzò l’occhio.
“Ho
incontrato Bonnie ieri sera e anche
stamattina. È la solita tavola da surf” lo smontai
con uno sbuffo.
“Non
ho detto che è diventata Pamela Anderson”
replicò Tyler “Ho detto che è diventata
figa”.
Figa?
Quel piccolo uccellino? Le brutte erano altre,
ma figa non era la parola che avrei usato per descriverla. Graziosa,
forse.
Carina ma niente di più.
Era
un tipo che viaggiava nell’anonimato. Niente
a che spartire con Elena.
“La
vacanza in Spagna deve averle fatto molto
bene. Dovevate vedere che costume aveva e come le stava. Era
sexy”.
Scoppiai
a ridere a quell’assurdità. Potevo
accettare “figa” ma “sexy”
proprio no. Bonnie non poteva mostrarsi sensuale,
non ce l’aveva nel sangue ed era una delle poche cose che
apprezzavo di lei.
Poteva essere irritante e saccente fino allo sfinimento ma almeno era
autentica.
“Ho
sempre pensato che Bonnie fosse carina”
confessò Sage “Però mi sembra ancora
una bambina, non è il genere di ragazza
che potrebbe tentarmi”.
“Non
sembra una bambina, lo è”
precisai io.
“Ha
la stessa età di Elena e Caroline” mi fece
notare Tyler.
Colpo
basso: desideravo Elena ed ero stato uno
dei primi ragazzi di Caroline; entrambe però si avvicinavano
molto più alla mia
idea di donna.
“Non
è una questione di età, ma di
atteggiamento” replicai “Senti, Tyler: Bonnie vive
ancora nel mondo della
favole, okay? Quindi ti sconsiglio di provare qualsiasi cosa tu abbia
in mente”
ero risultato un po’ troppo minaccioso ma fui soddisfatto del
mio risultato
quando lo vidi abbassare lo sguardo.
L’Uccellino
non mi piaceva, ma non volevo
sentire i suoi piagnistei per essere stata molestata da quel porco di
Tyler.
Lei non avrebbe mai potuto soddisfare i suoi bassi istinti; lui era un
tipo un
po’ troppo materiale.
“Era
solo per dire” alzò le spalle lui “Non
devi
per forza marchiare il territorio”.
Dio
mio,
era anche più stupido di
quanto pensassi! “Non era quello che intendevo”.
“Lo
dici adesso” continuò a punzecchiarmi
“Vediamo tra qualche settimana quando altri si faranno
avanti. Morirai dalla
voglia di aggiungere un’altra tacca alla tua cintura; non
resisterai mai alla
soddisfazione di prenderti la prima volta di Bonnie
McCulluogh”.
Mi
misi a ridere senza molta convinzione “Sì,
certo” finsi di accontentarlo “Ne riparliamo tra
una decina d’anni, quando
finalmente si svilupperà”.
Non
sarei riuscito a considerare Bonnie sotto
quel punto di vista. Come aveva detto Sage era ancora una bambina;
carina ma
non abbastanza donna da tentarmi. Senza contare che era il capo del fan
club di
Stefan e questo costituiva un bel deterrente.
Era
troppo santarellina per i miei gusti, troppo
moralista, di una bontà quasi nauseante. Fredda come un
ghiacciolo; non avrebbe
mai permesso a nessuno di toccarla. Chissà perché
avrei dovuto fare tanta
fatica per avere tra le mani uno stecchino di legno.
Bonnie
McCulluogh, quel fastidiosissimo
Uccellino rosso non avrebbe mai catturato le mie attenzioni e io non mi
sarei
mai abbassato a corteggiarla.
Mai.
“Caroline,
ti stai ingozzando con quel frullato”
appuntò Meredith osservando preoccupata l’amica
trangugiare il mix di frutta.
“E’
l’unica cosa che posso mangiare questa
settimana” disse Caroline mentre con la cannuccia consumava
anche il fondo di
plastica “Ho comprato un vestito così stretto che
dovrò perfino dimenticarmi di
respirare”.
“Care,
lo sai di essere bellissima? E che non ti
serve strizzarti in un corpetto per mostrarlo a tutti?”
cercai di rassicurarla
io. Caroline Forbes aveva l’aspetto di una modella di Vogue e
non aveva certo
bisogno di qualche sciocco espediente per risplendere.
“Grazie,
Bon, ma tu non hai idea di cosa si
debba fare per essere elette reginette”.
M’imbronciai
impercettibilmente. Caroline non
l’aveva detto con cattiveria ma io ci rimasi un po’
male lo stesso. Era come se
qualcuno avesse ribadito per l’ennesima volta quanto io fossi
irrilevante.
Meredith
se ne accorse e mi sorrise
calorosamente e scosse la testa come a dirmi di non farci caso.
Ritrovai subito
il buon umore.
Se
volevo che tutti notassero quanto ero
cresciuta, avrei dovuto cambiare qualcosa anche nel mio atteggiamento e
vittimizzarmi non era un buon punto di partenza.
“E’
il nostro ultimo anno ragazze e deve essere
perfetto” continuò Caroline “Noi
dobbiamo essere perfette, dobbiamo lasciare il
segno. Inizia tutto con il ballo Homecoming, quindi non facciamoci
trovare
impreparate, okay? Vi voglio tutte favolose! Forse Elena un
po’ meno di me,
ecco” ammise con un mezzo ghigno “A proposito,
dov’è Elena?”.
“L’hanno
chiamata i suoi genitori mentre eravamo
al lago ed è dovuta tornare a casa. Ci raggiunge qui
dopo”.
“Mi
straccerà anche quest’anno” si
lamentò
Caroline improvvisamente seria.
“Non
essere così tragica” sbottò Meredith.
“Lei
ha Stefan. Stefan!”
ribadì ripetutamente “Il ragazzo più
bello e popolare
della scuola! E io non posso neanche invitare Matt. La nostra storia
è finita
in un disastro, non ho nemmeno il coraggio di parlargli”.
“Questo
sì che è un problema” la prese in giro
Meredith.
“Forse
potrei chiedere a Damon di accompagnarmi”
ipotizzò l’altra.
Io
aprii la bocca scioccata e mi girai verso il
tavolo dei ragazzi, dove insieme a quell’imbecille del mio
vicino erano seduti
anche Sage e Tyler.
Mi
rivoltai verso Caroline “Stai scherzando,
vero?! Sono io l’unica che si ricorda come ti ha trattata
quel mese in cui siete
stati insieme?”.
“E’
successo più di un anno fa, Bonnie! Posso
buttarmi alle spalle il passato per un fine superiore”
concluse.
“Venderesti
tua nonna pur di vincere quella
corona” ridacchiò Meredith.
“Solo
la nonna? Io pensavo più alla sua anima”
la seguii sempre più sbigottita.
“Ridete
pure, adesso” ci sfidò bonariamente
Caroline “Ma quando sarò famosa, vi ricorderete
delle mie parole e di quanto
avessi ragione”.
“Alla
salute della nostra regina allora” dissi
io alzando il mio milk-shake.
Meredith
mi imitò e anche Caroline ma si accorse di avere il
bicchiere vuoto.
“Me
ne serve un altro” si alzò e andò al
bancone
ad ordinare.
“Ha
il tatto di un elefante ma le auguro di
vincere” ammisi abbassando un po’ la voce in modo
che mi sentisse solo Meredith
che annuì alla mia affermazione.
Elena
era la mia migliore amica e l’adoravo ma
era giunto il momento che passasse il testimone; era il turno di
Caroline.
Inoltre
ad Elena non importava molto del titolo
di reginetta o di qualsiasi altra frivolezza. Era sempre stata
l’ape regina del
gruppo, quella che catalizzava tutta l’attenzione, sebbene il
più delle volte
avrebbe preferito il contrario.
Sapeva
di essere bella, la consapevolezza di
tutte le sue qualità l’aveva aiutata a forgiare
una personalità forte e sicura
di sé.
Non
aveva bisogno che la gente la elogiasse per
sentirsi importante.
Caroline
d’altra parte, pur essendo altrettanto
bella e ammirata, aveva seri problemi di autostima. Per quanto si
sforzasse, si
fermava sempre su un gradino più in basso di Elena.
Sarebbe
stata una grande rivincita per lei
venire votata come reginetta della scuola; sarebbe finalmente uscita
dall’ombra
di Elena Gilbert e si sarebbe resa conto di quanto valesse, con o senza
scettro.
Se
io avessi potuto scegliere a quale delle mie
amiche assomigliare, avrei risposto Meredith. Forse non era bella
quanto Elena
o Caroline, ma appariva comunque meravigliosa e spiccava lontana dalle
luci di
quelle due.
Era
molto intelligente, spiritosa e sveglia.
Contava sulle proprie capacità, conquistava tutti con il suo
spiccato buon
senso e con la sua lealtà.
Non
giudicava ma consigliava. Era ammirata per
la sua compostezza, per il suo acume e per la sua bravura. Meredith
rappresentava un modello per le giovani studentesse del Robert E. Lee,
un
termine di paragone. Tutte avrebbero voluto diventare come lei, me
compresa.
“Scommetto
che avrà già minacciato metà comitato
del ballo di eleggerla. È impossibile che qualcuno possa
batterla ed Elena non
si candiderà nemmeno” il ragionamento di Meredith
non fece una piega come al
solito.
“Sai
già con chi andrai al ballo?” le chiesi dal
nulla.
“Con
me stessa. Sono una compagnia migliore di
tutti gli stupidi che ci sono a scuola” fu la sua risposta
secca.
Ecco
perché apprezzavo così tanto quella
ragazza!
“Almeno
non sarò la sola” mi consolai.
“Non
saprei … voglio dire … Tyler Smallwood ti
sta facendo la radiografia da quando sei arrivata” mi
sussurrò.
Io
inorridii “Punto un po’ più in alto di
uno
che non distingue la destra dalla sinistra”.
“Questa
è la mia ragazza!” scherzò lei
battendomi il cinque “E prevedo che quest’anno
farai strage di cuori”.
“Qualche
sconosciuto alto e bruno in vista?”
domandai ironicamente.
“Bruni,
biondi, rossi! Chi se ne frega, basta
che siano belli!”.
“Meredith
Sulez, ti credevo una ragazza più
profonda di così” sorrisi.
In
quel momento Caroline riprese il suo posto
con un megafrullato in mano “Dov’eravamo
rimaste?” finse di esserselo scordato
“Ah giusto, brindavamo alla mia vittoria …
guardate, è arrivata Elena!” alzò
una mano per attirare la sua attenzione “Bionda, vieni ad
inchinarti di fronte
alla tua regina”.
Elena
non parve dell’umore giusto per quella
battuta. Ci raggiunse, si sedette e mise i gomiti sul tavolo,
corrucciata.
“Tutto
bene?” m’informai.
“Una
catastrofe” sibilò “La mia pace
è appena
stata sconvolta”.
Tutte
e tre la guardammo con la fronte
corrugata, senza capire le sue parole, ma un brusio si sparse nel
locale e ci
obbligò a spostare lo sguardo all’entrata.
Sulla
soglia stava una ragazza dai lunghi
capelli biondi e lisci, i suoi occhi blu saettavano per la sala;
sembrava
compiaciuta di aver scatenato quella fibrillazione in tutti i presenti.
Sage
e Tyler avevano la bocca così aperta che
chiunque avrebbe potuto vedere anche le loro tonsille; Damon invece non
si era
scomposto molto e aveva piegato le labbra all’insù
in un ghigno trionfante.
Elena
era rimasta immobile con il viso tra le
mani, disperata; Meredith aveva sbattuto un paio di volte le ciglia
incredula.
Caroline
era completamente ammutolita; sembrava
che il mondo le stesse per cadere addosso da un momento
all’altro.
Io,
d’altro canto, non sapevo se fidarmi dei
miei stessi occhi. Solo una persona poteva causare tutto
ciò. E a giudicare
dalle espressioni degli altri non ero in preda alle allucinazioni;
quindi
poteva significare solo una cosa.
La
stronza era tornata.
Il
mio spazio:
Ho
ritardato di un paio di giorni, lo so =( Solo
che domenica non sono riuscita a finire il capitolo perché
volevo vedere la
finale e tutto è slittato. Forse avrei fatto meglio a scrivere considerando
com’è finita ma va beh!
Comincio
con le noti dolenti: non aggiornerò più
Crazy Little Thing Called Love fino a settembre e vi assicuro che ho
una buona
ragione, ovvero: voglio impegnarmi per costruire al meglio questa
storia e
adesso non ne ho il tempo.
Come
vedete è molto diversa da A&W e ho un
sacco di idee ma non so dove metterle. Devo pensare in che direzione
devo
andare e fare una scaletta; mi servirò dell’estate
per fare tutto ciò e
prometto che a settembre ne sarà valsa la pena …
almeno spero!
Non
odiatemi :p
Come
poi vi avevo già detto ora la mia priorità
è Ashes&Wine; sono davvero presa da questa storia e
ho in mente già come si
svolgeranno i prossimi capitoli. Mi piacerebbe finirla entro la fine
dell’anno
e voglio concentrami su questa.
Ora
parliamo un po’ del capitolo: per me il
secondo capitolo di ogni storia è sempre una tragedia
perché mi sembra sempre
di scrivere delle grandissime cavolate. Mi rifarò al massimo
con il capitolo
tre aahaha!
Vengo
introdotti un po’ di personaggi in più tra
cui alcuni degli amici di Damon; ovviamente ce ne saranno altri e uno
ve lo
potrete pure immaginare!
Elena
conserverà un po’ le sue caratteristiche
di principessina ( o non sarebbe più lei) ma si
avvicinerà molto di più alla
dolcissima ragazza della prima stagione di TVD; quella è
l’Elena che ammiro. In
questo capitolo difende a spada tratta Damon e anche durante il corso
della
storia sarà sempre quelle che si schiererà dalla
sua parte. Mi spiego meglio;
lei ama SEMPRE e SOLO Stefan, ma ha avuto modo di vedere la parte
migliore di
Damon e si è ritrovata a volergli molto bene. Damon con lei
si è sempre
comportato in modo impeccabile per via della sua (chiamiamola)
ossessione
quindi Elena non ha mai sperimentato il suo lato cattivo.
Diciamo
che giocherà un ruolo fondamentale
nell’avvicinamento tra Damon e Bonnie.
Il
nostro Uccellino è molto acido nei confronti
dell’altro protagonista ma ha tutti i buoni motivo dato che
lui l’ha sempre
trattata malissimo solo perché è la migliore
amica di suo fratello.
C’è
, però, un’intesa tra loro, un punto di
contatto: la mamma di Damon e Stefan è morta alla nascita di
quest’ultimo e
quella di Bonnie l’ha abbandonata tredici anni prima
dell’inizio di questa
fanfiction (copiata palesemente dalla serie tv, lo so!). Damon e Bonnie
non si
piacciono, non si rispettano neppure se non costretti dalle situazioni,
ma su
quel punto trovano una connessione; anche questo sarà
fondamentale per la
crescita della loro relazione.
Ho
inserito anche un punto di vista di Damon; è
venuto bene secondo voi? Credo di averlo reso un po’ meno
distaccato rispetto
al libro, ma qui è un umano perciò è
normale che abbia degli amici e che si
lasci andare a qualche emozione!
Ora
la stronza alias Katherine è tornata, che
succederà? Caroline ed Elena probabilmente tenteranno il
suicidio ma ce la
dovrebbero fare per fine estate; le ritroveremo entrambe a settembre!
Ora
un po’ di ringraziamenti sono dovuti:
-Chi
ha messo la storia nelle seguite:
1
- Amy In Wonderland
2 - AniaS
3 - BONNIE SALVATORE
4 - Carolaspostata
5 - Desyree92
6 - dree07
7 - Eyesless
8 - gaga96
9 - iosnio90
10 - irene862
11 - Kaname94
12 - KiAmAtEmI_BoS
13 - meiousetsuna
14 - mishy
15 - missgabriella
16 - Mizzy
17 - nannavis
18 - Refia
19 - Roly_chan
20 - sole a mezzanotte
21 - Suspiria _
22 - sweet_ebe
23 - tykisgirl
24 - Valby
25 - veggente
26 - _Finchel92_
-Chi
ha messo la storia tra le preferite:
1
- bonniesalvatore
2 - JaneYumi
3 - leloale
4 - lilyanne89masen
5 - lisetta95
6 - LittleWitch_
7 - real
8 - SassyKat
9 - star11
-Chi
tra le ricordate:
-
princess of the darkness
E
quella fantastiche 12 persone che hanno commentato:
star11
nannavis
bonniesalvatore
LittleWitch_
Jane
The Angel
Bumbuni
meiousetsuna
Refia
irene862
real
sweet_ebe
Amy in Wonderland.
E
ovviamente a tutti i lettori
silenzionsi!!!
Infine
un ringraziamento speciale
a meiousetsuna che mi sprona sempre
a scrivere e a fare meglio!! Grazie!!
Qualche
giorno fa Amy in Wonderland ha
postato l’epilogo
della sua bellissima storia “Ti serve un
concorrente?”; per chi non l’avesse
fatto, corra a leggerla!
Ora
vi lascio! Ci vediamo
con questa storia a settembre ma il 13 con Ashes&Wine!
Baci,
Fran;)
*Grayson
e Miranda sono i
nomi dei genitori di Elena nella serie tv.
**
Allora qui si apre una
disquisizione sui balli nelle scuole americane: Homecoming è
il ballo d’inizio
anno o il ballo di autunno. Prom è il ballo di fine anno; in
entrambi vengono
eletti re e reginette. Ora non so se ci sia e quale sia la differenza,
forse il
Prom è riservato agli studenti dell’ultimo anno.
***
“Non è un’altra stupida
commedia americana” è un film parodia di tutti i
film adolescenziali sulle high
school degli Stati Uniti.
****
De Lincourt è il
cognome di Lestat, il vampiro nato dalla penna di Anne Rice. Omaggio a
questa
grande scrittrice.
|
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Capitolo 3 *** Dirty Dance ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
tre: Dirty Dance.
“I wanna dance with somebody,
I wanna feel the heat.
I wanna dance with somebody,
With somebody who loves me.
Somebody who loves me,
To hold me in his arms.
I need a man who'll take a chance,
On a love that burns hot enough to last.
So when the night falls,
My lonely heart calls”
(I wanna dance with somebody- Whitney
Houston).
Feci
una giravolta, continuando a ruotare il collo per non lasciare la mia
immagine
riflessa nello specchio.
Il
mio
viso si contrasse in una smorfia poco convinta: quella specie di carta
stagnola
che mi avvolgeva il corpo non aveva proprio niente a che spartire con
il mio
stile, ma a detta di Caroline era l’ultimo trend della
stagione, un capo che
non poteva mancare nell’armadio di una ragazza.
Tirai
l’orlo verso il basso in un vano tentativo di coprire almeno
una parte di
coscia; mio Dio, cosa avrebbe detto mio padre?!
Non
potevo scendere con quel coso strizzato addosso o sarei morta di
vergogna. Per
non parlare poi di quel paio di trampoli che mi guardava
minacciosamente, a
monito del male che i miei poveri piedi avrebbero patito.
Se
un
mese prima mi avessero detto che sarei andata al Ballo
d’Inizio Anno indossando
un abito di tal genere, accompagnata da uno dei più bei
ragazzi della città,
non ci avrei mai creduto; anzi sarei scoppiata a ridere.
Mia
sorella mi chiamò dal salotto, annunciando che il mio
cavaliere era arrivato a
prendermi e improvvisamente le mie riserve sul vestito sparirono e non
mi
preoccupai più delle occhiatacce bigotte di mio padre. Ero
semplicemente pronta
per una delle serate più importanti della mia vita.
Tre
giorni prima.
Il
falò propiziatorio per la stagione del football precedeva
tradizionalmente
Homecoming.
Era
uno di quei momenti che una ragazzina sognava per tutto il periodo
delle medie,
accecata dai bagliori delle serie tv, e che perdeva tutto il suo
fascino già la
prima volta; immaginate quanto fosse noioso dopo ben tre anni.
Caroline
ed Elena erano cheerleader e la loro presenza era necessaria;
così io e
Meredith le accompagnavamo come supporto morale.
Era
passata poco meno di una settimana dal ritorno di Katherine ma aveva
già
scombussolato l’equilibrio che ci eravamo create
faticosamente.
Non
era difficile credere che tutti i ragazzi fossero andati in estasi:
un’altra
dea era scesa tra loro e questa era molto più incline al
flirt della sua
gemella. Peccato che Katherine non fosse certo una sprovveduta e aveva
già
adocchiato il donnaiolo più ambito di Fell’s
Church.
Non
sapevo di preciso che tipo di relazione avessero, erano trascorsi
davvero pochi
giorni, ma li avevo visti insieme un paio di volte ed era chiaro che ci
fosse
del feeling.
Caroline
quando aveva appreso la notizia era entrata nel panico; aveva lottato
per tutta
la sua vita per eccellere ma sembrava comunque destinata ad essere
seconda ad
una Gilbert. Katherine in pochissimo tempo l’aveva
già superata in popolarità:
era bellissima, aveva fascino da vendere e si era accaparrata il
ragazzo più
sexy della città.
Grazie
al Cielo, Caroline non era il tipo da arrendersi così
facilmente; Homecoming
non si era ancora tenuto e colei che sarebbe stata eletta regina,
avrebbe
dettato legge.
Tirando
un paio di conti, avevamo una Gilbert che preferiva godersi il suo
Salvatore
lontano dalle luci della fama, un’altra Gilbert che fremeva
di diventare la nuova
it girl con il suo di Salvatore,
una
Forbes che non si sarebbe placata fino a che quella maledetta corona
non fosse
stata tra le sue mani, una Sulez troppo superiore e matura per
immischiarsi in
quelle faccende da bambine frivole e una McCulluogh che come al solito
passava
inosservata.
La
cosa, in ogni caso, non mi dispiaceva: Katherine sapeva essere molto
crudele e
io preferivo starmene in disparte.
“Non
mi piace” fu il commento di Meredith che ruppe il nostro
silenzio.
Io
mi
voltai interrogativa verso di lei.
“Non
è
una persona che vorrei avere attorno; è come se spargesse
veleno” continuò
“Doveva rimanere in Francia”.
Mi
stupii che Meredith si fosse lasciata andare ad un giudizio
così categorico;
normalmente non si pronunciava mai su questioni che non sentiva di
conoscere.
“Nemmeno
tu sei una gran fan di Kathy, eh?” le chiesi osservando la
ragazza in questione
mentre sgambettava nella sua divisa rossa, molto corta e attillata in
mezzo
alle altre cheerleader. Caroline a suo malincuore era stata costretta
ad
ammetterla nella squadra, probabilmente nella speranza che si sarebbe
rotta una
caviglia cadendo.
“Me
la
ricordo da piccola” disse Meredith “Era
già subdola allora, non mi sembra che
sia cambiata molto. Ho l’impressione che porterà
solamente un sacco di liti”.
“Su
questo non ho dubbi” confermai io.
“E’
sempre stata invidiosa di Elena; quanto ci metterà a volere
quello che ha lei?”
domandò forse più a se stessa che a me, dato che
dava l’impressione di non aver
nemmeno ascoltato cosa le avevo detto.
Appariva
davvero crucciata, troppo per una come lei, di solito così
razionale e
imperturbabile.
“Vado
a prendere ancora della coca. Vuoi qualcosa?”.
“No,
grazie” la guardai sparire tra la folla.
Avrei
voluto capire a cosa si riferisse ma non ebbi neanche il tempo di
fermarla.
Sospirai e decisi di non darmi tanta pena. Avevo fin troppe cose cui
pensare
senza perdere tempo con Katherine Gilbert e i suoi piani diabolici.
Mi
strinsi nelle spalle un po’ a disagio. Non mi piaceva stare
sola in mezzo alla
massa di studenti in festa: mi faceva sentire stupida, una perdente,
come se
tutti gli occhi fossero puntati su di me.
In
realtà nessuno stava prestando attenzione a me, ma era un
senso di fastidio che
non riuscivo a scrollarmi di dosso. Senza le mie amiche ero persa.
Desiderava
con tutto il cuore rendermi più indipendente, più
sicura ma a Fell’s Church mi
risultava più complicato; tutti mi conoscevano, sapevano che
tipo di persona
ero. Che senso aveva cercare di cambiare se coloro che mi circondavano
non
avrebbero accettato il mio cambiamento?
Stavo
quasi per richiamare Meredith quando una mano si posò sulla
mia spalla,
stringendola. Io sobbalzai e mi girai “Matt!”
esclamai.
Istintivamente
mi venne da indietreggiare ma m’imposi di non farlo. Matt
Honeycutt era stato
la mia cotta segreta per i primi anni del liceo; ovviamente non mi
aveva mai
considerata in quel senso.
La
sua
storia con Elena lo aveva scottato parecchio, tanto da non riuscire a
frequentare nessun’altra per molto tempo; poi era arrivata
Caroline, ma anche
con lei era finita proprio per colpa del fantasma di Elena che
aleggiava sempre
attorno a loro.
Conoscevo
Matt dai tempi dell’asilo ed era sempre stato un buon amico,
un punto di
riferimento. Nonostante fosse il capitano della squadra di football,
non si era
mai montato la testa e rimaneva il ragazzo più dolce e
gentile che avessi mai
incontrato.
Lentamente
avevo dimenticato e sotterrato la mia piccola infatuazione,
però ogni volta che
me lo trovavo così vicino non potevo fare a meno di
arrossire.
“Ehi
Bon! Che ci fai qui? Tu che puoi evitarti questo strazio” mi
disse accennando
alla cerimonia del falò.
“Sono
qui per supporto; Mere è andata a prendere da
bere”.
Matt
sorrise “Non vedo l’ora che finisca. Sono troppo
stanco, ho voglia di andare a
casa a dormire”.
“Non
dirlo a me” sbuffai “Sono qui solo
perché Caroline mi ha supplicata; sai, sta
preparando il terreno per Homecoming”.
“Giusto,
assisteremo ad uno scontro tra titani?”.
“Probabile”.
“Parlando
del ballo, ci vai con qualcuno?”.
“Nessuno
in particolare e tu?” ero davvero tanto ingenua e non avevo
capito dove volesse
andare a parare.
“Se
t’invitassi?” mi propose lui “Preferirei
andarci con un’amica piuttosto che con
qualcuna con cui ho scambiato solo due parole”.
Matt
Honeycutt mi aveva appena invitata al ballo? Come amica, certo,
però mi aveva
invitata. La mia autostima fece un paio di capriole.
Gli
risposi sorridendo come un’ebete. Mi sarei messa a saltellare
ma non sarebbe
stato molto dignitoso.
Fu
così che il giorno dopo mi ritrovai in una delle boutique
più alla moda di
Fell’s Church con le mie amiche.
Fare
shopping con Elena e Caroline era parecchio demoralizzante: su di loro
ogni
vestito sembrava risplendere. Erano due top model, avevano gioco facile.
Anche
Meredith comunque aveva ad un bel fisico slanciato. Io ero la
più bassina. L’estate
in Spagna mi aveva fatto davvero bene, il mio corpo ero molto
più tonico e
potevo permettermi certi abiti che prima mi sarei sognata ma ero
lontana anni
luce dal livello delle mie amiche. Tra la folla non venivo certo notata
quanto
loro.
Ma
quel vestito che Caroline mi aveva costretta ad indossare era
decisamente troppo. Un tubino
corto, senza maniche,
abbastanza stretto, color argento. Non sembrava fosse molto adatto per
un
fisico con poche forme come il mio; Caroline era di opinione contraria
e così
anche Elena.
L’unica
che mi dava man forte era Meredith ma contro le altre due risultava
comunque
una lotta impari.
“Care,
non potrei provare qualcosa di più sobrio?”.
“Intendi
noioso? Neanche per
sogno!” s’impuntò
lei “Anche voi, dite qualcosa”.
“Ti
sta molto bene, Bonnie” concordò Elena
“Caroline ha ragione: ogni tanto devi
osare un po’ di più”.
“E
poi
andrai al ballo con Matt” rincarò Caroline
“Non è il primo sfigato che passa
per strada, è uno dei ragazzi più popolari della
scuola! Devi togliergli il
fiato!”.
“Non
devi mettere niente che non ti faccia sentire a tuoi agio” mi
confortò
Meredith.
“Credi
mi stia male?” le chiesi dato che mi sembrava la
più obiettiva.
“No”
mi rispose sinceramente “Ma è a te che deve
piacere non a noi”.
Mi
morsi il labbro, indecisa. Da una parte non lo sentivo mio, ma
dall’altra era
molto diverso dal mio genere e forse era quello che mi serviva per una
bella
scossa.
Matt
lo sto facendo solo per te.
Sera
della festa.
Restai
attonito di fronte alla dea che si presentò alla porta
quando l’andai a
prendere.
Era
straordinaria la somiglianza con la gemella, anche se –dovevo
proprio
ammetterlo- Elena aveva un’altra classe. La sua bellezza era
naturale, non
esibita; Katherine d’altro canto trasudava
sensualità da tutti i pori.
Mi
piaceva quel suo lato malizioso e sfacciato. Si divertiva a stuzzicarmi
e io
stavo al gioco più che volentieri. Le lasciavo perfino
credere che potesse
condurre le danze, ma sapevo che avrei potuto prendere il controllo e
rimetterla al suo posto in qualsiasi momento.
Mi
rendevo conto di quanto la cosa risultasse strana, al limite del
malato: da
tempo ormai desideravo Elena solo per me e alla fine avevo iniziato a
frequentare la sua gemella. Quale assurdo meccanismo del mio subconscio
mi
aveva portato a fare ciò? Non avrei saputo dirlo. Non era un
premio di
consolazione, quello no.
Semplicemente
un giorno si era presentata a casa mia e mi aveva invitato a prendere
un caffè.
Nelle lunghe ore trascorse a parlare, avevo scoperto quanto fosse molto
simile
a me; la sua personalità era molto più
compatibile alla mia rispetto a quella
di Elena e perciò mi ero detto: perché no?
Perché
non provare a conquistare la mia Gilbert personale? Una Gilbert che mi
avrebbe
reso sicuramente più felice della sorella.
Così
mi ero ritrovato incastrato in questa stupida faccenda del ballo.
Non
feci nemmeno molto caso al suo vestito, forse era rosa; la mia
attenzione venne
catalizzata dalle gambe lunghe e ben definite lasciate scoperte dalla
stoffa.
Quanto
avrei voluto saltare il ballo e portarla in camera mia, dove avrei
potuto
toccarle fino a consumarle e bearmi di tanti altri doni.
Questa
stupida festa era molto importante per lei ed ero obbligato ad
accontentarla.
Dopotutto, ne valeva la pena: Katherine rappresentava la mia compagna
ideale,
quasi quanto Elena. Non potevo lasciarmi scappare
un’occasione che forse non si
sarebbe più ripresentata. Io ero Damon Salvatore e non
fallivo mai.
“Ehi,
il viso è qui su” la sentii rimproverarmi dopo che
il mio sguardo si era
soffermato un po’ troppo sul suo corpo. Chi
poteva biasimarmi?
Ritornare
al Robert E. Lee dopo tutto quel tempo non era il mio sogno ricorrente;
anzi
l’avrei evitato con tutto il cuore.
Per
quattro anni ero stato il re della scuola, il suo vero padrone. Le
ragazze mi
amavano, i ragazzi mi temevano, i professori non mi sopportavano ma in
un modo
o nell’altro tutti mi rispettavano.
Ero
a
conoscenza dell’ascendente che avevo sugli altri
benché non sapessi da dove
derivasse. Sicuramente dovevo ringraziare il mio bell’aspetto
ma non poteva
essere soltanto quello.
Da
quando mia madre era morta, mi ero arrangiato per crescere da solo,
senza
l’aiuto del mio odiato padre. Mi ero reso indipendente,
sicuro, avevo
sviluppato un gran carisma e un ottimo controllo su me stesso e su chi
mi stava
attorno.
La
forte personalità era l’unica cosa positiva che
avevo preso da mio padre, con
una buona dose di egoismo che mi aveva risparmiato parecchie seccature.
Tutto
questo sembrava oro colato agli occhi delle persone; continuavo a non
capirne
il perché, ma ne approfittavo, lo giravo a mio favore.
Perché
non avrei dovuto? Al mondo non c’era posto per i deboli, io
colpivo e
sopraffacevo; se gli altri erano così stupidi da mostrare le
loro insicurezze,
peggio per loro, mi rendevano la strada solo più facile.
Trovarmi
in mezzo a tutta quella marmaglia di adolescenti mi fece sentire quasi
vecchio;
sicuramente seccato. Avevo superato il tempo dei balli scolastici e dei
palloncini sparsi per la palestra.
Ormai
mi ero abituato a feste di ben altro livello. Per una sera mi sarei
dovuto
adattare. Katherine avrebbe fatto meglio a ricompensarmi ampiamente e
generosamente.
Iniziavo
a vedere le prime teste girarsi verso di noi. Eravamo una coppia da
togliere il
fiato, me ne rendevo conto. Gli occhi delle ragazzine si sgranarono
nello
scorgermi: ero il loro sogno proibito.
Tutte
impazzivano per Stefan perché lui era la quintessenza del
principe azzurro; ma
io ero il loro diavolo tentatore, ero l’unico capace di
portare un brivido
nella loro vita monotona in questa cittadina sperduta nella Virginia.
Potere;
ecco ciò che ricercavo senza sosta: potere sulle persone.
Poco
più in là fecero il loro ingresso il mio
fratellino e la sua ragazza e fu il
mio turno di trattenere il respiro.
Elena
era davvero bellissima e per un momento (forse più di un
momento) mi sfiorò la
fantasia di avere entrambe le gemelle per me, ma la scacciai in fretta.
Non
volevo che Katherine si sentisse minacciata dalla sorella; conoscevo la
sensazione e non l’avrei augurata a nessuno, per cui mi
sbrigai a distogliere
lo sguardo e a concentrarlo sulla mia dama che camminava al mio fianco
come una
pantera.
Più
stavo con lei, più mi convincevo che saremmo diventati una
coppia esplosiva e
in un universo parallelo saremmo stati degli esseri superiore pronti a
governare il mondo.
La
strinsi e procedemmo per la sala.
“Santo
Cielo” la sentii inveire “Le feste a Parigi erano
tutta un’altra cosa”.
“Sei
tu che hai insistito per venire; fosse stato per me adesso staremo
festeggiando
in altra maniera”.
Questo
mi costò un pungo sulla spalla.
“Non
essere così triviale” mi rimproverò ma
nei suoi occhi potevo leggere lo stesso
mio desiderio “Dovevo venire questa sera; mi eleggeranno
reginetta”.
“Non
per rovinare le tue aspettative ma non ne sarei così sicuro:
hai un paio di
avversarie piuttosto toste” le ricordai.
“La
mia sorellina non si è nemmeno candidata e Caroline non
è un problema” mi
rispose senza scomporsi “Non mi credi abbastanza bella per
vincere?”.
“Preferisco
tenermi lontano da queste dispute da liceale” dissi
“Ma la mia opinione mi
sembra abbastanza chiara, no? Non mi pare di essere al ballo con
Caroline Forbes”.
“Caro
il mio Damon” mi soffiò all’orecchio
“Sempre così bravo ad aggirare le
risposte” mi punzecchiò “Ti prometto che
non ti pentirai di avermi
accompagnata”.
Mi
lasciò un bacio all’angolo della bocca e si
allontanò per salutare delle sue
compagne. Era proprio una civetta nata e stavo cadendo in pieno tra i
suoi
artigli.
Gironzolai
un po’ per la palestra in attesa che Katherine tornasse e
scorsi una coppia
davvero inaspettata: Matt Honeycutt e il mio Uccellino.
Da
quando quel troglodita di Mutt aveva delle mire su Bonnie? Credevo
fosse
talmente accecato dal fulgore di Elena da non avere occhi per
nessun’altra.
Non
mi
sarei sorpreso di vederlo con Caroline ma Bonnie era una
novità. Mi presi un
attimo per osservare la rossa e mi scappò una risatina.
Quell’abito
non era assolutamente adatto a lei e si poteva percepire lontano un
miglio il
suo disagio nell’indossarlo.
Quel
vestito sarebbe stato più appropriato su una donna, non su
una bambina. Bonnie
poteva anche avere quasi diciott’anni sulla carta ma non li
dimostrava per
niente. Non parlavo tanto del fisico quanto
dell’atteggiamento.
La
piccola McCulluogh viveva ancora nel modo delle favole, non aveva la
minima
idea di cosa volesse dire la parola femminilità. Era troppo
ingenua e immatura
per capire il potere che esercitava una donna, il fascino che poteva
emanare
anche con una sola occhiata. Bonnie era totalmente inesperta nel gioco
della
seduzione.
Quell’abito
la stava imbarazzando oltre ogni misura perché lei per prima
non si sentiva
bene strizzata in quella stoffa così aderente.
C’era
di sicuro lo zampino di Caroline.
Decisi
che mi sarei divertito un po’ a prenderla in giro. Dovevo pur
intrattenermi in
qualche modo mentre attendevo Katherine.
“Uccellino”
la chiamai dopo che il suo cavaliere si fu allontanato “Come
siamo tutte tirate
a lucido stasera”.
“Vattene,
Damon” fu il suo lapidario avvertimento; si voltò
per andarsene ma io le
bloccai la strada.
“Non
essere acida, il mio voleva essere un complimento” sì, come no!
“Ti
ringrazio” e sorrise falsamente “Ora puoi
sparire”.
Mosse
un passo in avanti ma io la riacciuffai per un braccio e la tirai verso
di me
“Sciogliti un po’, siamo ad una festa
dopotutto”.
Lei
avvicinò pericolosamente il viso al mio e
digrignò tra i denti “Tornate dalla
vipera che ti sei portato. Tra serpi v’intenderete
benissimo”.
Che
coraggio che aveva sviluppato quella piccoletta! In altre occasioni
l’avrei
anche apprezzato ma era già la seconda che mi sfidava
così apertamente e non
potevo permetterle di continuare a prendersi certe confidenze.
La
obbligai a fare una giravolta e premetti la sua schiena contro il mio
torace.
Mi chinai sul suo orecchio a sibilarle “Stai giocando a fare
la grande, non è
vero Bon Bon? Ma non basta un vestito per crescere
all’improvviso. Credi che
Honeycutt ti abbia invitato perché gli piaci? Lascia che ti
illumini: non
voleva presentarsi da solo come uno stupido dopo aver mollato la Forbes
e ha
chiesto alla prima ragazza con cui poteva andare sul sicuro. E tu sei
stata
talmente patetica da aver accettato pur sapendo che il suo unico scopo
è far
ingelosire Elena. Fatti un favore: smettila di renderti ridicola e
va’ a casa;
a quest’ora i bimbi dovrebbero già essere a
letto”.
Lasciai
la presa prima che lei potesse obiettare qualcosa e mi mischiai tra la
folla per
non sorbirmi le sue lacrime.
Ero
stato un vero stronzo ma proprio non riuscii a pentirmene.
Nessuno
poteva mettermi i piedi in testa, nessuno poteva mancarmi di rispetto.
Bonnie
aveva tirato troppo la corda, se l’era cercata. La prossima
volta ci avrebbe
pensato due volte prima di provocarmi.
Katherine
mi venne incontro in tutto il suo splendore e Bonnie McCulluogh
sparì in un
baleno dalla mia mente.
Avevo
una ragazza decisamente più importante di cui occuparmi.
Come
osava? Che diritto aveva di farmi sentire una piccola sfigata?
Quello
era il motivo per cui proprio non riuscivo a vedere in lui tutto il
bene che mi
decantava Elena, per cui non avrei mai potuto capirlo e compatirlo: la
sua
cattiveria gratuita.
Non
avevo fatto niente di male per essere trattata in tal modo e quella di
prima
era stata solo una delle tante volte. Si divertiva a sputare veleno su
di me,
su tutti a dire la verità, ma io ero di gran lunga il suo
bersaglio preferito.
Sembrava
quasi volesse punirmi perché ero una brava ragazza e
più gli stavo alla larga,
più si accaniva.
Rispetto
ai tempi in cui anche lui frequentava il liceo, aveva fatto degli
enormi passi
avanti, ma capitava che la sua rabbia repressa tornasse pronta ad
attaccare.
Era
di
quello che si trattava, di rabbia repressa verso tutta la sua famiglia
e la sua
vita. Ogni tanto doveva sfogarla su qualcuno per non esplodere. E quel
qualcuno
spesso ero io o in alternativa Stefan.
Odiavo
che Damon riuscisse a colpirmi sempre così in
profondità; le sue parole
facevano male perché erano vere o quantomeno verosimili. E
nemmeno quella volta
si era smentito: io non piacevo a Matt.
Mi
voleva bene, ero una sua amica, ma non sarei mai stata la sua prima
scelta.
Probabilmente in fondo al cuore sperava di ingelosire un po’
Elena portandomi
al ballo. Invitare Caroline sarebbe stato troppo imbarazzante,
così aveva
ripiegato su di me.
Damon
aveva ragione: io sapevo quali fossero le condizioni, eppure avevo
accettato
ugualmente e magari adesso tutta la scuola la pensava allo stesso modo:
quell’insulsa
di Bonnie McCullough che si offriva spontaneamente come rimpiazzo.
O
forse a nessuno importava.
Non
avrei dovuto permettere a Damon Salvatore di rovinarmi così
la serata. La nuova
Bonnie non si sarebbe mai piegata alle sue prepotenze.
Delle
braccia mi strinsero da dietro “Qualunque cosa ti abbia
detto, non prestargli
ascolto. Sei bellissima”.
Mi
appoggiai al torace del mio migliore amico che, dopo aver notato il mio
viso
afflitto, si era avvicinato per consolarmi.
“Non
mi ha detto niente, non me lo ricordo neanche più”
lo rassicurai. Non volevo
fare la solita piagnona.
“Meglio
così” sorrise Stefan e prese ad ondeggiare a ritmo
di musica “Allora, tu e
Matt. Sbaglio o finalmente ha capito quanto tu sia speciale?”.
“Siamo
soltanto amici, Stef” sminuii io “Mi
avrà invitata per comodità”.
“Ecco
cosa ti ha detto” intuì lui “Matt
è il mio migliore amico e credo di conoscerlo
un po’ meglio di mio fratello. Credimi se ti dico che ti ha
invitata per una
ragione”.
Mi
girai verso di lui e lo guardai con occhi sospettosi “Se sai
qualcosa devi
dirmelo! Non puoi tenermi così sulle spine!”.
“E’
così divertente” ridacchiò lui
“E poi non spetta a me spifferare tutto. Ti
basti sapere che Matt ti ha invitata perché voleva venirci con te”.
“Mi
farai morire dalla curiosità, Stefan” lo
rimproverai e gli scoccai un bacio
sulla guancia per ringraziarlo di avermi fatto tornare il buon umore
“Non
dovresti tornare da Elena? L’hai lasciata sola?”.
“E’
con Meredith; non sentirà la mia mancanza per cinque
minuti”.
“Se
fossi in te la terrei d’occhio, potrebbe saltare al collo di
Katherine in
qualsiasi momento”.
“Non
credo che la disturberebbe in questo momento: Katherine è
troppo occupata a saltare al collo
di mio fratello” mi
aggiornò facendo un cenno con il viso.
Guardai
nella direzione che m’indicò e scorsi la coppia
del secolo che si baciava in
mezzo alla pista, incurante degli sguardi indiscreti come il mio.
Avrei
scommesso qualsiasi cosa che Katherine per tutta la sera non aveva
aspettato
altro che l’occasione di marchiare il territorio ed esibire
la sua succulenta
preda.
Damon
poteva credere fino alla morte di essere il cacciatore, ma in
realtà era finito
nella trappola della bionda come un allocco.
“Sono
due esibizionisti” mormorai.
“Katherine
non è proprio in cima alla lista delle mie persone
preferite” iniziò Stefan “Ma
se rende felice mio fratello, è la benvenuta”.
Io
spalancai la bocca incredula “Sei davvero troppo buono! Sono
anni che quel
pazzo cerca di rovinarti la vita e tu sei
contento per lui?”.
“Prima
di tutto: adesso che ha la sua Gilbert magari lascerà in
pace la mia. E poi è
pur sempre mio fratello, non posso che volergli bene”.
Stefan
Salvatore: il ritratto della maturità. Quanto avrei voluto
essere così
comprensiva. Da un lato comunque lo capivo: come aveva detto lui
stesso, Damon
era suo fratello, era la sua famiglia e per quanto potessero odiarsi,
alla fine
erano tutto ciò che avevano.
Giuseppe
era un brav’uomo ma non era adatto a fare il padre; era
diventato freddo, quasi
insensibile, specialmente dopo la morte della moglie, e non era stato
in grado
di trasmettere loro l’amore di cui avevano bisogno.
“Ora
fammi un piacere: togliti Damon dalla testa e divertiti. Soprattutto
torna dal
tuo cavaliere” mi esortò dandomi una spintarella.
Matt
era vicino al tavolo delle bevande e mi guardava un po’
intristito, aspettando
pazientemente che io finissi la mia chiacchierata con Stefan.
Mi
diressi verso di lui e accettai sorridendo il bicchiere che mi porgeva
“Grazie”.
“Figurati;
non ti assicuro sulla qualità del contenuto”
scherzò “Comincio a sentire la
mancanza di Tyler e dei suoi cocktail corretti”.
“Io
no; tornavo a casa sempre su di giri. Non reggo molto
l’alcol”.
“Mi
pare di ricordare la tua prima sbronza” mi
punzecchiò lui.
Io
divenni bordeaux: quell’esperienza era ben stampata nella mia
memoria. Avevamo
fatto un festa in casa di Caroline e io mi ero ritrovata a correre su e
giù
dalle scale, ubriaca come mai nella mia vita, finché Stefan
non mi aveva
costretta a mettermi a letto. Dopo pochi minuti mi ero alzata e avevo
vomitato
tutto, mentre quel povero del mio amico mi teneva la testa
pazientemente.
Quando la mattina successiva mi ero resa conto che Matt aveva assistito
a tutta
la scena, mi ero sciolta per l’imbarazzo.
Era
stata la mia unica sbronza e non ci tenevo a riprovare.
“Possiamo
dimenticarcela?” chiesi soffocando uno sbuffo nel bicchiere.
“Perché
mai? Eri così carina con quel pigiamino rosa”
continuò a prendermi in giro.
“Matt!”
lo implorai mentre lui liberava una risata.
Quanto
era bello quando rideva! Gli occhi blu si illuminavano. Forse la mia
cotta non
era sparita del tutto, forse avevo cercato di scordarmene ma non potevo
avere
il controllo sui miei sentimenti. E Matt li risvegliava tutti.
Dovevo
ricacciarli via perché non avevo speranze con un ragazzo
come lui. Anche se le
parole di Stefan mi avevano messo la pulce nell’orecchio.
Avrei
voluto trovare il modo d’introdurre l’argomento ma
la voce amplificata del
preside bloccò ogni mio tentativo.
Era
giunta l’ora della nomina di re e reginetta di Homecoming.
I
miei
occhi scattarono istintivamente verso Caroline che si stava torturando
le mani
in attesa del verdetto. Pregai davvero con tutto il cuore che fosse
eletta
perché l’avrebbe resa molto felice e magari si
sarebbe finalmente convinta di
valere quanto Elena.
Stefan
fu proclamato re senza la sorpresa di nessuno. Erano anni che lui e
Matt si
alternavano il titolo. Salì sul palco e prese la corona.
Gli
attimi successivi si svolsero a rallentatore e al nome di Katherine
Gilbert
sembrò che il mondo attorno a me si fosse congelato.
Nella
mia testa partì un filmino in cui sia Elena che Caroline si
gettavano sulla
bionda infame; la prima per strappare il suo fidanzato dalle grinfie di
quell’arpia, la seconda per riprendersi il diadema che
sentiva suo di diritto.
Alla
fine entrambe riemergevano vittoriose dalla lotta, contendendosi la
testa
insanguinata di Katherine.
Ovviamente
non accadde niente del genere, ma non me ne sarei stupita, almeno a
giudicare
dagli sguardi omicidi delle mie due amiche.
Katherine
saltellò sul palco, felice come una pasqua,
s’incoronò da sola e poi prese
Stefan per una mano, trascinandolo in pista per aprire la danza dei
vincitori,
come da tradizione.
Mi
scusai con Matt e corsi da Caroline. Poco ci mancava che avesse i
capelli per
aria e gli occhi fuori dalle orbite. Improvvisamente si era resa conto
che
tutti i suoi sforzi per conquistare il primo posto erano stati vani e
che anzi,
stava lentamente scivolando in terza posizione.
“Quella
stronza! Quella piccola biscia infida! Quella grandissima
pu-” stava inveendo
ma Meredith la fermò prontamente.
“Tesoro,
datti un contengo” la blandì “Non vuoi
fare una scenata proprio adesso, vero?”
le intimò “Fa’ l’indifferente,
fa’ la superiore”.
“La
fai facile tu!” ringhiò Caroline “Vorrei
vedere se … se … insomma un conto era
Elena; potevo anche sopportare di essere battuta ma quella
lì, quella lì
… per l’amor di Dio Elena,
vuoi fare qualcosa? Non vedi come si sta strusciando sul tuo
ragazzo?!” trillò
indignata dal modo in cui Katherine si era avviluppata addosso a Stefan.
La
nostra amica bionda nemmeno l’ascoltò; era troppo
impegnata a lanciare dardi di
fuoco contro la gemella.
“E’
sempre stata invidiosa di Elena;
quanto ci metterà a volere quello che ha lei?”.
Mi
ricordai delle parole di Meredith al falò, che in quel
momento mi erano parse
totalmente prive di senso. Avrei dovuto sospettare che lei avesse
capito le
intenzioni di Katherine molto meglio di tutte noi.
Che
l’altra Gilbert volesse Stefan e non Damon, solo per il gusto
di soffiarlo alla
sorella? O che li volesse entrambi per dimostrare qualcosa?
In
tutta quella confusione, potei appurare con molto piacere di aver
scovato una
nota positiva: Damon Salvatore appoggiato contro la parete, verde di
gelosia
nel vedere il fratello ballare con Katherine.
E
un’idea
mi balzò in mente: volevo fargliela pagare per
ciò che mi aveva detto prima.
Non era da me progettare vendette ma Damon mi aveva esasperato e doveva
smetterla di trattarmi come se fossi stato uno zerbino da calpestare
senza
problemi.
Io
non
ero più quel tipo di ragazza.
Lo
affiancai con un sorrisino compiaciuto “Cambia il soggetto ma
non cambia la
storia”.
“Cosa
vuoi, Bonnie?” tagliò corto. Doveva essere proprio
nervoso se non usava uno dei
miei soliti nomignoli.
“Niente
d’importante, riflettevo solo quanto può essere
ironico il destino” insinuai “Hai
desiderato per anni una ragazza che non ti ha mai degnato di uno
sguardo e sei
stato così patetico da trovare come rimpiazzo la sua
gemella. Sembra, però, che
anche lei preferisca tuo fratello e tu sei costretto ancora una volta a
stare
in disparte. Chi è che si sta rendendo ridicolo adesso,
Damon?”.
Le
sue
iridi nere saettarono su di me più scure di quanto si
potesse immaginare. Mi
ero spinta troppo in là, mi avrebbe fatto rimpiangere quel
mio atto di spavalderia
ma non ero riuscita a trattenermi.
Probabilmente
se fossi stata un uomo, mi avrebbe già tirato un pugno. Lo
intuii dal fremito
di rabbia lo scosse e dalla mascella che si contrasse. Per un attimo
intravidi
un lampo mortificato nei suoi occhi ma svanì subito.
Damon
si calmò e distolse lo sguardo senza più prestare
attenzione a me; non mi restò
altro che andarmene, con un fastidioso senso di colpa che mi
attanagliava lo
stomaco. Da una parte ero contenta di avergli tenuto testa,
dall’altra non ero fiera
di essere stata così cattiva perché non era nella
mia natura. Odiavo che Damon
tirasse fuori quel lato di me.
Matt che
m’intercettò a metà strada e mi fece
piroettare fino alla pista dove iniziammo a ballare; presto il maggiore
dei
Salvatore sparì dai miei pensieri e mi concentrai solamente
sul mio splendido
accompagnatore.
Quella
musica lenta terminò e si cambiò decisamente
ritmo; Stefan sgusciò via per
ritornare dalla sua Elena e Katherine e Damon si dileguarono,
probabilmente per
volere di quest’ultimo.
Il
resto della serata trascorse tra balli, scherzi e risate. Il dramma
della
reginetta fu presto dimenticato; Caroline risolse di proiettarsi verso
il
futuro e di progettare eventualmente una piccola rivincita sulla nuova
bella
del reame.
Quando
Matt mi riaccompagnò a casa, era mezzanotte passata. Il mio
abito non si era
tramutato in stracci, non c’erano zucche in vista. Come avevo
già sospettato,
non ero affatto la versione moderna di Cenerentola.
Raggiungemmo
il mio portico e mi affrettai a cercare la chiavi di casa per togliermi
da quei
saluti carichi di un silenzio imbarazzante.
Matt,
però, mi spiazzò “Bonnie ti devo
confessare una cosa”.
Gelai
sul posto e la mia mano lasciò ricadere le chiavi nella
pochette.
“Al
falò ti ho detto che ti consideravo un’amica con
cui andare al ballo” disse
“Non è proprio così” appariva
piuttosto imbarazzato; io invece ero pietrificata
“Quando ti ho rivisto dopo le vacanze, è stato
diverso, come se …
improvvisamente non ti volessi più come solo
come amica”.
O
mio
Dio, stava capitando davvero a me?
“Stefan
mi ha consigliato d’invitarti al ballo e beh…
è quello che ho fatto; forse
avrei dovuto dirti subito le mie intenzioni”.
“Matt,
mi stai dicendo la verità perché ti sei pentito
di avermi accompagnato?” non
potevo credere che fosse tutto così semplice, non potevo
credere che Matt
Honeycutt si fosse finalmente accorto della mia esistenza.
“No!”
negò lui “Tutto il contrario; sono stato benissimo
con te e mi piacerebbe
uscire qualche altra volta con te, solo noi due. Sempre che per te vada
bene”
aggiunse con tono speranzoso.
“Anche
io sono stata bene” ammisi mordicchiandomi il labbro
“Uscirei molto volentieri
con te”.
Era
assurdo! Ci conoscevamo da una vita, eppure eravamo imbalsamati come
delle
mummie, immobilizzati dall’imbarazzo.
“Grazie
della serata; è stata …”.
“Sì,
infatti”.
Scoppiammo
a ridere, sciogliendo infine la tensione.
Lo
ringrazia un’altra volta e gli diedi la buona notte,
piegandomi per stampargli
un bacio sulla guancia. Lui mi fece l’occhiolino e si diresse
verso la sua
macchina.
Rientrai
in casa, trattenendo l’euforia e la voglia di saltare fino al
soffitto. Dovevo
chiamare subito le ragazze. Feci un passo troppo lungo e sentii il
vestito fare
resistenza sulla gambe. Mi sciolsi
infastidita i capelli e marciai in camera con un solo obiettivo.
Togliermi
quella carta da pacchi di dosso e bruciarla.
Il
mio spazio:
Ben
tornate dalle vacanze (per chi è ancora
via, fortuna voi!). Com’è andata
l’estate? Io posso dire di essermi divertita
moltissimo e mi sto lentamente facendo forza per affrontare questo
grigio
autunno =(
Prima
di tutto voglio dedicare questo
capitolo a nannavis e augurarle un
buon compleanno! Spero davvero che ti piaccia questo mio regalino!
Allora
ci siamo lasciate con un ballo
scolastico e ci rivediamo con un altro ballo scolastico; scusate la
poco
originalità -_-. Comunque questo è decisamente
diverso.
Come
potete vedere Bonnie e Damon non si
possono proprio sopportare ed entrambi rimangono sulle loro posizioni.
Bonnie è
lontana anni luce dal suo corrispettivo cartaceo, non è
affascinata da Damon,
ne è intimorita (anche se a volte caccia fuori le unghie,
come qui) ma è
totalmente immune al suo charm.
Damon
d’altra parte è …beh, ci penserete voi
a definirlo con i francesismi che più vi aggradano. Sono
davvero contenta di
poter esplorare l’umanità di questo personaggio;
è davvero stimolante per me e
spero di star facendo un lavoro soddisfacente.
Questa
storia è scritta in prima persona,
quindi molte cose verranno spiegate con il tempo e in relazione ai due
protagonisti; mi rendo conto, però, che alcuni dettagli
possono essere per il
momento un po’ confusi, quindi se avete delle
curiosità, chiedete pure =)
Per
quanto riguarda A&W mi servirà ancora
un po’ di tempo per il prossimo capitolo, perché
è abbastanza importante e
voglio scriverlo bene. Comunque dopo il capitolo 33 gli aggiornamenti
riprenderanno regolarmente ogni due settimane.
Non
so nemmeno dirvi quando posterò il
capitolo 4 di questa storia (lo so, sono un disastro) perché
fino a che non
finirò l’altra, questa procederà un
po’ a rilento.
Abbiate
pazienza; sono un po’ lenta ma non
lascerò niente d’incompiuto.
Ora
ho un grossissimo favore da chiedervi:
qualcuna di voi ha voglia e tempo di creare un’immagine per
questa storia?
Lo
farei da sola, ma non so se avete visto
quella che ho ideato per A&W, è davvero orribile.
Diciamo che la grafica
non è il mio forte :s.
Grazie
in anticipo se qualcuno si proporrà!
Bene,
ora vi lascio in pace e vi ringrazio
per il continuo supporto!
A
presto,
Fran;)
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Capitolo 4 *** By the light of the Moon ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
quattro: By the light of the Moon.
“Even though the
neighborhood thinks I'm trashy,
And no good,
I suppose it could be true,
But there are worse things I
could do
I could hurt someone like
me,
Out of spite or jealousy.
I don’t steal and I don’t
lie,
But I can feel and I can
cry.
A fact I'll bet you never
knew.
But to cry in front of you,
That's the worst thing I
could do”
(There are worse thing I
could do- da ‘Grease’).
Il
buon giorno si vede dal mattino.
Non
potevo essere più d’accordo. Mi ero
svegliata con il sorriso sulle labbra al ricordo della sera prima. La
festa era
andata oltre ogni mia aspettativa.
Matt
non mi aveva invitata per pena o
per andare sul sicuro, ma perché gli piacevo. Alla
facciaccia di Damon
Salvatore!
Dato
che ero una ragazza con i piedi per
terra, per niente sognatrice, avevo già cominciato a fare le
prove con il nome:
Bonnie Honeycutt, la signora Honeycutt, McCulluogh in Honeycutt;
suonava bene,
no?
La
giornata si era illuminata ancor più
quando Matt mi aveva chiamato chiedendomi di uscire quella sera stessa.
E io
ovviamente avevo accettato all’istante, senza immaginare
minimamente che
qualcun altro avesse già preso impegni per me.
Evidentemente
avrei dovuto considerare
che i genitori non erano solo stati inventati per prendersi cura dei
figli, ma
anche per rovinare loro qualunque momento di gloria.
Probabilmente
apparivo come una bambina
che aveva appena scoperto la verità su Babbo Natale, o come
un povero cucciolo
con le orecchie basse; la mia espressione era palesemente delusa e mio
padre mi
guardò stranito.
“Gattina
ma non sei contenta?”.
Quel
soprannome non fece che aumentare
la mia rabbia.
“Eh
no però!” esplosi “Che cavolo! Una
buona volta che un ragazzo mi chiede di uscire, tu stravolgi i miei
piani senza
nemmeno chiedermelo”.
“Ma
Bonnie, abbiamo sempre fatto cene
dai Salvatore e non ti sei mai lamentata”.
L’ennesima
cena a casa Salvatore; non
avevo niente contro Stefan e suo padre ma se ne avessi saltata una, non
sarebbe
cascato il mondo. Si poteva rimandare tranquillamente oppure per una
volta
avrei potuto mandare mio padre da solo. Stefan avrebbe capito
l’emergenza e a
Giuseppe non sarebbe certo mancata la mia presenza.
“Ho
già detto a Matt che avrei mangiato
con lui al Grill; non sarebbe carino
cambiare idea all’ultimo momento” provai
a convincerlo sbattendo le
sopracciglia come mi aveva insegnato a fare Caroline.
“Non
è tardi per disdire; basta
richiamarlo e dire che hai un altro impegno”.
Il
mio volto si scurì. Ma allora proprio
non voleva capire!
“Papà,
vedo Stefan tutti i giorni! Non
credo che nessuno morirà se stasera non vengo”.
“Mi
dispiace Bonnie ma mi sono già messo
d’accordo con Giuseppe. Ti potrai vedere con Matt
un’altra volta”.
“Già,
perché spostare questa cena
sarebbe troppo difficile? Perché poi è tanto
importante?” berciai puntando i
piedi “Insomma non hai pensato che io potessi essere
già impegnata? La mio
opinione non conta più in questa casa?” continuai
con una vena isterica.
“Bada
al tono, signorina” mi rimproverò
subito “Non m’interessa se sei arrabbiata, non si
alza la voce sotto al mio
tetto”.
Incrocia
le braccia al petto, offesa.
Feci dietrofront e marciai in camera mia pestando i piedi a terra per
enfatizzare il mio sdegno.
La
verità era che mio padre non
apprezzava Matt quanto me. Lo conosceva da molto tempo, gli voleva
bene, sapeva
che era un mio carissimo amico ma non lo approvava come mio ragazzo,
per cui
stava cercando in tutti i modi di mettermi i bastoni tra le ruote.
Probabilmente
se gli avessi detto che io
e Damon volevamo scappare insieme, proprio quella sera, mi avrebbe
perfino dato
le chiavi della sua macchina perché Damon era Damon.
In questo caso, però, si trattava semplicemente di Matt e
qualunque impegno con lui poteva anche aspettare secondo la sua logica.
Era
stato innamorato per anni di Elena,
poi aveva avuto una breve storia con Caroline; in tutto quel tempo non
si era
mai accorto di me. Tutti i padri consideravano le proprie figlie delle
principesse
che dovevano venire trattate con il dovuto rispetto. Mio padre non
poteva
concepire che io fossi arrivata terza tra gli interessi di Matt; non
capiva che
le persone potevano crescere, cambiare idea, trovarsi nuove
priorità.
Nemmeno
io ero facevo i salti di gioia
per averlo aspettato così tanto, ma ora che finalmente era
arrivata la mia
occasione, perché non coglierla al volo?
Non
avevo nemmeno vent’anni, mi sembrava
stupido rifiutare un invito innocente solo per una questione di
orgoglio
femminile. Ero giovane e volevo godermela.
Chiamai
il mio amico avvisandolo
dell’imprevisto e gli chiesi di vederci dopo cena. Con mio
gran disappunto mi
rispose che il suo turno di lavoro cominciava proprio a
quell’ora.
Di
comune accordo decidemmo che sarebbe
stato per un’altra volta ma ebbi il brutto presentimento che
ormai il treno
fosse passato.
Ne
dedussi che anche un giorno di merda
si mostrava subito fin dal mattino.
L’unica
consolazione: avrei trascorso la
serata con Stefan; non era esattamente come uscire con il ragazzo per
cui avevo
una cotta da anni, ma si trattava pur sempre del mio migliore amico e
il tempo
con lui non era mai sprecato.
Magari
sarei perfino riuscita a
strappargli qualche segretuccio Matt, qualche informazione utile a fare
colpo.
Non
potevo chiedere a nessun altro o
almeno non me la sentivo: Elena e Caroline erano state entrambe insieme
a Matt
e Meredith per quanto assennata fosse, non si poteva dire
un’esperta in materia
sentimentale. Aveva avuto pochissime storie, tutte di breve durata
perché non
riteneva nessuno alla sua altezza; le serviva qualcuno che fosse
intelligente
almeno quanto lei. L’unico sui cui potevo contare era proprio
Stefan.
“Bonnie”
mia sorella entrò in camera mia
“Perché urlavi in quel modo? Mi hai
svegliata”.
Proprio
lei mi veniva a fare la
paternale? Erano due settimane che si scannava con mio padre per la
storia del
trasferimento e adesso mi rimproverava perché mi ero
permessa di alzare la
voce.
“Stasera
c’è una cena a casa di Stefan”
raccontai in modo sbrigativo.
“Lo
so, me lo ha detto papà ieri sera”.
“Che
gentile! Sarebbe stato carino
avvisare anche me”.
“Eri
alla tua festa” obiettò “Non ci
sembrava giusto rovinare la tua serata con Matt solo per dirti che
saremmo
andati a cena dai Salvatore. Non è proprio una
novità”.
“Appunto!”
protestai io “Che male c’era a spostarla?
È da quando sono nata che giro in
quella casa; nessuno si sarebbe offeso”.
Mary
si sedette sul mio letto e mi
guardò sospettosa “Perché? Hai altri
impegni?”.
Il
tono sorpreso con cui lo disse fu una
batosta per la mia già scarsa autostima “Ti sembra
una cosa così strana?”.
“E
con chi?”.
“Matt
mi aveva chiesto di uscire con
lui”.
“Allora
non ti aveva invitata solamente
perché non sapeva con chi altro andare al ballo!”
esclamò Mary spalancando la
bocca.
Io
aggrottai le sopracciglia “Hai per
caso parlato con Damon?”.
“L’ho
incontrato ieri pomeriggio.
Sembrava davvero impensierito che tu potessi rimanerne
ferita” aggiunse lei.
Le
mie labbra si piegarono in una
smorfia particolarmente seccata. Potevo quasi figurarmelo mentre faceva
la
scena del bravo ragazzo sinceramente preoccupato per i miei sentimenti,
m’immaginavo il suo tono di scherno mascherato da un
turbamento inesistente.
Alzai
gli occhi al cielo ma non proferii
parola. Mary e Damon erano abbastanza amici, lei era di qualche anno di
più
grande e avevano compagnie totalmente diverse ma erano sempre andati
d’accordo.
Inspiegabilmente ero l’unica della mia famiglia a non avere
una cotta per Damon
Salvatore.
“Non
dovresti ascoltare tutto quello che
ti dice, sai? Dovresti avere più fiducia in tua
sorella” la sgridai mettendo il
broncio.
“Stavamo
solo scherzando, Bon!” si
giustificò lei “Piuttosto, passiamo alle cose
importanti: com’è andata alla
festa?”.
“Bene!
Stefan è diventato re di Homecoming
ma Caroline non ce l’ha fatta”.
“Ha
vinto Elena?”.
“No,
Katherine” la corressi.
Mary
strabuzzò gli occhi “E’ tornata da
poco più di una settimana ed è già
reginetta? La ragazza sa come farsi notare”.
“Se
va avanti così, Caroline le spezzerà
le gambe” sghignazzai.
“Non
m’interessa della vita di Katherine
Gilbert. Raccontami ancora di Matt: ti ha baciata?”.
Mia
sorella e il senso della vita.
Quando
la porta di casa Salvatore venne
aperta, allungai le braccia esibendo una bellissima torta che Mary
aveva
preparato durante il pomeriggio.
“Spero
che non l’abbia fatta tu,
Uccellino. Non vorrei finire all’ospedale per
intossicazione”.
Il
sorriso mi morì sulle labbra e tutta
la cordialità che avevo mostrato un secondo prima
svanì. Ritirai la torta
allontanandola da lui.
“Damon?
Come mai non sei tornato al
campus?” chiese mia sorella dando voce ai miei pensieri.
“Non
ho lezioni durante il weekend, mi
sembrava sensato rimanere a casa” spiegò con
un’alzata di spalle e si spostò
per lasciarci entrare.
Il
volto di mio padre s’illuminò “Per
noi è solo un piacere, vero ragazze?”.
Mary
annuì sorridente e mi precedette
nel corridoio di entrata. Stefan ci stava aspettando in salotto; non
fece
nemmeno in tempo a salutare che lo presi tirandolo da parte
“Perché tuo
fratello è qui?”.
“Non
lo so” ammise a bassa voce “Credo
che volesse passare il weekend con Katherine”.
Io
arricciai il naso. Avevo un
presentimento che non fosse l’unica ragione che lo avesse
trattenuto a Fell’s
Church. Era strano anche che avesse deciso di fermarsi a cena. I
Salvatore erano
i nostri vicini, ci trovavamo spesso con loro ma Damon
s’inventava sempre una
scusa per evitare quel tipo d’impegni.
Faticavo
ancora a scordarmi della sua
espressione ferita e delle urla che avevo sentito una settimana prima.
Lui e
Giuseppe dovevano aver litigato pesantemente e non capivo come qualcuno
potesse
sopportare una tensione simile. Io, al suo posto, avrei cercato il
più
possibile di stare lontano da casa. Normalmente anche Damon seguiva
quella
strategia, lo si vedeva raramente in città e dubitavo che
Katherine fosse
l’unica ragione per cui aveva scelto di prolungare la sua
permanenza.
Giuseppe,
in tutta la sua autorevolezza,
fece poco dopo la sua comparsa in salone. Ci salutò
allegramente e c’invitò ad
accomodarci in sala da pranzo.
Scambiammo
qualche parola e mi chiese
come mi era sembrata la prima settimana di scuola. Gli risposi
gentilmente ma senza
prendermi troppe confidenze.
Lo
conoscevo da tutta la via eppure
sentivo una certa soggezione quando era nei paraggi. Era una brava
persona ma
non lo avevo mai visto lasciarsi andare ad un gesto di affetto; non
aveva
assolutamente idea di cosa volesse dire fare il padre. Senza
considerare Damon
che era un caso a parte, anche con Stefan rimaneva sempre molto freddo.
Lo
trattava bene, con rispetto e orgoglio, chiaramente gli voleva bene ma
non
sapeva dimostrarlo.
Anche
io in tutti quegli anni avevo
imparato a trattarlo in maniera quasi reverenziale, a tratti
diffidente.
Mi
accomodai accanto a Stefan. Davanti a
me c’era mia sorella, tra mio padre e Damon. Giuseppe era a
capo tavola.
La
signora Flowers iniziò a servire la
cena. Quella governante era diventata praticamente una seconda mamma
per i due
fratelli. Li aveva cresciuti quando il loro vero padre era stato troppo
occupato a nascondere il dolore per la morte della moglie. Perfino
l’insensibile Damon era molto affezionato alla donna, forse
era l’unica che
stimava nella sua famiglia.
La
serata proseguì sorprendentemente
senza particolari intoppi. I toni rimanevano molto pacati e finalmente
mi
dimenticai di tutti i miei dubbi e iniziai a rilassarmi.
“Ho
sentito che lunedì arriverà il nuovo
professore di storia” mi disse Stefan.
“Non
sai come sono contenta che Tanner
sia andato in pensione. Quest’anno mi avrebbe bocciata di
sicuro” sospirai di
sollievo.
“Beh
… forse non mi avrebbe rimandato in
storia, ma probabilmente sarei morto sul campo da football. Non so come
ho
fatto a sopportarlo come coach per tutti questi anni”.
“Si
sa già il nome di quello nuovo?”.
“Di
sicuro a scuola lo sanno ma io non
ne ho idea. Caroline è nel consiglio studentesco e lo ha
detto a Matt che lo ha
detto a me. Credevo avrebbe preso anche il posto di allenatore ma ho
scoperto
che sarà un altro”.
“Non
avrai nessun problema come al
solito. Tutti ti adorano” intervenne Mary.
“Già
fratellino, tutti ti adorano”
ribadì Damon con tono tutt’altro che sincero.
Solo
allora mi accorsi che i nostri
fratelli maggiori avevano interrotto il loro discorso per ascoltare il
nostro.
Mia
sorella, normalmente così acuta e
sveglia, non colse la tensione che in un attimo impregnò
l’aria e non si
premurò di cambiare argomento.
“Mi
hanno detto che hai vinto il titolo
di re” si congratulò “E’ una
tradizione di famiglia, vero Damon?” osservò
alludendo ai tempi in cui il maggiore dei Salvatore veniva eletto tutti
gli
anni.
“La
nostra popolarità è ereditaria”
concordò lui “Ma sembra che il mio fratellino la
ricerchi molto più di me”.
“Se
tutti lo adorano ci sarà un motivo.
Lui non è costretto ad arruffianarsi le persone”
lo difesi io assottigliando
gli occhi.
Non
mi ero dimenticata il commento
velenoso che Damon mi aveva rivolto su Matt durante il ballo. Anche io
ero
stata acida e cattiva e non ne ero fiera ma ero stata attaccata per
prima e
avevo tutto il diritto di ribattere.
Stefan
si schiarì la gola e mi tirò un
calcio sotto il tavolo intimandomi di tacere. Non voleva che scoppiasse
una
lita a tavola.
“Non
siete gli unici che si passano il
testimone. Ha vinto Katherine, giusto? Fatemelo dire: non avevete molta
fantasia comunque. Voglio dire sono gemelle; potevate scegliere qualcun
altro”
disse Mary bevendo un sorso di vino “Elena si è
arrabbiata?”.
“Non
si è nemmeno candidata” rispose
Stefan.
“Katherine
è più che capace di farsi
strada senza copiare sua sorella” replicò Damon un
po’ freddamente “Da quanto
ho visto, lei sa prendere le
decisioni giuste”.
Sentii
Stefan tendersi accanto a me.
Quello era un chiaro riferimento alla scelta di Elena. Povero Damon, mi
fece
quasi pena: era sul serio convinto della genuinità della sua
ragazza.
Qualunque
obiezione fu interrotta dalla
voce di mio padre che si alzò sopra le altre
“Allora!” esclamò
“Perché non mi
raccontate della festa di ieri?”.
Ma
perché tutti erano fissati con quel dannato ballo.
“Ne
abbiamo parlato fino adesso, papà”
disse Mary “Sono l’unica che non ha partecipato, mi
sento un po’ vecchia” e
ridacchiò.
“Mary
il tempo del liceo è finito” le
fece notare Giuseppe “Tu hai una laurea, un lavoro e ti sei
realizzata. Non
dovresti rimuginare su una festa da adolescenti. Questa,
però, è una cosa che
mio figlio Damon non ha ancora capito. Preferisce accompagnare una
ragazza così
piccola ad un ballo, piuttosto che concentrarsi
sull’università”.
Ecco
perché mi ero preoccupata così
tanto non appena avevo visto Damon: sapevo che una cena tranquilla si
sarebbe
trasformata nel festival delle frecciatine.
Sperai
con tutto il cuore che lui
lasciasse correre senza rispondere alla provocazione.
“Come
sta andando all’università?”
s’interessò mio padre smorzando con
un’occhiata il sarcasmo fuori luogo di
Giuseppe.
“Bene,
signor McCullough” sorrise Damon
“Mi manca ancora qualche esame alla laurea,
però”.
“Qualche!”
sbuffò Giuseppe “E’ iscritto
da tre anni e avrà completato si e no la metà del
piano di studi”.
“Sai,
papà, sono qui; potresti smettere
di parlare di me in terza persona” lo beccò.
Io
abbassai la testa e spiluccai quel
che restava nel mio piatto. Avrei voluto sparire.
“Sto
fingendo che tu non sia qui” lo
zittì l’altro “Sto fingendo che tu sia
al college a fare il tuo dovere invece
di essere l’eterno Peter Pan”.
“Questi
anni in realtà sono stati molto
utili” confessò Damon “Ho capito che
l’università non fa per me ed economia non
è decisamente la mia materia. Alla fine di questo semestre
ritirerò la mia
iscrizione. Lascio gli studi”.
Mollai
la forchetta che tenevo in mano e
il mio sguardo scattò su Giuseppe temendo la sua reazione:
era diventato
bordeaux e fremeva di indignazione.
Santo
Cielo, lo avevo detto che sarebbe
scoppiata una bomba.
Udii
la forchetta di Bonnie cadere e
rimbombare sul piatto; non mi voltai verso di lei, continuare a fissare
mio
padre che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.
L’avevo
avvertito di non nominare più
mia madre, di non tirarla in mezzo nelle nostre discussioni ma non mi
aveva mai
dato retta. Ora era tempo di vendetta.
Già
da qualche mese avevo in mente di
non proseguire con l’università, non era il mio
ambiente, non avevo la
concentrazione, la mia testa era sempre in confusione.
Avevo dato qualche esame, soprattutto
all’inizio, e li avevo superati brillantemente ma non ero
interessato a
prendere una laurea.
Non
era cambiato molto dal liceo: avevo
fatto dannare i miei insegnanti per quattro anni. Ero il classico
ragazzo
sveglio che non aveva voglia di studiare, quello che alla fine di ogni
semestre
si metteva sotto per non essere bocciato. Ero intelligente e alla fine
me la
cavavo sempre con dei bei voti; lo facevo più per il piacere
degli altri che
per il mio.
Se
fosse stato per me, nemmeno mi sarei
iscritto al college ma mio padre aveva insistito così tanto,
che pur di non
sentirlo più lamentarsi avevo scelto di accontentarlo.
Dopotutto
non mi era andata male: potevo
starmene via di casa quanto volevo per un buon motivo, Dalcrest era
pieno di
belle ragazze e le feste erano pazzesche. Insomma la cultura non stava
proprio
in cima alla lista delle mie priorità.
Per
quanto l’idea di mollare tutto fosse
sempre stata appetibile, per fare contento mio padre, avrei anche
potuto
sforzarmi e concludere gli studi e mi ero quasi convinto a compiacerlo;
poi lui
per l’ennesima volta aveva nominato mia madre e io avevo
deciso di fargliela
pagare nel modo peggiore: disonorando la famiglia.
Non
si era mai sentito di un Salvatore
che non avesse frequentato il college. Era un’umiliazione,
una provocazione, un
affronto. Annunciarlo ad una cena davanti ad altre persone era stato il
colpo
di grazia.
Una
volta tolto questo impiccio, avrei
raggiunto il mio scopo: non solo innervosire mio padre oltre ogni
misura, ma
trovare più tempo per dedicarmi a Katherine.
“Devo
aver frainteso quello che hai
detto” affermò mio padre mentre nella sala era
ormai calato un gelo polare.
“Mi
sembra di essere stato
sufficientemente chiaro: non andrò più
all’università”.
“Damon”
fu Stefan a parlare un po’ per
cercare di far ragionare me un po’ per calmare mio padre
“Ti manca solo un anno
alla fine; sarebbe stupido mollare proprio adesso”.
“Non
ho chiesto la tua opinione,
fratellino” lo apostrofai “Sei troppo piccolo, non
puoi capire queste cose”.
“Credo
che le capisca meglio di te”
intervenne mio padre “Non voglio più sentire
sciocchezze simili. Tu prenderai
la laurea e ti occuperai degli affari di famiglia. Fine della
discussione”
tagliò corto, poi si girò verso il signor
McCulloughe provò a riprendere la
loro conversazione, ignorando totalmente me.
Era
veramente un illuso se credeva di
cavarsela così facilmente.
“Veramente,
è una decisione che spetta a
me. Non ti stavo chiedendo il permesso, ti stavo solo
informando”.
Giuseppe
fremette di rabbia, non solo
per l’annuncio, che di per sé era già
un’eresia, ma anche pe il fatto che lo
stessi sfidando pubblicamente.
“Toglietelo
dalla testa, Damon. Io sono
tuo padre e non ti permetterò di buttare via la tua vita in
questo modo”.
“Con
tutto il rispetto, papà,
ma sono maggiorenne, tu non hai
più voce in capitolo”.
Lui
scattò in piedi e marciò fino al mio
posto, abbassandosi su di me con fare minaccioso e mi puntò
il dito contro
“Fino a che vivrai sotto al mio stesso tetto, seguirai le mie
regole”.
“Forse
allora dovrei cercarmi un posto
tutto per me” ipotizzai arcuando le sopracciglia.
“Con
che soldi? Non hai un lavoro, non
sai fare niente e scordati di chiedere aiuto a me, non ti
darò nemmeno un
centesimo” mi minacciò.
“Ti
devo ricordare che quest’estate mi
ha cointestato il conto?” continuai a provocarlo. Avevo
pensato a tutto, il mio
piano non aveva falle, era inattaccabile. La mia decisione era
definitiva, mio
padre non poteva fermarmi, non ne aveva più il potere.
Mettere anche la mia
firma sul suo conto in banca era stata per lui una scelta stupida e
incauta; io
ne avevo approfittato con piacere.
Quella
fu la goccia che fece traboccare
il vaso; Giuseppe esplose in tutta la sua collera e indignazione
“Sei il mio
più grande fallimento; speravo che con il tempo ti saresti
preso le tue
responsabilità ma sei soltanto peggiorato. Mi vergogno
perfino di considerarti
mio figlio” sibilò.
Anche
io mi alzai in piedi per
fronteggiarlo; la sua autorevolezza non mi spaventava, ormai non lo
rispettavo
né stimavo, non poteva farmi niente di male.
“Non
preoccuparti, io ho smesso di
considerarti mio padre molto tempo fa” replicai con tono
calmo ma di una
freddezza disarmante.
“Tua
madre sarebbe così delusa da te”.
No,
non un’altra volta. Quell’uomo
non imparava mai.
“Ti
ho detto di non nominarla più. Non
sei degno di parlare di lei” gli intimai.
“Tu
non sei degno dell’affetto che ti ha sempre
dimostrato” urlò “Sono felice che
sia morta, almeno non è stata costretta a vedere il disastro
che sei
diventato!”.
“Papà!”
questo fu il richiamo
scandalizzato di Stefan; finalmente si era deciso a porre fine a quel
litigio
delirante che aveva messo in scena mio padre. Ma io lo sentii a
malapena.
I
miei occhi non lasciarono quelli
dell’uomo di fronte a me. Gli trasmessi tutto
l’astio e il disgusto che
provavo, lo fulminai, lo trafissi. Avrei
potuto ucciderlo; in quel momento avrei davvero potuto ucciderlo: la
mia mente
era annebbiata dalla rabbia, la ragione era sparita.
L’istinto di colpirlo era
fortissimo, non avevo mai desiderato di fare del male a qualcuno
così tanto in
vita mia. Avrei desiderato essere orfano sì, ma
di padre.
Me
ne andai di casa, sbattendo la porta,
prima di perdere sul serio il controllo delle mie azioni.
La
mia Ferrari mi aspettava nel
vialetto. Vi salii. Non misi in moto, però.
Avevo
bisogno di qualche istante per
calmarmi. Respirai a fondo e notai che le mie mani stavano tremando. Le
tolsi
dal volante e me le misi sotto alle gambe.
Come
poteva qualcuno anche solo pensare
di trarre felicità dalla morte di mia madre? Lui non si era
mia meritato il suo
amore, io sì.
Non
avrei mai potuto perdonarlo per ciò
che aveva detto. Non m’interessava se era stato colto
dall’ira, se l’aveva
fatto solo per punirmi. Non avrebbe dovuto osare, non davanti a me, non
con la
famiglia McCullough presente. Anche loro avevano perso una moglie e una
madre.
Sentii
una sensazione strana alla gola,
come se ci fosse qualcosa ad impedirmi il respiro. Il mio petto si
alzò e si
abbassò affannosamente. I miei occhi si bagnarono.
Stavo
per piangere?
Non
piangevo da anni, nemmeno mi
ricordavo più come si piangesse. Mi morsi il labbro e cercai
di riprendermi. Nessuna
lacrima scese, non glielo permisi.
Ritrovai
in fretta il controllo di me
stesso e girai la chiave. Il rombo del motore fu come una scarica
elettrica;
pigiai l’accelerato e sfrecciai via.
Il
primo istinto quando lo vidi correre
alla porta, fu quello d’inseguirlo.
Che
cosa potevo dirgli? Con che diritto
soprattutto? Mi avrebbe urlato contro solo per sfogare tutto il rancore
che gli
era montato dentro. Non aveva potuto riversarlo su suo padre; se fossi
andata
ad istigarlo, se la sarebbe presa con me.
Guardai
Stefan in attesa che
rimproverasse Giuseppe per quell’uscita infelice e meschina.
Il mio amico
rimase in silenzio, troppo intimorito da quell’uomo.
Il
signor Salvatore si scusò per il
comportamento di suo figlio e ritornò a sedere. Avrei voluto
rispondere che per
una volta non avevo trovato niente d’inappropriato nelle
parole di Damon ma mi
tappai la bocca.
C’era
già abbastanza tensione. La
signora Flowers arrivò con il dolce e una smorfia
mortificata stampata in
volto; le sorrisi per rincuorarla.
Sentii
distrattamente mio padre
esprimere a Giuseppe il suo disappunto per ciò che aveva
detto. Erano amici, si
conoscevano da quando erano giovani quindi avevano la confidenza per
parlarsi
liberamente. Se qualcuno poteva mettere un po’ di senno in
quell’uomo testardo,
mio padre era la persona giusta.
Mary
se ne andò presto, adducendo come
scusa un incontro con il suo ragazzo. Io sapevo che semplicemente non
vedeva
l’ora di levarsi di torno. Avrei voluto imitarla.
Fortunatamente
Stefan, poco dopo, mi
fece cenno di seguirlo ed entrambi lasciammo la sala da pranzo. Ci
rifugiammo nella
sua camera da letto.
Lui
chiuse la porta e ci poggiò sopra la
testa chiudendo gli occhi. Capivo che fosse una brutta situazione e che
gli
servisse un po’ di pace, magari di conforto ma proprio non
riuscii a
trattenermi “Avresti potuto dire qualcosa” appuntai
con una nota di critica.
“E
cosa, Bonnie? Conosci mio padre; con
lui … è impossibile parlare”.
“Sai
che non ho nessun problema quando
litiga con tuo fratello. Damon se le cerca; anche stasera avrebbe
potuto starsene
zitto ma … accidenti,
Giuseppe ha
detto una cosa davvero brutta, ha tirato troppo la corda. Nessuno
dovrebbe
venire trattato in quel modo”.
Stefan
sospirò esasperato e si stese sul
letto. Si passò una mano tra i capelli “Hai
ragione: avrei dovuto difenderlo,
ma non ce la faccio, non sono ancora abbastanza forte per oppormi a
papà, non
voglio deluderlo. In ogni caso Damon continuerà ad
odiarmi”.
“Non
dovevi intrometterti per
conquistare tuo fratello, dovevi perché era
giusto”.
Lui
annuì “Sono stanco, Bonnie” mi disse
“Ho provato a mettere un po’ di pace tra quei due
ma non è servito a niente.
Ogni volta che prendo le parti di Damon, mio padre mi lancia certi
sguardi di
disprezzo … io … non riesco a
sopportarli”.
Mi
sdraiai accanto a lui e lo abbracciai
cercando di trasmettergli un po’ di supporto. In fondo capivo
le sue ragioni,
le sue riserve: tutto ciò che chiedeva era una famiglia
normale ed unita, come
la mia, eppure si era trovato costretto tra due fuochi.
Prima
o poi anche Stefan li avrebbe
obbligati ad ascoltare la sua voce, ne ero certa. Quel momento,
però, sembrava
ancora lontano.
Quando
gli diedi la buonanotte, era già
tardi. Il salotto era deserto e ne dedussi che mio padre fosse tornato
a casa.
Uscii dalla villa e attraversai la strada cercando le chiavi nella mia
borsa.
Rialzai gli occhi non appena raggiunsi il giardino ma non mossi un
passo di
più. Aggrottai la fronte alla scena che mi si
parò davanti: Damon Salvatore
steso sul mio prato, con le braccia aperte e lo sguardo fisso al cielo.
Ebbi
il presentimento che sarebbe stata
una lunga notte.
Quella
sera mi sentivo più buona, più
comprensiva e mi lasciai intenerire. Normalmente l’avrei
rispedito malamente a
casa; considerai però che era già stato
maltrattato abbastanza.
Lui
non si era nemmeno accorto della mia
presenza e continuava a tenere gli occhi puntati in alto, in
contemplazione di
qualcosa che mi rimaneva oscura.
“Damon!”
lo chiamai.
A
giudicare da quanto era assorto,
avrebbe dovuto come minimo sobbalzare o sorprendersi. Invece
girò lentamente la
testa verso di me e mi guardò pure un po’
scocciato, come se lo stessi
disturbando.
“Che
cosa stai facendo?” premetti.
“La
luna” mi rispose e riportò lo
sguardo in alto.
“Hai
bevuto?”.
“Sì”
confermò “Ma non è quello che ti ho
detto”.
Notai
che la sua Ferrari non era
parcheggiata come al solito nel vialetto e nemmeno da nessuna parte
della via.
Mi dovevo preoccupare?
“Dov’è
la tua macchina?”.
“Da
qualche parte vicino a casa di
Tyler. Mi hanno riportato qui, dicevano che non ero in condizioni di
guidare”.
Non
so se si riferisse all’alcol o alla
litigata con suo padre, ma la ritenni una buona idea e mi stupii che
una mente
semplice come quella di Tyler avesse potuta partorirla.
Almeno
per quella sera, Damon avrebbe
fatto meglio a tenersi lontano da qualunque rischio.
Comunque
non doveva aver bevuto molto:
sembrava nel pieno delle sue facoltà e non sbiascicava. Mi
accorsi però che
appariva distante, quasi apatico.
“Alzati
da lì; andiamo a letto”.
“Andiamo
a letto? Sei sicura di non essere tu quella ubriaca,
Uccellino?”.
Non
riuscii ad evitare di arrossire.
Perché non contavo fino a dieci prima di parlare? Mi ripresi
subito e lo
fulminai mettendomi le mani sui fianchi “Sei un
maiale”.
“Mi
hanno chiamato in modi peggiori”.
Sbuffai
indispettita e mi avvicinai a
gran passi “Mi spieghi che cosa stai facendo?”.
“Sto
guardando la luna”.
“Va’
a guardarla nel tuo giardino!”.
“Non
posso; casa mia è troppo grande, la
coprirebbe”.
Mi
girai per verificare
quell’affermazione e gli diedi ragione. Il prato era
minuscolo paragonato alla
grande villa e da quella posizione quasi non si scorgeva il cielo.
La
luna era piena e splendeva in
contrasto con il nero che le faceva da sfondo. Immagine bella,
suggestiva, ma
io avevo sonno e Damon doveva sloggiare.
Allungai
le braccia per incitarlo ad
alzarsi “Forza, tirati su”.
Per
tutta risposta mi prese per le mani
e mi trascinò giù accanto a lui
“Sta’ un po’ zitta e goditi lo
spettacolo”.
Non
ebbi nemmeno la forza di mandarlo a
quel paese; sospirai rumorosamente e mi stesi. Passarono minuti di
silenzio in
cui pensai a qualunque scusa possibile per obbligarlo ad andare via. Mi
meravigliai di me stessa quando dalla mia bocca uscì una
domanda che non c’entrava
niente con ciò cui stavo pensando
“Perché lo stai facendo?”.
Lui
si voltò verso di me “Cosa?”.
“Lasciare
l’università” chiarii “Stefan
ha ragione: ti manca poco e poi potrai fare quello che vuoi e andartene
di
casa. Non avrai più legami se non li vorrai”.
Damon
sollevò le spalle “Il college non
è il mio ambiente. Dopo il liceo non volevo nemmeno
continuare a studiare”.
“Perché
mollare adesso?”.
“Perché
non ha più senso” mi disse
seccamente per farmi intendere di non voler proseguire con quel
discorso.
“Sei
sicuro che sia questo il motivo? O
vuoi solo farla pagare a tuo padre? Ho la sensazione che tu stia
rovinando il
tuo futuro per tenere il punto”.
“Non
credo di doverti spiegazioni. È la
mia vita, posso mandarla a puttane quanto mi pare”.
Elegante
come al solito. Quel tono poco
educato comunque non mi offese ci ero abituata e forse io per prima mi
ero
spinta troppo in là.
Non
demorsi “Credo che tua madre sarebbe
contenta se tu ti laureassi”.
“Mia
madre non è più qui come ha così
gentilmente sottolineato mio padre” i suoi occhi
s’intristirono e non si
premurò di nasconderlo.
Mi
spostai su un fianco per osservarlo
meglio “Mi dispiace per quello che ha detto”.
Fu
colto di sorpresa da quel mio
commento. Evidentemente non si aspettava una tale comprensione dopo
l’acidità
della sera prima, alla festa.
Ci
trovavamo in situazioni completamente
diverse; ora il momento era molto più serio e delicato. In
qualche modo Damon
era diventato la vittima e per quanto fosse insopportabile e
presuntuoso, non
meritava di venire ferito così brutalmente.
Capivo
benissimo il suo stato. Forse non
ero in grado di difenderlo apertamente, forse non ero nemmeno
così buona, ma
sentivo che era mio dovere stargli vicino.
“Non
me lo ricordo neanche più” mormorò.
“Meglio”
considerai “Tanto era una
cazzata” e sorrisi.
Damon
ghignò palesemente divertito.
Sembrava
molto più tranquillo e ne fui
felice. A cena per un attimo avevo temuto che si scagliasse contro
Giuseppe,
ora il suo umore era radicalmente mutato.
“Che
farai adesso? Tornerai a casa?”.
“Starò
al campus per questo semestre,
poi vedrò. Al massimo posso chiedere asilo in casa tua. Sono
certo che tuo
padre mi permetterà più che volentieri di stare
da voi”.
Scattai
a sedere “Scordatelo”.
“Ora
ti riconosco, Uccellino”.
Mi
stesi di nuovo sull’erba e chiusi gli
occhi. Mi appisolai quasi subito. Quando mi svegliai, avevo la schiena
leggermente dolorante per il terreno duro.
Doveva
essere passata una mezz’ora
appena e allungai la mano per avvertire Damon. Tastai solo il prato
freddo. Il
ragazzo era sparito, probabilmente stava già dormendo nel
suo letto.
Mi
ha lasciato dal sola in giardino!
Pensai sconcertata.
Chiaramente
si era stufato di studiare
la sua luna e non aveva trovato altro motivo per restare, senza nemmeno
avere
la decenza di avvisarmi. Che razza d’idiota.
Certe
cose non cambiavano mai.
Il
mio spazio:
Dopo
più di due mesi torno con questa
storia. Sono imperdonabile.
Come
al solito non so dirvi quando
arriverà il prossimo aggiornamento; fino a che non
finirò A&W, sarà tutto
un po’ incerto.
Prima
di tutto, voglio indirizzare la
vostra attenzione sul bellissimo banner ad inizio capitolo, che ritrae
i due
protagonisti.
Ovviamente
non è mio (io sono proprio
negata con certe cose), ma della bravissima Bumbuni
che è stata davvero gentile e disponibile, assecondando
tutte le mie richieste. Se avete bisogno di immagini per le vostre
storie,
contattatela perché come potete vedere ha delle splendide
idee e soprattutto sa
metterle in atto.
Nei
prossimi capitoli posterò altri suoi
banner, anche per Ashes&Wine. Per ora la ringrazio tantissimo e
le dedico
questo capitolo. Spero che ti piaccia, Ali!!
Passando
alla storia, abbiamo cambiato
tono rispetto al capitolo scorso: Damon e Bonnie sono stati molti
più civili, quasi amici.
Non
credo che questa tregua durerà
molto, già alla fine la nostra rossa si è
indispettita parecchio ma volevo
soffermarmi un attimo su questa piccola “questione della
mamma” di cui avevo
parlato in precedenza. Volevo mostrarvi quanto riescano ad intendersi
grazie ad
passato molto simile. Non è una coincidenza che Damon si sia
ritrovato proprio
nel giardino della ragazza che non sopporta. Sente che è
l’unica con cui può
sfogarsi.
Il
loro rapporto è strano (in tutte le
mie storie), speriamo solo che ne uscirà qualcosa di buono.
Ultimamente
sono davvero fissata con
questa coppia, riesco a scrivere solo di loro. All’inizio di
questa storia ero
un po’ preoccupata perché mi sembrava sempre di
soffermarmi sulle solite cose e
non volevo stufarvi, ma ora sono contenta di aver ideato questa storia
Bonnie-centrica.
Insomma
è un personaggio maltrattato sia
nella saga che nella serie tv. La recensione e gli spoiler
sull’ultimo libro mi
hanno fatta rabbrividire. Per non parlare dello show televisivo:
è assurdo che
in tre stagioni Bonnie Bennett non sia cresciuta nemmeno un
po’.
Siamo
agli inizi della quarta ed è
ancora lì a rimproverare Damon. Non do la colpa al suo
personaggio ma a chi l’ha
creata. Se proprio dovevano stravolgere la sua personalità,
potevano almeno
darle un po’ di spessore, una trama decente.
Questa
è un po’ la mia rivincita ahah!
Bene,
non vi trattengo oltre.
Vi
ringrazio per l’enorme supporto che
continuate a dimostrarmi, sempre; commentando e anche solo leggendo.
Baci,
Fran;)
Ps:
il titolo è lo stesso dell’episodio
2x11 di The Vampire Diaries.
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Capitolo 5 *** The hot teacher ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
cinque: The hot teacher.
“Life's too short to even care at all
I'm losing my mind, losing my mind, losing control
If I could find a way to see this straight
I'd run away
To some fortune that I,
I should have found by now
And so I'd run now to the things
they said could restore me
Restore life the way it should be
I'm waiting for this cough syrup
to come down”
(Cough syrup- Young the Giant).
Meredith
era sempre stata un tipo razionale, composto e quadrato.
Sensibile ma non emotivo e soprattutto molto maturo.
Non
perdeva quasi mai la calma, non saltava alle
conclusione, non si agitava a meno che ne valesse la pena. A volte
credevo che
venisse da un pianeta tutto suo.
Perciò,
rimasi allibita quando la vidi saltellare come
un’oca per il corridoio con aria assente e gli occhi sognanti.
Non
fui l’unica a notarla: Caroline mi si affiancò e
rimase
a fissarla allibita almeno quanto me. Non che Meredith fosse una
musona, ma era
strano trovarla così allegra di prima mattina, senza una
ragione apparente.
“Credi
che abbia sbattuto la testa?” mi soffiò Caroline
nell’orecchio “Il colpo potrebbe averle provocato
un cambio di personalità”.
“Per
quanto possa sembrare assurdo, mi sembra la soluzione
più plausibile” concordai.
La
nostra amica ci raggiunse, sempre sorridendo felice come
una pasqua. Ci salutò con entusiasmo e ripose i suoi libri
nell’armadietto.
“Non
avete idea di cos’è successo ieri sera”.
Non
nascosi la mia sorpresa: credevo che sarebbe servita una
grande opera di convincimento per farci rivelare il motivo di tutta
quella
contentezza; invece sembrava più che disposta a
raccontarcelo. Azzarderei che
non stava più nella pelle.
“Hai
incontrato un ragazzo” ne dedusse Caroline.
Meredith
spalancò la bocca “Come fai a saperlo?”.
“Sorriso
da scema, occhi a cuoricino, parlantina a raffica …
chiari segno di eccitazione da cotta” spiegò
Caroline con estrema naturalezza.
“Che
fine ha fatto la teoria della botta in testa?” chiesi
alzando un sopracciglio.
“Stavo
solo facendo la stupida” scosse le spalle e si
rivolse a Meredith “Spara, chi è?”.
“Credo
sia nuovo, non l’ho mai visto in giro” ci
spiegò “E’
più grande di noi; si è laureato da poco ed
è qui per il suo nuovo lavoro”.
Mi
aspettai che aggiungesse qualcosa ma lei rimase zitta.
Era tutto ciò che aveva da dire? Meredith non si era mai
presa una cotta
nemmeno per qualche star della tv e si presentava tutta agitata per un
tizio
appena incontrato?
“Tutto
qui? Non avete parlato d’altro?”.
“Magari
hanno fatto altro” suppose Caroline “Io
approvo”.
Meredith
ritrovò un po’ del suo contegno e le
lanciò
un’occhiataccia “Abbiamo solo parlato. Per tutta la
notte” specificò “Ci siamo
incontrati al Grill per caso e si è offerto di accompagnarmi
a casa. È stato
sul portico con me fino all’alba”.
“In
effetti hai un po’ di occhiaie” commentò
Caroline.
“Hai
accettato il passaggio da uno sconosciuto?!” ripetei
io. Quello non era certo un comportamento da Meredith.
Lei
ci pensò un po’ su “Beh …
sì; ma è stato un perfetto
gentiluomo e, Santo Cielo, non è questa la parte
importante!” s’infervorò “Mi
ha affascinata per davvero! Insomma, sapete quanto è
difficile che un ragazzo
mi piaccia, di solito sono tutti stupidi …”.
“Sei
tu quella troppo intelligente” la corresse Caroline.
“Potrebbe
essere davvero quello giusto” continuò Meredith
“Ci siamo scambiati i numeri; spero che mi chiami”.
“Vi
siete baciati, toccati, strofinati … avete
fatto qualcosa?” insistette
Caroline indignata ad ogni ‘no’ della nostra amica.
“Allora
chiamerà di sicuro; deve riscuotere” concluse.
“E’
una prospettiva fantastica” ironizzai mentre sceglievo i
libri per la prossima lezione.
Tutto
quel discorso mi mise un po’ di tristezza. Ripensai a
Matt e all’appuntamento mancato. Ci ero andata
così vicina e poi mio padre aveva
rovinato tutto.
Per
cosa? Per assistere all’ennesima litigata tra Damon e
suo padre? Per ascoltare i deliri di quell’uomo che nemmeno
si rendeva conto
delle sue stesse parole e di quanto potessero ferire non solo Damon ma
anche
me?
Non
mi stupiva che suo figlio fosse cresciuto così
irrispettoso dei sentimenti altrui; con un padre del genere era
inevitabile.
Non
mi soffermai molto sulla nostra inaspettata
chiacchierata sul prato di casa mia. Si era rivelata piacevole e utile;
in
qualche modo aveva aiutato ad alleggerire la tensione. Io stessa mi ero
sentita
meglio. Nessuno si meritava di venire disprezzato in quella maniera dal
proprio
padre, neppure Damon. Non era giusto usare il nome di sua madre per
metterlo in
una posizione di totale disagio. In generale, un genitore non dovrebbe
nemmeno
sognarsi di ferire il figlio.
Quindi,
non mi vergognavo di provare dispiacere per Damon,
non mi vergognavo di averlo in qualche modo consolato. Mi ero
comportata bene,
aveva seguito la mia natura. In situazioni come quelle era giusto
mettere da
parte l’orgoglio.
Ciò
non toglieva che avrei preferito cento volte uscire con
Matt che assistere a quello spettacolo pietoso e adesso la mia
occasione era
sfumata forse per sempre.
“Bonnie,
vieni a lezione?” mi chiese Meredith.
La
guardai un po’ confusa. Avevo abbandonato il filo del
discorso da qualche minuto e impiegai un attimo per tornare alla
realtà.
Qualcuno, però, attirò il mio interesse.
“Vi
raggiungo subito” disse e mi diressi verso Stefan. Non
l’avevo visto né sentito per tutto il giorno
precedente e volevo assicurarmi
che andasse tutto bene.
“Ciao!”
lo salutai schioccandogli un bacio sulla guancia
“Non ho avuto tue notizie, mi sono preoccupata”.
“Scusa,
Bon. Ieri è stata una giornata un po’
complicata”.
“Ancora
liti?”.
“In
realtà no: Damon ha fatto le valigie e se
n’è andato,
non l’ho nemmeno visto. Mio padre non ha parlato per tutto il
giorno. Sono
scappato da Elena per evitare tutto quel silenzio”.
Nascosi
il cipiglio che mi colse. Dovevo imparare che ormai
Stefan aveva una ragazza con cui confidarsi ed era normale che volesse
andare
da lei per distrarsi.
“Tuo
fratello è tornato al college, almeno fino alla fine
del semestre” lo informai.
“Come
fai a saperlo?”.
“Me
l’ha detto lui, sabato notte” raccontai
“L’ho trovato
nel mio giardino, ubriaco. Abbiamo parlato un po’. Penso che
sia stufo quanto
te di vivere in questa situazione”.
“Tu
hai parlato con mio fratello?” ripeté Stefan
incredulo
“Com’è che non ho sentito le
urla?”.
“Damon
sa essere sopportabile quando vuole. Non ho cambiato
idea su di lui, per me è sempre il solito stronzo ma non
potevo cacciarlo via
in quello stato”.
La
campanella suonò interrompendo la nostra conversazione.
“Faremo
meglio ad andare se non vogliamo beccarci una nota”
suggerì il mio amico.
“Cosa
abbiamo adesso? Storia? Non sai quanto sono contenta
che il professor Tanner sia andato in pensione, mi
odiava!”.
Feci
un paio di passi e finii contro la schiena di Stefan.
Non capivo perché si fosse fermato. Eravamo già
in ritardo, che bisogno c’era d’indugiare
sulla soglia? Mi spostai di lato per avere piena visuale
dell’aula.
“Quello
è il nuovo insegnante di storia?”
domandò Stefan
sorpreso accennando con il capo all’uomo che stava scrivendo
alla lavagna il
suo nome.
“Credo
di sì” bisbigliai “Ed è
già in classe. Forse è meglio
sederci”.
Stefan
annuì, mi prese per mano e mi condusse al posto
velocemente. Il professore non se ne accorse, ci dava ancora le spalle.
“E’
Alaric” disse sotto voce Stefan come se
quell’informazione dovesse destare chissà quale
reazione in me.
“Lo
conosci?” replicai.
“E’
il migliore amico di Damon”.
Aggrottai
la fronte. Non avevo mai visto quel tipo in giro;
probabilmente si erano conosciuti al college. Osservandolo meglio notai
che in
effetti era molto giovane: doveva avere ventidue o ventitré
anni al massimo.
“Meredith,
che diamine hai? Sembra che tu abbia visto un
fantasma” si allarmò Caroline, seduta dietro di me.
Mi
voltai. Meredith era bianca come un lenzuolo e fissava
inorridita la cattedra.
“E’
lui” affermò “E’ lui il
ragazzo del Grill”.
Puntai
di nuovo gli occhi verso il nuovo insegnante. Era
appena arrivato, eppure era già abbastanza famoso!
Scossi
la testa ed aprii il libro. Potevo avvertire lo
sconforto che irradiava dal corpo di Meredith. Non faticavo a
comprendere il
suo umore nero: non si era mai veramente interessata a nessun ragazzo
ed ora
scopriva che era proprio il suo professore il primo ad averle suscitato
qualche
emozione.
Nessuno
dei due fece qualche cosa per attirare l’attenzione
dell’altro. A fine lezione, Meredith raccolse in fretta i
suoi libri e schizzò
via dalla classe. Quando gli passò davanti, Alaric Saltzman
non alzò nemmeno
gli occhi dal foglio che stava leggendo.
I
guai erano chiaramente
dietro l’angolo.
Ogni
volta mi stupivo sempre più; eppure dovevo esserci
ormai abituato.
Chiunque
dopo una litigata come quella che avevo avuto con
mio padre non sarebbe riuscito a chiudere occhio almeno per una
settimana. Io
avevo dormito praticamente per un giorno intero senza alcun accenno di
insonnia
o agitazione.
Nella
mia vita non ero mai stato veramente felice, non avevo
problemi ad ammetterlo. Mi ci erano voluti parecchi anni per
raggiungere questo
stato di calma assoluta. Da piccolo ero molto più
irrequieto: non capivo perché
non potessi avere quello che anche gli altri bambini avevano: una
famiglia
felice, un’infantile serenità.
Mia
madre era morta.
Mio
fratello sembrava creato per rubare ogni cosa su cui
mettevo gli occhi.
Mio
padre? Praticamente non pervenuto.
Nessuno
si era mai occupato di me e alla fine era arrivato
ad una semplice e chiara conclusione: perché mai io avrei dovuto preoccuparmi di qualcuno
o qualcosa?
La
vita era troppo breve per struggersi, non ne valeva la
pena. Se mi fossi davvero tormentato per la merda che c’era
dentro di me, sarei
uscito di testa.
Ero
stufo di combattere sempre contro mio padre; era una
lotta persa in partenza. Non perché me ne importasse
più di tanto ma perché non
sarebbe mai cambiato. Era ottuso ed egoista, freddo e insensibile e con
il
passare del tempo temevo sempre più che un giorno sarei
finito esattamente come
lui. Nonostante lo detestassi, condividevo con quell’uomo
più di quanto fossi disposto
ad ammettere.
Avevo
giurato a me stesso che non mi sarei mai trasformato
in Giuseppe Salvatore e potevo impedirlo solamente riducendo al minimo
i nostri
contatti. La sua presenza era tossica. Ogni volta che ero costretto ad
affrontarlo, me ne andavo con la sensazione di essere stato contaminato
dallo
sporco che si portava dentro.
Prima
o poi qualcosa avrebbe posto fine a questo tormento;
forse avrei trovato il coraggio di scappare sul serio, o forse sarebbe
morto;
il che era anche meglio.
Odiavo
mio padre proprio perché mi rendeva così facile
odiarlo. Lo odiavo perché non avevo rimorso nel desiderare
la sua morte. Mi rendevo
conto di quanto fosse sbagliato augurargli un male così
grande ma non potevo
farne a meno. Gli attribuivo, quindi, anche quella
responsabilità, perché se
fosse stato davvero degno del nome di padre, io non avrei nemmeno pensato di considerare la
sua scomparsa come
una liberazione.
Un
qualunque ragazzo normale si sarebbe sentito come minimo
un mostro. Io no. E la colpa era
soltanto sua.
Guardai
l’ora e sbuffai. Erano le tre del pomeriggio e non
avevo niente da fare. Avrei potuto tornare a dormire ma sarebbe stato
abbastanza scandaloso.
Katherine
era a scuola per gli allenamenti delle cheerleader
o qualcosa di simile. Avevamo in programma di vederci quella sera.
Tutti
i miei amici erano al college, a studiare e a
combinare qualcosa della loro vita. E il mio miglior amico non era
ancora
tornato dal suo primo giorno di lavoro.
In
definitiva ero solo. Mi serviva un modo per tenermi
occupato.
Non
mi venne in mente niente di meglio che accendere la tv.
Dopo un rapido giro dei canali, appurai che non c’era in
programma nulla di
interessante. Stavo già per ripiombare nella noia
più totale quando la porta di
casa si aprì.
Alari
comparve con un’espressione da funerale che
mascherò
subito non appena si accorse della mia presenza “Sei ancora
sul divano?”.
Alzai
le spalle sottolineando l’ovvietà della domanda.
“Non
ti sei mosso da quando sei piombato qui ieri mattina”
puntualizzò “Non ti fai un po’
schifo?”.
“In
realtà mi amo alla follia” replicai ghignando
“Ma starei
meglio se mi portassi una birra e a giudicare dalla tua faccia, ne hai
bisogno
anche tu”.
Alaric
mi trucidò con un’occhiata ma si
avvicinò al suo
frigo. Prese due lattine, le aprì e me ne porse una; poi si
sedette
pesantemente su di me.
Rimanemmo
in silenzio a fissare le immagini che scorrevano
sullo schermo. Chiaramente stava cercando di tenersi tutto dentro, ma
alla fine
esplose.
“Ho
conosciuto una ragazza”.
Avrei
tanto voluto rispondere che non m’interessava,
perché
in effetti era così. Però era stato
così gentile da ospitarmi nel suo
appartamento e feci uno sforzo.
“Carina?”
grugnii.
“Molto”
confermò “Ma sono stato colpito dalla sua
intelligenza, più che altro”.
“Ecco
dove sei sparito tutta notte. Mi hai fatto quasi
preoccupare”.
“Ti
sei accorto che non c’ero?”.
“Potrei
essermi svegliato quando sei tornato” restai vago
“Ma parliamo di te”.
“Non
c’è storia” troncò subito
Alaric “Tra di noi non potrà
mai succedere niente”.
“Perché?
Hai fatto così schifo?”.
Ci
mise un po’ a capire cosa intendessi, poi mi tirò
un
pugno piuttosto forte sulla spalle mormorando tra i denti
“Coglione”.
Non
potevo dargli torto.
“Abbiamo
solo parlato” specificò.
“Non
l’hai nemmeno baciata?” mi scandalizzai.
“Sono
stato con lei tutta la sera, l’ho riaccompagnata a
casa, le ho chiesto il numero. Cosa dovevo fare ancora, saltarle
addosso?”.
“Un
bacio non equivale ad uno stupro, sai? Non te
l’hanno insegnato all’università? Non mi
stupisce che la vostra intesa sia già finita.
Avrà pensato che sei uno
sfigato”.
“E’
una mia alunna” sganciò la bomba Alaric
“Me la sono
ritrovata oggi in classe. Ecco perché non
c’è storia”.
Avrei
dovuto mostrare un po’ di comprensione, di gentilezza,
almeno un po’ di tatto, invece gli scoppiai a ridere in
faccia. Era confortante
sapere che al mondo esisteva qualcuno ancora più sfortunato
di me.
“Una
tua alunna? Santo Cielo, Ric, non ti sei accorto che
era ragazzina?”.
“Non
chiedo la carta d’identità a tutte le ragazze che
incontro. Sembrava molto più grande. Cos’hai da
criticare poi? Tu esci con una
diciottenne”.
“Sì
ma non è una mia alunna” obiettai “Come
si chiama?
Magari la conosco”.
“Meredith
Sulez”.
A
quel punto m’imposi di non ridere o non mi sarei
più
fermato “Sei nei guai, amico”.
“Non
dirmelo”.
“Sul
serio” continuai “Meredith non è una
delle solite
adolescenti. È sveglia, matura e seria. Già te la
farebbe sudare in casi
normali, ma adesso che sei il suo insegnante … non te la
darà mai” conclusi e
finii di sorseggiare la mia birra.
“Forse
dovrei lasciare il posto” suppose.
“L’hai
appena incontrata, non essere drammatico” smorzai io
“Come farai a pagare l’affitto senza
stipendio?”.
“Magari
potrei usare i tuoi soldi! Tanto te ne stai steso
sul divano senza fare niente!”.
“Il
solito permaloso” mi scocciai “Non sai nemmeno
accettare
una critica”.
Alaric
si allontanò dal divano e si chiuse in camera. Non lo
disturbai, aveva bisogno di smaltire la delusione e i miei commenti
sarcastici
non lo avrebbero certo aiutato.
Si
era messo in un bel pasticcio. Meredith era un osso duro,
molto più intelligente della sua età e dalla
morale molto forte. Non avrebbe
ceduto facilmente.
Ripresi
la mia posizione sul divano e spensi la tv. Alaric
coinvolto in una quasi relazione con una sua studentessa era un
argomento molto
interessante, ma il sonno mi richiamava.
“Sembra
una storia da film!” squittii agitandomi sul sedile
dell’auto di Meredith. Da quando avevo scoperto che il
misterioso ragazzo non
era altri che il professore di storia, non avevo fatto altro che
fantasticare
sulla loro relazione impossibile. Non era ancora successo niente di
compromettente ma la mia mente da inguaribile sognatrice aveva
cominciato a
girare.
“Insomma,
Mere” proseguii “Non ti è mai piaciuto
nessuno e
ora ti sei presa una cotta per un tuo insegnante. Fa tanto Romeo e
Giulietta”.
“Spero
di no” sbiancò Meredith “Ho in programma
di vivere
ancora a lungo”.
“E
soprattutto mi auguro che non ci sia bisogno di un
matrimonio segreto” fu il commento secco di Elena dal sedile
posteriore accanto
a Caroline.
“Solo
io la considero una cosa straordinaria?” mi
scandalizzai “Stamattina sei arrivata con gli occhi che
brillavano, non ti era
mai successo” m’impuntai “Hai passato
anni a lamentarti che quelli della nostra
età non ti suscitavano il minimo interesse; poi arriva
questo ragazzo, passate
tutta la notte assieme, scatta la scintilla e …”.
“E
il giorno dopo scopro che è il mio insegnante”.
“Ma
è questo il bello! Se riuscirete a superare questo
ostacolo, sarà vero amore”.
“Bon,
ci ho parlato a malapena cinque ore. Certo, è molto
affascinante e ne sono rimasta colpita ma finisce qui. Non sono
compromessa
fino al punto di disperarmi perché non posso stare con
lui”.
“Se
c’è attrazione non ci puoi fare nulla. Prima o poi
ti
colpirà alle spalle” l’avvisai.
“Mi
ricorda molto Pretty
Little Liars” s’intromise Caroline
“Aria ed Ezra praticamente hanno
cominciato così”.
“Non
è quello show in cui le protagoniste sono perseguitate
da un pazzo omicida?” s’informò Elena.
“Ecco
appunto!” esclamò Meredith “Qualunque
esempio
prendiate, non è mai finita bene”.
“Il
loro rapporto ha portato parecchi problemi”
confermò
Caroline “Ma sono ancora insieme, per adesso”.
“E’
una finzione” puntualizzò la mora.
“Se
vuoi il mio consiglio, stanne alla larga” le
suggerì
Elena “E’ il tuo ultimo anno di scuola,
probabilmente sarai ammessa ad Harvard.
Non hai bisogno di qualcuno che t’incasini il cervello. Senza
contare che se ti
dovessero scoprire …”.
Meredith
piantò una frenata pazzesca e per poco io non finii
contro il parabrezza “Non c’è niente
da scoprire, va bene?!” si scocciò “Niente
di niente. È stata una
parentesi.
Pensavo potesse essere qualcosa di più ma non è
il caso; quindi smettiamo di
parlarne perché non c’è niente
di cui
parlare”.
Il
discorso finì lì. Chiaramente Meredith ne era
turbata
anche se cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.
Era
una situazione davvero complicata, in cui nessuno
avrebbe voluto essere coinvolto. Come diceva lei, si era trattato solo
di
alcune ore, troppo poche per stabilire una connessione profonda e
inevitabile;
eppure ero convinta che solo qualche minuto poteva cambiare
radicalmente la
vita di tutti.
Avrei
dato qualsiasi cosa per provare una sensazione del
genere. Non avevo molta esperienza in campo amoroso; mi piaceva
flirtare e
avevo un debole per i bei ragazzi (chi non lo aveva?), ero parecchio
vulnerabile al loro fascino, ma non ero mai andata oltre. Qualche
bacio,
nemmeno un vero appuntamento.
Non
avevo la più pallida idea di cosa significasse essere in
una relazione, ero proprio una novellina e per giunta nessuno dei
ragazzi che
avevano stuzzicato la mia curiosità, aveva mai mostrato
alcun segno d’interesse
verso di me.
Forse
ero noiosa, o non ero abbastanza bella. Qualunque
fosse il motivo, ero rimasta esclusa dalla maggior parte delle
esperienze che
la maggior parte delle mie coetanee aveva già provato. Non
credevo fosse tanto
difficile trovare un’intesa, percepire della chimica con
qualcuno, le
cosiddette scintille.
Quando
Matt mi aveva invitato al ballo, era stato come se
fosse scesa una luce dal cielo e gli angeli avessero cominciato a
cantare l’Alleluya . Per
anni avevo avuto una
cotta segreta per lui, avevo osservato gelosamente il tempo che aveva
passato
prima con Elena, poi con Caroline, sperando di ottenere anche io quella
possibilità. Alla fine mi ero arresa, avevo rinunciato a
qualsiasi sciocca
fantasia e per uno strano scherzo del destino, avevo ricevuto quel
graditissimo
e inaspettato invito.
Non
avevo sentito proprio i fuochi d’artificio scoppiettare
dentro di me, più che altro era stato un leggero fuocherello
che mi aveva
scaldato le guance fino ad arrosarle, però era
già qualcosa e avrebbe potuto
crescere.
Matt
non era un tipo passionale; era più un ragazzo dolce e
affettuoso, molto sensibile e molto bello, il che non guastava mai.
Non
pensavo che sarebbe stato l’amore della mia vita, ma mi
fidavo di lui e per il momento mi bastava. Speravo solo in un altro
appuntamento, dato che non mi aveva più chiamato dopo che
avevo cancellato il
primo.
Non
era stata colpa mia! Mio padre me l’aveva praticamente
imposto e non capivo davvero perché Matt non avesse
più tirato in ballo
l’argomento.
Possibile
che avesse già cambiato idea? Magari mi stavo solo
facendo prendere dalla paranoia ma ci sarei rimasta molto male se la
cosa fosse
caduta nel dimenticatoio.
Avevo
già passato una buona parte della mia vita
nell’ombra,
non volevo sentirmi ancora un’illusa o insignificante.
Durante il ballo, per la
prima volta, mi era sembrato di stare finalmente sotto i riflettori e
mi era
piaciuto.
Non
ero ancora pronta ad abbandonare quella sensazione, non
era giusto perché me la meritavo.
Meredith
mi lasciò davanti a casa mia e con me scese anche
Elena. Ci rifugiammo nella mia camera per studiare. Alaric, per quanto
fosse
affascinante e simpatico, ci aveva sommerso di compiti per recuperare
la
settimana persa.
Per
un po’ nessuna della due fiatò, troppo intenta a
memorizzare
date ed eventi. Elena continuò a sottolineare il suo libro,
mentre io, già
stufa, feci vagare gli occhi per la mia stanza fino a soffermarmi sulla
finestra.
Istintivamente
mi alzai e mi avvicinai per guardare fuori:
lì davanti si stagliava la villa dei Salvatore; sembrava che
al momento non ci
fosse nessuno.
La
stanza di Damon dava sulla strada ed era perfettamente
visibile da camera mia. Le tende tirate mi misero un’infinita
tristezza.
Normalmente passava la maggior parte del suo tempo al campus e non era
strano
vedere la sua camera vuota; ma ebbi la brutta sensazione che quella
volta non
ci sarebbe tornato per molto.
Mi
chiesi come una famiglia potesse essere così divisa dopo
il lutto tremendo che l’aveva colpita. Avrebbe dovuto unirli
e invece aveva
sparso solo astio e rancore.
Sarei
morta, se fosse successa una cosa del genere a me. Mia
sorella e mio padre erano tutto
per
me; ci volevamo bene. Non credo che sarei mai riuscita a
sopportare di essere guardata nel modo in cui Giuseppe guardava Damon,
né il
silenzio opprimente che aleggiava nella loro casa, ancor meno la
tensione.
“Stefan
ti ha raccontato niente dell’altra sera?” domandai
ad Elena.
Lei
alzò la testa dal libro “Parli della cena? Mi ha
detto
che Damon ha sfidato tuo padre e i toni si sono alzati di parecchio
… troppo”.
“E’
stata una scena davvero pietosa” commentai “E
stranamente mi trovo a dar ragione a Damon”.
“Wow!
Dev’essere stato davvero brutta se stai dalla sua
parte” si stupì Elena.
“L’ho
trovato steso nel mio giardino dopo” proseguii
“Abbiamo parlato un po’ e poi è sparito.
Tu … sai se Katherine lo ha visto?”.
“Bonnie,
sei preoccupata per Damon?” fu la sua risposta,
profondamente colpita.
“Non
dire assurdità” negai, forse un po’
troppo velocemente
“E’ solo che non vorrei che facesse qualcosa di
stupido. Nessuno sa dov’è”.
“Credo
che abbiano un appuntamento stasera” mi informò
Elena
“Quindi direi che è vivo e pronto a riprendere a
folleggiare con mia sorella”
sospirò “Bon, tu sei una brava ragazza e hai un
gran cuore; non riesci a
sopportare le sofferenze degli altri. Damon non ti piace, non ti sta
simpatico,
non lo stimi nemmeno ma non vuoi che stia male. Non devi vergognartene
perché è
una cosa bella” provò a tranquillizzarmi.
“Non
lo dirai a nessuno, vero?” le
chiese a bruciapelo. Mi aveva beccata in
pieno.
“La
mia bocca è sigillata”.
“Bene”
affermai “Perché è una cosa passeggera;
tra un paio
di giorni riprenderò ad insultarlo come al solito e tu
continuerai a dirmi
quanto io lo stia giudicando male”.
“Sembra
un buon piano”.
Annuii
con vigore e ritornai sui miei libri.
Col
cavolo che mi sarei ancora fatta incastrare in una cena
come quella. Non volevo dispiacermi per Damon Salvatore, lui non se lo
meritava; perché nonostante fosse venuto da me per parlare,
se n’era andato
lasciandomi sola. Non gli importava di me, perciò io non ero
tenuta a
comportarmi diversamente.
Avevo
chiuso con qualsiasi cena, riunione o festa a casa di
quella famiglia!
Katherine
si lasciò cadere sfiancata accanto a me. Si mise
una mano sul cuore e respirò a fondo “Dio mio,
Damon! Se litigare con tuo padre
fa questo effetto, continua pure”.
Io
ghignai. Almeno qualcuno ne era felice. Avevo molto di
cui sfogarmi e Katherine era lo sfogo migliore che mi fosse mai
capitato.
Forse
quella sera me n’ero approfittato un po’ troppo.
Si
avvicinò e posò la guancia sul mio petto nudo
“Alaric non
si arrabbierà? Stiamo facendo le cose sporche nel suo
letto”.
“Sistemerò
tutto prima che torni. È uscito per andare non so
dove”.
Probabilmente
a caccia di
studentesse. Pensai
divertito ma non
lo esternai.
“Avresti
preferito incontrarci a casa tua? Con il pericolo
che rientrassero i tuoi? Vorrei cercare di fare una buona
impressione”
osservai.
“I
miei genitori non sanno neanche che esisto” sbottò
lei
“Sono accecati dal fulgore di
mia
sorella” disse con una nota acida e ironica.
Nessuno
la comprendeva più di me; sebbene adorassi Elena e
non me la fossi ancora dimenticata del tutto, immaginavo quanto dovesse
essere
difficile averla come sorella.
Io
venivo battuto ogni volta dal mio insulso fratellino più
piccolo e Katherine era costretta a fare i conti con una persona uguale
a lei,
solo considerata migliore.
“Le
nostre famiglie non ci hanno mai capiti” sussurrò
Katherine “Nessuno ci ha mai capito. Esistono solo Stefan ed
Elena. Il nostro
potenziale è sprecato in un posto come questo. Potremmo fare
grandi cose, ma
nessuno crede in noi; siamo limitati. La verità è
che non ci meritano. Non so
come farò a passare un anno qui dopo tutto quel tempo a
Parigi”.
“Abitudine”
alzai le spalle io “Non è così male
dopo un po’.
Vedrai”.
“Io
non voglio vedere, Damon” replicò piccata
“Voglio
andarmene”.
Io
mi stiracchiai “Tra qualche mese sarai libera”.
“Non
so se riuscirò ad aspettare fino alla fine della
scuola” s’imbronciò “Tu non
sei costretto a rimanere a casa. Puoi stare qui o
al college, puoi andartene dalla tua famiglia”.
“Katherine”
la chiamai, guardandola seriamente “Capisco il
tuo rancore verso tua sorella, davvero, ma a parte quello hai una bella
famiglia, unita e che ti vuole bene. Ti hanno mandata a Parigi per
seguire il
tuo sogno”.
“Mi
hanno mandata a Parigi per sbarazzarsi di me, perché
potevano avere solo una figlia perfetta. E adesso mi hanno fatta
tornare solo
per punirmi. Mi sottovalutano, non credono che io possa essere
all’altezza di
Elena. Se proprio devo rimanere qui, voglio dimostrare di essere
migliore. Non
mi fermerò fino a che non avrò ottenuto tutto
quello che ha lei”.
Non
insistetti oltre. Per quanto mi riguardava, Elena era un
angelo e non riuscivo a vedere nessuna colpa in lei, ma la sua
situazione era
molto simile alla mia e di Stefan, perciò non mi permisi di
giudicare. Ognuno
aveva le sue ragioni.
Restammo
abbracciati e in silenzio per un altro po’.
Katherine sembrava essersi calmata e la cosa mi dava un certo piacere
dato che
era merito mio.
Se
Alaric ci avesse trovato così nel suo letto,
completamenti nudi, probabilmente mi avrebbe cacciato di casa senza
nemmeno
lasciarmi il tempo di vestirmi.
Katherine
mi salutò dopo che replicammo in un secondo round.
Mi affrettai a cambiare le lenzuola e mi feci una doccia. Ripresi posto
sul mio
divano e accessi la tv.
Alaric
tornò che era già notte fonda. Io ero mezzo
addormentato davanti allo schermo e mi rifugiai sotto un cuscino non
appena si
accesero le luci del salotto.
“Perché
devi essere così maledettamente fastidioso?”
borbottai.
“Perché
devi stanziare sul mio divano quando hai una camera
al campus?”.
Alzai
il capo dal cuscino “Dove sei stato? In cerca di altre
minorenni?” sbottai particolarmente irritato.
“Ero
in giro con Sage” mi rispose “Voleva sapere se eri
ancora vivo”.
“Dovrebbe
essere solo contento: ha la stanza tutta per sé”.
“So
che non è una sensazione cui sei abituato ma era
preoccupato per te” ribatté il mio amico sparendo
nella sua camera.
Normalmente
mi sarei scocciato per tutte quelle risposte
scortesi ma ad Alaric era consentito questo ed altro. Non era il mio
più
vecchio amico ma era di certo il migliore, l’unico che
consideravo davvero come
mio pari.
Lo
avevo conosciuto al primo anno di college. Lo avevo
reputato subito molto sveglio e brillante ma troppo pomposo per i miei
gusti.
Non mi serviva un’altra figura di spicco intorno, bastavo
già io. Ero piuttosto
geloso delle attenzioni che ricevevo.
A
quel tempo, io e Sage dividevano la stanza con una altro
ragazzo che aveva abbandonato gli studi solo un paio di mesi dopo
l’inizio dei
corsi. Al suo posto era arrivato Alaric. Il resto è storia:
la convivenza forzata
mi aveva fatto scoprire l’amicizia più sincera che
avessi mai sperimentato.
“Damon”
urlò dall’altra stanza
“Cos’è successo al mio
letto?”.
Sbiancai vistosamente
“Perché”.
“Ci
sono le lenzuola pulite” osservò tornando in
salotto.
“E’
un piccolo ringraziamento per l’ospitalità. Ho
sistemato
un paio di cose” restai vago. Ero una faccia di merda di
dimensioni colossali.
“Hai
per caso fatto sesso con Katherine nel mio letto?”.
Com’era
volgare.
“Come
ti vengono certe idee” negai con forza “Adesso uno
non
può più nemmeno essere gentile che si pensa
subito male” mi diressi verso il
bagno e chiusi la porta alle mie spalle.
“Comunque
dobbiamo parlare di questa cosa!” esclamò Alaric
dall’altra parte del legno.
Mi
sedetti sul water e sbuffai: in una casa o in un’altra,
ero sempre tormentato da un padre.
Questo qui almeno era più tollerabile. E mi sarei divertito
un mondo a farlo
diventare matto; perché in fondo l’amicizia
serviva a quello.
Il
mio spazio:
E
dopo mesi, eccomi a postare di nuovo!
Bene,
ora che è finita Ashes&Wine posso finalmente
dedicarmi a questa. Gli aggiornamenti saranno regolari.
Come
avete visto è una storia un po’ più
leggera dell’altra
e i capitoli sono più corti, per cui dovrei riuscire ad
aggiornare più o meno
ogni settimana. Chiaramente dipende un po’ dagli impegni
universitari ma di
certo non passeranno più di due settimane tra un capitolo e
l’altro.
Questo,
come avete letto, è servito per introdurre la figura
di Alaric. Grazie a lui nei prossimi capitoli arriveranno un paio di
rivelazioni niente male.
Bonnie
è un po’ più morbida nei confronti di
Damon ma non
durerà molto. È molto dispiaciuta per come lo ha
trattato Giuseppe ma presto
tornerà a considerarlo uno stronzo.
Damon
invece non ha speso nemmeno due minuti per pensare a
lei, nonostante lo abbia confortato durante la litigata.
Chissà se prima o poi
si ricorderà del suo aiuto?
Non
ho altro da aggiungere. È un capitolo di passaggio,
quindi non succede niente di che.
Vi
ringrazio immensamente per le bellissime recensioni e per
tutti quelli che seguono e leggono! Siete i migliori!
A
presto!
Fran;)
Il
banner è di Bumbuni. Da
sinistra a destra vi presento: Alaric, Meredith, Damon, Bonnie, Matt,
Elena, Stefan, Caroline.
|
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Capitolo 6 *** Team Bonnie ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
sei: Team Bonnie.
“It's a sweet romance
A spotlight dance
Girl you shake me to my bones
But every now and then I'll start to slip away
I gotta hear you say
Take me out spin me around
We can laugh when we both fall down
Let's get stupid dancing with cupid tonight
When I sing out of key
Still play air guitar for me
Let's get stupid dancing with cupid tonight
Don't feel all kind of right”
(Cupid-
Daniel Powter).
Storsi
il naso, sentendomi un po’ ipocrita.
Mi
ero sempre vantata di essere una ragazza con un certo
senso della realtà. Avevo i miei sogni e mi piaceva
fantasticare, ma conoscevo
bene i miei limiti.
Per
i primi tre anni del liceo ero stata abbastanza
invisibile e insignificante, non avevo mai avuto molta fiducia in me
stessa e
gli altri non avevano fatto niente per convincermi del contrario.
La
sera del ballo si era rivelata fantastica, ma ero ben
consapevole che non mi sarei trasformata in un attimo nella
più figa della
scuola. Quelle cose succedevano solo nel film.
Però
passare nel giro di una settimana da Cenerentola al
topo mi sembrava un po’ eccessivo.
Non
che
mi aspettassi di diventare da un momento all’altro la
principessa del castello
solo perché mi ero presentata al ballo con il quarterback
della squadra di
football; insomma per anni ero stata amica delle ragazze più
ammirate del liceo
e nessuno mi aveva mai filato lo stesso, però pensavo che almeno Matt mi avrebbe preso
più in considerazione.
Era
sparito. Mi vedeva e mi salutava e poi faceva come se nulla fosse. Mi
ignorava
e faticava quasi a scambiare due parole.
Non
riuscivo a capire quel comportamento.
La
situazione in realtà era piuttosto chiara: mi aveva chiesto
un appuntamento e
si era tirato indietro perché non era veramente interessato.
Un atteggiamento
piuttosto comune, ma assolutamente non tipico di Matt.
Era
un
ragazzo molto sensibile che sapeva sicuramente della mia cotta per lui
(anche
se ufficialmente mi era passata) ed
era anche un mio carissimo amico; non ce lo vedevo proprio a prendermi
in giro
volutamente.
Ero
in
un vicolo cieco. Non potevo parlarne con nessuno: non mi sembrava
carino
coinvolgere Caroline ed Elena in quanto sue ex, Stefan era il suo
migliore
amico e non volevo metterlo in mezzo, Meredith infine era ancora
abbattuta per
la storia di Alaric, forse
era meglio
evitare l’argomento ‘ragazzi’.
Così
mi
trovavo a spiarlo come una piccola stalker in erba, nascosta dietro uno
dei
cespugli che circondavano il campo da football.
Improvvisamente
venni scossa da un fremito di orgoglio. La soluzione si
rivelò molto più facile
del previsto. Continuavo a lamentarmi di come fossi invisibile per
tutti ma non
avevo mai fatto niente per cambiare le cose.
Da
quando ero tornata dalla Spagna, mi ripetevo che ero diversa,
cresciuta, un po’
più sicura di me; mi ero ripromessa che mi sarei impegnata a
diventare più
forte eppure ogni volta mi ritiravo dietro la maschera della bambina
timida, mi
rimangiavo il coraggio.
Ora
avevo l’occasione di dimostrare qualcosa. Se avessi
cominciato a credere un po’
di più in me stessa, forse anche gli altri mi avrebbero
trattata diversamente.
Aspettare
qualche segno divino dal cielo non sarebbe servito a molto, almeno non
nell’immediato. Dovevo prendere in mano la situazione, anche
a costo di farci
la figura della stupida.
Provai
a ricordarmi come si atteggiava Caroline quando entrava in
modalità seduzione.
Testa alta, di sicuro. Bisogna dare l’impressione di non
avere paura.
Voce
ferma e aria distaccata, casuale, come se fossi io a fargli un favore e
non il
contrario.
Non
sembrava tanto difficile, almeno in via teorica.
Scossi
la testa indignata; non potevo essere una tale inetta a quasi diciotto
anni!
Presi
un bel respiro e uscii dal mio nascondiglio. I ragazzi avevano appena
finito la
prima parte dell’allenamento e si stavano rinfrescando vicino
alle panchine.
Marciai
nella loro direzione, più decisa di quanto mi aspettassi. Mi
sentivo come se
qualcosa fosse scattato in me, accendendo l’interruttore del
coraggio.
Mi
fermai
solo quando fui davanti a Matt.
Non
gli diedi il tempo di parlare, non mi diedi il tempo di ripensarci.
Esplosi
come un fiume in piena, forse con voce un po’ troppo alta
“Vuoi uscire con me
domani sera?”.
Stefan,
dietro al suo amico, si strozzò con l’acqua che
stava bevendo. Il resto dei
giocatori ammutolì. Matt mi guardò allucinato.
Avevo
appena commesso, per caso, la cazzata
più grande della mia vita?
“Gli
hai chiesto un appuntamento?” esclamò Caroline
incredula “Davanti all’intera
squadra di football?”.
Io
annuii, temendo la sua reazione.
Si
girò
verso Elena che mi fissava con la stessa espressione sconvolta.
Scambiarono un
sorrisino divertito.
“Finalmente
stai uscendo dalla terra degli unicorni per entrare in quella degli
uccelli”.
“Caroline!”
la rimproverai diventando rossa come un peperone.
“Sei
troppo puritana, è questo che ti frega”.
“Lasciala
in pace, arpia” l’apostrofò Elena
“Sono orgogliosa di te, Bonnie!”.
“Non
credevo di averne il coraggio e invece sono contenta di averlo fatto.
Ora mi sento
davvero bene”.
“Ti
senti bene perché ti ha detto di sì. Immaginati
il contrario” ipotizzò Caroline
alzando eloquentemente le sopracciglia.
“Smettila
di smontarla” la sgridò Elena.
Caroline
si ricompose subito e si volse verso di me “Stavo solo
scherzando, non te la
sei presa, vero?”.
Scossi
la testa per tranquillizzarla.
Quando
Matt aveva risposto di sì alla mia proposta, avevo sentito
di nuovo gli
angioletti cantare in coro. Per un momento avevo temuto che avrebbe
rifiutato.
La mia era stata una mossa molto azzardata.
Matt
per tutta la settimana mi aveva evitata, ben deciso a non voler
affrontare
l’argomento; sarebbe stato normale se non avesse accettato,
anzi sarebbe stato
logico. Ancora faticavo a capire il suo comportamento ambiguo.
“Per
dimostrarti quanto sia dalla tua parte, ti aiuterò a trovare
il vestito
perfetto” continuò Caroline facendo la linguaccia
ad Elena.
Io
strabuzzai gli occhi. Se ripensavo all’abito per il ballo,
tremavo dall’orrore.
Ero ben determinata a cambiare, ma non a stravolgermi.
“Grazie,
Care, ma sta volta voglio fare da sola”.
“Non
preoccuparti, per me è un piacere”.
“Per
me
un po’ meno” confessai mordicchiandomi il labbro
“L’ultima volta mi hai
impacchettato come un regalo a Natale!”.
Caroline
aprì la bocca, sempre più indignata e sempre
più divertita. Si voltò verso
Elena “Ma che fa? Si ribella?”.
“Il
nostro uccellino sta lasciando il nido”.
Uccellino.
Ancora. Damon aveva contagiato tutti?
No,
niente uccellino, niente Damon. Volevo godermi la mia serata romantica
senza
qualcuno a ricordarmi che per Matt non valevo niente.
Quello
mi riportò alla mente qualcosa.
“Ragazze,
a voi sta bene che io esca con Matt?”.
Passarono
dei secondi interminabili e poi tutte e due scoppiarono a ridere.
“Bonnie!”
disse Elena “La storia tra me e Matt è finita
più di un anno fa. È stato il mio
primo ragazzo ma ora è finita. E poi …”
e arrossì.
Poi
c’è Stefan.
“Lo
stesso per me, cioè … non è stato il
mio primo ragazzo” ci tenne a precisare;
ovvio, lei era ormai una donna navigata “Sono totalmente team
Bonnie”.
Team
Bonnie. La cosa cominciava seriamente a piacermi.
Quando
realizzai il significato della parola appuntamento era ormai troppo
tardi. Mi
ero tappata le orecchie quando Caroline aveva cercato di darmi qualche
consiglio ed ora me ne pentivo.
Non
avevo assolutamente idea di come ci si dovesse comportare ad un
appuntamento;
c’erano delle regole da seguire, un codice non scritto?
Mi
era
già sembrata un’impresa titanica ottenerne uno, ma
non avevo assolutamente
valutato le difficoltà di metterlo in atto.
Avevo
svuotato il mio armadio e buttato tutto sul letto. Fissavo quel mucchio
di
indumenti come se potessero prendere vita propria e suggerirmi cosa
indossare.
Che poi, perché mai un abito doveva essere così
importante? I vestiti non
poteva mica parlare per me, fare colpo al mio posto. O
no?
Cominciavo
a rimpiangere di non aver accettato l’aiuto di nessuno,
neppure di mia sorella.
Ecco, com’ero finita a fare di testa mia!
Non
potevo arrendermi così, non dopo la spavalderia che avevo
mostrato prima a Matt
poi alle mie amiche. Mi ero vantata di potermela cavare da sola e
questa era
l’ora della verità.
Mi
riscossi in fretta. Ero stata costretta a vivere da sempre con una
serie di
cliché che avevo sempre odiato. Adesso non volevo solo
tenermene alla larga, ma
anche romperli, frantumarli. La commedia della ragazzina fragile alla
lunga
aveva stufato.
Piangersi
addosso e tormentarsi con i dubbi non mi avrebbe portato nulla di
buono. Stavo
per andare ad un appuntamento, un comunissimo e normalissimo
appuntamento. Non
era una prova insuperabile, tante ragazze ce l’avevano fatta.
Perché partivo
già con l’idea che avrei fallito?
Scelsi
un vestito molto semplice, bianco e sbracciato, stretto in vita con la
gonna a
campana. Un po’ da bambolina, romantico. Mi assomigliava per
certi aspetti.
Mi
ero
presentata al ballo con un abito super stretto e provocante e non aveva
funzionato, almeno non su di me. Non mi ero trovata a mio agio e si era
notato.
Il
mio
stile mi spiaceva: era fresco, sobrio e soprattutto trasparente:
mi rappresentava. Alcuni poteva trovarlo noioso e poco
accattivante, ma perché interpretare attraverso i miei
indumenti un ruolo che
non mi apparteneva?
Forse
sicurezza significava proprio quello: accettarsi per davvero e giocare
suoi
propri punti di forza, senza usare espedienti per adattarsi alle
aspettative
degli altri.
Io
ero ben
lontana dall’accettarmi totalmente; sentivo che dovevo ancora
crescere e
trovare la mia strada, però forse avevo individuato la
direzione giusta.
Presi
dei tacchi, anche se non altissimi (non quanto avrebbe consigliato
Care) e una
giacchetta. Eravamo verso la fine di settembre e alla sera faceva
freddo.
Cercai
di domare i miei riccioli che sembravano elettrizzati quanto me e scesi
in
salotto. Mary aveva finalmente convinto papà e stava
organizzando il trasloco
per andare a vivere con Alec.
In
casa
c’eravamo solo io e il vecchio, che mi guardava dalla
poltrona mentre fingeva
di leggere il giornale.
Alla
fine si era rassegnato all’idea che Matt mi avrebbe portata
fuori a cena. Mi
aveva stupito tutta quella sua avversione perché in
realtà a mio padre piaceva
molto. Diceva sempre che era un bravo ragazzo, molto educato e onesto,
ma
proprio non gli andava giù il fatto che avesse frequentato
due delle mie più
care amiche prima di me. Prima o poi se ne sarebbe fatto una ragione.
“Papà”.
Lui
grugnì in risposta.
“Ti
vedo” lo avvisai. Credeva davvero che non mi sarei accorta
dei suoi occhi
puntati addosso al mio povero vestito?
Sbuffò
e posò il giornale sulle sue ginocchia.
“Stai
molto bene, gattina” sorrise forzatamente “A dirla
tutta, temevo che scendessi
con un abito tipo quello dell’altra volta”
rabbrividì.
La
scelta di Caroline era piaciuta proprio a tutti!
“Nessun
altro appunto?”.
Riprese
in mano il giornale e alzò le spalle
“No”; attese qualche secondo e lanciò
un’occhiata all’orologio “E’ in
ritardo” constatò “Se fa così
anche al ritorno,
perderà la mia benedizione”.
“Come
se ce l’avesse mai avuta” commentai.
“Non
essere così tragica” mi smorzò
“Non ho niente contro quel ragazzo, anzi sono
tranquillo quando esci con lui perché so che sei al sicuro.
Semplicemente non
lo vedo adatto a te” confessò “Credo che
stare in una relazione significhi
anche confrontarsi; tu e Matt siete molto simili. Come potete crescere
se la pensate
allo stesso modo su tutto?”.
Rimasi
un attimo sorpresa: aveva appena descritto la mia idea di rapporto
perfetto.
Sospettai che avesse dato una sbirciata al mio diario (sì,
perché io che tanto
volevo stare lontana dai
cliché adolescenziali, tenevo un diario).
“Suppongo
di essere un po’ esagerato” continuò lui
“Matt non sarà l’unico ragazzo della
tua vita. È normale non trovare quello giusto al primo
colpo”.
“Perché
sei così sicuro che finirà male?”.
“Non
lo
sono” obiettò “Ma sono convinto che alla
fine ti troverai a fianco un migliore
amico e non un fidanzato”.
Scossi
la mano per troncare quel discorso. Apprezzavo davvero
l’interesse che papà
aveva verso di me, mi voleva bene e me lo dimostrava, ma quella era una
mia
decisione. Lui non poteva sapere che cosa mi passava per la testa o chi
andasse
bene per me.
Il
mio
cellulare suonò e guardai fuori dalla finestra: vidi il
pick-up di Matt
parcheggiato davanti a casa mia. Lo squillo era per avvisarmi di uscire.
Anche
mio padre mi raggiunse “Quella è la sua
macchina?” pronunciò allarmato “Sei
sicura che reggerà tutti e due?”.
“Alla
prossima critica …” gli intimai.
“Buona
serata, gattina” mi salutò interrompendomi. Si era
salvato in corner.
Mi
avviai alla porta, super agitata.
Team
Bonnie, team Bonnie, team Bonnie,
continuai a ripetermi nella testa per darmi coraggio. Team Bonnie
contro cosa
poi?
La
mia squadra doveva pur aver un
avversario.
Team
Bonnie contro tutte le cose che potrebbero andare male stasera. Pensai
con
sconcerto.
Forse
quest’opera di convincimento
non stava andando a
buon fine.
Saltai
sull’auto, sul sedile accanto al
guidatore. Matt mi sorrise. La serata iniziò decisamente a
prendere una piega
diversa.
Mi
portò in un ristorante appena fuori
Fell’s Church, molto carino. Ero sollevata che si fosse
occupato lui
dell’organizzazione. Non avrei saputo da che parte
incominciare, nonostante
fossi stata io ad invitarlo.
Temevo
di finire subito in una
situazione imbarazzante, invece rompemmo in fretta il ghiaccio e il
tragitto
verso il ristorante fu molto piacevole.
Chissà
poi perché avevo avuto così tanta
paura. Conoscevo Matt da anni e avevamo già passato del
tempo insieme senza
sentirci a disagio, ovviamente in amicizia.
Avrei
vinto la sfida, ce la potevo fare,
ero pronta.
Perché
io ero il capo del team Bonnie.
Mi
trascinai forzatamente lungo i
corridoi dell’università. Mi ero ripromesso di non
tornarci mai più, ma non
avevo niente da fare e dormire tutto il giorno era diventato noioso.
Praticamente
da quando erano
incominciate le lezioni non ci avevo più messo piede, non
sapevo neanche a che
punto fossimo arrivati con il programma.
Mi
sembrava un modo sconosciuto,
totalmente distante da me nonostante ci avessi vissuto per bene due
anni,
trovando pure il mio spazio.
A
pensarci bene, in effetti mi ero
inserito perfettamente nell’ambiente universitario; quello
delle feste però,
non quello dei corsi.
Avevo
una certa reputazione lì dentro,
soprattutto tra le ragazze. Non sapevo se esserne fiero o no, ma
sicuramente
aveva rinvigorito il mio ego. Almeno da qualche parte, in qualche cosa,
ero
apprezzato.
Me
la cavavo abbastanza anche negli
studi. Mi mancavano ancora molti esami ma la cosa non mi spaventava
affatto.
Ero intelligente e ne ero consapevole; semplicemente non mi applicavo,
per
quanto potesse suonare banale. Forse non ci ero portato o forse volevo
solo
indispettire mio padre. Preferivo non indagare sulle ragioni della mia
scarsa
concentrazione, perché mi sarei infastidito molto se avessi
scoperto che anche
quell’aspetto della mia vita era condizionato da lui. In un modo o nell’altro
tutto sembrava ritornare a Giuseppe
Salvatore.
Mi
ero iscritto al college per scappare.
All’inizio aveva funzionato: non tornavo quasi mai a casa ed
ero davvero pronto
a costruirmi una nuova vita lontana da Fell’s Church. Mio
padre era stato quasi
contento, quasi fiero, ma solo in un secondo momento mi ero accorto che
stava
progettando il mio futuro secondo il suo
schema. Ero destinato ad entrare nell’azienda di famiglia.
A
quel punto avevo iniziato a
ribellarmi. Mi ero convinto che se mi fossi dimostrato completamente
ingestibile e irresponsabile, Giuseppe alla fine mi avrebbe lasciato in
pace,
permettendomi di fare quello che volevo pur di tenermi lontano dai suoi
affari.
Non
mi aveva deluso sotto quell’aspetto,
era tragicamente prevedibile: sempre così veloce a togliermi
ogni barlume di
fiducia.
Katherine
aveva ragione: ero sprecato
per Fell’s Church; se nemmeno la mia famiglia mi capiva, come
ci sarebbero
riusciti gli altri?
Avevo
bisogno di altri spazi, di
andarmene e scrollarmi di dosso il mio nome. Allora mi sarei sentito
davvero
libero. Nessuno mi avrebbe più paragonato a Stefan, non
avrei dovuto sopportare
lo sguardo rassegnato di mio padre.
Entrai
sbrigativamente nell’aula. La
lezione era già iniziata e mi affrettai ad individuare la
figura di Sage e a
prendere posto.
Il
mio amico alzò la testa dal quaderno
e mi fissò stupito “Allora sei vivo”
constatò.
“Ti
prego, non cominciare anche tu” gli
chiesi posando la testa sul banco.
“Non
voglio farti la predica” mi
tranquillizzò “Temevo solo che avessi seppellito
il corpo di tuo padre e fossi
scappato”.
“Ti
sei dato al thriller?”.
Lui
non rispose “Come mai sei venuto in
università oggi?”.
“Mi
annoiavo” spiegai “Alaric è scuola
tutto il giorno. Non sapevo più che fare”.
“Povero
stupido che lavora per
guadagnare” sbuffò ironicamente.
Gli
lanciai un’occhiata seccata “Che lezione
è?”.
“Business
strategy . Hai almeno letto il
programma?”.
“Sage,
non so neanche che esami abbiamo
quest’anno. Chissà perché poi mi sono
iscritto ad economia; è inutile” mi
lamentai.
“Forse
perché tuo padre gestisce
attività in tutta la Virginia e tu erediterai
tutto?”.
Appunto.
“Quindi
questo ritorno è definitivo?”
s’informò Sage “Dovrei saperlo
perché ci sarebbe una ragazza e beh, deve avere
il tempo di trovare un’altra sistemazione”.
“Una
delle tue conquiste sta dormendo
nel mio letto?!” mi scandalizzai per essere stato sfrattato
con così poco
tatto.
“Non
fare lo schizzinoso. Devo
ricordarti di quando usavi anche il
mio letto perché tu e le tue ragazze non stavate tutti nel
tuo?”.
Gran
bei tempi. Durante il mio primo
anno me l’ero spassata, forse fin troppo. Ma certe esperienze
si apprezzavano
meglio a vent’anni.
“Farò
avanti e indietro” dissi “Credo
che Alaric prima o poi mi sbatterà fuori di casa”.
“Mi
stupisco che non l’abbia già fatto”.
“Sei
veramente di aiuto, Sage” mormorai
cercando di leggere i suoi appunti. Non era il migliore della classe ma
s’impegnava.
Durante
tutto il liceo ci eravamo
divertiti a combinare guai e comportarci da stupidi. Ci conoscevano
dall’elementari e d’allora ne avevamo combinate
peggio di qualunque alunno
passato per le scuole di Fell’s Church. La nostra presenza
nell’ufficio del
preside era fissa, le note piovevano. Eravamo compagni di cazzate e
anche
durante i primi mesi del college non ci eravamo smentiti.
Poi
era arrivato Alaric, di un anno più
grande e molto più maturo di noi. Frequentandolo, Sage aveva
messo la testa a
posto. Non era diventato uno studente modello, ma almeno era quasi in
pari con
gli esami e contava di laurearsi in tempo.
Aveva
trovato una sua dimensione,
sebbene rimasse in parte il solito idiota, sempre pronto a farsi
trascinare in
qualche casino, soprattutto se era Tyler a proporlo.
Tyler.
Ogni gruppo aveva il suo coglione
e lui era il nostro.
A
volte pensavo che le sue ripetute
bocciature fossero parte di un piano divino, perché se si
fosse diplomato in
tempo e si fosse iscritto al college con noi, probabilmente ci
avrebbero
cacciato dopo la prima settimana.
“Dirò
a Sue* di tornare nella sua
vecchia stanza” accettò di buon grado
“Ti dirò: cominciavo a stufarmi di averla
sempre attorno”.
“Ora
ti riconosco”.
Sage
ghignò e lasciò perdere i suoi
appunti “Hai visto Tyler mentre eri a Fell’s
Church?”.
Scossi
la testa “No, non sono uscito
molto”.
“Sono
morto dal ridere quando ho saputo
che era stato bandito da Homecoming”.
“E’
uno scemo. Per anni ha corretto le
bevande e per anni si è fatto beccare. I nostri insegnanti
non saranno delle
cime ma alla quarta volta l’hanno imparata!”.
“Tu
sei stato al ballo” affermò
“Com’è
stato tornare al liceo?”.
“Niente
di nuovo, è sempre lo stesso.
Mio fratello è stato incoronato re; il solito fascino dei
Salvatore” commentai
con un moto di orgoglio ricordando i tempi in cui ero io a vincere.
“Ho
sentito che Katherine è diventata
reginetta”.
“Avevi
dubbi?” lo ribeccai “Le Gilbert
regnano in quanto a bellezza, non c’è nemmeno
competizione. Credevo che
Caroline salisse sul palco a strapparle la corona”
sghignazzai “Almeno avrebbe
movimentato un po’la serata; invece si è limitata
a trucidarla con lo sguardo
mentre ballava con …” mi bloccai sconcertato.
Con
Stefan.
Solo
l’idea m’infastidì. Non era stata
colpa di nessuno, era tradizione che il re e la reginetta ballassero
insieme
dopo l’incoronazione, ma non potei evitare di ritenere il mio
fratellino
responsabile. In qualche modo era sempre in mezzo.
Era
come un’ombra che mi seguiva, mi
tormentava e non se ne stava mai al suo posto. E ancor peggio, aveva
dato il
pretesto a quella piccola peste rossa per vendicarsi delle mie
cattiverie e
sbattermi in faccia le sue frecciatine.
Sarebbe
stato anche divertente
osservarla mentre cercava di fare la spavalda, se
io non fossi stato l’oggetto delle sue
battute poco gradite.
Prima
o poi avrei dovuto restituirle il
favore e insegnarle a tenere quella lingua tra i denti.
Non
ero mai stato un grande fan di
Bonnie McCullough, la consideravo una bambina, troppo sensibile, a
tratti
frignona e infantile. Credeva di essere cresciuta ma rimaneva sempre la
solita
petulante mocciosa e non vedevo l’ora di lasciarmi alle
spalle pure lei.
“Damon”
mi chiamò Sage “Damon, la smetti
di torturare la mia penna?”.
Solo
in quel momento mi accorsi che
stavo stringendo pericolosamente tra le mani la biro che Sage aveva
appoggiato
sul banco. La mollai e ricadde rotolando sulla superficie liscia.
C’era
qualcosa che mi disturbava in
tutto ciò. Mi ero sempre vantato di essere una persona
particolarmente
insensibile, poco interessata a quello che mi accadeva attorno, eppure
mi
facevo colpire da eventi e persone insignificanti.
Mi
alzai dal mio posto, il professore mi
guardò male. Salutai bruscamente Sage e uscii
dall’aula. Non avevo seguito una
parola, era inutile che continuassi a perdere il mio tempo
lì dentro.
Camminai
veloce per il corridoio,
incrociai qualche viso conosciuto ma non mi fermai, non ero in vena di
fare due
chiacchiere.
Presi
il cellulare dalla mia tasca.
Avevo intenzione di chiamare Katherine e chiederle di saltare
l’ultima ora di
lezione per passare del tempo insieme. Cercai il suo numero nelle
chiamate
rapide ma non ebbi mai la possibilità di premere il tasto.
Qualcuno
mi venne addosso, per poco non
persi l’equilibrio. La mia irritazione stava per scoppiare e
per riversarsi sul
povero malcapitato quando vidi, circondata da un mucchio di fogli, una
testa
rossa piegata a radunarli.
Fu
facile riconoscerla.
“Mary”
dissi piegandomi per aiutarla.
“Damon”
mi sorrise “Scusami davvero!
Stavo leggendo una cosa e non ho guardato dove mettevo i
piedi”.
“Non
preoccuparti”. Fosse stata un’altra
persona, l’avrei rivoltata fino a farla piangere. Mary era la
figlia simpatica
del signor McCullough, la maggiore, quella che sopportavo. Anche lei
aveva i
capelli rossi ma erano più ramati rispetto a quelli di
Bonnie. Le mancava poco
alla laurea e lavorava già nell’ospedale di
Fell’s Church.
“Stai
andando a lezione?” le domandai.
“No,
mi hanno affidato un seminario” mi
rispose.
“Sei
diventata professoressa?” spalancai
gli occhi.
“Certo
no!” arrossì tirandosi indietro
una ciocca di capelli “Aiuto solo il mio insegnante.
È solo un seminario per
parlare della mia esperienza all’ospedale”.
Le
porsi i fogli che avevo raccolto.
“Tu
piuttosto che ci fai qui?” mi
chiese. Evidentemente non si aspettava di vedermi
all’università dopo quella
furibonda litigata con mio padre.
“Ho
fatto solo un giro. C’è ancora la
mia stanza qui e dato che a casa non sono gradito
…”.
“Mi
dispiace per quello che ha detto tuo
padre. Anche io mi sarei arrabbiata”.
“Questa
è la prassi a casa Salvatore,
ormai ci sono abituato” cercai di sminuire la cosa
“A me dispiace che tu abbia
dovuto assistere a quella scena. Non è stata
piacevole”.
“Non
preoccuparti, le liti in famiglia
capitano” mi assicurò “Credo che mia
sorella ci sia rimasta davvero male, sai?
Per tutta la domenica non ha fatto altro che inveire contro tuo
padre” mi
raccontò.
Fu
il mio turno di rimanere
meravigliato. Bonnie mi disprezzava almeno quanto io non tolleravo lei.
Di
certo si era goduta quella mia umiliazione.
Improvvisamente
realizzai che Bonnie aveva
già dimostrato di essere dalla mia parte. Era successo
sempre quella notte, nel
suo giardino. Aveva tanti lati fastidiosi e il più delle
volte si comportava
come una tredicenne, ma per qualche strano motivo finivo sempre da lei
quando
qualcosa mi ricordava brutalmente e tristemente mia madre.
Bonnie
aveva un effetto calmante su di
me. Per assurdo mi capiva come nessun altro al mondo ed era
l’unica con cui
avrei voluto parlare.
Non
era successo molto spesso negli anni
passati; le nostre conversazioni civili si potevano contare sulle dita
di una
sola mano e riguardavano le nostre madri. Non c’erano momenti
strappalacrime,
né tantomeno abbracci o simili, non le nominavamo neanche;
ma la sua presenza
mi aiutava a superare lo sconforto e così la mia.
Dopo
la penosa uscita di mio padre, ero
scappato di casa con la mia Ferrari. Ero andato da Tyler, aveva bevuto,
tanto.
Non ero in condizioni
di guidare e mi
avevano riportato a casa. Ma io non volevo entrare, non volevo dividere
lo
stesso tetto con quel mostro. Senza rendermene conto, mi ero ritrovato
steso
sul prato dei McCullough. Solo quando avevo visto i suoi grandi occhi
guardarmi
storto, mi ero reso conto che ero rimasto nell’attesa
d’incontrarla.
Odiavo
ammetterlo perché mi faceva
sentire vulnerabile e stupido, ma Bonnie più di una volta mi
aveva impedito di
scoppiare come una bomba che aveva accumulato troppa energia.
“Non
l’ha ancora accettato; per questo è
così sensibile” spiegò Mary, destandomi
dai miei pensieri.
Si
riferiva all’abbandono da parte della
loro mamma. Mary era più forte, si era ormai rassegnata.
Bonnie no.
Segretamente sperava ancora nel suo ritorno.
Era
in quelle circostanze che avrei
desiderato essere senza cuore come tanto declamavo, perché
avrei preferito di
gran lunga non provare compassione per quell’uccellino.
“Beh,
ti assicuro che non ci saranno
altre cene per un molto tempo. O almeno io non sarò
presente”.
Mary
annuì, palesemente a disagio. Mi
commiserava e non voleva mostrarlo per non mettermi in imbarazzo, ma
potevo
fiutare la pietà intorno a noi.
Le
augurai buona fortuna per il suo
seminario e me la svignai il più in fretta possibile. Le sue
parole, però, mi
avevano lasciato da pensare.
Non
ero uno santo, specialmente nei
confronti di Bonnie. Se vedevo un’occasione per prenderla in
giro o
mortificarla, non me la lasciavo scappare.
Nonostante
l’avessi ferita più e più
volte senza pentirmene, lei non mi aveva mai cacciato. Era buona, fin
troppo,
tanto da darmi il voltastomaco e lo era anche con me, benché
non me lo
meritassi. Non ne capivo il motivo, io non ci sarei mai riuscito.
Forse
avrei dovuto ringraziarla o almeno
fare qualcosa di carino.
Mi
avviai alla porta tenendo tra le mani
un pacchetto di carta.
Erano
le dieci e mezza di domenica
mattino. Normalmente a quell’ora ero nel pieno del mio sonno
ma avevo un
compito.
Suonai
il campanello. Aprì giusto la
persona che stavo aspettando. Era assonata, con i capelli rossi
arruffati.
Indossava un delizioso pigiamino color pesca con i fiorellini.
Mi
guardò con occhi stralunati. Forse
cercava di capire se stesse ancora sognando oppure se fossi reali.
Sbadigliò
portandosi una mano davanti
alla bocca “Che ci fai qui?”.
“Ho
portato la colazione” annunciai
sventolandole il sacchetto davanti al viso
“Ciambelle”.
Ora
era sbalordita. Non era roba da
tutti i giorni trovarsi Damon Salvatore davanti alla porta con un pacco
di
ciambelle in mano.
“Sei
ubriaco?” mi chiese.
“No,
uccellino,
non passo la mia vita a bere” mi scocciai.
“Abbiamo
già fatto colazione” mi disse e
fece per chiudere la porta. Io misi il piede in mezzo
“Suvvia, Bon Bon,
rifiuteresti una ciambella?”.
Mi
trucidò con lo sguardo. Evidentemente
sì.
“Damon!”
il signor McCullough apparve
alle spalle della figlia “Cosa ci fai qui?”.
“Ho
comprato delle ciambelle in più e ho
pensato di portarvele per scusarmi del mio comportamento
dell’altra sera”.
Ora
Bonnie mi guardava ancor più
scettica. Potevo quasi leggere i suoi pensieri: mi stava sicuramente
dando del
leccapiedi.
“Non
dovevi disturbarti” disse lui
“Forza vieni dentro, Bonnie fallo passare” le
ordinò prima di tornare in
cucina.
“Prima
o poi mi adotterà” commentai
ridacchiando.
“Non
ci sperare” mi stroncò Bonnie
“Perché sei qui, Damon? Se ti vede tuo padre
…”.
“La
strada è ancora territorio pubblico”
replicai “E questa è casa tua; non può
dirmi niente. Se magari mi lasciassi
entrare, saremmo sicuri di evitare altre scenate”.
Bonnie
sospirò e si spostò di malavoglia
di lato.
Mi
feci strada nell’ingresso “Hai l’aria
stanca, uccellino. Hai fatto le ore piccole stanotte?”.
Lei
arrossì e distolse lo sguardo.
Inarcai
le sopracciglia. La mia era
stata una battuta ma sembrava che avessi fatto centro.
“Almeno
le hai prese al cioccolato?” mi
chiese.
“Doppia
glassa”.
Bonnie
sembrò soddisfatta. Mi fece segno
di seguirla in cucina e mi diede le spalle. Rimasi un attimo
all’ingresso per
osservarla meglio mentre camminava via.
Non
era la mia persona preferita ma
quella mattina riuscivo a trovarla quasi adorabile. Probabilmente avrei
ricominciato a schifarla non appena avessi sbrigato quella faccenda del
‘ringraziamento’
ma per il momento ero solo contento che non mi avesse sbattuto fuori
dalla
porta. Era una sensazione piacevole, sentivo il calore di quella casa e
il
profumo del caffè, che sapeva tanto di famiglia.
“Allora
ti muovi o no?”. La voce di
Bonnie arrivò sgarbata e impaziente.
Come
rovinare l’atmosfera.
Ebbi
la netta impressione che la mia
sopportazione sarebbe presto evaporata. Nel frattempo, potevo
divertirmi un po’a
torturarla.
“Uccellino,
perché non racconti al tuo
vicino di casa preferito cosa hai combinato ieri sera per avere
un’aria così
stanca?” chiesi entrando in cucina.
Suo
padre s’insospettì “Hai qualcosa da
dirmi, gattina?”.
Poco
ci mancò che Bonnie mi tirasse una
padella in testa.
Il
mio spazio:
Sono
stata veloce sta volta, vero? Eheh.
Allora
vorrei un attimo parlarvi di
Damon. Come aveva già detto nelle note del secondo capitolo,
qui parliamo di un
ragazzo, umano, di solo ventun anni. Per quanto odi ammetterlo,
è pieno di
emozioni; la maggior parte sono negative, quasi distruttive, confuse e
complicate ma sono sempre emozioni. Avevo pensato di ritrarlo molto
più freddo
e senza cuore ma non mi sembrava molto credibile. In fondo, noi
leggiamo tutte
queste cose perché la narrazione è in prima
persona e quindi entriamo
direttamente nella sua mente ma gli altri personaggi non conoscono
questo suo
lato.
Soprattutto
verso la fine, vi potrà
sembrare un po’ OOC; spero che non lo sia troppo.
Semplicemente la
chiacchierata con Mary gli ha aperto gli occhi. A Damon non piace
Bonnie, ma si
è reso conto che lei
c’era.
I
suoi amici lo hanno riportato a casa
ubriaco, suo fratello non ha praticamente alzato un dito per difenderlo
da
Giuseppe ma Bonnie c’era e non l’ha cacciato.
Damon
sa di non meritarsi la sua
comprensione e le è grato.
Che
ne dite di questa Bonnie che decide
di chiedere a Matt un appuntamento? Vi avviso subito: non avete
scampato la
serata. Ne parlerò nel prossimo capitolo.
Ho
anche una comunicazione di servizio:
a fine mese ho un esame e sto lavorando ad un progetto per
l’università; per
cui forse i prossimi due o
tre
aggiornamenti non saranno settimanali.
Vi
ringrazio tantissimo per il continuo
seguito!! Sono contenta come una bambina a Natale!
Nei
prossimi due capitoli questa storia
prenderà finalmente il via con un paio di svolte
interessanti.
Titolo
del prossimo capitolo: A gentleman doesn’t kiss and tell.
A
presto,
Fran;)
Il
banner è di Bumbuni.
*Sue
Carson è un personaggio del libro.
|
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Capitolo 7 *** A gentleman doesn't kiss and tell ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo sette: A gentleman doesn’t
kiss and
tell.
“Superstar, where you from, how's it
going?
I know you, gotta clue whatcha doing
You can play brand new to all the other chicks out here
But I know what you are, what you are, baby
Look at you, getting more than just a re-up
Baby you, got all the puppets with their strings up
Faking like a good one, but I call 'em like I see 'em”
(Womanizer-
Britney Spears).
“Hai
qualcosa da dirmi, gattina?”.
Ero
certa che mio padre si sarebbe
insospettito per l’insinuazione di Damon. Perché
si divertiva così tanto a
mettermi nei guai?
Ebbi
l’istinto di tirargli una padella
in testa ma mi trattenni.
“Niente,
papà, lo sai cosa ho fatto ieri
sera” risposi restando vaga. Non volevo che Damon sapesse del
mio appuntamento
con Matt o mi avrebbe presa in giro per sempre.
“Sei
rientrata tardi” osservò lui.
“Ero
sul portico a parlare” spiegai
sperando che lasciasse cadere il discorso.
“Non
voglio che diventi un vizio. Anche
settimana scorsa l’hai fatto” mi
rimproverò.
“Temo
che sia stata colpa mia per quella
volta” s’intromise Damon “Bonnie era con
me”.
Adesso
si decideva ad aiutarmi? Sarebbe
stato molto più utile se non avesse tirato in ballo
l’argomento.
Come
udì quelle parole, mio padre
s’illuminò. Qualcuno prima o poi mi avrebbe dovuto
spiegare come potesse avere
una così alta considerazione di quel ragazzo. Quasi tutti i
genitori di quella
città lo guardavano con sospetto per paura che corrompesse
le loro figlie; lui
era l’unico che avrebbe gioito a vederci insieme.
Mistero
che non avrei mai scoperto.
“Che
sia l’ultima volta, però” mi
avvertì con un’occhiata eloquente.
Passò una tazza di caffè a Damon e insieme
cominciarono a parlare della partita di football della sera prima.
Capii
che quella simpatica chiacchierata
sarebbe andata avanti ancora per molto; perciò mi affrettai
a prepararmi un po’
di latte caldo. Volevo filarmela in camera il prima possibile.
Sfortunatamente
il cellulare di mio
padre iniziò a squillare.
“Gattina,
stai tu con Damon mentre
rispondo” mi disse. Sparì nell’altra
stanza.
Al
mondo c’era, chiaramente, una forza
avversa creata apposta per tormentarmi.
“Allora”
incominciò appoggiandosi contro
i fornelli “Cos’hai combinato ieri sera?”.
Ma
che gliene fregava?!
“Niente,
sono uscita” tagliai corto.
Ancora
non potevo credere di essere ad un appuntamento con Matt Honeycutt,
quarterback
della squadra di football, nonché uno dei più bei
ragazzi di Fell’s Church.
Un
po’ mi dava fastidio di essere elettrizzata da aspetti
così frivoli, ma non
potevo farne a meno: quella era la mia rivincita.
Dopo
il viaggio in macchina, avevo ritrovato la mia calma ed ero decisamente
più
tranquilla. Cercai di vedere quella cena non tanto come un appuntamento
romantico, quanto come un’uscita tra amici.
In
cuor mio, ovviamente, speravo che fosse il primo caso, ma pensare al
secondo mi
aiutava a non agitarmi. Io e Matt eravamo amici da una vita e non
desideravo
rovinare il nostro rapporto: se fosse andata male, non ne avrei fatta
una
tragedia. Avrei tentato in tutti i modi di non lasciar cadere
l’imbarazzo tra
noi.
Il
ristorante era molto carino, un posto tranquillo con atmosfera
familiare, ma
non prestai molta attenzione a ciò che mi circondava. La mia
mente era
decisamente altrove, tutta focalizzata sul ragazzo davanti a me.
Matt
era la dolcezza fatta a persona. Nonostante fosse ritenuto molto bello
e
popolare, non si era mai mostrato arrogante né presuntuoso.
Era un gran
lavoratore: serviva quattro giorni a settimana al Grill per aiutare la
sua
famiglia con le bollette. Era di origini modeste, non molto ricche,
capitava
che avesse ogni tanto qualche difficoltà economica.
A
scuola andava discretamente; non era quel si suol dire un genio, ma se
la
cavava. Puntava ad una borsa di studio per la sua abilità
nel football; in quel
campo era un vero talento. Grazie a lui avevamo vinto gli ultimi due
campionati
regionali ed ci eravamo classificati tra i primi dieci delle squadre
nazionali.
Un
po’ lo invidiavo, perché, nonostante la sua
situazione economica non fosse
delle migliori, aveva un obiettivo reale e raggiungibile. Era scontato
che
avrebbe ottenuto una borsa di studio da qualche parte.
Grazie
al lavoro di mio padre, potevo permettermi un’ampia scelta
per l’università, ma
ero totalmente persa. Era così assurdo che a diciassette
anni non sapessi che
fare del mio futuro? Evidentemente sì, perché
tutti i miei amici avevano già
pianificato tutto.
Scossi
la testa e tornai a concentrami su Matt. Quella sera si era vestito
elegante e
la cosa non poteva che farmi piacere. Significava che considerava la
nostra
uscita importante e non voleva sfigurare.
Anche
lui si concentrò su di me e mi squadrò come non
aveva mai fatto prima. Era una
bella sensazione: mi sentivo apprezzata, finalmente da qualcuno cui
tenevo.
Tanti
ragazzi in Spagna mi avevano corteggiata, ma alla fine lo avevo
percepito fino
a un certo punto. Non m’importava niente di loro, quindi non
la ritenevo una
grande conquista.
“Ti
sta molto bene questo vestito” si complimentò
“Questo l’hai scelto tu”
affermò.
“Noto
che il vestito che ha scelto Caroline non è piaciuto a
nessuno” borbottai.
“In
realtà a me è piaciuto molto” si
corresse “Eri …beh, eri sexy” mi
confessò un
po’ in imbarazzo. Matt non era il tipo da fare certi commenti
così espliciti.
Normalmente andava sul dolce e sul semplice.
“Ma
chi io?” replicai con tono sorpreso.
“Non
guardarmi così stupita, è vero”
ribadì “Però stai molto bene anche
così. Sei
molto tu; riesco a riconoscerti”.
“Matt,
posso domandarti una cosa?”.
Eravamo
in vena di confidenze; tanto valeva approfittarsene.
“Perché
non mi hai più chiesto di uscire? E perché hai
accettato il mio invito?
Credevo…che avessi cambiato idea, sai?”.
Matt
sorrise, quasi colto da un’illuminazione “Io
credevo che tu avessi
cambiato idea” disse “Quando hai disdetto il nostro
appuntamento, per andare a
cena da Stefan, ho pensato che fosse solo una scusa perché
non volevi uscire
con me”.
Avevo
sentito bene? Era serio?
“Sono
felice che tu me l’abbia richiesto. Io sono stato stupido a
non fare un secondo
tentativo”.
“Perché
adesso?”. Non so cosa mi prese; semplicemente non riuscii a
fermare le mie
stesse parole. Mio padre con la sua stupida apprensione mi aveva messo
un tarlo
in testa: Matt mi aveva sempre considerata solo come
un’amica. Adesso era
cambiato qualcosa e io avevo il diritto di sapere il motivo.
“Un
po’ mi vergogno” ammise “Non
guadagnerò punti a raccontarti questa cosa” mi
avvisò “Ho sempre avuto un debole per te; quando
eravamo piccoli, volevo sempre
proteggerti. Sembravi così piccola e fragile, eri talmente
carina. Il problema
è che in tutti questi anni non mi sono accorto che sei
cresciuta, ho continuato
a vederti come una bambina”.
Per
ora mi aveva detto cose che già sapevo. Io ero la
‘bambina’ del gruppo,
soprattutto per il mio aspetto da bambolina. Le mie forme erano ancora
un po’
adolescenziali e il mio atteggiamento non aiutava. Mi avevano trattato
per
talmente tanto tempo come la bimba di turno che alla fine mi ero adatta
a quel
ruolo.
“Poi
sei tornata dalla Spagna e …ti ho vista sotto
tutt’altra luce. Non so davvero
come spiegartelo, Bonnie: c’è qualcosa di diverso
in te e non riesco a
toglierti gli occhi di dosso. Mi dispiace molto di essermene accorto
solo
adesso”.
Divenni
tutta rossa, ma non abbassai lo sguardo. Adoravo i suoi occhi blu e
avrei
potuto stare a fissarli per tutta la vita; soprattutto in quel caso che
ricambiavano la mia stessa intensità.
Il
cameriere venne a prendere l’ordinazione. Per tutto il resto
della sera finimmo
a parlare di altro. Ricordammo la nostra infanzia e le prime feste, i
primi
guai in cui ci eravamo cacciati. In fondo, avevamo condiviso
praticamente la
nostra intera vita e trovare un argomento di conversazione non fu
affatto
difficile.
Quando
mi riportò a casa era quasi mezzanotte. Ci fermammo sotto il
portico per altre
due ore senza rendercene nemmeno conto.
Arrivò
il momento di separarci e ancora una volta fui io quella più
coraggiosa: mi
allungai sulle punte e gli posai delicatamente un bacio sulla bocca.
Fu
molto tenero e breve, ma per me significò moltissimo. Ci
stavamo addentrando
piano in una nuova fase del nostro rapporto, stavamo riscoprendo un
nuovo lato
di noi. Quel bacio, per me, rappresentò il vero inizio del
mio cambiamento.
“Ce
l’hai scritto in faccia che non vedi
l’ora di raccontarlo a qualcuno. Fa’ finta che sia
Stefan” m’incitò quasi con
tono provocatorio.
Ripiombai
di botto nella realtà.
“Tu
non sei Stefan” asserii. La mia non
voleva essere un’affermazione per ribadire l’ovvio;
gli stavo trasmettendo un
messaggio chiaro e lapidario: ‘tu non sei come Stefan, non
provare a prendere
il suo posto’.
Damon
lo capì senza problemi. Lo vidi
per un attimo irrigidirsi, ma si rilassò subito.
Alzò le spalle, indifferente.
“Sai,
Bon Bon, alcune persone non
vogliono essere come Stefan” mi fece notare.
“Forse
tu non vorresti essere come lui,
ma non ti dispiacerebbe avere ciò che ha lui”
replicai con la massima calma.
Stavo camminando sull’orlo di un burrone: se Damon si fosse
arrabbiato per
davvero, mi ci avrebbe spinto giù a piena forza.
“E
cosa ti fa credere che io vorrei
anche te?” sibilò.
La
mia tranquillità dissimulava una
certa agitazione; la sua una freddezza mortale.
“Non
intendevo quello …” provai a
protestare.
I
suoi occhi s’indurirono
improvvisamente e bloccò ogni mio tentativo di parlare.
“Chiariamo una cosa,
Bonnie”.
Non
mi chiamava mai per nome. Doveva
essere molto seccato; d’istinto indietreggiai.
“È
stato
divertente per un po’, ma stai superando il limite. Ti ho
permesso più di una
volta di parlarmi come se fossimo alla pari e ho
l’impressione che te ne stia
un po’ approfittando” mi gelò
“Da quando sei tornata dalla Spagna ti credi una
gran figa, perché qualcuno ti ha finalmente notata, ma non
è così. Sei ancora
la solita ragazzina insulsa, irritante, che vive all’ombra
delle sue amiche.
Non sei nessuno”.
Ero
pietrificata. Non capivo davvero per
quale motivo fosse diventato così cattivo. Sapevo che
l’argomento Stefan era
una nota dolente per lui, ma non avevo detto niente di male e non mi
aveva
nemmeno lasciato il tempo di correggermi.
“Quindi
fa’ un favore a te stessa e
torna ad abbassare quella testolina rossa, perché sappiamo
entrambi che potrei
rimettermi al tuo posto con un’occhiata; non costringermi a
farti piangere”.
Mi
lanciò un’ultima occhiata di ghiaccio
prima di abbandonare la cucina. Lo udii salutare cordialmente mio padre
e
andarsene.
Io
non mi ero mossa di un millimetro.
Come minimo avrei dovuto inseguirlo e rispondergli a tono, urlargli che
non
poteva permettersi di venire a casa mia a insultarmi, non dopo che lo
avevo
così gentilmente
consolato.
Mi
resi conto, però, che Damon aveva
tremendamente ragione: tutto il coraggio che avevo cercato con affanno,
spariva
di fronte a lui. Aveva come nessun altro il potere di farmi sentire un
insetto.
Mi
morsi con forza un labbro e serrai
gli occhi. Qualche lacrimuccia lottò per fuoriuscire, ma
venne bruscamente
ricacciata indietro.
Non
volevo dargli quella soddisfazione;
mi aveva già umiliata abbastanza.
Dopotutto,
forse si meritava tutte le
cattiverie che suo padre continuava a gettargli addosso; di certo non
era un
mistero che Stefan fosse ritenuto il figlio migliore.
Damon
Salvatore era solo uno spocchioso,
un viziato. Lo avevo aiutato e quello era il ringraziamento.
Lo
volevo il più possibile lontano da
me.
Entrai
al Grill come una furia. Le
ragazze erano già sedute al nostro solito tavolo. Tirai
indietro la sedia
bruscamente e mi sedetti sbattendo la borsa a terra.
Le
altre tre mi fissarono stranite. Non
ebbero nemmeno il tempo di parlare che cominciai a blaterale su quello
che era
successo e ad inveire contro Damon.
Il
che era davvero il colmo: avevo
trascorso tutta la sera precedente con Matt, al mio primo appuntamento
e invece
di raccontare tutta agitata quello che era successo, me ne stavo a
lamentarmi
di quel pallone gonfiato.
Non
sarei mai riuscita a
tranquillizzarmi se non mi fossi tolta quel peso. Mi dava fastidio
perché era
l’unico a riportarmi sempre con i piedi per terra, malamente. Sembrava che si divertisse a
spezzare ogni mio sogno.
Al
termine della mia invettiva, le altre
tre rimasero in silenzio, forse per paura di farmi innervosire ancora
di più.
Fu lo sguardo di Elena a colpirmi più di tutti: non appariva
troppo convinto,
come se fosse colpa mia.
“Non
dirmi che stai dalla sua pare
adesso!” l’attaccai puntandole un dito contro.
“No,
certo che no” si affrettò a
chiarire “Ti ha detto delle cose veramente cattive e non lo
sto difendendo,
però … Bonnie, anche tu potevi evitare quella
battuta su Stefan”.
“E’
stato lui a tirarlo in ballo. Forse
sarò stata anche acida, ma non aveva nessun diritto di
presentarsi in casa mia
e parlarmi in quel modo. È solo un ingrato! La prossima
volta che prova ad
occupare il mio giardino perché vuole vedere la luna, lo
sbatto fuori a calci
nel sedere” conclusi.
“Non
hai fatto niente di male” mi
assicurò Elena “Non volevo prendere le sue difese.
È solo che so quanto sia
suscettibile all’argomento Stefan”.
“Ha
ventun anni. È ora che superi questo
complesso d’inferiorità” intervenne
Caroline “Il mondo non ruota intorno a lui
o a Stefan. Senti, Elena, mi dispiace aprirti gli occhi in questo modo,
perché
so che gli sei affezionata, ma Damon non è una bella
persona. Con te si
comporta bene solo per infilarsi tra le tue mutande. In
realtà è uno stronzo,
senza cuore, che si diverte a ferire gli altri”.
La
conversazione stava decisamente
prendendo una piega inaspettata. Io mi ero sfogata, me l’ero
tolto dalla testa
ed ero pronta a raccontare del mio momento di gloria con Matt; per
quale motivo
stavamo ancora parlando di Damon Salvatore?
“Con
me è gentile perché sono disposta
ad ascoltarlo e non ho pregiudizi come voi due”
berciò Elena indicando me e
Caroline.
“Anche
io ero disposta ad ascoltarlo, ma
mi ha trattata di merda lo stesso” appuntò Care
“Ci sono cascata troppo in
fretta; gliela dovevo far sudare di più”.
“Per
quanto questo processo a Damon sia
molto interessante, io vorrei …” cominciai ma
venni interrotta da Elena che
esclamò preoccupata “Meredith, stai
bene?”.
Mi
girai anch’io verso la mora e mi
accorsi che era pallida come un lenzuolo. Sembrava spaventata da
qualcosa e
immersa nei suoi stessi pensieri. Non si rese neanche conto che tutte
noi ci
eravamo zittite e che la fissavamo allarmate.
Caroline,
con il suo solito tatto, le
schioccò due dita davanti al viso. Meredith
sobbalzò e finalmente riportò
l’attenzione su di noi.
“Ti
senti male?” premette Elena.
“N-no,
no” rispose un po’ incerta “E’
che questi discorsi su Damon mi hanno fatto venire in mente una cosa
cui non
avevo pensato fino adesso”.
Attendemmo
che proseguisse di sua
spontanea volontà.
“Lui
e Alaric sono migliori amici,
giusto?”.
Io
annuii “Stefan dice di sì”.
“E
se gli raccontasse della mia prima
volta? Sarebbe oltremodo imbarazzante”.
Corrugai
la fronte. Evidentemente mi ero
persa da qualche parte nel discorso, perché non avevo idea a
che cosa stesse
riferendo.
“La
tua prima volta nel senso …?” si
accertò Caroline, confusa almeno quanto me.
“Sì
in quel senso!” confermò Meredith.
“Temo
di non trovare il collegamento” azzardai.
Meredith
ci guardò di sottecchi. Indugiò
un po’, dondolandosi avanti e indietro come una bambina
beccata con le mani
nella marmellata. Appariva molto colpevole; mi sfuggiva la ragione,
però.
“Devo
confessarvi una cosa” sospirò “Vi
ricordate della vacanza che ho fatto con i miei genitori un anno fa?
Quando
siamo andati a Santa Monica per una settimana”.
Facemmo
un cenno di assenso, invitandola
a proseguire.
“E
vi ricordate che vi ho raccontato di
una festa sulla spiaggia?”.
“Quella
in cui ti sei ubriacata e hai
perso la verginità?” tagliò corto
Caroline “Eri disperata perché il tipo ero
uno sconosciuto e ti sei dannata per un mese perché avevi
sprecato la tua prima
volta. Cosa c’entra con Damon?”.
“Ecco,
il tipo non era proprio uno
sconosciuto” tentennò “E io non ero
così ubriaca”.
Non
ero un genio della logica, ma non
c’impiegai molto a fare due più due. Per poco non
caddi dalla sedia, scioccata.
“Tu
e … Damon?”
boccheggiò Caroline senza
voce. Stava interpretando il pensiero di tutte.
“Lui
era lì per un viaggio organizzato
dall’università. Ci siamo incontrati a quella
festa. Avevo bevuto un po’, non
ero completamente ubriaca, ma non potevo tornare in quelle condizioni
dai miei
genitori. Damon è rimasto con me finché non mi
è passata la sbornia. Anche lui
era un po’ brillo e beh…una cosa tira
l’altra”.
“Perché
non ce l’hai detto prima?” le
chiese Caroline mentre ancora cercava di metabolizzare quella scoperta.
“Ero
imbarazzata” si giustificò.
“Avevi
una cotta per Damon?” domandò
Elena.
“No,
assolutamente no!” negò “E’
stata
solo una cosa fisica, il che è anche peggio. Io ero presa
dall’alcol e lui era
particolarmente bello quella sera; mi sono lasciata
trascinare”.
“Mere,
non si è approfittato di te
perché eri sbronza, vero?” si accertò
Caroline.
Lei
scosse la testa “Sapevo cosa stavo
facendo. Ero senza inibizioni, ma capivo perfettamente. Suppongo che
volessi
sapere cosa si provasse”.
“Com’è
possibile che non si sia mai
saputo? In questa città è praticamente
impossibile fermare un pettegolezzo”
osservò Caroline.
“Abbiamo
deciso di tenerlo segreto”
spiegò Meredith “E’ stato un errore.
Abbiamo preferito non spargere la voce”.
“Incredibile”
sbuffai “Quel ragazzo non
si smentisce mai”.
Damon
non perdeva occasione di vantarsi
delle sue conquiste. Non avrebbe mai taciuto una cosa simile se non per
…
“Non
voleva rovinarsi la reputazione;
ecco perché è stato zitto” mi diede man
forte Care.
“Santo
Cielo, dategli tregua” esplose
Elena “Siete sempre lì a parlare male di lui,
quando in realtà ha fatto una
cosa molto carina. Ha mantenuto il segreto di Mere per rispettarla. Non
voleva
farla passare per una poco di buono, per una facile. Era la sua prima
volta e
non doveva andare così; Damon ha solo cercato di
rimediare”.
Caroline
si zittì ed io con lei. Il
ragionamento di Elena filava liscio, ma mi sembrava impossibile che
Damon
potesse essersi comportato così bene per il semplice gusto
di difendere la
reputazione di qualcun altro.
Caroline
sospirò, cedendo infine e
abbandonò i suoi tentativi di screditare Damon;
più per Meredith che per una
vera convinzione della sua innocenza.
“Beh,
tesoro mio, dobbiamo festeggiare.
Finalmente la ragazzaccia che è in te sta uscendo: hai fatto
le cose sporche
con Damon e vorresti farle con il tuo professore”.
“Con
Alaric la questione è chiusa”
dichiarò Meredith “Ma ho paura che lo venga a
sapere; sarebbe ancora più
imbarazzante”.
“Ha
tenuto la bocca chiusa fino adesso;
non penso che parlerà” la tranquillizzò
Elena, che tra tutte era la più attiva
a difenderlo.
“Pare
che siamo le uniche due immuni al
fascino di Damon Salvatore in questa città”
considerai. Non mi sarei mai
aspetta una notizia simile da Meredith. Non la stavo assolutamente
giudicando
né incolpando. Io non avevo una gran stima di Damon, ma non
mi sarei mai
permessa di reputare una mia amica una ragazza frivola solo per aver
ceduto
alla sua bellezza. Anche Meredith era umana dopotutto.
“In
realtà anche tu nascondi un
segretuccio” canticchiò Caroline “Anche
se non ne sei a conoscenza”.
“Non
…” l’avvertì Meredith ma
l’altra
non l’ascoltò “Sono passati quasi tre
anni, possiamo anche dirglielo adesso”.
“Dirmi
cosa?” domandai con tono
intimorito.
“Ti
ricordi quel gioco che facevamo un
po’ di anni fa? Il bacio al buio?”.
Sabato
sera. Grande festa.
Tyler
Smallwood ogni anno, verso i primi di ottobre, organizzava un
fantastico party
a casa sua per festeggiare l’inizio della scuola. Un pretesto
come un altro per
bere fino a stramazzare al suolo. A mezzanotte non c’era
ragazzo che non fosse
almeno un po’ brillo.
Camminavano
quasi tutti storti e ridevano per ogni cretinata.
Come
al solito io ero una delle poche ancora sana. Avevo solo quindici anni
e non
ero molto abituata all’alcol. Cercavo sempre di trattenermi
in pubblico per
evitare di fare figuracce.
La
musica a palla mi stava frantumando i timpani ma sfumò
dolcemente in un lento. Conoscevo
quella canzone: “Can you feel the love tonight” di
Elton John. La cantavo
sempre quando guardavo il “Re Leone”.
Intuii
che era giunto il momento del bacio al buio e mi spostai verso il lato
della
sala, in attesa della coppia delle serata.
Il
gioco consisteva nel prendere una ragazza e un ragazzo a caso, bendar
loro gli
occhi e in un certo senso obbligarli a baciarsi davanti a tutti.
Naturalmente i
due non dovevano sapere l’identità
dell’altro e i presenti erano tenuti a
mantenere il segreto. Una tradizione, per noi, vecchia come il mondo:
un party
non era completo senza il bacio al buio. Una versione rivisitata del
gioco
della bottiglia o dei ‘sette minuti in paradiso’.
Una stupidata.
Non
mi ero mai preoccupata di quel gioco: prima di tutto perché
non ero mai stata
incastrata (chi mai avrebbe preso in considerazione la piccola Bonnie?)
e in
secondo luogo, a quel tempo stavo con un tipo di nome Reynold* e una
delle
regole consisteva nel prendere solo due persone single.
Non
mi sarei mai aspettata di finire rinchiusa nello stanzino alla mia
destra e di
essere bendata da un paio di mani non troppo gentili che mi spinsero
fuori
appena terminata l’opera.
Tyler
alzò la voce annunciò “E’ il
momento che tutti aspettavate…le nostre vittime
sono al centro della stanza. Vi invito a non rivelare mai i nomi dei
fortunati
che a loro volta sono pregati di non proferire parola né di
fare altro che
potrebbe far scoprire la vostra identità…se non
c’è altro, direi che possiamo
cominciare”
Un
applauso precedette l’inizio del gioco.
Io
era furiosa, lo sapevano che avevo sempre odiato quello stupido gioco.
Era imbarazzante
e mi dava particolarmente fastidio scambiare saliva con qualcuno che
nemmeno
potevo guardare in faccia.
Rimasi
immobile rifiutandosi di ballare.
Il
mio partner non era del mio stesso parere: mi prese per la vita e mi
attirò a
sé. Senza sapere bene il perché, gli passai
d’istinto le braccia attorno al collo
e da lì in poi non ci capii più nulla.
Non
avevo la minima idea di chi fosse quel ragazzo, ma per una ragione
sconosciuta
non mi scocciava sentire le sue mani sui fianchi, davano una sensazione
di
sicurezza. Mi piaceva il contatto dei miei polpastrelli con il tessuto
della
maglietta di lui: era una stoffa morbida e profumata, così
diversa dalle
camicie ruvide di Reynold. Gli
posai la
testa contro la spalla e avvertii la sua presa farsi più
salda.
La
canzone si affievolì a poco a poco. Il momento fatidico era
arrivato, ma non
ero agitata; inconsciamente volevo quel bacio..
Un
frazione di secondo e unimmo le labbra. Gli amici attorno partirono con
battiti
di mani e fischi, ma io non udii assolutamente nulla. Ero finita in un
universo
parallelo, dove nessuno mi avrebbe disturbata. C’eravamo
solo noi due.
Il
contatto tra le nostre bocche durò troppo. Un paio di
ragazzi ci divisero,
portandoci lontano l’uno dall’altro.
Mi
tolsero la benda e mi rispedirono subito nel mezzo della massa, in modo
che non
potessi vederlo. Presumo che fecero lo stesso con lui.
Mi
guardai attorno spaesata in cerca di qualunque indizio che potesse
indentificarlo, senza successo.
Mi
stupii nel percepire un grande vuoto all’altezza del cuore.
Volevo
mettermi a ridere. Doveva essere
tutto uno scherzo, per forza.
Ricordavo
bene quel bacio: era stato uno
dei primi e mi aveva elettrizzato come pochi. Non poteva essere Damon.
Io lo odiavo e sicuramente avrei
sentito
quel disprezzo anche attraverso un bacio. O no?
“Stai
per svenire?” disse Meredith
mettendomi una mano sulla spalla.
“Perché
non me l’avete mai detto? Per
nessuno me l’ha detto?” chiesi a raffica.
“E’
la regola” si giustificò Caroline “E
poi quella sera erano quasi tutti ubriachi marci; la vedo dura che se
ne siano
perfino accorti. Probabilmente Damon non lo sa nemmeno”.
“Avrei
preferito non saperlo neppure
io!” mi lamentai “Perché non mi avete
lasciato nella mia beata ignoranza?!”.
“Non
farne una tragedia, Bon” si
spazientì Elena “E’ successo anni fa.
Piuttosto aggiornaci sul tuo appuntamento
con Matt”.
Ah,
adesso le veniva in mente!
Per
me la domenica era sacra. Non c’era
altro modo di definirla.
Per
me la domenica era pigrizia allo
stato puro. Letto, cibo, divano, tv, cibo, divano, letto. Era il mio
santo
rito, rigorosamente in sequenza e quella domenica lo avevo
già trasgredito una
volta per quella stupida testa rossa.
Adesso
lo stavo facendo ancora, per un
motivo un po’ più interessante almeno: dovevo
incontrarmi con Katherine al
Grill.
Sarebbe
anche stato un pomeriggio speso
bene, se Tyler non si fosse presentato, imponendo la sua presenza al
nostro
tavolo. Quando arrivò anche Sage, non mi sprecai nemmeno a
mostrarmi
infastidito; ormai il mio tempo con Katherine era rovinato.
Ero
già abbastanza infastidito dal
quartetto che si trovava alle mie spalle. Non avevo assolutamente
voglia di
vedere Bonnie dopo la nostra discussione. La sua sola presenza mi
faceva venire
l’orticaria.
Non
ero abituato a comportarmi in modo
gentile, tantomeno a ringraziare. Mi era costato molto presentarmi a
casa sua
con un pacco di ciambelle in mano. Stavo cercando di sdebitarmi, di
fare
qualcosa di carino.
Invece
di accettarlo, si era trasformata
per l’ennesima volta nella paladina di Stefan; sembrava quasi
una regola che
ogni giorno qualcuno dovesse rimarcare la differenza tra noi.
Bonnie
McCullough aveva alzato troppo la
testa e mi ero stufato di permetterle tutte quelle confidenze. Non
m’importava
se avevo ferito i suoi sentimenti o se mi ero fatto odiare ancora di
più; se
l’era cercata con le sue stesse mani. Magari questa volta
avrebbe imparato a
portarmi rispetto.
“Sai
Damon, è una vera fortuna che tu
sia con Katherine. Da quando sei fuori dai giochi, ci sono molte
più ragazze
per me” commentò Tyler quando la mia ragazza
andò a prendere il suo cappuccino.
Arricciai
le labbra all’espressione fuori dai
giochi; ero impegnato, mica
morto.
“Ammetto
che ci hai fatto un gran favore
ad uscire dal mercato” concordò Sage.
“La
smettete di parlare di me come se
fossi impotente?!” m’indispettii.
“Fidanzato,
impotente. La cosa non
cambia” appuntò Tyler “Le ragazze non
osano nemmeno guardarti, hanno paura di
Katherine”.
Ghignai
compiaciuto. Adoravo che la mia
Gilbert avesse tale potere sulle sue compagne. Mi assomigliava
più di quanto
avessi pensato all’inizio.
“Credo
che farò la mia mossa con la McCullough
molto presto” annunciò Smallwood, stiracchiandosi
sulla sedia.
“Tyler!”
lo sgridò Sage, perplesso
quanto me.
“Siete
due stupidi” ci accusò “Avete le
fette di salame sugli occhi”.
“Toglietela
dalla testa, Tyler” gli
ordinai “E’ ancora una verginella”.
“E
allora? La cosa m’intriga molto di
più. Andare con una novellina è il mio sogno
proibito”.
“Abbandona
le tue fantasie” lo avvertì
Katherine, appena tornata con la sua tazza fumante “Qualcuno
è arrivato prima
di te. Ieri ho sentito mia sorella parlarne con Meredith: Bonnie e Matt
sono
usciti insieme”.
Finalmente
avevo scoperto cosa aveva
combinato la sera prima. Chissà poi per quale motivo era
stata così reticente
quando glielo avevo domandato.
“Ti
è andata male, Ty” scherzò Sage.
“Honeycutt
non ha l’esclusiva”.
“Ringrazialo,
ti ha appena risparmiato
l’umiliazione più imbarazzante delle tua
vita” commentai. Katherine accanto a
me ridacchiò.
“Dici
così solo perché sai di non avere
speranze con lei” mi provocò Tyler, imbronciato.
Ero
incredulo. Diceva sul serio?
“Io
non vado dietro alle tredicenni; non
mi sembra un concetto difficile da comprendere” replicai
seccato.
“Tu
rosichi, Salvatore. A pensarci bene,
l’unica che te l’ha data è stata
Caroline; ma non è un grande sforzo. La
Forbes non è una schizzinosa”.
Piegai
un angolo della bocca all’insù.
Se avessero saputo che io ero stato la prima esperienza di Meredith,
probabilmente sarebbero caduti dalla sedia.
Era
una memoria abbastanza vivida e, a
essere sincero, non ne andavo fiero. Eravamo entrambi molto brilli; lei
non mi
aveva fermato e io mi ero lasciato trascinare dall’istinto.
Solo quando avevo
letto il pentimento nei suoi occhi, avevo capito di aver commesso un
errore. Le
avevo giurato che non ne avrei mai fatta parola con anima viva, non
avrei
intaccato la sua reputazione.
Meredith
era una ragazza seria,
intelligente. Il suo atteggiamento distaccato e superiore non mi
disturbava. La
rispettavo molto e non mi sarei mai permesso di sbandierare ai quattro
venti il
nostro incontro, sebbene molti me l’avrebbero invidiata.
Ma
non potevo sopportare di venire
deriso per colpa di Bonnie. Mi sarebbe piaciuto sapere per quale
ragione tutti
improvvisamente fossero impazziti per lei.
“Ascoltami
bene, Tyler Smallwood perché
lo ripeterò solo una vola: potrei avere qualunque ragazza
con uno schiocco
delle dita. Semplicemente non sono interessato e soprattutto sono
già
impegnato” ribadii indicando Katherine, che se ne stava zitta
ad osservare il
suo cappuccino. Quel silenzio m’inquietò
parecchio.
“Ti
va bene che hai una scusa
convincente” s’intromise Sage ridendosela sotto i
baffi. Non condivideva sul
serio il pensiero di Tyler, ma se la stava godendo da matti a vedermi
in
difficoltà.
Cominciavo
a sentirmi un po’ ferito nel
mio orgoglio. Davvero dubitavano del mio fascino? Una mocciosa come
Bonnie McCullough
non avrebbe mai potuto resistermi, nessuno poteva. Solo Elena mi aveva
rifiutato, per stare con mio fratello. Cosa abbastanza patetica e
sgradevole,
ma a lei era concesso. Quello stupido uccellino invece …
“Dovresti
provarci, Damon”.
Non
fu la voce di Katherine a
risvegliarmi; fu il significato delle sue parole. Provarci
in che senso? E soprattutto con chi?
“E’
chiaro che i tuoi amici non hanno
fiducia in te. Dimostragli il contrario. Seduci Bonnie e piantala in
asso sul
più bello”.
Pensai
che quel pomeriggio dovesse
esserci qualcosa nell’aria, perché mi sembravano
tutti diventati matti.
“Katherine,
io sto con te”. Mi sentii un
po’ stupido mentre pronunciavo quella frase, ma mi pareva un
punto piuttosto
importante da ribadire.
“Non
ci devi mica andare a letto”
precisò “Bonnie crede di essere migliore di me, di
te, di tutti. Solo perché un
paio di ragazzi sono interessati a lei, non significa che ti
può schifare come
il peggiore degli insetti. Ho l’impressione che debba essere
riportata sulla
terra. Falla cadere ai tuoi piedi, portala al punto di rottura.
Immagina che
s’innamori di te; quanto non sarebbe bello spezzare quel suo
cuoricino da
santerellina?”.
Ero
il maestro delle cattiverie
gratuite, ma quella mi parve una mossa davvero stupida, inutile e
soprattutto
una perdita di tempo. Da una parte mi allettava l’idea di
dare una bella
lezione a Tyler e alla sua boccaccia; dall’altra non volevo
avere niente a che
fare con Bonnie. Non mi ispirava proprio, non riuscivo a ritenerla
abbastanza
donna e di certo non mi sarei approfittato di una bambina.
“Damon,
non mi dire che ti tiri
indietro? Credi di non esserne in grado?” mi sfidò
Tyler con una faccia che
avrei preso volentieri a schiaffi.
“Considerala
una vendetta contro Stefan,
se ti convince di più” mi suggerì
quella mente diabolica di Katherine “Insomma,
tuo fratello si è sempre accaparrato tutte le attenzioni da
quando è nato e tu
lo odi. Quante volte mi hai detto che vorresti vederlo soffrire?
Ferisci la sua
migliore amica e gliela farai pagare di sicuro”.
Quella
prospettiva mi allettava molto di
più.
Sarebbe
stato facile come rubare una
caramella ad un bambino. Ero una vera calamita per il genere femminile;
un paio
di giorni e l’avrei avuta in pugno.
Toglierle
quell’aria da moralista e
smascherarla per l’ipocrita che era, poteva essere un
passatempo divertente, in
fin dei conti.
Chissà
come avrebbe reagito il mio adorato Stefan
una volta scoperto che la
sua migliore amica, la sua confidente, la sua leale paladina, era
passata al
lato oscuro. Innamorata del fratello cattivo.
Oh
sì,
me la sarei goduta davvero.
Il
mio spazio:
Buon
pomeriggio, gente!
Come
va? Pronti per le vacanze di
Pasqua?
Che
ne dite di questo capitolo? Le
nostre ragazze e Damon nascondono dei bei segreti, vero?
Mi
soffermo un attimo sulla vicenda di
Meredith: nel libro originale, non avrebbe mai fatto una cosa del
genere, anche
perché è l’unica immune al fascino del
vampiro.
Prendetela
come una mia piccola licenza
poetica. In questa storia rimane sempre la solita ragazza sveglia,
seria e
matura; si è solo una volta concessa una piccola
trasgressione. Spero che non
vi sembri troppo fuori dal personaggio.
Bonnie
e Damon in passato si sono
baciati. Questo cambierà qualcosa nella mente della rossa? E
lui lo sa?
Il
capitolo si chiude con una specie di “scommessa”
tra Damon e Tyler. Vi prometto che farò di tutto per non
renderla la sua solita
solfa. È un modo come un altro per costringerli ad
interagire e mi è parso
divertente riprendere questo schema con loro due come protagonisti.
Ora
qui nasce un bel problema: Damon
dovrebbe corteggiarla ma Bonnie, dopo l’ennesima umiliazione,
è ben decisa a
stargli lontano. Senza contare la sua cotta per Matt.
Nel
prossimo capitolo parliamo un po’ di
Halloween. Eheh
Domani
ho un esame quindi lasciatemi
qualche recensione per tirarmi su il morale! (Ormai non dissimulo
nemmeno più i
tentativi di corruzione!).
Spero
di aggiornare in fretta per la
prossima volta!
Avete
visto l’episodio di settimana
scorsa? Mi è piaciuto un sacco; Damon negli anni settanta
è qualcosa di
favoloso. Sto pensando di costruire una storia su quel periodo; tra un
po’ mi
sa che appoderò anche sul sito della serie tv. Preparatevi!
Ahah
Vi
ringrazio sempre di cuore e vi mando
un abbraccio!
A
presto,
Fran;)
Banner di Bumbuni.
*Reynold,
se non ricordo male, è davvero
il primo ragazzo di Bonnie. O forse si chiamava Raymond? Ho un dubbio
atroce;
qualcuna di voi lo sa? Ahah.
|
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Capitolo 8 *** The Pumpkin King ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
otto: The Pumpkin King.
“Skeleton Jack might catch
you in the back
And scream like a banshee
Make you jump out of your skin
This is Halloween, everyone scream
Wont' ya please make way for a very special guy
Our man jack is King of the Pumpkin patch
Everyone hail to the Pumpkin King
This is Halloween, this is Halloween,
Halloween! Halloween! Halloween! Halloween!
In this town we call home
Everyone hail to the pumpkin song”
(This is Halloween- da
“Nightmare before Christmas”).
Da
che avessi
memoria ero sempre stata una gran fifona.
Di
notte tenevo sempre una lucina accesa, controllavo gli armadi prima di
andare a
dormire, evitavo di guardare i film dell’orrore e mi tappavo
le orecchie quando
i miei amici raccontavano storie di paura.
Halloween,
perciò, era il periodo dell’anno che
più detestavo. La notte delle streghe, già
dal nome non ne veniva nulla di buono.
In
realtà, adoravo in generale l’idea delle streghe,
ma Halloween riusciva a
rovinarmi pure quella. Mi ricordava qualcosa di inquietante e perfido.
Succedevano
sempre cose strane durante quella festa; era praticamente il via libera
di
tutti gli squilibrati. Come facevo a sapere che dietro quei costumi ci
fossero
persone normali e non serial killer pronti ad uccidere? Dopotutto, era
un’ottima copertura.
Le
mie
amiche continuavano a dirmi che ero troppo paranoica, ma preferivo
definirmi
prudente. Non capivo davvero il senso di andare in giro vestiti da
mostri o
fantasmi, o da creature ripugnanti. Perché Halloween doveva
essere sempre
sinonimo di spaventoso?
In
città ovviamente ero l’unica a pensarla
così. Fell’s Church amava alla follia
Halloween. Incominciava
settimane prima i preparativi,
quasi fosse una festa propria di quella città.
Forse
perché si raccontava che i primi abitanti fossero le streghe
di Salem emigrate
per sfuggire ai roghi. Sapevo solo che ogni anno per una settimana
intera ero
tormentata da zucche, scheletri, pipistrelli appesi non solo per tutti
gli
edifici pubblici ma anche in casa mia.
Certo,
perché mio padre andava pazzo Halloween.
Sembrava quasi si divertisse ad adorare
qualunque cosa che io non sopportavo.
Dopo
anni, avevo imparato a rassegnarmi e avevo smesso di combattere quella
stupida
festività. Ero pure brava: partecipavo alla festa della
scuola, aiutavo con le
decorazioni, intagliavo zucche con mio padre; insomma, dissimulavo come
una
professionista.
La
mattina del 30 ottobre mi svegliai con un terribile mal di testa. Forse
era il
mio corpo che dopo anni di costrizioni, si stava rifiutando di
affrontare
ancora per un altro anno quell’insopportabile tradizione. Non
volevo uscire
dalla mia cuccia di coperte, ma se non mi fossi presentata a scuola,
Caroline
sarebbe come minimo venuta personalmente a stanarmi. Aveva bisogno di
aiuto per
i preparativi.
Così
mi
alzai di forza e mi vestii. Quando arrivai a scuola, non sembrava
nemmeno un
giorno di lezione.
Parecchi
studenti erano fuori dalle classi, portavano grosse scatole avanti e
indietro
per i corridoi. Cercavano di sistemare il più possibile,
prima che suonasse la
campanella.
Mancava
circa un quarto d’ora all’inizio dei corsi e decisi
di prendermi un cappuccino
ai distributori. Ovviamente non potei fare neanche un passo.
“Bonnie!
Credevo non arrivassi più!” esclamò
Caroline saltandomi in spalla “Ho così
tante cose da organizzare che ho paura di non riuscire a preparare
tutto per
domani”.
“Hai
bisogno di una mano?”. Mi costava chiederlo, mi costava
tantissimo.
“Dato
che ti offri così gentilmente” mi sorrise.
Mi
avrebbe obbligata lei comunque.
Mi
trascinò fino alla palestra, dove molti alunni si erano
già messi al lavoro.
Meredith ed Elena stavano cercando di assemblare uno scheletro di carta.
“Allora,
come procede?” le incitò Caroline.
“Più
difficile del previsto” considerò Mere.
“Questi
cosi non stanno insieme” si lamentò Elena
sventolando le due braccia dello
scheletro che non volevano saperne di unirsi al torace.
“Date
qua” sbuffò Caroline “Piuttosto avete
già scelto un costume?”.
“Io
e Stefan
abbiamo deciso di impersonare una coppia di vampiri. Carino,
no?” c’informò Elena
tutta contenta.
“Io
penso che mi vestirò come Hermione Granger”
annunciò Meredith.
Caroline
la guardò di sbieco.
“Che
c’è?!” la ribeccò Mere
“Quando ero piccola, era il mio idolo. È
Halloween,
quindi mi vesto come una strega” spiegò come se
fosse la cosa più ovvia del
mondo.
Caroline
l’accettò di buon grado “E tu,
Bon?”.
“Non
credo di venire quest’anno”.
Non
l’avessi mai detto. Tutte e tre smisero di sistemare quello
scheletro e mi
fissarono severe. Si aspettavano di passare una serata insieme e ci
erano
chiaramente rimaste male.
“Senza
offesa, ragazze, ma non ho proprio voglia
quest’anno”.
“Non
siate così sorprese” s’intromise una
voce alle mie spalle “Non è la prima volta
che la piccola Bon Bon diserta Halloween”.
Caroline
prese un bel respiro e si girò, pronta a difendermi
“Guarda un po’! Mi serviva
giusto una cornacchia da mettere vicino alle zucche” la
fulminò.
Katherine
esibì un sorrisino tirato e fece qualche passo verso di noi.
“Non
ascoltarla, Bonnie” mi consigliò Elena.
“E’
davvero lodevole come tutte accorrete per proteggere la piccolina del
gruppo”.
“Io
non
sono la pic-” era perfino inutile correggerla; tanto valeva
accontentarla e
togliercela di torno “Cosa intendi, Katherine?”.
Si
arricciò una ciocca tra le dita “Sono
l’unica che si ricorda del raduno di
Halloween?”.
Era
una
specie di rito di passaggio dalle medie al liceo. Durante la festa
delle
streghe, gli studenti di terza media trascorrevano una notte tutti
insieme nel
bosco. Era una tradizione e io l’avevo saltata. Il pomeriggio
di quel raduno mi
era venuta una febbre da cavallo e mio padre si era rifiutato di farmi
uscire
di casa.
“Ero
malata” mi giustificai.
“Ah,
sì? Sicura che non fosse solo una scusa perché
avevi troppa paura?” mi provocò.
“Non
avevo paura” replicai piccata “E poi è
una cosa accaduta quasi cinque anni fa”.
“E’
là
che si è fermato il tempo per te” mi disse
“Tu non sei cambiata per niente”.
“Qual
è
il tuo problema?” gli chiesi.
“Mi
sto
solo divertendo. Pare che abbia toccato un tasto dolente,
permalosetta” mi
canzonò.
“Katherine,
sul serio, perché non la lasci stare?”
l’attaccò Elena.
Faceva
davvero senso vederle una davanti all’altra a fronteggiarsi.
“La
lascerò in pace quando mi avrà dimostrato di non
essere una frignona!”
s’impuntò Katherine “Prova a passare una
notte da sola nel bosco. Completa
l’iniziazione di cinque anni fa e ti prometto di non
rivolgerti nemmeno più la
parola”.
“Tu
sei
completamente matta” sbottò Meredith
“Sparisci” mi prese sottobraccio e insieme
ci allontanammo.
“Non
darle retta, Bonnie, tu sei perfetta così come sei. Non devi
dimostrare niente
a nessuno”.
Annuii
poco convinta. Mi sembrava l’esatto contrario, mi sembrava
che il mondo stesse
proprio aspettando una mia prova.
Alla
fine mi ero fatta convincere, anche se avrei voluto essere ovunque
tranne che
lì. Non avevo programmato di andare e fui costretta ad
improvvisare un costume.
Considerando le mie origini celtiche, avevo scelto di vestirmi da
druida. Era
stato piuttosto semplice: una tunica bianca e una coroncina
sottilissima di
fiori intrecciati, che Mary era corsa a comprarmi. Forse sembravo
più una
hippie che una sacerdotessa dell’antica religione.
Caroline
aveva il costume più curato: si era vestita come Sally, la
bambola di pezza del
film ‘Nightmare before Christmas’. Era praticamente
identica.
Non
persi tempo e andai subito a cercare Matt. Era praticamente
l’unica ragione per
cui avevo acconsentito a quella buffonata; altrimenti me ne sarei stata
in casa
ad aspettare che quella terribile notte passasse. Mi aveva chiamato
durante il
pomeriggio, implorandomi di partecipare.
Avevo
un po’ paura d’incrociare Katherine. Ero alla festa
per divertirmi e non per
sentire le sue parole velenose che mi ricordavano quanto fossi ancora
una
bambina.
Come
poteva saperlo lei? Era stata via per tre anni e non aveva la minima
idea di
come fosse la mia vita. Credeva di essere chissà quale donna
matura eppure mi
proponeva uno stupido rito d’iniziazione che facevano i
ragazzini delle medie.
Come
se
una notte nel bosco avrebbe potuto trasformarmi improvvisamente!
Katherine
era veramente l’anima gemella di Damon, senza dubbio. Perfida
e arrogante allo
stesso modo, con l’unico scopo di tormentare la sorella solo
perché era più
amata di lei. Si meritavano a vicenda e si sarebbero anche distrutti a
vicenda.
Erano
uguali, vuoti e senza morale. Nessuno dei due avrebbe tratto qualche
vantaggio
da quella relazione, sarebbero sempre stati fermi al punto di partenza,
perché
non potevano aiutarsi. Alimentavano il loro stesso rancore e la loro
presunzione si duplicava quando erano insieme. Non esisteva via
d’uscita. Era
un rapporto sterile.
Cercai
di non pensare a Katherine e continuai nella mia ricerca. Matt doveva
per forza
essere lì da qualche parte; aveva così insistito
perché lo raggiungessi.
Lo
trovai poco dopo, vicino al banco delle bevande. Stava scherzando con
un suo
compagno di squadra, ma appena mi vide lo salutò e venne
verso di me.
“Alla
fine ti ho convinta” sorrise schioccandomi un bacio sulla
guancia.
“Non
potevo certo perdermi questa fantastica vista” scherzai
indicandolo “Tu vestito
da … da cosa sei vestito di preciso?”.
“Dottore
matto” mi spiegò “Hai presente? Quello
che fa esperimenti folli sui pazienti”.
“Uh,
è
inquietante” commentai.
“E
tu
chi saresti? Una figlia dei fiori?”.
“Smettila!”
lo rimproverai tirandogli una leggera sberla sulla spalla
“Sono una
sacerdotessa celtica”.
“Non
ci
sarei mai arrivato, troppo colto” disse giocherellando con i
miei boccoli rossi
“Comunque sono davvero contento che tu sia venuta”.
“Anche
io” arrossii “Non sembra male questa
festa”.
“E
non
hai ancora visto la camera dell’orrore. Dai,
seguimi” m’incitò prendendomi per
mano e trascinandomi per i corridoio.
“Camera dell’orrore?”
ripetei con voce tremolante
“Non è un nome rassicurare”.
“Sarà
divertente. L’ho fatta prima, ma è sempre
divertente vedere voi ragazze
urlare”.
“Ehi!
È
un commento sessista!” protestai.
“Adoro
che tu sia spaventata” mi confessò
“Così posso difenderti.
Mi piace essere il tuo cavalier servente. Non
ti succederà niente di male, è solo per gioco. Ti
fidi di me?”.
“Beh,
sì ma …” titubai. Ogni mia obiezione
venne bloccata sul nascere quando
giungemmo davanti ad una porta sulla quale spiccava una grande scritta:
camera
dell’orrore.
Continuavo
a non capire per quale motivo uno dovesse entrare in un posto del
genere. Nel
caso in cui la si considerasse una stupidata, diventava inutile
perché non
faceva paura; se invece si era dei gran fifoni, perché
tormentarsi così?
Matt
si
mise dietro di me e mi spinse ad aprire la porta. Superammo la soglia e
ci
trovammo in una stanza totalmente buia. La cosa non mi piaceva, non mi
piaceva
per niente.
Sentivo
la presenza del ragazzo alle mie spalle e mi dava un po’ di
conforto, ma non
avevo il coraggio di muovere un passo.
Udivo
qualche urla ogni tanto senza capire da dove provenisse. Ne intesi,
però,
subito la ragione: davanti a me si accese all’improvviso una
luce e
contemporaneamente comparve un ragazzo travestito da killer sanguinario
che
finse di attaccarmi.
Credo
che raggiunsi le note più alte della scala con il mio grido.
Praticamente
saltai in braccio a Matt e nascosi il viso nel suo petto.
Cominciò
a muoversi, portandomi con sé, un po’ a fatica
dato che mi rifiutavo di girarmi
di nuovo, nemmeno per vedere dove stessi mettendo i piedi.
Da
quello che potei comprendere, era un percorso attraverso varie classi,
studiato
in modo che ogni tot metri qualcuno o qualcosa apparisse a spaventare
gli
studenti.
Alzai
gli occhi solo quando percepii attorno a me un cambiamento di
atmosfera.
Finalmente quel tour da incubo era finito.
Mi
staccai da Matt e lo fulminai “Sei impazzito?! Volevi farmi
venire un
infarto?”.
Lui
mi
scompigliò i capelli e mi passò un braccio
attorno alla vita “Non era così
terribile, dai” si giustificò “Non puoi
partecipare alla festa di Halloween
senza farti un giro là dentro” poi
esitò un attimo “Non sei arrabbiata,
vero?”.
Scossi
la testa “Se mi costringi un’altra volta a farlo,
non ti parlerò mai più”
m’imbronciai.
Mi
posò
un bacio sui capelli “Andata”.
Ritornammo
in giardino in cerca degli altri, ma non trovammo nessuno. Mentre
eravamo
chiusi nella sala delle torture, molti altri studenti erano arrivati ed
era
davvero difficile distinguere qualcuno in tutta quella folla.
“Aspettami
qui, vedo se riesco a rintracciare Stefan e gli altri” mi
disse.
Annuii
e l’osservai sparire nella massa. Presto mi ritrovai a
sogghignare come
un’ebete per quello che era appena accaduto.
Nonostante
avessi odiato quel giro nella camera dell’orrore, mi aveva
davvero fatto
piacere la cura con cui Matt mi aveva stretta lungo il tragitto. Era
stato
molto protettivo e, soprattutto, aveva cercato di portarmi fuori il
più in
fretta possibile, una volta notato la mia paura crescente. Avrei potuto
seriamente abituarmi a quel tipo di abbraccio.
Per
tanto tempo mi ero chiesta che cosa si provasse ad essere coccolata in
quel
modo. Avevo avvertito calore e preoccupazione. Matt era riuscito a
trasmettermi
quelle emozioni non perché mi considerava una bambina da
proteggere, ma perché
teneva a me.
Era
una
bella sensazione.
“Alla
fine hai trovato il coraggio di uscire di casa?” mi
canzonò una voce alle mie
spalle.
Katherine
Gilbert avrebbe potuto scrivere un manuale su come rovinare un bel
momento.
Cercai
d’ignorarla, inutilmente.
“Pensavo
t’inventassi ancora qualche malattia immaginaria”.
“Per
l’ennesima volta: avevo davvero la febbre!”
replicai scocciata “Katherine,
perché continui a rivangare una cosa successa quattro anni
fa?”.
“Sto
verificando una teoria” mi rispose alzando le spalle
“Matt ti ha già piantata
in asso?”.
“E’
andato a cercare gli altri”.
Lei
mugugnò qualcosa divertita e si guardò intorno.
Non
riuscii a trattenermi “Che
c’è?”.
“Niente”
disse vaga “Pensavo solo che è davvero strano come
se le sia filata in fretta”.
“Matt
non se l’è filata” mi trovai a replicare
stupidamente.
“Lo
farà presto” affermò lei sicura
“Prima o poi si stuferà di fare il
babysitter”.
“Sei
veramente un’arpia!” esclamai indignata
“Sei stata via tutti questi anni; tu
non hai idea di chi sono. Smettila di darmi della bambina!”.
“Temo
proprio che tu lo sia, Bonnie” asserì
“Come faccio a saperlo? Non sei cambiata
per niente. Quando sono partita, tu eri la migliore amica di Stefan,
avevi una
cotta per Matt ed eri l’ombra di mia sorella. Adesso sono
tornata e tu continui
ad essere la migliore amica di Stefan e l’ombra di Elena e
hai una cotta per
Matt. Non ti sei mossa di un centimetro”.
“Non
sono la stessa, Katherine. Tu non sai niente”.
“Allora
dimostramelo” mi sfidò lei “Dimostrami
che non sei più la solita Bonnie
McCullough, paurosa e ingenua. Dimostrami che puoi prendere le tue
decisioni
senza ascoltare gli altri, dimostrami che non hai bisogno di essere
protetta”.
“Ti
sei
fissata su quella stupida tradizione di Halloween” intuii
“Perché?”.
“Chiamalo
sfizio” disse “Cos’hai da perdere?
Nessuno ti costringe a rimanere là se la
cosa diventa troppo spaventosa; ma se lo farai, ti lascerò
in pace”.
La
guardai in cagnesco. Quanto avrei voluto staccarle quei capelli
d’oro uno per
uno.
Mi
avevano incastrato un’altra volta.
Ultimamente
avevo l’impressione di aver perso il controllo della mia
vita; in un modo o
nell’altro erano gli altri a prendere le decisioni per me e
la cosa cominciava
ad infastidirmi.
Quando
Katherine mi aveva invitato alla festa di Halloween del Robert E. Lee,
avevo
gentilmente declinato. Non avevo voglia di passare un’altra
serata circondato
dai ragazzini del liceo. Non si era mai visto un universitario che
stanziasse
regolarmente ai party delle superiori; non ci tenevo proprio a fare la
figura
dello sfigato.
Ero
pronto per una bella maratona di film horror quando avevo ricevuto una
telefonata disperata da parte di Alaric: un paio di genitori avevano
rifiutato
il ruolo di ‘controllori’ per partecipare alla
festa del comune e lui si trovava
con la supervisione scoperta.
Non
potevo credere che avesse pensato proprio a me per tenere
d’occhio i suoi
studenti: non ero decisamente in cima alla lista delle persone
più affidabili
di Fell’s Church.
Alaric
doveva essere davvero a corto d’idee.
Mi
ero
trascinato, quindi, fino alla scuola, senza nemmeno preoccuparmi di
cercare un
costume. Normalmente quel genere di feste duravano fino a mezzanotte;
potevo
sopportare per qualche ora di sballo
liceale.
Il
cortile era decorato come tutti gli anni: zucche e scheletri qua e
là,
ragnatele che scendevano dalle colonne e calderoni fumanti ai lati
della scala.
Non faceva ancora particolarmente freddo per cui la maggior parte degli
studenti stava festeggiando fuori.
Durante
il mio ultimo Halloween al liceo, io e Sage avevamo praticamente
distrutto
l’ufficio del preside. Volevamo
vendicarci di tutte le punizioni subite nel corso dei nostri anni. Non
che noi
fossimo mai stati degli angioletti, ma quell’uomo sembrava
accanirsi con una
discreta vena di sadismo.
Così
ci
eravamo intrufolati in presidenza, stando molto attenti a non lasciare
nessun
indizio che potesse ricollegare quello scherzo a noi, e avevamo
imbrattato i
muri di vernici rossa e appeso fili di spago e carta igienica da un
muro
all’altro in modo talmente fitto che non si riusciva nemmeno
ad attraversare la
stanza.
Ci
era
voluta una settimana intera per ripulirla. Il preside era furioso. I
primi
sospetti, ovviamente, caddero su di noi, ma non c’erano prove
e alla fine la
scampammo. Ci tenne d’occhio per tutto l’anno,
nella speranza di incastrarci e
alla consegna dei diplomi, ci porse il pezzo di carta, livido di rabbia
per non
essere riuscito a fregarci.
Forse
un giorno avrei confessato al preside quel mio piccolo scherzetto,
giusto per
sbatterglielo di nuovo in faccia.
Mi
sistemai meglio il giubbotto di pelle e cominciai a guardarmi in giro.
Se
proprio ero costretto a sorvegliare una banda di mocciosi urlanti,
almeno ne
avrei approfittato per passare del tempo con la mia ragazza.
Poco
lontano da me, Stefan stringeva la mano di Elena. Per un attimo la
scambiai per
Katherine: era vestita da vampira, con dei pantaloni molti attillati, i
tacchi
e i capelli mossi, gli occhi pesantemente truccati. Era il tipico
abbigliamento
della sua gemella, fatta eccezione per le lenti a contatto rosse e i
canini
pronunciati.
Il
sorriso di Elena, però, era molto più dolce
rispetto a quello della sorella.
Katherine nascondeva sempre una certa malizia in ogni suo gesto.
Era
difficile capire che cosa passasse per la sua testa, a volte perfino io
facevo
fatica a starle dietro, nonostante fossi la sua versione al maschile.
Ero
rimasto allibito quando aveva dato corda a Tyler con quella storia
della
scommessa. Io ero il re della cattiveria gratuita, mi divertivo sempre
a
scapito degli altri e l’idea di far soffrire un po’
Stefan mi allettava da
matti, ma Katherine quali ragioni poteva avere a parte farsi una bella
risata?
Non
mi
sembrava una ragazza che agiva senza un motivo sotteso. Stava
sicuramente
pianificando qualcosa.
Improvvisamente
qualcuno mi tirò bruscamente per un braccio e mi trovai
nascosto dietro un manichino
vestito apposta da mostro.
Ghignai
sornione quando riconobbi la giovane davanti a me.
“Vuoi
una rinfrescatina alla memoria?” le chiesi alludendo al
nostro incontro di anni
fa.
“Non
nominarlo neanche! Te lo devi dimenticare” mi
ordinò puntandomi un dito contro.
“A
cosa
devo questo avvertimento?”
m’incuriosii “Non ne abbiamo parlato per
anni”.
“Sul
serio, Damon, tieni la bocca chiusa”
m’intimò.
“Potrei
anche offendermi. Non dirmi che ti vergogni?” continua a
scherzare, con il solo
risultato di irritarla ancora di più.
“Damon…”
pronunciò lapidaria.
“Tranquilla,
Meredith” la calmai “Non ho manie da suicida, me ne
guardo bene dal rivelare il
nostro piccolo segreto proibito”.
“A
nessuno?” si accertò lei.
“Possiamo
chiamare questo nessuno con il suo
nome, sai?” la stuzzicai. Mi fulminò con
un’occhiata e aggiunsi “Soprattutto a
quel nessuno. Non approverebbe e probabilmente mi spaccherebbe il naso.
Ho un
bel viso, non ci tengo a rovinarmelo”.
Meredith
si rilassò percettibilmente e soffiò un
‘grazie’ sollevato.
“Figurati”
le risposi “Non sono uno stronzo ventiquattro ore su
ventiquattro”.
“Povera
anima, ti faranno presto santo” ironizzò.
“Sparisce,
Sulez” le ordinai “Prima che decida di rivelare al
mondo che ragazzaccia sei”.
Ci
scambiammo uno sguardo complice e si allontanò.
Più
di
una volta l’avevo definita inquietante; non perché
ci fosse qualcosa di male in
lei, ma perché riusciva a trasmettermi un senso di
autorevolezza incredibile
per una ragazza di neanche diciotto anni.
“Prenditela
con più calma la prossima volta, eh!” mi
rimproverò Alaric apparendo alle mie
spalle “Da che cosa sei travestito? Da te stesso?”.
“Cosa
hanno messo nel punch, frutta e simpatia?” replicai
schioccando la lingua
contro al palato.
Alaric
mi rivolse un sorriso tirato e tornò a guardare la folla di
alunni. Si era
veramente calato nella parte dell’insegnante responsabile.
Nei
pochi giorni duranti i quali ero stato nel suo appartamento, lo avevo
osservato
preparare scrupolosamente sempre le lezioni del giorno successivo,
agitato di
fare un clamoroso fiasco fin dall’inizio.
“Ti
ho
visto parlare con Meredith, che vi siete detti?” mi
domandò.
“Della
tua voglia di portartela a letto” lo provocai.
“Vaffanculo”.
Finalmente
il signorino era sceso tra noi comuni mortali.
Ero
pronto a infierire in perfetto stile Damon, ma mi accorsi che tutta
l’attenzione del mio amico era catalizzata da
un’altra parte.
Seguii
il suo sguardo fino alla figura di Meredith. Sbuffai contrariato
“Datti un
contegno, Alaric. Non riesci nemmeno a toglierle gli occhi di
dosso”.
“Sei
il
solito idiota” mi rimproverò “Non vedi
che è successo qualcosa”.
Meredith
era insieme a Elena e Caroline, il mio fratellino accanto a loro.
Parlavano in
modo concitato, sembravano preoccupati per qualcosa.
Alaric
impiegò un paio di secondi per entrare in
modalità insegnante apprensivo. Si
avvicinò e io lo seguii, più per noia che per
vera curiosità.
“Ragazzi,
va tutto bene?”.
“Sì,
professore” rispose subito Caroline. Era chiaro che
nascondesse qualcosa.
“In
realtà no, signor Saltzman” la contraddisse
Meredith. Mi venne da ridere,
sentendolo chiamare con quell’appellativo, soprattutto da lei.
Le
due
amiche la incenerirono con lo sguardo.
“Ci
può
aiutare” le fece ragionare la mora “Si tratta di
Bonnie” spiegò.
“Cos’ha
combinato sta volta?”. Non riuscii a fermare il mio palese
disappunto.
“Non
la
troviamo più” svelò “Crediamo
sia andata da sola nell’Old Wood”.
“Perché
avrebbe dovuto farlo?” s’informò Alaric.
“Forse
perché quella serpe della sua ragazza”
berciò Caroline indicandomi “La sta tartassando da
due giorni!”.
Alzai
le ciglia scettico “Katherine non sa nemmeno che Bonnie
esiste” la difesi.
“Io
vado a cercarla” dichiarò Stefan, l’eroe
senza macchia e senza paura “E’
inutile stare qui a litigare”. Elena si affrettò
ad imitarlo ed entrambi
sparirono dalla nostra visuale.
Presto
anche Meredith e Caroline si dileguarono tra la folla, forse per
controllare
ancora una volta che Bonnie se ne fosse effettivamente andata.
Alaric
non si muoveva: era sbiancato dall’agitazione.
“Ric!”
lo risvegliai “Che ti prende?”.
“E’
la
prima volta che faccio da supervisore e una ragazza sparisce sotto la
mia
responsabilità”.
“Probabilmente
sarà tornata a casa” tagliai corto senza capire il
problema.
“E
se
fosse veramente nel bosco?”.
“Ha
paura della sua ombra, perché mai dovrebbe fare una cosa del
genere. E comunque
non è colpa tua; gli studenti sono liberi da lasciare la
festa quando
vogliono”.
“Devo
assicurarmi che stia bene” ragionò Alaric,
ignorandomi completamente “Se le
dovesse succedere qualcosa, la mia testa finirà appesa
all’ufficio della
presidenza. Non posso abbandonare la festa ora, il mio turno non
è ancora
finito e …” venne come illuminato da un lampo di
genio e si voltò verso di me.
Intuii
subito i suoi pensieri e mi rifiutai categoricamente “Non
provarci nemmeno”.
Mi
chiesi come avessi potuto essere così ingenua.
Continuavo
a ripetermi che non ero più piccola, eppure ci ero cascata
esattamente come una
bambina capricciosa. Chiunque avesse un minimo di senno non avrebbe mai
acconsentito a una tale sciocchezza.
Andare
nel bosco da sola. Come diamine mi era saltato in mente?
Perché avevo dato
retta a Katherine? Sapevo che era una vipera vendicativa, non avrei
dovuto
nemmeno ascoltarla.
Mi
ero persa, nel bosco,
di notte.
Camminavo
ormai da parecchio tempo, nella speranza di trovare la raduna dei
campeggiatori
e chiedere aiuto.
Il
mio
cellulare era morto, come nella miglior tradizione dei racconti
dell’orrore.
Nessuno
sapeva dove fossi. Dopo l’ennesima provocazione di Katherine,
ero scappata via
dalla festa senza avvertire, decisa a provarle la mia forza. Non ero
più una
bambina, non avevo più paura del buio.
Il
risultato? Stavo girando a vuoto tra gli alberi, circondata dal gelo e
dall’oscurità,
completamente terrorizzata.
Non
che
l’Old Wood fosse dimora di particolari pericoli. Non
c’era motivo di pensare
che non avrei superato la notte indenne, ma non riuscivo comunque a
calmarmi.
Saltavo
per ogni minimo rumore, i tronchi apparivano come figure nascoste
nell’ombra,
la luce della luna donava solo un aspetto spettrale ai contorni.
Strofinai
le mani sulle braccia, in un vano tentativo di scaldarmi. La giacchetta
che
avevo dietro era
davvero troppo leggera.
L’umidità mi entrava nelle ossa e appiccicava i
miei vestiti contro la mia
pelle, in un fastidioso effetto bagnaticcio. Non passò molto
tempo che
cominciai a tremare.
Alla
fine, stanca e rassegnata, mi rannicchiai a terra contro un masso e mi
strinsi
le ginocchia al petto.
Sbuffai
per l’ennesima volta, quando le mie scarpe scivolarono lungo
il terreno
umidiccio. Alaric sarebbe stato la mia rovina con quelle sue assurde
richieste.
Un’alunna
aveva lasciato la festa. E allora?
Non
era
proibito e non era certo responsabilità del mio amico
assicurarsi che non le
fosse capitato niente di male. Tutto doveva filare liscio
all’interno delle
mura scolastiche, ma fuori era territorio di nessuno.
Avevo
accettato solo perché, se l’avessi effettivamente
trovata, avrei fatto bella
figura e sarebbe stato molto più facile conquistarla.
Non
ero
ancora pienamente convinto di questo assurdo piano per sedurre Bonnie.
Le
motivazioni di Katherine non stavano né in cielo
né in terra; mi allettava solo
l’idea di vendicarmi del mio caro fratellino.
Tutti
quegli anni spesi ad odiarlo e non avevo mai pensato che il metodo
più veloce
ed efficace per ferirlo era proprio colpire la sua migliore amica.
Non
che
mi fossi mai comportato come un gentiluomo con Bonnie, ma erano stati
più che
altro scherzetti innocui. Qui si giocava ad altri livelli.
Vagai
un altro po’ senza successo. Non vi era traccia di Bonnie,
tanto che cominciai
a credere che fosse davvero tornata a casa.
Ero
sul
punto di fare dietrofront e andarmene quando mi accorsi di non aver
ancora
controllato l’area dei campeggiatori. Forse Bonnie si era
rifugiata là in cerca
di un po’ di caldo, nella speranza d’incontrare
qualcuno.
Avevo
un buon senso dell’orientamento e rintracciai in fretta la
strada. L’area non
distava molto, una ventina di minuti al massimo. Affrettai il passo.
Sorpassai
un cartello che indicava il sentiero; feci per imboccarlo, ma un rumore
dietro
una fila di alberi, catturò la mia attenzione.
Mi
avvicinai con prudenza e alla fine la vidi: rannicchiata a terra, con
la
schiena contro una roccia. Era addormentata.
Probabilmente,
aveva pensato di cercare proprio l’area riservata al
campeggio, senza trovarla.
Eppure ci era andata così vicina.
Mi
piegai per svegliarla. Le toccai un braccio e notai che era gelata. La
scossi
con forza, inutilmente: non dava segni di volersi svegliare.
“Che
razza di stupida” digrignai tra i denti. Voleva forse morire
di ipotermia?
Eravamo solo a fine ottobre, non faceva così tanto freddo,
ma Bonnie era
davvero molto piccola di costituzione; la sua sopportazione alle
intemperie era
più bassa rispetto alla media normale.
Mi
tolsi la giacca e gliela posai sulle spalle, poi la presi in braccio.
Era
più
pallida del solito, cattivo segno. Percorsi a ritroso la strada, fino
alla mia
macchina, camminando più veloce possibile. Bonnie non mosse
le palpebre nemmeno
una volta.
L’adagiai
sul sedile di destra e mi misi al volante. Se l’avessi
portata in ospedale, si
sarebbe scatenato un putiferio. Suo padre l’avrebbe segregata
in casa fino alla
fine del college come minimo e probabilmente anche Katherine si sarebbe
ritrovata nei casini in quanto istigatrice.
Per
evitare a tutti dei grossi problemi, mi diressi verso casa sua. Frugai
nella
sua borsa in cerca delle chiavi e, dopo aver aperto la porta, la
sollevai di
nuovo di peso e la trasportai fino alla sua camera, poggiandola sul
letto.
Andai
in bagno e girai il rubinetto dell’acqua. Dovevo riscaldarla
in qualche modo.
Mentre la vasca si riempiva, tornai nuovamente in camera. Iniziai a
svestire
Bonnie e la lasciai in biancheria. Se fosse stata sveglia,
probabilmente mi
sarebbe saltata al collo con l’intento di uccidermi.
Non
indugiai molto a guardare il suo corpo. Avevo visto decine di ragazze
nude, una
in più non avrebbe fatto la differenza.
Le
passai un braccio intorno ai fianchi e l’altro sotto le
ginocchia e raggiunsi
il bagno. Lentamente la feci scivolare nell’acqua calda e con
una mano chiusi
il rubinetto.
Lei
ebbe
un fremito e cercò di ribellarsi, nel sonno. La tenni ferma,
premendo saldamente
sulle sue braccia.
“Troppo
…caldo” sussurrò con un gemito e poi,
con calma, si rilassò.
Solo
allora mi accorsi di quanto fosse scomoda quella posizione: ero
inginocchiato
sul pavimento di piastrelle, con un braccio a sorreggere la rossa. Non
potevo
mollare, altrimenti sarebbe finita sott’acqua. Ero bloccato.
Poggiai
la testa sul bordo, imprecando a bassa voce. A fatica e con una mano
sola, mi
tolsi le scarpe e tutto quello che avevo nelle tasche, poi le sollevai
il busto
ed entrai sedendomi dietro di lei. L’acqua era veramente
calda, forse un po’
troppo.
La
pelle di Bonnie si era arrossata parecchio, ma non sembrava niente di
grave. La
tenni stretta al mio petto, per passarle il mio stesso calore corporeo.
Da che
ricordassi, quello era il primo contatto fisico che condividevamo.
La
situazione era paradossalmente ironica: non l’avevo neppure
mai abbracciata e
adesso eravamo a mollo, nella stessa vasca, appiccicati uno
all’altra, lei
praticamente nuda.
Sentivo
i suoi fianchi minuti premere in mezzo alla mie gambe, coperte
fortunatamente
da jeans neri. Le sue spalle riposavano contro il mio torace e la sua
testa era
ricaduta all’indietro, poggiandosi contro al mio collo.
Constatai
che il suo fisico non era proprio quello di una dodicenne come avevo
sempre
sostenuto. Non aveva delle grandi forme, di seno arrivava a mala pena a
una
seconda, però era ben proporzionata e tonica, forse un
po’ troppo magrolina per
i miei standard. Non era certo un corpo che mi sarei girato a guardare
per
strada, ma nel complesso si presentava bene. Provare a sedurla,
dopotutto, non
sarebbe stato così male.
Mugugnò
qualcosa e si mosse leggermente. Mi sporsi per guardarla oltre i
capelli rossi
e notai che le sue guance avevano ripreso un po’ di colore.
Sebbene
si stesse finalmente svegliando, continuai a tenerla tra le braccia per
accertarmi che non scivolasse con la testa sott’acqua.
Le
sue
gambe si stiracchiarono e le sue dita sfiorarono e accarezzarono,
inconsapevolmente le mie mani. La lasciai fare piuttosto divertito.
Sarebbe
stato un risveglio col botto.
Infine,
alzò il capo e lo girò a destra e a sinistra,
chiaramente spaesata. Non aveva
ancora realizzato la mia presenza alle sue spalle.
“Bentornata
nel nostro mondo, uccellino” le mormorai
all’orecchio.
Un
secondo dopo, era schizzata dall’altra parte della vasca,
sgusciando via dalla
mia presa, e mi fissava inviperita e allibita nello stesso tempo.
“Che
diamine ci fai tu qui?”
sibilò.
Ghignai
mentre il mio sguardo scivolava sul suo corpo in bella vista.
Si
accorse di indossare solo il reggiseno e le mutande. Si
affrettò a
rannicchiarsi ancor di più e a coprirsi come meglio
poté con le braccia.
“Perché
siamo in una vasca? Perché sono nuda?” mi chiese a
raffica “Se stavi cercando
di approfittartene, ti giuro che …”.
“Frena
la fantasia, rossa” troncai subito “So che
impazziresti per uno dei miei
tocchi, ma non è questo il caso. Ti ho trovata svenuta nel
bosco, eri gelata.
Tentavo solo di scaldarti” le spiegai. Mi tirai in piedi,
uscii dalla vasca
gocciolando per tutto il pavimento e agguantai un asciugamano. Glielo
porsi.
Lei
lo
afferrò un titubante. M’imitò,
abbandonando l’acqua diventata ormai tiepida, e
si avvolse nella stoffa.
Le
sue
gambe tremavano ancora; mi avvicinai per aiutarla, ma si
scostò bruscamente.
Era chiaramente a disagio e non voleva essere toccata.
“Sei
sempre così dannatamente cocciuta”
l’apostrofai seccato.
Bonnie
mi lanciò un’occhiata di fuoco che non
sortì certo l’effetto sperato. Voleva
trasmettermi il suo fastidio, ma più che altro mi
suscitò tenerezza.
Cominciava
a risultarmi veramente difficile arrabbiarmi con quella ragazzina;
così
indifesa nel suo asciugamano bianco, con i capelli rossi per
metà bagnati e
l’equilibrio ancora instabile.
“Come
mi hai trovata?” mi domandò con voce pacata.
“I
tuoi
amici stavano andando fuori di testa. Blateravano qualcosa riguardo al
bosco”.
“E
hai
deciso di venirmi a cercare?” alzò le sopracciglia
scettica “Ma come, Damon,
non hai forse detto che io non sono nessuno?”.
Tipico
delle donne: rigirati addosso le tue stesse parole in circostante del
tutto
inappropriate. La mia testa mi suggerì di dissimulare
l’irritazione e di
giocarmi bene le mie carte. Mi sarebbe bastato mormorare qualche parola
dolce
per tranquillizzarla e avrei fatto dei passi da gigante nel mio piano
di
seduzione.
Eppure
le cose degenerarono davvero in fretta. Quella piccola peste sapeva
mandarmi il
sangue al cervello come nessun altro al mondo, neppure mio padre era
così
bravo.
Le
avevo appena salvato la vita e lei doveva per forza comportarsi da
acida, da
altezzosa, come se il mio gesto non valesse niente in paragone alla sua
persona.
“Perché
faccio cose stupide, Bonnie*!” esplosi “Come fare
il boyscout di notte, in
cerca di una ragazzina capricciosa o infradiciarmi i vestiti per
tenerla al
caldo, dato che è stata così furba
da
vagare nei boschi senza portarsi dietro qualcosa con cui coprirsi. Idea
geniale, tra l’altro, degna di te!” la feci notare
rimarcando ancora una volta
quanto fosse insignificante “Forse hai ragione, forse avrei
davvero dovuto
lasciarti là a congelare. A chi mai importerebbe se
sparissi?” conclusi con una
nota velenosa.
L’avevo
colpita nel suo punto più debole e improvvisamente mi sentii
un verme. Non mi
era mai capitato; normalmente stavo benissimo dopo averla umiliata un
po’, ma
quella volta mi resi conto di aver oltrepassato il limite.
Bonnie
distolse lo sguardo e si morse il labbro “Credo che dovresti
andartene”.
“Non
potrei essere più d’accordo” risposi
impassibile, agguattando le mie scarpe. Me
le infilai e uscii veloce come il vento.
Benché
avessi desiderato rimangiare le mie stesse parole, non riuscivo a
calmare la
mia rabbia. Io ero stato uno stronzo, ma lei era solo una mocciosa
ingrata e
piagnona.
Me
la
figuravo già a lamentarsi con le sue amiche, a darmi
dell’insensibile e della
carogna, dimenticandosi ovviamente di raccontare l’altra
parte della storia.
Alla
fine della fiera, ero sempre io il cattivo, anche quando provavo a
comportarmi
da eroe. Ma nessuno avrebbe mai conosciuto quel lato di me,
perché faceva
sempre comodo avere qualcuno da incolpare.
Ogni
favola, dopotutto, aveva la sua bestia.
Il
mio
spazio:
Allora,
ragazze, parto subito con i ringraziamenti perché sono
davvero contentissima
della reazione positiva che ha suscitato lo scorso capitolo.
Amo
i
vostri commenti, davvero! E poi siete state carinissime ad augurarmi
buona
fortuna per l’esame, quindi grazie tantissimo!!
Che
pensate di questo capitolo?
Beh,
sicuramente avrete riconosciuto la scena della vasca, la più
famosa tra Damon e
Bonnie nei libri originali. Mi è sempre piaciuta e volevo
rivisitarlo un po’,
anche se, ovviamente, quella della Smith è insuperabile.
Come
nei libri, anche qui Bonnie non si risveglia pronta a ringraziare
Damon, anzi. È
molto a disagio per la situazione imbarazzante e un po’
intima, ed è ancora
ferita per le parole del ragazzo dello scorso capitolo.
Damon
poteva segnare un gran centro e invece si è fatto
trasportare ancora dall’impulsività
e ha rovinato il momento. Il titolo vuole ovviamente smentire la sua
ultima affermazione: il re delle zucche, inteso come il re di Hallowee,
colui che ha salvato la situazione, benché Bonnie non sia
disposta ad ammetterlo.
Colpa
di
tutti e due, non c’è dubbio.
Le
cose
comunque si smuoveranno, ho un paio di idee ma se avete suggerimenti,
scrivetemi pure. Se avete una scena in mente e vorreste vederla in
questa
storia, farò il possibile per accontentarvi, con i dovuti
crediti ovviamente =)
Dobbiamo
comunque ancora vedere la scena dal punto di vista di Bonnie, nel
prossimo
capitolo leggeremo anche il suo pensiero.
Poi
ho
due comunicazioni: mi trovo in un momento davvero produttivo e ho un
sacco d’idee
in testa, quindi…
- Settimana
prossima pubblicherò quella storia
rossa di cui avevo accennato (non mi ricordo più se nelle
note di questa ff o
di Ashes&Wine). Mi ero ripromessa che l’avrei fatto
solo dopo aver concluso
tutti e dieci i capitoli e invece ne ho scritti solo tre; ma proprio
non riesco
a trattenermi. Credo che l’alternerò con questa,
così avrò il tempo di scrivere
e più o meno tutte le settimane avrete qualcosa.
- Nei
prossimi giorno posterò anche una
fanfiction nel fandom della serie tv di TVD, su Damon nel suo periodo
buio
negli anni ’70. S’intitola "A
beast about
to strike". Vi lascio sotto l’introduzione. Se vi
va, fateci un salto.
Bene,
ora vi lascio andare!
Grazie
mille ancora a tutti!!
Il
banner è sempre di Bumbuni.
Bacioni!
*Battuta
di Damon, presa dalla 3x21 di TVD.
A beast about to
strike. Nessuno
sano di mente si sarebbe mai
addentrato negli anfratti scuri della City quando la luna era alta nel
cielo;
la notte non era un luogo rassicurante, fatta eccezione per gli
ubriachi, per
gli sprovveduti e gli squilibrati, e ovviamente per lui.
Non
c’era più spazio per i buoni sentimenti, niente
più giustizia, niente più
compassione, niente più umanità. Non quando le
paure aumentavano e la pazzia
trovava spazio.
E il
vampiro era ben contento dell’appellativo disumano,
perché voleva essere considerato un qualcosa di
superiore; uno spietato assassino,
senza limiti, senza scrupoli; voleva incutere terrore con il suo
comportamento
inumano.
Per
questo adorava passeggiare per i vicoli immersi nelle tenebre e nel
silenzio;
perché quella era la New York che amava: malvagia, amorale,
ambigua, sfacciata e
disinibita; la New York che gli calzava a pennello, la New York della
notte.
E lui, Damon
Salvatore, ne era il padrone indiscusso.
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Capitolo 9 *** Awkward ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo nove: Awkward.
“Take what you want
Steal my pride
Build me up
Or cut me down to size
Shut me out
But I'll just scream
I’m only one voice in a million
but you ain’t taking that from me”
(Strip
me- Natasha Bedingfield).
Mi
strinsi
l’asciugamano attorno al corpo, senza pensare che non sarebbe
servito a niente,
perché avevo ancora addosso la biancheria intima zuppa
d’acqua. Eppure non
riuscii a muovermi dal bagno.
Fissavo
malinconica la porta oltre cui era sparito Damon. Per una volta non
avevo
voglia di fare l’arrabbiata o l’orgogliosa. Ero
sola e stanca; potevo
permettermi di crogiolarmi nello sconforto per un po’.
Ripercorsi
velocemente le vicende di quella giornata, cercando di capire come
diamine
avessi potuto cacciarmi in quella situazione.
In
un
modo o nell’altro tutte le risposte conducevano alla mia
dannata insicurezza.
Andavo a fasi: in un momento mi convincevo di poter conquistare il
mondo,
nell’altro mi sarei rintanata nella mia camera senza uscirne
mai più.
Avevo
permesso che Katherine mi manipolasse a suo piacimento; mi si era
infilata in
testa con le sue parole velenose e i suoi modi subdoli. Ero talmente
stufa di
lei e del suo atteggiamento superiore che l’avrei
accontentata in qualunque
maniera pur di essere lasciata in pace.
Ero così ansiosa di darle una lezione, di
dimostrarle quanto valevo che
ero caduta a pieno peso nel suo gioco.
Già
me
l’immaginavo a ridere di me!
Un
paio
di mesi non mi avevano certo cambiato completamente; dovevo accettare
che non
sarei maturata dalla sera alla mattina. Avevo fatto giganteschi passi
avanti,
ma chiaramente la strada era ancora lunga.
Ci
sarebbe sempre stato qualcuno come Katherine ad approfittarsi delle mie
debolezze. Dovevo
cominciare a
riconoscerle e a combatterle, perché ignorarle non era
servito a un granché.
Quella
bruttissima esperienza finiva dritta tra le ragioni per odiare
Halloween dal
profondo del cuore. Perdersi nel bosco si era rivelato orribile, ma
rendersi
conto di aver commesso ancora gli stessi errori del passato era stato
peggio.
In
quel
bosco mi ero arresa, avevo rinunciato a cercare la strada per tornare
indietro
per stanchezza e rassegnazione: non mi reputavo abbastanza forte da
farcela.
Allora
avevo deciso di trasformarmi di nuovo nella vecchia Bonnie, quella un
po’
fifona e incerta, che reputava un’idea migliore accucciarsi
contro un masso che
proseguire.
Avevo
chiuso gli occhi e avevo finto di non trovarmi al freddo, tra alberi
inquietanti, ma a casa mia, al sicuro.
Il
risveglio mi aveva totalmente spiazzata. All’inizio non avevo
nemmeno capito
dove fossi, sentivo solo un torpore confortante e qualcosa ad
avvolgermi in un
caldo abbraccio. Avevo inconsapevolmente accarezzato la pelle liscia di
colui
che mi stava cullando. Stavo bene, avevo finalmente abbandonato il
freddo e una
timida luce mi conduceva lentamente lontano dal sonno. Sarei rimasta in
quello
stato di semi coscienza per sempre.
La
bolla si era infranta quando avevo udito la voce di Damon mormorare
alle mie
spalle.
Stare
in quella vasca, mezza nuda, con lui era stato davvero mortificante e
non solo
per una banale questione d’imbarazzo.
Mi
ero
resa ridicola davanti a lui, aveva fatto la figura
dell’incapace, della damigella
in pericolo. Avevo confermato in pieno la sua teoria: ero proprio una
bambina.
La
sua
espressione eloquente aveva gridato per tutto il tempo
“Visto? Avevo ragione”.
Non
volevo che Damon mi vedesse il quello stato, debole e spaurita; gli
avrebbe
concesso soltanto ancora più potere di ferirmi. Cosa che
effettivamente aveva
fatto.
Non
si
era risparmiato la sua solita battutina acida e arrogante. Dovevo
risultare una
macchietta parecchio divertente ai suoi occhi; e adesso mi ritrovavo
pure in
debito con lui!
Mi
alzai di scatto, sciolsi il nodo dell’asciugamano che ricadde
silenziosamente
sul pavimento e mi diressi in camera per cambiarmi.
Avevo
appena messo il pigiama, quando sentii la porta d’ingresso
aprirsi e la voce di
Stefan chiamarmi affannata. Probabilmente aveva usato le sue chiavi di
riserva
per entrare oppure quell’idiota di suo fratello si era
dimenticato di chiudere.
Gli
andai incontro e un secondo dopo venni stretta dalle sue braccia,
contro al suo
petto. Chiusi gli occhi e mi rilassai all’istante. Non
c’era posto in cui
potevo sentirmi più al sicuro.
Non
m’importava se dopo avrei subito una ramanzina infinita, per
il momento ero
solo contenta di poter abbracciare il mio migliore amico.
“Dovrei
ammazzarti” mi sussurrò tra i capelli. Era
arrabbiato, ma potevo percepire il
sollievo di avermi trovata tutta intera.
“Ancora
un minuto” gli chiesi spingendo ancor di più il
mio viso contro al suo torace.
Purtroppo
quei sessanta secondi durarono troppo poco. Nell’istante in
cui sciogliemmo
l’abbraccio, l’espressione di Stefan
s’indurì pericolosamente.
“Non
guardarmi così; mi sento già abbastanza stupida
senza il tuo aiuto” lo pregai.
Lui
sbuffò, superandomi per entrare in camera mia. Lo seguii.
“Non
so
nemmeno da dove cominciare” proruppe “Dalla fatto
che tu abbia ascoltato
Katherine o dalla tua gita per i boschi!”.
“Come
facevi a sapere che ero andata nell’Old Wood?”.
“Intuizione,
istinto” rispose “Elena mi ha raccontato della
discussione che hai avuto con
sua sorella sul raduno di Halloween, poi vi ho viste parlare alla
festa. Ti
conosco, Bonnie, so quanto sei testarda. Avresti fatto di tutto pur di
mettere
a tacere Katherine”.
“Non
è
andata proprio come speravo”.
“Ci
hai
mandato tutti fuori di testa!” la rimproverò
“È
vero
che non fa ancora così freddo, ma saperti da sola nel
bosco... ho passato le
due ore peggiori della mia vita. Non sapevo se chiamare tuo padre o no.
Per
dirgli cosa poi? Ti ho telefonato decine di volte e avevi il cellulare
spento.
Ho pensato davvero al peggio”.
“Si
è
scaricato mentre cercavo la strada per il campeggio” mi
giustificai.
Lui
mi
guardò un po’ indeciso, come se si stesse
trattenendo da qualcosa; infine cedette
e sbottò “Vieni qui, razza
d’incosciente” mi disse e si avvicinò
per
abbracciarmi di nuovo.
“Mi
dispiace di avervi fatto preoccupare” mi scusai, appoggiando
la fronte alla sua
spalla.
“Prova
a fare un’altra volta una cosa del genere e giuro che
racconterò tutto a tuo
padre” mi avvisò bonariamente accarezzandomi i
capelli.
“Perché
sei venuto qui?” gli domandai.
“É
il primo posto che ho controllato. Non ti ho trovato e
ho raggiunto gli altri nell’Old Wood; poi ho ricevuto un
messaggio di Damon”.
“Damon
ti ha scritto?” ripetei sorpresa, staccandomi per guardarlo
in faccia.
“Sì;
diceva di tornare a casa. Credevo fosse una cosa urgente; Damon non mi
scrive
mai. Temevo fosse successo qualcosa a papà; ho parcheggiato
e ho visto le luci
di casa tua accese” mi raccontò.
Aggrottai
le sopracciglia mentre un sospetto si faceva strada in me: era forse un
modo
contorto di Damon per far venire Stefan qui?
“Non
ho
neanche controllato che mio padre stia bene!”
esclamò il mio migliore amico,
ricordandosene solo dopo avermene parlato. Prese il cellulare, ma io lo
bloccai
prendendolo per un polso.
“Tuo
padre sta bene” lo rassicurai istintivamente.
“Ma
allora perché…? Quello è il giubbotto
di mio fratello?” si stupì Stefan.
Mi
voltai e vidi la giacca di pelle abbandonata sul letto.
“Deve
avermela messa addos…oppure se l’è
tolta quando…” e indicai il bagno. Nella mia
testa tutte quelle frasi avevano senso, ma uscirono sconnesse.
Io
per
prima stavo cercando di mettere un po’ d’ordine nei
miei pensieri.
“Perché
Damon era qui?” mi chiese.
“Perché
è stato lui a …” mi fermai appena prima
di pronunciare quella parola. Realizzai
in quel preciso momento il gesto di Damon. Mi aveva trovata,
mi aveva salvata.
Per quanto detestassi ammetterlo, m’infuse una nuova
consapevolezza.
“Mi
ha
portata lui qui a casa” dirlo ad alta voce aveva
tutt’altro sapore.
“Mio
fratello ti è venuto a cercare?” ripeté
sconcertato quanto me.
Annuii.
Ragionai velocemente sulla mia prossima mossa.
“Stefan,
mi daresti un passaggio fino a Dalcrest?”.
Ero
esausto.
Faticavo
a ricordare l’ultima volta che mi ero stancato
così tanto. Desideravo solo
mettermi nel letto e staccare la spina per almeno una decina di ore.
Mi
liberai delle scarpe sporche di terra e dei vestiti bagnati. Mi feci
una doccia
veloce, per togliermi via la sensazione di umido che mi si era
appiccicata alla
pelle. Nemmeno dieci minuti dopo ero già sotto le coperte in
pigiama.
Sperai
davvero che Sage rimanesse a dormire a a casa di una delle sue
conquiste,
perché non avrei proprio sopportato di essere disturbato in
piena notte.
Avevo
bisogno di dormire e di stare da solo.
Per
quanto fosse dura ammetterlo, ero rimasto deluso dell’esito
della serata. Non
mi aspettavo una medaglia e nemmeno una corona di fiori, ma almeno un
piccolo
ringraziamento mi pareva dovuto.
Avevo
ottenuto soltanto un’occhiata disgustata e un sacco di
rancore.
Mi
aspettavo che una ragazza gentile e compassionevole come Bonnie
apprezzasse il
mio gesto, che riconoscesse il merito e invece mi aveva guardato
sospettosa e
un po’ spaventata, quasi mi ritenesse responsabile della sua
situazione.
Ero
davvero una creatura così odiosa da non meritare neppure una
parola di
gratitudine?
Cominciai
a pensare che sedurla si sarebbe rivelato molto più
difficile del previsto. Con
la mia ultima frecciatina non avevo certo guadagnato punti.
In
quel
momento avrei tanto voluto rimangiarmela. Non sapevo nemmeno io
spiegarmi come
mai diventassi così cattivo ogni volta che parlavo con
Bonnie. Di carattere non
ero una persona molto affabile, ma con quella piccola rossa davo sempre
il
peggio di me.
Forse
mi compiacevo a ferirla perché i suoi grandi occhioni
innocenti spesso mi
facevano sentire effettivamente colpevole
di qualcosa. Una specie di vendetta inconscia.
Mi
sarei tagliato la lingua piuttosto che dirlo ad alta voce, ma Bonnie
ogni tanto
aveva il potere di mettermi a disagio.
Sbuffai
e mi rigirai nel letto. Appena prima di spegnere la luce, mi accorsi che sulla sedia
su cui avevo posato
i vestiti ad asciugare, mancava qualcosa.
Il
mio
giubbotto di pelle!
L’avevo
lasciato a casa di Bonnie. Imprecai.
Ero
già
nel panico al pensiero che sarei dovuto tornare là. Forse
potevo chiedere a
Mary di portarmelo in università. Stavo pianificando un modo
per evitare quel
dannato uccellino, quando qualcuno bussò alla porta.
Guardai
l’orologio: l’una e un quarto.
Non
era
tardissimo, ma rimasi comunque sorpreso e irritato. Chi mi rompeva la
palle a
quell’ora?
Era
forse Sage, troppo ubriaco per aprire la porta da solo?
La
figura che mi si presentò davanti era decisamente
più bassa del mio amico,
aveva i capelli molto più lunghi e aveva in mano il mio
giubbotto.
Bonnie
McCullough se ne stava sul pianerottolo in pigiama. Avrei persino
potuto
scambiarla per una bambina che mi chiedeva ‘dolcetto o
scherzetto’.
“Non
sapevo se fossi già tornato o no”
confessò. La sua voce era delicata come al
solito, ma riuscivo a percepire una nota più decisa.
“Hai
dimenticato questa” mi disse porgendomi la giacca.
Sembrò soppesare nella sua
mente le parole che voleva disperatamente dire. Si
mordicchiò il labbro
inferiore e alzò lo sguardo su di me. Non avevo mai visto i
suoi occhi così
fieri.
“Mi
hai
portata a casa” sentenziò.
Stentavo
a credere alle mie orecchie. Che fossero giunti infine dei benedetti
ringraziamenti?
“Ti
devo ringraziare, Damon, e mi spiace di non averlo fatto prima. Senza
di te
probabilmente mi sarei presa una polmonite o peggio”.
Alleluia.
Pensai con sarcasmo. La principessina era finalmente scesa dal suo
piedistallo.
“Non
sono venuta qui solo per questo, Damon”.
Aveva
pronunciato il mio nome già due volte: o stava per
dichiararmi il suo amore o
era sul piede di guerra. Propendevo più per le seconda.
“La
devi smettere di trattarmi come se fossi uno zerbino”
affermò con una sicurezza
che mi sorprese “Devi smetterla di venire in casa mia e
insultarmi e pensare
ogni volta che vada bene così. Non sei mai stato carino o
gentile nei miei
confronti, quindi non ti aspettare la stessa cortesia da parte mia. Non
sono
più una bambina, Damon …”.
Ahia,
la terza volta!
“…
e
sono stufa di venire continuamente mortificata da te e dalla tua
presunzione.
Non accetterò più tutto lo schifo che continui a
gettarmi addosso, perciò…non
parlarmi più. Almeno finché non avrai imparato un
po’ di rispetto”.
Rimasi
zitto, mentre lei se ne andava senza aggiungere altro. Richiusi la
porta con
estrema calma. Non ero rimasto turbato dalle sue parole, in fondo aveva
detto
solo la verità: io non la rispettavo e non avevo problemi a
umiliarla o a ferirla
perché per me contava quasi quanto uno zero.
Ero
rimasto, però, esterrefatto dalla forza con cui aveva
espresso il suo punto di
vista. Altre volte aveva provato a tenermi testa, senza riuscirci
veramente. In
ogni momento avrei potuto rimetterla facilmente al suo posto. Quella
sera,
invece, ne sarei uscito sconfitto io.
In
condizioni normali non avrei fatto una piega, perché non
ricercavo la sua
gentilezza, ma il suo discorso mi aveva aperto gli occhi: non sarei mai
riuscito a conquistarla se non mi fossi deciso a trattarla con
più riguardo.
Dovevo
smetterla di additarla come una bambina. Continuare a chiamarla
mocciosa o
piagnona non mi avrebbe portato a grandi risultati.
Il
suo
suggerimento era molto allettante: smettere definitivamente di parlarle
non costituiva
un grande sacrificio per me. Allo stato delle cose, purtroppo, non era per niente
vantaggioso ai fini del
mio piano.
Non
c’era altra soluzione, dovevo mettere in atto una ben
costruita messinscena:
fingere non solo di avere un interesse per Bonnie, ma di considerarla
anche una
donna.
Se
si
fosse comportata sempre come stasera, non l’avrei trovato
così difficile. Con
quell’espressione così seria e determinata, mi
aveva decisamente convinto ad
ascoltarla e quasi a stimarla.
Speranza
vana, perché quelli erano momenti di coraggio che svanivano
in fretta. Forse
avrei fatto bene a non dimenticarlo.
Tornai
nel letto, dopo aver gettato il giubbotto sulla sedia. Sprofondai in
fretta nel
sonno e non mi accorsi nemmeno del ritorno di Sage, ubriaco marcio.
Capii
che aveva bevuto molto, proprio perché al mio risveglio
trovai tutti i vestiti
fuori dall’armadio, il letto mezzo staccato dal muro e il mio
amico
addormentato con i piedi sul cuscino, ancora coperti dalle scarpe.
Sicuramente
se l’era spassata la sera prima. Quello che non aveva potuto
fare io per colpa
di quella moc-.
Mi
trattenni dal pensarlo. Bisognava che mi togliessi dalla testa certi
termini.
Abbandonai
il letto e non mi preoccupai di fare piano. Sage era talmente secco che
nemmeno
una bomba sotto al materasso lo avrebbe svegliato.
Una
mezz’ora dopo ero in macchina e stavo guidando verso casa
Gilbert. Avevo
bisogno di discutere con Katherine di alcune cose e soprattutto avevo
voglia di
vederla.
Non
l’avevo avvertita, perché sapevo che i suoi
genitori sarebbero stati via tutto
il weekend. Potevo presentarmi a qualunque ora senza disturbare
nessuno. Non
ero abituato ad annunciare il mio arrivo; normalmente piombavo a casa
delle persone
quando più mi gradiva. Era uno dei tanti motivi per cui i
genitori delle mie ex
ragazze non mi potevano sopportare.
Con
Katherine era diverso. Cercavo di fare le cose per bene,
m’impegnavo davvero
per non inimicarmi i signori Gilbert. Già avevano avuto modo
di sperimentare il
mio lato più docile con Elena, ma adesso stavo dando il
meglio di me.
La
nostra relazione andava a gonfie vele, il che mi spaventava. Era tutto
troppo
bello per essere vero. Mi aspettavo da un momento all’altro
che qualcosa
crollasse, distruggendo il resto. Probabilmente si trattava solo di
un’impressione,
del mio pessimismo cronico.
Parcheggiai
la Ferrari davanti al loro vialetto e mi avviai all’ingresso.
Non
feci neanche in tempo a bussare che la porta si aprì,
rivelando dall’altra
parte una delle due gemelle, non la
mia.
Incontrare
Elena di prima mattina era sempre una gioia. Stavo sua sorella, ma
Elena
avrebbe sempre tenuto un posto speciale nel mio cuore. Le ero
inevitabilmente
affezionato.
“Damon!”
esclamò sorpresa “Katherine sta ancora
dormendo” mi disse con un tono più
freddo del solito.
“Beh,
sono qui per svegliarla” alzai le spalle.
Lei
mi
guardò di sottecchi, poi sospirò pesantemente
“Accomodati pure” e si spostò per
lasciarmi entrare.
Chiaramente
stava per uscire, ma non mosse un passo. Si voltò lentamente
verso di me.
“Senti,
Damon, ti devo parlare di una cosa”.
Ricambiai
il suo sguardo con molta confusione.
“Stefan
mi ha detto che ieri sera hai riportato a casa Bonnie, che
l’hai aiutata. Te ne
sono davvero grata”.
Gongolai
soddisfatto, felice di ricevere il giusto merito dal mio angelo.
“Però
devi smetterla di trattarla in quel modo. Non è una
bambolina, ha dei
sentimenti, sai? Perché ti comporti così con lei?
È una mia amica, non potresti
usare un po’ di tatto?!”.
Fantastico,
un’altra ramanzina.
M’infastidì
molto la presunzione che trasparì dalla sua voce, come se
avesse qualche tipo
di controllo su di me. Bonnie era una sua amica, ma questo non le
conferiva
nessuna sorta di immunità. Non ero tenuto a trattarla con i
guanti di velluto
solo per non arrecare un dispiacere a Elena.
“Con
tutto il rispetto, non credo di doverle qualche riguardo per fare un
favore a te”.
Era
una
brava ragazza, dolce e comprensiva, a volte, però, peccava
un po’ di superbia e
usava, forse inconsapevolmente, quel potere che di norma preferiva non
toccare.
Se
ne rese
conto e intenerì lo sguardo “Mi piacerebbe che gli
altri ti vedessero per come
ti vedo io”.
Avrei
adorato quelle parole, se dietro avessero nascosto una qualche
sfumatura
d’interesse. Invece, celavano solamente amicizia e un
profondo affetto.
Le
apprezzai, eppure mi sembrava tanto di aver ricevuto il solito
contentino made
in Gilbert.
“Non
sono un grande fan di Bonnie” sentenziai “E lei
ricambia il mio stesso
sentimento. Elena, ieri sera le ho praticamente salvato la vita e lei
si
preoccupa solo di raccontare come l’ho tratta male
dopo!” mi lamentai con uno
sbuffo.
La
bionda alzò le sopracciglia “Dopo?”
mi chiese con cipiglio.
“Sono
stato un po’ stronzo, lo ammetto” la feci contenta.
“Damon,
a cosa ti riferisci?”.
Mi
stava prendendo in giro? Mi aveva appena fatto il culo e ora fingeva di
non
ricordarsi il motivo?
“Perché
io mi riferisco a qualche settimana fa, quando sei andato a casa sua a
colazione” m’informò
“C’è qualcos’altro che devo
sapere?”.
O
cazzo.
Mi
stava forse dicendo che l’uccellino per una volta in vita sua
era stato zitto e
aveva riferito solo la parte buona della storia?
“Damon”
mi intimò lei con gli occhi che mandavano scintille.
“Sono
solo i nostri soliti litigi, angelo, niente di preoccupante”
la rassicurai “Ti
stupirai nel vedere quanto saprò essere gentile
con Bonnie d’ora in poi”.
Le
lasciai credere che il merito fosse il suo, senza chiaramente nominare
la
scommessa.
“Damon,
sei tu?” mi chiamò una voce dal piano superiore.
Katherine,
mia salvatrice.
Elena
mi fece cenno di andare e sparì chiudendosi la porta alle
spalle.
Io
tirai un sospiro di sollievo. Quella giornata iniziava a diventare
particolarmente strana e imbarazzante. Ero stato sgridato per ben due
volte come
un bambino di tre anni e avevo ricacciato giù ogni replica
solo per evitare
ulteriori scocciature.
Volevo
solo vedere la mia ragazza, passare del tempo con lei e togliermi ogni
pensiero
dalla testa. Perciò salii, saltando i gradini per arrivare
prima.
La
trovai in camera sua. Aveva appena finito di cambiarsi. Le andai
incontro e la
baciai, stringendola tra le braccia.
Cademmo
sul letto alle sue spalle. Ero pronto a toglierle i vestiti che aveva
indossato
da pochi minuti, ma lei mi mise una mano sul petto.
“Sei
impaziente stamattina” commentò con un ghigno.
“Recupero
per ieri sera” risposi baciandole il collo “Mi hai
dato buca per una festa da
liceali” brontolai.
Non
le
avevo detto che anche io ero andato alla festa. Dopo aver ricevuto la
telefonata di Alaric, avevo pensato di farle una sorpresa, ma tutto era
andato
in fumo per la scomparsa di Bonnie.
“Non
avresti avuto tempo per me ieri sera” replicò
Katherine “Ho sentito che eri
molto occupato a salvare la piccola Bonnie”.
Alzai
la testa di scatto “Stavi origliando?”.
“Solo
un po’. Ero curiosa” si sporse per baciarmi ancora.
Io
mi
spostai “Kat, sei tu che le hai suggerito di andare nel
bosco?”.
Lei
annuì “L’ho sfidata a passare una notte
per dimostrarmi che non era una fifona.
Stavo scherzando, non credevo l’avrebbe fatto
veramente”.
“Forse
dovresti stare attenta a parlare. Sai che Bonnie è
facilmente manipolabile;
ieri sera ha rischiato grosso” le feci notare.
“Non
mi
dirai che ti sei preoccupato?” mi domandò alzando
un sopracciglio.
“Non
molto in realtà” scrollai le spalle indifferente
“Il problema è che quella
ragazzina si mette
nei guai e poi c’è da
andare a riprenderla. Non vorrei farle da cavalier servente ogni santa
volta”.
“Beh,
è
stata un’ottima occasione per metterti in mostra. Scommetto
che adesso sei il
suo grande eroe …” incominciò,
sgusciando via dal mio abbraccio per sistemarsi
i capelli davanti allo specchio.
Grande
eroe. Non proprio.
“…sarà
un gioco da ragazzi farla cadere ai tuoi piedi” concluse.
Quello
mi riportò al mio dubbio iniziale “Katherine, mi
ricordi perché è così
importante per te questa scommessa? Ho qualche difficoltà a
capire come mai sei
così contenta che il tuo ragazzo ci provi con
un’altra”.
“Credi
che possa sentirmi minacciata da Bonnie McCullough?” mi
domandò quasi
indignata, voltandosi verso di me “Non mi lasceresti mai per
quella frignona,
Damon, per questo non ho nessun
problema. Io non potrei mai essere gelosa di lei”.
“E
cosa
ci guadagni tu?”.
“Un
po’
di divertimento” disse “È la migliore
amica di Elena e sarò ben felice di
vedere mia sorella soffrire. E poi, mi ha dato molto fastidio che Tyler
abbia
messo in dubbio la tua capacità di conquistarla. Noi due
siamo una coppia
esplosiva e nessuno si deve permettere di sottovalutarci”.
“Tutto
qui? Vuoi far vedere chi ce l’ha più
lungo?”.
“No,
tu vuoi far vedere chi ce
l’ha più
lungo” mi corresse “Fremevi di dare una lezione a
Tyler, ma avevi paura che io
mi arrabbiassi. Così ho parlato per te”.
Sapevo
che c’era qualcos’altro sotto. Non poteva essere
una semplice questione di
vanità, anche se da Katherine mi sarei aspettato anche
quello.
Rimaneva
tutto troppo strano.
Il
telefono continuava a squillare, ma non avevo il coraggio di
rispondere. Sul
display lampeggiava il nome di Matt.
Probabilmente
voleva solo sentire come stavo, dato che la sera prima ero sparita
senza
avvertire nessuno. Di sicuro sapeva già tutto quello che mi
era successo.
Ero
oltremodo imbarazzata, per non dire in preda alla vergogna.
Mi
ero
comportata da stupida e irresponsabile. Non ero ancora pronta a
sostenere lo
sguardo di Matt. Avevo fatto la figura della stupida, di quella
facilmente
abbindolabile. Mi sentivo umiliata e mi serviva un po’ di
tempo togliermi di
dosso quella sensazione.
Il
weekend era appena iniziato, per cui potevo contare su due giorni di
totale
isolamento.
Caroline
era già passata per assicurarsi che fossi tutta intera e
Meredith mi aveva
telefonato, minacciando di raccontare tutto a mio padre se avessi
rifatto una
cosa del genere.
Finii
di prepararmi la cioccolata e continuai a giocare con il mio portatile. Avevo una
ricerca di storia da
svolgere, ma non riuscivo a trovare la voglia.
Girovagare
su facebook in quel momento mi sembrava molto più divertente.
Il
mio
pomeriggio di totale relax venne fastidiosamente interrotto dal
campanello che
suonava. Ebbi la tentazione di fingere di non essere in casa.
Alla
fine mi alzai e andai ad aprire.
Matt
mi
sorrise dall’altro lato della soglia. Stavo per svenire.
“Ciao”
lo salutai sorpresa “Che ci fai qui?”.
“Non
rispondevi alle mie chiamate. Volevo vedere di persona che stessi bene.
Stefan
mi ha detto che potevo trovarti a casa”.
Grazie
tante, amico.
Pensai con ironia.
“Ieri
sei sparita di colpo e mi sono preoccupato. All’inizio ho
pensato che ti fossi
arrabbiata per la camera dell’orrore”..
Scossi
la testa e ridacchiai “No, non ero arrabbiata. È
stato quasi divertente”.
Lui
ricambiò il mio sorriso “Ora va meglio? Stefan mi
ha detto che non sei stata
bene”.
Aggrottai
le sopracciglia: Matt non sapeva davvero che cos’era
successo? O stava solo
facendo finta per non mettermi a disagio?
“Credo
di aver imparato un sacco di cose ieri notte” affermai
“Vuoi entrare? Ho appena
preparato la cioccolata” lo invitai.
“Potrei
mai dire di no alla cioccolata?”.
Mio
padre non era in casa. Se avesse scoperto che ero rimasta sola con un
ragazzo,
probabilmente mi avrebbe ucciso. Ma a questo punto, un guaio in
più o uno in
meno non mi faceva la differenza.
Gli
versai la bevanda calda nella tazza e io ripresi a sorseggiare la mia.
“Com’è
andata la festa alla fine?” gli domandai.
“Il
solito” mi rispose alzando le spalle “È
triste che sia il nostro ultimo anno.
Credo che mi mancherà tutto questo quando sarò al
college”.
“Quando
sarai al college, non ti ricorderai nemmeno più del
liceo”.
“Può
darsi” disse “Però la prossima volta non
scappare così da una festa; sarebbe
stata molto più divertente se fossi rimasta”.
Mi
lusingava troppo sapere che Matt mi teneva così in alta
considerazione. Solo
qualche giorno prima mi aveva confessato che ai suoi occhi ero
cresciuta,
eppure mi ero comportata per l’ennesima volta come una
tredicenne. Io ero convinta
di essere maturata, lo ero davvero. Perché chi mi stava
intorno non se ne
rendevano conto?
“Matt”
mormorai “Secondo te gli altri vedranno mai il mio
cambiamento?” gli chiesi.
“Tu
vai
benissimo così come sei, Bonnie”
replicò “Non devi cambiare solo perché
lo
dicono gli altri; ma se proprio lo vuoi anche tu, sarebbero dei ciechi
se non
se ne accorgessero”.
La
doveva
smettere con i complimenti o sarei andata a fuoco dal rossore. Abbassai
la
testa per nascondere un sorrisino.
Lo
sentii posare un dito sotto al mio mento.
“Non
guardare giù. Sei bella quando sorridi”.
Potevo
sciogliermi in quel momento?
Lo
vidi
avvicinarsi a rallentatore e un attimo dopo le sue labbra si posarono
sulle
mie. mi accarezzò dolcemente una guancia, ma non fece
nient’altro per approfondire
il bacio. Con mio grande disappunto.
Mi
staccai “Matt, non sono una bambola” gli ricordai.
Non ero fatta di porcellana
e non mi sarei rotta se fosse stato un po’ più
irruento.
Sembrò
che non stesse aspettando altro. Mi spinse verso di lui e finalmente
venni
coinvolta in un bacio con la ‘B’ maiuscola. Mi
sedetti sulle sue gambe e gli
strinsi le spalle, mentre faceva passare le mani su tutta la mia
schiena.
Fu
uno
dei momenti più belli di tutta la mia vita, almeno
finché non udii la voce di
mio padre chiamarmi dall’ingresso. Gelai sul posto e mi
allontanai bruscamente.
Anche Matt sbiancò.
“Sono
in cucina, papà” gli disse, passandomi in
continuazione la lingua sulle labbra
per alleviare il gonfiore.
“Buongiorno,
signor McCullough” salutò educatamente Matt. Si
era spostato dall’altra parte
del tavolo, per non dare strane impressioni.
“Matt!”
esclamò sorpreso mio padre “Non sapevo fossi
qui”.
“Sono
passato per vedere come stava Bonnie”.
“Non
stai bene, gattina?” mi chiese preoccupato, rivolgendosi a me.
“Sto
benissimo” assicurai pensando al bacio di poco prima
“Ieri ho lasciato presto
la festa, perché avevo un po’ del mal di testa, ma
ora è passato” spiegai,
mentendo.
“Comunque
me ne stavo andando” si affrettò ad aggiungere
Matt “I miei genitori mi aspettano”
e si alzò.
“Gattina,
accompagnalo alla porta” mi suggerì mio padre e io
fui svelta ad obbedire.
Quando
raggiungemmo all’entrata, rivolsi a Matt uno sguardo di
scuse. Lui mi
tranquillizzò con una stretta di mano.
Aprii
la porta e uscimmo sul portico.
La
mia
attenzione venne, però, catturata dalla macchina di Stefan
parcheggiata di
fronte casa Salvatore: il bagagliaio era aperto e il mio amico stava
scaricando
una valigia.
“Stefan!”
lo chiamai, mentre attraversavo la strada, seguita da Matt
“Che fai? Sei andato
da qualche parte in queste sei ore?” scherzai.
“Questa
non è mia” ribatté “Sono
andato all’aeroporto a prendere mio cugino”.
“Tuo
cugino?” ripetei confusa.
“Sì”
mi
confermò “Non l’hai mai incontrato. Vive
a Londra. È la prima volta che viene
negli Stati Uniti”.
Avevo
sentito parlare dei loro cugini inglesi, ma effettivamente non li avevo
mai
visti di persona.
“È
questa la splendida fanciulla di cui mi hai parlato, Stefan?”
s’intromise una
voce alle mie spalle. Mi girai e incrociai lo sguardo di un bellissimo
ragazzo,
biondo, con un accento inglese da far tremare le ginocchia.
Mi
prese delicatamente la mano e la baciò “Il mio
nome è Klaus”.
Il
mio
spazio:
Klaus
new entry. Ve l’aspettavate?
Scusate
se posto solo ora. Volevo farlo prima, ma sono piombati ospiti a
sorpresa a
casa per cui non ho potuto accendere il pc.
È
un
capitolo di passaggio, entriamo un po’ più nella
mente dei due protagonisti. Ci
sono dei piccoli cambiamenti, minuscoli, però meglio di
niente.
Abbiamo
avuto delle risposte da Katherine; credete che sia davvero tutto qui?
E
questo
Klaus che farà? Matt potrebbe avere un avversario, ma anche
Damon.
Grazie
mille a tutti voi! Ci vediamo presto con le mie altre storie!
Un
bacio!
Fran;)
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Capitolo 10 *** The english stranger ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo dieci: The english stranger.
“Everything’s changing
when I turn around all out of my control
Everywhere I go I’m a mobile
Hanging from the ceiling life’s a mobile spinning round
With mixed feelings crazy and wild
Sometimes I wanna scream out laud
Everything’s changing
Everywhere I go
All out of my control
Everything’s changing
Everywhere I go out of what I know”
(Mobile-
Avril Lavigne).
Odiavo
quando nei film la sfigatella di turno rimaneva completamente attonita
di
fronte alla bellezza del ragazzo nuovo. Odiavo l’espressione
da pesce lesso.
Eppure
ero lì, con gli occhi da triglia, a fissare allucinata
quell’inglese, splendido
da togliere il fiato. Non saprei dire quanto rimasi lì con
la mia mano nella sua.
“No,
Klaus, prima ti parlavo di Elena, la mia ragazza. Questa è
Bonnie, la mia
migliore amica” spiegò Stefan.
Klaus
lasciò (con mio sommo dispiacere) la mia mano e mi
guardò allibito, poi si girò
verso Stefan “Mi avevi parlato di una ragazza dalla bellezza
devastante e ora
ce l’ho davanti. Non vedo come qualcuno possa superarti, sweetheart” disse rivolgendosi
di nuovo a me.
Non
aveva ancora visto Elena, ma ero lusingata lo stesso.
Lo
conoscevo da cinque minuti e la mia autostima era già
salita. Potevo portarmelo
a casa?
“Io
sono Matt, il suo ragazzo”.
A
malapena lo udii. In condizioni normali avrei fatto i salti di gioia a
quell’affermazione, ma in quel momento mi entrò da
un orecchio e uscì
dall’altro.
Non
credevo che Matt lo intendesse davvero, comunque. Probabilmente aveva
notato
quanto fossi rimasta affascinata dal cugino di Stefan e voleva chiarire
subito
le posizioni.
Incrociai
gli occhi del mio migliore amico e solo allora mi decisi a scuotermi
dal mio
stato d’intontimento.
“Rimarrai
qui molto, Klaus?” gli chiesi con un po’ troppa
speranza nella voce.
“Un
mesetto credo” mi rispose “Potrei cambiare i miei
programmi, chissà” suppose
con una nota di malizia che non sfuggì a nessuno di noi tre.
“Noi
dobbiamo andare a questo punto” s’intromise Stefan
“È meglio se sistemiamo un
paio di cose prima che arrivi papà”.
“È
stato un piacere conoscervi” sorrise gentilmente Klaus. Mi
fece l’occhiolino,
senza curarsi minimamente delle presenza di Matt e seguì
Stefan, portandosi
dietro la valigia.
Quando
la porta di casa Salvatore si chiuse, tornai finalmente alla
realtà. Realizzai
di essermi comportata un po’ male nei confronti di Matt e mi
girai per scusarmi
e accertarmi che fosse tutto a posto, ma non ne ebbi
l’occasione.
Lui
mi
salutò un po’ sbrigativo con un gesto della mano e
saltò in macchina.
Mi
ritrovai
sola in mezzo alla via e mi sentii una stupida. Mi piaceva flirtare, mi
era
sempre piaciuto, sebbene non ne fossi molto capace, però non
mi era mai
capitato di baciare un ragazzo e un secondo dopo fare gli occhi dolci a
un
altro.
A
pensarci meglio, mi ero pure resa ridicola, perché Klaus non
ci stava
assolutamente provando con me; magari era il suo modo tremendamente
inglese di
mostrarsi simpatico.
Mi
vergognai un po’ del modo in cui mi ero posta. Non avevo
fatto niente di che,
però avrei potuto darmi un minimo di contegno e soprattutto
non rimanere così
imbambolata, esibendo palesemente il mio apprezzamento.
Me
lo
sarei appuntata per la volta successiva: no alla faccia da pesce lesso.
Mi
rifugiai presto nella solitudine della mia camera, sfuggendo a mio
padre che
non provava nemmeno a nascondere il suo disappunto per avermi trovata
sola in
casa con un ragazzo.
Quel
particolare incontro avvenuto poco prima, aveva appena aperto
un’altra
scottante questione. Non ci avevo prestato molta attenzione al momento,
ma
circondata dal silenzio e dalla tranquillità, iniziavo a
rimuginarci sopra.
Matt
mi
aveva definito la sua ragazza.
Lo
intendeva davvero o era stata solo una presa di posizione? E poi ero
pronta per
essere la ragazza di qualcuno?
Avevo
praticamente appena scoperto che cosa si provasse a venire corteggiata
e non
volevo rinunciarci subito. Era forse un po’ egoista da parte
mia, ma dopo tutto
quel tempo credevo di meritarmelo.
Per
anni Matt era stato la mia cotta non così tanto segreta e
lui non mi aveva mai
considerato. Non mi andava di cedere facilmente, come se non aspettassi
altro.
Doveva
sudarsela.
Si era accorto di me troppo tardi per ottenermi senza neppure sforzarsi.
Inoltre
avevo collezionato troppe delusioni per lasciarmi andare come se niente
fosse.
Non desideravo venire ferita di nuovo.
Per
quanto fosse il mio sogno nel cassetto, non potevo buttarmi a capofitto
in una
relazione che non sapevo neanche se avrebbe funzionato o no.
Già
mi
vedevo, scaricata dopo qualche settimana, rannicchiata nel mio letto a
piagnucolare.
Non
avevo
nemmeno intenzione di rovinare un’amicizia, perché
ero stata troppo affrettata.
Avevamo appena condiviso il primo bacio serio, non era necessario
approfondire
subito la nostra storia. Senza contare che avevo bisogno di tempo per
abituarmi
all’idea. Non mi ero mai impegnata con nessuno; non sapevo da
che parte
incominciare.
Avrei
sicuramente commesso qualche errore e magari Matt non sarebbe stato
disposto ad
aspettarmi o a insegnarmi.
Ci
dovevo proprio andare con i piedi di piombo.
Guardai
fuori dalla finestra, verso casa Salvatore. Notai che le tende della
camera di
Damon erano state tirate, mostrando l’interno,
Stavo
per chiedermi se fosse tornato, quando notai la figura di Klaus
muoversi per
sistemare le sue cose.
Così
Giuseppe aveva definitivamente cacciato Damon dalla sua stessa casa?
Klaus
sarebbe rimasto un mese o poco più, però ai miei
occhi appariva proprio come
una sostituzione.
Scrollai
le spalle. Poco male! Se avessi goduto di quella vista per le settimane
successive, non mi sarei certo lamentata.
Lo
trovavo uno scambio più che conveniente.
A
scuola questo nuovo arrivo era stato accolto con molta gioia e non si
parlava
d’altro. Forse perché era straniero, o per via del
suo accento, o del suo viso
d’angelo, non ne sapevo il motivo. Sapevo solo che il
pomeriggio successivo
tutte e tre le mie amiche si erano piazzate davanti alla finestra di
camera mia.
Osservavano
Klaus girare tranquillamente in mutande, forse ignaro di essere spiato
o forse
compiaciuto proprio per quello.
“Ho
sentito che è stato il ragazzo di una delle cugine di
William d’Inghilterra”
bisbigliò Caroline, quasi fosse convinta che Klaus ci
potesse ascoltare.
“Spero
per lui che tu non ti riferisca a una delle figlie della
Ferguson” commentò
Meredith, che tra tutte era la meno agitata da quella vista mozzafiato.
“Com’è
possibile che girino già queste voci? È arrivato
solo ieri sera” considerai.
“Siamo
a Fell’s Church. Il potere dei gossip è
inarrestabile” fu la risposta di
Meredith.
“Era
così curiosa di vederlo!” esclamò Elena
“Stefan voleva presentarmelo, ma non
c’è stata occasione. Non ho insistito, non volevo
dargli un’impressione sbagliata”.
“In
effetti è strano. Tu sei fidanzata” la
beccò Caroline.
“Non
sono cieca” precisò la bionda
“È un piacere per gli occhi”.
Ridacchiai,
allungandomi sul letto. Era talmente evidente che nella mia piccola
città non
accadesse mai nulla d’interessante. Quel povero ragazzo era
arrivato da un
giorno appena ed eravamo già lì a puntarlo come
squali.
“E
così
ci ha provato con te ieri?” s’incuriosì
Meredith, chiudendo con uno scatto le
tende per evitare distrazioni. Improvvisamente lo sguardo delle tre si
focalizzò
su di me.
“Non
ci
ha provato” contestai “Stava solo facendo lo
splendido”.
Dopo
averci riflettuto durante la notte, avevo concluso che avevo esagerato
la
situazione. Ero una sognatrice e tendevo a ingigantire le cose. Una
brutta
abitudine, considerando che venivo puntualmente riporta sulla terra in
maniera
piuttosto brusca.
“Deve
essersi spinto un po’ in là se Matt si
è dichiarato il tuo ragazzo” ragionò
Elena “Abbiamo parlato l’altro giorno: è
chiaramente pazzo di te, però siete
usciti solo una volta”.
“Lo
so
e sono completamente d’accordo”.
“Pensavo
volessi metterti con lui” si stupì Meredith.
“È
così, ma con calma” confermai.
“Chi
la
può biasimare?” s’intromise Caroline
“Tesoro, hai appena scoperto il fantastico
mondo del flirt. Non ti limitare proprio ora. Esplora. Quel pezzo di
figo lì di
fronte mi sembra un ottimo punto di partenza” mi
consigliò.
“Io
non
voglio un appuntamento con Klaus” obiettai.
“Chi
ha
parlato di appuntamento?”.
Meredith
sbuffò incredula “Care, forse Bonnie sta cercando
una storia seria” le fece
notare.
“Tutti
i ragazzi con cui sono uscita, aspettavano solo una cosa ed era
tutt’altro che
seria”.
“Beh,
forse se imparassi a tenere le gambe chiuse la prima volta che ti
portano a
cena” replicò Elena aggrottando la fronte in
un’espressione molto eloquente.
“Mi
stai dando della zoccoletta?” s’indignò
l’altra mia amica.
“Certo
che no!” negò Elena
“Però…Care, tu ti sottovaluti un
pochino”.
Era
vero.
Caroline
Forbes era una ragazza molto sveglia. Era impegnata in ogni
associazione della
scuola ed era anche attiva nelle iniziative organizzate dalla
città. I suoi
voti erano nella media, abbastanza buoni per l’ammissione in
diversi college,
senza contare una possibile
borsa di
studio per le cheerleader.
Era
una
maniaca del controllo, doveva assolutamente tenere sotto controllo ogni
aspetto
di ciò che la riguardava, dalle feste alla sua immagine.
Sapeva cavarsela,
sapeva adattarsi alle situazioni più formali, trattare e
relazionarsi con le
persone.
Non
era
né una fallita né una disadattata.
Eppure
si ostinava a puntare tutto sul suo aspetto fisico. Aveva sempre
preparato con
minuzia le sue campagne per l’elezione di reginetta come se
la sua vita
dipendesse da quello. Dio solo poteva immaginare che cosa non avrebbe
combinato
con l’avvicinarsi di “Miss Fell’s
Church”, il concorso di bellezza della città.
Non
aveva mai vinto e non si era mai abbattuta, ma mi domandavo quanto
avrebbe resistito
prima di esplodere.
Era
convinta che gli altri la vedessero solo come un
bell’involucro, niente di più.
Non si dava abbastanza credito. A volte credevo che fosse molto
più insicura di
me.
Ma
Caroline dissimulava molto meglio, fingeva di non curarsene. Non si
lamentava
quasi mai; avrei dovuto seguire di più il suo esempio.
Guardò
Elena di sottecchi. I suoi occhi urlavano “Tu
sei Elena Gilbert. Non tutti vengono adorati come una dea”.
Rimase zitta,
però.
Dopotutto
non si poteva recriminare niente a Elena, non usava mai quel potere e
nemmeno
lo voleva. Gli altri la ammiravano senza che lei ricercasse il loro
favore.
Era
un
talento naturale e inevitabile. Elena si poteva permettere tutto e
l’avrebbero
amata in ogni caso.
Caroline
aveva sempre sofferto la sua presenza, si sentiva soffocata, quasi
minacciata;
tuttavia era la sua migliore amica, non le avrebbe mai rinfacciato
né
rimproverato niente.
“Adesso
basta parlare di ragazzi” intuì Meredith
“Troviamo un argomento più
interessante”.
“Io
ne
ho uno! Avete visto l’ultima puntata di Geordie Shore*? Mi
sono sentita così
triste per Charlotte”.
Ecco
che era ritornata la cara, vecchia Forbes. Sempre così
meravigliosamente
frivola.
Meredith,
evidentemente troppo erudita per prendere solo in considerazione un
programma
come quello, le tirò dietro un cuscino.
Rimasi
a guardarle affascinata. Il discorso di Meredith era tremendamente
giusto.
Perché perderci dietro ai ragazzi, quando potevamo avere
anche altro dalla
vita?
Non
era
facile trovare un’amicizia come la nostra. Eravamo in quattro
e ci volevamo
bene in egual modo, ci conoscevamo fin da bambine, ci capivamo con uno
sguardo.
Capitava
che ci fossero delle incomprensioni, capitava che litigassimo, ma
niente ci
aveva mai tenute separate.
Avevamo
solo diciassette anni, quasi diciotto; era normale che cercassimo
l’approvazione altrui. Forse avremmo dovuto imparare a farne
a meno, però.
Se
me
lo avessero chiesto, non le avrei scambiate per Matt, o Klaus, per
nessun
altro.
Sapevo
che mi sarebbero rimaste accanto per tutta la vita, perché
io avrei fatto lo
stesso. Avevo tre anime gemelle, completamente compatibili non solo con
me, ma
pure tra loro. Avevo un migliore amico fantastico, era mio fratello,
era la mia
metà.
Se
avessi dato più credito a ciò che già
stava intorno a me, forse avrei smesso di
fare la ragazzina piagnona.
Forse
era proprio quello il primo passo.
Quel
martedì dopo Halloween mi ritrovai a studiare nel cortiletto
davanti alla mia
camerata del campus. Avevo sì deciso di lasciare
l’università, ma non avevo
niente di meglio da fare.
La
mia
ragazza era a scuola, i miei compagni seguivano le lezioni o scrivevano
tesine,
il mio migliore amico insegnava alla sua classe.
Ero
solo
e senza uno scopo e mi stavo annoiando.
Aveva
già finito gli esercizi dell’unità che
avevo studiato, probabilmente ero
perfino più avanti di Sage, senza neanche frequentare i
corsi.
Cercavo
disperatamente qualcosa con cui riempire la mattinata. Qualcuno rispose
al mio
richiamo: scorsi sopraggiungere una Jaguar rossa che aveva tutta
l’aria di
essere
quella di mio fratello.
Spalancai
gli occhi quando mi accorsi che il guidatore era Klaus, uno dei miei
cugini
inglesi. Ricordai improvvisamente che la sua visita era proprio
programmata in
quei giorni. Dopo la lite con mio padre, la rinuncia agli studi, avevo
dimenticato completamente ogni impegno che riguardasse la famiglia.
Andavo
abbastanza d’accordo con Klaus, sebbene lo guardassi sempre
con un certo
sospetto, perché non ero mai riuscito a capirlo del tutto.
Ci
assomigliavamo sotto certi aspetti, entrambi belli e affascinanti, un
po’ in
competizione. Tra i due, ero io il più irriverente; Klaus
aveva un modo di fare
più subdolo.
Insomma,
aveva una faccia di merda tale e quale alla mia, solo che lui la
nascondeva
meglio.
Posteggiò
la macchina e mi raggiunse, con un sorrisino strafottente che ricordava
troppo
il mio. Mi alzai e gli strinsi la mano con fare fraterno; dopotutto,
ero
contento di rivederlo.
“Scusami
se non mi sono presentato prima a casa; ma non mi avevano informato del
tuo
arrivo” gli spiegai, mentre mi risiedevo al tavolino.
Lui
m’imitò “Sì, ho notato
qualcosa di strano in casa. Quando ti ho nominato, tuo
padre mi ha riposto con un silenzio glaciale”.
“Divergenze
di pensiero” liquidai.
Klaus
squadrò il libro aperto di fronte a me. Alzò le
sopracciglia “Non hai l’aria di
uno che ha lasciato l’università”
commentò.
“Al
momento non avevo di meglio da fare” mi affrettai a cambiare
discorso “Hai già
visitato la città?”.
“Un
po’. Più che altro mi sono ripreso dal fuso
orario” disse “Ho conosciuto la tua
vicina di casa, Bonnie, giusto?”.
Io
annuii.
“Sai,
ci ho messo un po’ a fare il collegamento, ma alla fine ho
capitolo. È stata
lei a slogarti il polso, vero?”.
Avevo
solo tredici anni, ma ero sveglio.
Abbastanza
da riconoscere le regole
fondamentali della sicurezza.
Non
ero mai stato un ragazzino tranquillo.
Adoravo mettermi nei guai, soprattutto se significava far arrabbiare
mio padre.
Ma
non ero nemmeno completamente incosciente;
non mi lanciavo mai in qualche pazzia se non ero sicuro di uscirne
tutto intero.
Una
volta, qualche anno prima, per scommessa
avevo fatto un salto da un tetto di un edificio della mia scuola a un
altro;
erano molto vicini, sapevo di non rischiari nulla, perciò mi
ero buttato.
Nemmeno una mezz’ora dopo, il preside mi aveva trascinato nel
suo studio pronto
a chiamare mio padre.
Un’altra
volta avevo deciso di prendere una
vecchia moto dal garage dei miei cugini e fare un giro per le campagne
dell’Inghilterra. Una voltante della polizia mi aveva
inseguito, chiamata da
mio zio convinto che i ladri gliel’avessero rubata.
Ero
scavezzacollo, non imprudente. Sebbene
tutti perdessero tempo a rimproverarmi, io sapevo perfettamente cosa
stavo
facendo.
Perciò
capivo benissimo che arrampicarsi
sugli alberi, di sera, dopo un forte acquazzone non era proprio la
migliore
delle idee. Soprattutto se si indossa un vestitino leggero azzurro un
po’
lunghetto e delle ballerine di vernice rossa, nuove di pacca, con la
suola
ancora liscia e levigata.
Bonnie
non era una sportiva nata e non era
neanche molto agile. Si era lasciata condurre in
quell’impresa folle solo
perché mio fratello l’aveva convinta.
In
realtà non avrebbe mai ceduto se fossero
stati loro due soli, ma dato che c’ero anche io, Bonnie non
voleva sfigurare e
aveva deciso di fare la bambina coraggiosa.
Eravamo
appena tornati da un matrimonio di
una delle sue tante cugine. Ci avevano invitati perché
eravamo amici di
famiglia.
I
nostri genitori ci avevano lasciato tornare
a casa prima perché eravamo stanchi. Ovviamente mio padre mi
aveva affidato
quelle due pesti, dato che io ero il più grande.
Ora
li osservavo arrampicarsi sull’albero nel
giardino dietro casa nostra. Stefan era più avanti rispetto
a Bonnie, lei lo
seguiva un po’ a stento, incespicando ogni tanto.
I
rami erano ancora umidi e un po’ scivolosi,
non aiutavano certo la salita. Per il momento, comunque, non si erano
manifestati segni di particolare pericolo e li avevo lasciati fare.
Mi
ero steso su una delle sdraio del giardino
a giocare con il mio game boy. Volevo rimanere nei paraggi nel caso
fosse
successo qualcosa di grave.
Non
che m’importasse molto di loro, ma non
avevo alcuna intenzione di sorbirmi le ramanzine di mio padre.
Avevo
anche provato a fermarli all’inizio;
non mi avevano dato retta. Allora avevo deciso di non sprecare troppe
energie
per tenerli sotto controllo. Speravo proprio che qualcuno dei due si
sbucciasse
un ginocchio e si slogasse un polso, così avrebbero imparato
la lezione. A quel
punto, però, sarebbe stato solo colpa mia per non aver
badato a loro.
Mi
ero dunque trattenuto dal lanciare qualche
maledizione e mi auguravo che ritoccassero terra senza un graffio,
più che
altro per la mia di salvezza.
Mi
allentai il nodo alla cravatta, dato che
mi stava praticamente strozzando. Odiavo i matrimoni o gli eventi
formali di
qualunque genere.
Non
solo dovevo starmene tutto impettito ad
assistere a cerimonie noiosissime, dovevo pure sorridere e comportarmi
gentilmente con persone che avrei volentieri inseguito con il
lancia-fiamme.
Tutti
che venivano da me, mi toccavano le
guance e mi dicevano che ero cresciuto un sacco dall’ultima
volta che mi
avevano visto.
Lo
consideravo un commento davvero assurdo:
avevo solo tredici anni, ero un ragazzino. Certo che ero cresciuto, che
altro
avrei dovuto fare?!
Mio
padre naturalmente ci esibiva come i suoi
gioielli da collezione, quasi fossimo pezzi da esposizione, con una
menzione
speciale sempre per Stefan.
Il
mio povero fratellino trovava molto
divertente tutto ciò; era contento che papà fosse
così orgoglioso di lui.
Lo
seguiva con un sorriso innocente e
fiducioso, tirando in fuori il petto come per mostrarsi più
grande. Ogni tanto
mi guardava, speranzoso che anche io mi unissi alla parata. Rimaneva
sempre
deluso, perché appena potevo me la squagliavo il
più lontano possibile.
Udii
il telefono di casa squillare. Fui
veramente tentato di ignorarlo e continuare il mio livello. Spensi il
game boy
con un gesto seccato ed entrai.
Era
mio padre; voleva sapere se andasse tutto
bene e m’informava che stava per tornare. Risposi a
monosillabi e riattaccai.
Mi
affrettai a uscire nuovamente in giardino,
iniziando a chiamare mio fratello e la sua amichetta del cuore per
farli
scendere.
Non
mi ascoltarono.
“Forza,
venite giù, sono serio” ordinai.
“Sono
quasi arrivato in cima, Damon!” urlò
mio fratello.
“Non
m’importa! Sta tornando papà, se ti
becca lassù…” gli intimai.
“Non
ascoltarlo, Stefan” s’immischiò Bonnie
“È
geloso perché tu sei così in alto, mentre lui
è ancora a terra”.
Sbuffai.
Mi sentivo davvero un cretino a
gridare con il naso per aria “Sto morendo
dall’invidia” la canzonai, poi mi
rivolsi a mio fratello “Ti do dieci secondi per scendere o
salgo io e non ti
piacerà” lo minacciai. Sapeva che potevo fargli
molto male.
Lo
osservai guardare in basso, nella mia
direzione e convincersi definitivamente. Era un tale fifone; piuttosto
che
rischiare di prenderle da me, si sarebbe lanciato giù.
Quando
constatai che entrambi avevano
cominciato la loro discesa, mi voltai e feci per andarmene, ma una
frase mi
gelò il sangue nelle vene.
“Ehi
Stefan, scommetti che arrivo prima giù
io?”.
Ma
che diamine era preso a quella ragazzina?
Poco prima tremava all’idea di arrampicarsi e ora non vedeva
l’ora di rompersi
l’osso del collo?
Riportai
lo sguardo su quelle due piaghe.
Erano più o meno allo stesso livello, praticamente quasi
alla fine. Avevano
appena scampato il rischio di ferirsi seriamente, perché
dovevano tentare
ancora una volta la fortuna con una stupida gara?
“Non
montarti la testa, Bon Bon” la stroncai
“Ti chiamo uccellino ma non hai davvero le ali. Vacci
piano”.
L’effetto
fu l’opposto di quello sperato.
Offesa e indignata, mise il broncio e iniziò a scivolare il
più velocemente
possibile da un ramo all’altro per raggiungere terra prima di
Stefan e dare a
me una lezione.
Il
mio brutto presentimento si concretizzò
non appena vidi il suo piede fermarsi in una posizione instabile,
mentre lei si
calava con tutto il peso.
Nell’istante
successivo perse l’equilibrio.
Stefan urlò in preda al panico, ma era ancora
sull’albero, un po’ più in alto e
non poté fare nulla.
Io
corsi, slanciandomi in avanti, pregando di
afferrarla prima che si spaccasse la schiena al suolo. Non fu come nei
film,
non cadde tra le mie braccia con grazia.
Mi
volò addosso con tutto il corpo ed
entrambi finimmo a terra. O meglio, io ruzzolai sul terreno, lei
atterrò sul mio petto, togliendomi il
respiro per la botta.
Avvertii
un male acuto al mio polso sinistro,
quello aggrovigliato attorno ai suoi fianchi nel vano tentativo di
tenerla.
Stefan
ci raggiunse con un balzo e l’aiutò a
rialzarsi. Io rimasi a terra a massaggiarmi il polso dolorante.
“Ti
sei fatto male?” mi chiese.
“Secondo
te?” berciai, lanciando un’occhiata
furiosa a Bonnie.
Mio
fratello mi diede una mano a rimettermi
in piedi, giusto in tempo prima che una voce tuonasse alle mie spalle
“Che cosa
sta succedendo qui?”.
Mio
padre marciò verso di noi con passo
autorevole “Perché avete tutti i vestiti
sporchi?” si riferiva chiaramente al
terriccio e all’erba che si erano attaccati ai nostri
indumenti “E tu cosa hai
fatto al braccio?”.
Stavo
già elaborando una scusa convincente,
quando qualcun altro ci pensò al mio posto “Ci
scusi, signor Salvatore”
s’intromise la voce melodiosa di Bonnie “Stavamo
solo giocando e sono caduta.
Damon mi ha aiutato e si è fatto male”.
Restai
leggermente allibito. Quella ragazzina
aveva appena mentito, tralasciando la sua bravata, per farmi sembrare
l’eroe
della situazione?
Mio
padre parve bersela e comunque preferì
non indagare.
“Vieni
dentro che diamo un’occhiata a quel
polso” mi disse “Credo che sia meglio che tu vada a
casa Bonnie, tuo padre ti
sta aspettando” le consigliò. Fu il primo a
rientrare.
Lo
seguii a testa bassa, perché sapevo che
non l’avrei passata liscia comunque; ma venni fermato da un
leggero tocco
sull’altro polso.
Un
secondo dopo, Bonnie posò un velocissimo
bacio sulla mia guancia, mormorando un “Grazie” a
voce bassissima. Lo potei
udire giusto io che ero così vicino.
Poi
spiccò una corsa verso casa sua, in un
turbinio di capelli rossi.
Mio
padre
aveva esaminato velocemente il polso, decretando una leggera storta. Il
giorno
dopo mi ero svegliato con un braccio grosso e gonfio.
Al
pronto
soccorso mi avevano diagnosticato una brutta slogatura e mi avevano
steccato il
polso talmente stretto da farmi male.
Un’ora
dopo ero partito alla volta della Gran Bretagna, per raggiungere i miei
zii
nella loro tenuta estiva nelle campagne inglesi. I miei cugini mi
avevano preso
in giro per una settimana intera.
“Pensa
che l’avevo scambiata per la ragazza di Stefan”
disse Klaus, destandomi dal
quel ricordo.
Lo
fissai
scettico e liberai una risata un po’ cinica
“È difficile crederlo. Quando incontrerai
Elena te ne accorgerai. La sua bellezza è
inconfondibile”.
Klaus
piegò gli angoli della bocca all’insù e
scosse la testa.
“Perché
ridi? Mi trovi divertente?”.
“No,
Damon” negò “Però ho
l’impressione che tu scelga sempre la via più
scontata”.
Non
mi piacque
il suono di quell’affermazione, non mi piacque per niente.
Era
un
martedì particolarmente assolato per l’inizio di
novembre. Avevo deciso di
godermelo il più possibile prima dell’arrivo del
gelido inverno.
Stavo
leggendo
il saggio che avevo appena finito di scrivere per la professoressa di
inglese,
stesa sul mio dondolo, correggendo qua e là qualche errore o
frase.
Non
mi
accorsi assolutamente della figura che, elegante e silenziosa, si era
avvicinata fino a fermarsi davanti a me.
“Non
c’è
niente di meglio che osservare una ragazza immersa nei suoi
pensieri” commentò
una voce, marcata e riconoscibile.
Alzai
gli
occhi dal quaderno e il mio volto s’illuminò di un
sorriso forse un po’ troppo
contento “Ciao, Klaus” lo salutai “Ti
hanno lasciato solo?”.
“In
realtà sono appena tornato da Dalcrest; sono andato a
trovare Damon” mi
raccontò “Ora sto aspettando che Stefan porti la
sua ragazza a casa per cena. Me
la vuole presentare”.
“Elena
è un tesoro, stai tranquillo. Prega di non incontrare la sua
gemella, però,
quella è davvero
cattiva”.
Klaus
aggrottò
la fronte “Ha una gemella?”.
“Sì”
confermai “Sta con Damon, non te l’ha
detto?”.
Lui
scosse
la testa, poi sbuffò incredulo “I miei cugini
stanno con due gemelle!” esclamò “Quando
lo racconterò a mio fratello, non finirà
più di prenderli in giro”.
Io
strinsi
le spalle “Sono delle ragazze molto belle” replicai
“Suppongo che li riterrai
fortunati, quando le conoscerai”.
Si
sedette
accanto a me “Ho visto una foto di Elena in camera di Stefan.
Hai ragione, è
molto bella. Capelli d’oro, occhi color cielo” la
descrisse con espressione
annoiata “È la cosa più banale che
abbia mai sentito”.
Mi
voltai
parecchio stupita. Klaus non sembrava né affascinato
né colpito dall’immagine
della mia migliore amica. Non l’aveva ancora vista di
persona, ma era già un
fatto di per sé straordinario.
Probabilmente
era il primo che incontravo a essere immune al suo splendore.
“Ti
confesserò che nemmeno mi piacciono i capelli
biondi” rivelò, dopo aver preso
un mio boccolo rosso tra le dita.
Fu
un
gesto quasi casuale, ma abbinato al suo sguardo intenso, mi fece
rabbrividire.
Non
sapevo
dire per certo se avesse una sorta d’interesse per me oppure
no. Poteva essere
semplicemente il suo modo di comportarsi, eppure ero parecchio
lusingata dalle
attenzioni che mi aveva riservato in quei pochi giorni.
E
in
quel momento sembrava mi stesse dicendo che aveva un debole per le
rosse.
Potevo
morire lì!
“Mi
stavo chiedendo se fossi impegnata stasera”
s’informò.
“Stasera
hai la cena con Elena e Stefan” gli ricordai.
“Domani
sera?” propose “Potresti mostrarmi cosa combinate
qui in America dopo le nove
di sera”.
Ero
tentata
di rispondere affermativamente, poi l’immagine di Matt mi
balzò davanti agli
occhi. Non credevo che sarebbe stato molto contento se fossi uscita con
Klaus.
D’altra
parte avevo deciso di prendermela con calma con Matt per evitare di
rovinare la
nostra amicizia per nulla. Non avevamo mai parlato di stare insieme
seriamente,
non ci eravamo definiti una coppia, quindi non mi dovevo sentire
già legata a
lui.
In
fondo
era solo un’uscita innocente; non avrei fatto niente di male.
Klaus,
intanto, attendeva una mia risposta.
Il
mio
spazio:
Ragazze,
scusatemi enormemente per il ritardo. Purtroppo è un periodo
un po’ impegnato, perché
ho cominciato a scrivere la tesi e non go molto tempo per dedicarmi
alle
storie.
Comunque,
ho deciso che questa storia ha la mia priorità sulle altre,
perciò non vi farò
più aspettare così tanto.
Quindi,
vi presento Klaus! È un tipo che ha bene in chiaro quello
che vuole e riesce ad
avere subito una panoramica di quello che accade a Fell’s
Church.
Chissà
quali sono i suoi piani. Credete che sia veramente attratto da Bonnie
(anche se
l’ha conosciuta da pochi giorni) o sta facendo solo
l’amico? E soprattutto,
credete che le sue intenzioni siano oneste?
Una
piccola annotazione: quando vedete scritto sweetheart
significa che sta semplicemente calcando il suo accento
inglese (come fa
nella serie tv). Questi appellativo sono nel suo linguaggio comune e
proprio
non ce la facevo a tradurli in italiano. “Dolcezza o
tesoro”, non suonano allo
stesso modo.
Non
c’è
stato molto Bamon in questo capitolo.
È
da un
po’ che questi due o non si parlano o litigano, quindi ho
inserito il flashback
per sopperire a questa mancanza. Nella saga originale, Damon ha salvato
più e
più volte Bonnie; anche in questa storia accade lo stesso.
Sebbene non gli
piaccia, in un modo o nell’altro è sempre lui ad
aiutarla.
Bonnie,
invece, è rimasta subito affascinata da Klaus. Sempre nei
libri, lei viene
descritta come una ragazza romantica, particolarmente suscettibile alla
bellezza degli uomini. Anche in questo caso, ho mantenuto questo
particolare. Non
prendetela per una frivola, semplicemente è solo un
diciassette che arrossisce
quando il bello di turno le dedica attenzioni e la fa sentire speciale.
Ps:
nel
prossimo capitolo avremo molti momenti tra Damon e Bonnie!
Vi
ringrazio
tantissimo per il continuo supporto! Spero che vi sia piaciuto questo
pezzo!
Banner
di bumbuni.
Il
titolo è una storpiatura del film Il paziente inglese (The english
patient).
Buona
serata!
Fran;)
*Geordie
Shore, è la versione inglese di Jersey Shore. Sono reality
molto famosi negli
Stati Uniti.
|
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Capitolo 11 *** Blame it on the alcohol ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo undici: Blame it on the alcohol.
“I kissed a drunk girl
I kissed a drunk girl, yes I did
Kissed a drunk girl on the lips
I let my guard down
How could I have been so dumb?
Her eyes were open
I know I am not the one
I kissed a drunk girl
Why do I do these things I do to myself?
I kissed a drunk girl
I'm sure I could've been anybody else”
(I kissed a drunk girl-
Something Corporate).
Evidentemente
c’era qualcosa di sbagliato in me. Non trovavo altra
soluzione plausibile.
Caroline
mi avrebbe preso in giro fino alla fine dei miei giorni.
Avevo
rifiutato l’invito di Klaus.
Metà
della città mi avrebbe probabilmente invidiato e dato della
pazza, ma dentro di
me ero certa, dopo tutto, di aver agito nel modo migliore.
Non
sapevo se Klaus fosse interessato a me per davvero; di sicuro io ne ero
rimasta
colpita. Uscirci insieme non sarebbe stato corretto nei confronti di
Matt.
Sebbene
non avessimo ancora parlato della nostra relazione, non desideravo
né
compromettere tutto per una fantasia da bambina, né ferirlo.
Non
ero
il tipo che giocava con i sentimenti degli altri. Se Matt avesse
portato a cena
una ragazza, adducendo come scusa il fatto che la nostra era solo una
frequentazione, mi sarei arrabbiata da morire.
La
tentazione c’era. Klaus non solo possedeva un fascino fuori
dal comune e una
sicurezza non indifferente, emanava anche un’aria misteriosa,
mandava i
brividi. Non era come Matt, non era un bravo ragazzo e la cosa
m’intrigava
molto, mi lusingava.
Ma
finiva là, non andava oltre. Era semplicemente un fantastico
incentivo per la
mia autostima, alimentava i miei sogni; nient’altro.
Rimaneva, appunto, in una
dimensione d’immaginazione.
La
maggior parte delle mie compagne se ne sarebbero fregate, io invece mi
ritenevo
molto onesta e non mi sarei mai lasciata travolgere da una semplice
curiosità
di conoscere il brivido del pericolo. Considerando soprattutto che
avevo
conosciuto Klaus solo qualche giorno prima.
Era
perfino assurdo che stessi anche a pensarci.
Mi
sarei crogiolata un po’ per aver catturato
l’interesse di quel bell’inglese, lo
avrei ricordato e raccontato con piacere ai miei nipoti, me ne sarei
vantata un
po’.
Quello
in fondo mi era permesso.
Dovevo
assolutamente chiarire la questione con Matt e capire a che punto ci
trovavamo.
Mi risultava ancora un po’ difficile figurarmi in una coppia.
Ancor più mi
sorprendeva che qualcuno mi volesse come ragazza.
In
realtà in quei tre mesi passati, ero rimasta piuttosto
stupita dalle attenzione
che alcuni mi
avevano rivolto. Non ci
ero assolutamente abituata e mi sembrava uno scherzo.
Non
ero
cambiata così tanto dall’anno trascorso e il mio
atteggiamento era pressoché lo
stesso. Non comprendevo proprio che cosa avesse convinto i miei
compagni a
guardarmi in modo diverso, o più che altro ad accorgersi
della mia presenza.
Passò
un’altra settimana e io non trovai il coraggio di parlare
chiaro con Matt. L’occasione
si presentò quando Caroline mi annunciò che Tyler
stava organizzando una festa
a casa sua, tra liceali e universitari.
All’inizio
fui tentata di rifiutare, poi Matt mi chiese d’incontrarci
là per passare una
serata insieme. Mi feci forza e accettai. Non potevo rimandare in
eterno. Non
esisteva un momento giusto, ma preferivo sistemare le cose a una festa,
in
tutta tranquillità, piuttosto che a scuola tra una lezione e
l’altra.
Con
il
senno di poi, avrei fatto molto meglio a restarmene a casa.
Ormai
sembrava che Fell’s Church non potesse fare a meno delle
feste.
Questa
volta mi recai molto più volentieri a casa di Tyler. Era una
serata molto più
tranquilla e comoda. Non servivano abiti particolarmente eleganti,
potevo
presentarmi come più preferivo.
Caroline
lanciò uno sguardo un po’ schifato, notando il mio
abbigliamento dismesso, ma
non proferì parola. Dopotutto, avevo solo bisogno di vedere
Matt e parargli e
non avevo nessuna intenzione di agghindarmi troppo.
Mi
ero
preparata un bel discorso, studiato e calibrato. Quando dovevo dire
qualcosa di
importante, m’impappinavo, diventavo nervosa. Avere un
discorso già pronto mi
tranquillizzava molto. Era come un’interrogazione a scuola:
non poteva andarmi
male se avevo letto il libro fino allo sfinimento.
Avevo
ripetuto mille volte quel discorso, sapevo anche le espressioni da
esibire nel
momento più opportuno.
Santo
Cielo, iniziavo ad assomigliare in maniera inquietante a Caroline,
manica del
controllo! Mi spaventavo da sola!
Non
avevo altra scelta che pianificare ogni parola. Se Matt avesse
frainteso il
punto, mi sarei mangiata le mani per aver rovinato la mia unica
possibilità con
lui.
Il
problema era uno solo: avevo paura; per una marea di motivi che avevo
già
analizzato fino alla nausea, come l’inesperienza e
l’insicurezza.
Soprattutto
volevo capire se Matt fosse davvero intenzionato a stabilire una
relazione
seria o se avesse solo cercato di imporsi nei confronti di Klaus.
La
seconda ipotesi non era per nulla confortante.
Villa
Smallwood era piena zeppa di gente, la maggior parte già
molto alticcia. Caroline
si lanciò subito tra la folla.
Mi
mancò molto la presenza di Meredith ed Elena. Normalmente
aspettavano almeno un
po’ prima di attaccarsi a una bottiglia e di ballare sfrenate
in mezzo a tutti.
In
realtà, anche Caroline non era solita perdere il contegno
così in fretta, ma
quella sera sembrava voler spaccare il mondo.
Cominciai
a girare per le stanze, in cerca di Matt. Non vedevo l’ora di
togliermi quel
peso.
Fu
lui
a trovare me. Mi colse di sorpresa, afferrando il mio polso, e mi
attirò a sé.
Un attimo dopo ricevetti un bacio da mozzare il fiato, tanto da far
vacillare i
miei piani.
Matt
mi
aveva sempre trattato con estrema delicatezza; baci cos’
irruenti non erano
proprio nel suo repertorio. Mi colpì piacevolmente.
Quando
ci staccammo, rimasi in silenzio per quasi un minuto, allibita da quel
gesto.
“Scusami;
ho esagerato, non volevo spaventarmi” si allarmò.
“No,
no, no, no” lo tranquillizzai “Sono solo sorpresa.
A cosa devo
quest’accoglienza?”.
“Avevo
voglia di vederti” mi disse “Vieni! Andiamo a
prendere qualcosa da bere” mi
propose, spingendomi verso un’altra sala.
“Matt”
lo chiamai per attirare la sua attenzione “Ho bisogno di
parlarti di una cosa”.
Lo
guidai fino al giardino, dove sapevo che saremmo stati più
tranquilli e nessuno
avrebbe origliato. Ci sedemmo su una delle panchine vicino
all’ingresso della
grande villa coloniale.
“È
successo qualcosa di grave?” si preoccupò.
“No,
Matt, è solo una cosa che hai detto l’altro
giorno” sospirai “Quando Stefan ci
ha presentato Klaus, tu … ti sei presentato
come…”.
“Come
il tuo ragazzo” completò lui.
Mi
mordicchiai il labbro annuendo. Percepivo le mie guance colorarsi di
rosso.
“Non
è
che mi stia lamentando” chiarii “Ma ammetto che mi
ha presa alla sprovvista. Insomma,
non abbiamo mai avuto quel genere di discussione. Ci siamo appena dati
due
baci!” esclamai.
“Tre”
mi corresse Matt alludendo a quello di poco prima.
“Non
so
come si fa!” sbottai “È la mia prima
relazione ed è troppo presto per me.
Vorrei capire se questa cosa può funzionare, vorrei esserne
davvero sicura. E
se non andassimo d’accordo; e se rovinassimo la nostra
amicizia? Diventerebbe
un inferno! In più non voglio sembrare una ragazzina che
smania per averti e
che alla prima occasione dice sì. Io non sono una facile,
Matt Honeycutt.
Dovresti vergognarti per averlo solo pensato. E perché
diamine prendi già tutte
le decisioni?”. Il discorso si era cancellato dal mio
cervello. Faticavo
parecchio a tenere le mie idee ordinate. Ero esplosa come una bomba; i
miei
pensieri fluivano senza filtri attraverso la mia bocca. Mi sarei
tagliata la
lingua da sola.
Matt
mi
prese le mani e me le massaggiò nel tentativo di calmarmi
“Bonnie, non ti
agitare, okay? Va tutto bene” sussurrò
“Mi dispiace di averti messo così in ansia,
non era mia intenzione” si scusò “In
realtà la penso esattamente come te”.
Sgranai
gli occhi “M-ma, allora
perché…?” balbettai.
“Mi
sono ingelosito” raccontò “Quel tipo, il
cugino di Stefan, ti ha fatto un sacco
di complimenti, mi sembrava un po’ troppo interessato. Non mi
piaceva come ti
parlava. Volevo che sapesse che al momento non sei totalmente
disponibile”.
Quindi
il suo era stata solo un tentativo di chiarire la sua posizione.
“Oh”
mormorai un tantino delusa “Hai ragione, mi sto comportando
da stupida”.
“Questo
non toglie che io sarei pronto a iniziare una relazione con
te” continuò Matt
“Condivido tutti i tuoi dubbi, ma sono anche sicuro della mia
scelta. Io voglio
te, Bonnie McCullough, e non ho problema ad aspettarti
finché non ti convincerai
pure tu”.
Gli
sorrisi e sentii per la prima volta che tutto sarebbe andato bene. Mi
ero
preoccupata per niente. Temevo che le mie perplessità
avrebbero mandato tutto
all’aria, che Matt non sarebbe stato così
comprensivo. Avevo paura che dopo il
mio discorso mi avrebbe visto di nuovo come una bambina e non come la
donna che
stavo disperatamente cercando di diventare e invece Matt si era
dimostrato
perfetto come sempre.
“Adesso
vado a prendere qualcosa da bere” disse “Aspettami
qui”.
Non
mi
dispiacque rimanere sola per qualche minuto. Tutto procedeva come avevo
desiderato e mi godetti il momento, immersa nella quiete di quel
giardino.
La
musica arrivava soffusa dalla casa; gli altri invitati rimanevano tutti
dentro
per via del freddo di metà novembre. Io mi strinsi nella
giacca, ma trovai
stranamente piacevole l’aria che mi sferzava le guance.
Mi
sarei sentita soffocare tra le decine di persone che ballava
freneticamente per
la villa; soprattutto preferivo tenermi lontana da Caroline e dalla sua
smania
di festeggiare. Mi allettava molto di più l’idea
di starmene fuori a bere e a
chiacchierare con Matt, piuttosto che immergermi nel fracasso.
“È
la
scena più romantica cui abbia mai assistito”
commentò una voce alle mie spalle
“Che ci veda Matt in te, questo mi è ancora
oscuro”.
A
volte
pensavo che Katherine Gilbert non avesse una vita propria, dato che
s’impegnava
così arduamente a tormentare quella degli altri.
Dopo
il
brutto scherzo che mi aveva tirato la sera di Halloween, avevo provato
in tutti
i modi di evitarla. Ci ero riuscita fino a quella sera.
“In
realtà, mi piacerebbe sapere che cosa ci vedono tutti in te”
proseguì con un tono più acido del solito.
“Katherine,
per piacere, non ora” la pregai “Avevi detto che mi
avresti lasciato in pace se
fossi andata nel bosco” le ricordai.
“Avevo
detto che ti avrei lasciata in pace se avessi passato tutta la notte
nel bosco.
Se non sbaglio, il mio ragazzo ti ha tolto dai guai prima che
congelassi” mi
corresse.
“Stupida
io che ti ho dato retta” replicai, ammettendo le mie colpe.
Katherine
sbuffò “Vedi, è per questo che ti
considero ancora una bambina. Prendi una
decisione e non sei in grado di portarla fino in fondo. Mi sembra di
essere
tornata alle elementari, quando cercavi di copiare i compiti di
Meredith e poi
cancellavi tutto per paura che ti beccassero”.
“Cosa
ne vuoi sapere tu? Te ne sei andata cinque anni fa e non ha la minima
idea di
come sono cambiata io! Francamente non capisco nemmeno come mai sei
tornata.
Tua sorella non ti sopporta e quelli che chiami amici ti stanno accanto
solo perché
hanno paura. Forse dovresti smettere di giudicare la vita degli altri e
farti
un esame di coscienza”. Avrei volentieri aggiunto che il suo
ragazzo stava con
lei perché era la copia esatta del suo vero amore, ma mi
pareva una cattiveria
esagerata.
Katherine
indurì lo sguardo e non mi riservò la stessa
cortesia “Almeno nessuno dei miei
genitori mi ha mai abbandonata per seguire sogni di
grandezza”.
Quella
conversazione per me era più che conclusa. Mi rifiutavo di
ascoltarla riaprire
una ferita mai guarita. Giocare la carta di mia madre era davvero una
mossa
infima, degna delle sue spire da serpente.
Mi
alzai e la mollai lì. Spalancai le porte della casa e
ringraziai di essere
avvolta dal chiasso che fino a un momento prima stavo fuggendo.
Attraversai
l’ingresso, decisa a cercare Matt e a dimenticarmi quello
spiacevole incontro,
quando la voce di Katherine mi gelò sul posto.
“L’ho
vista, sai!” urlò per sovrastare il fracasso
“A Parigi, ho visto tua madre”.
Non
so
perché mi voltai. Sarei dovuta semplicemente correre via e
tapparmi le
orecchie, ma i piedi si erano incollati al pavimento. Una parte di me
moriva
dalla voglia di sapere che cosa ne fosse stato della donna che era
sparita
dalla mia vita tredici anni prima.
Mi
girai, con gli occhi che già si riempivano di lacrime, i
miei lineamenti
piegati in un’espressione incredula e spaventata.
Katherine
non provò un minimo di compassione; le sue parole uscirono
velenose e fredde,
tremendamente calcolate “Ora organizza sfilate per le grandi
firme francesi, è
un pezzo grosso” mi rivelò
“L’ho incrociata una volta ad un evento e mi
sembrava famigliare. Il mio agente poi mi ha detto chi era. Lei mi ha
vista da
lontana; un secondo dopo era scappata via; è quello che sa
fare meglio, no?” mi
chiese retoricamente.
Alcune
persone si erano zittite e ci fissavano incuriosite.
“Non
voleva farsi riconoscere, non voleva rischiare di farsi scoprire, non
voleva
essere trovata. T’immagini che disastro se suo marito si
fosse presentato con
figlie a carico?”.
Il
mio
cuore si era certamente fermato, non poteva sostenere un colpo del
genere.
“Brucia,
vero? Essere così d’impaccio alla donna che
dovrebbe proteggerti più della sua
stessa vita. Ti considerava talmente un ostacolo che ha messo un oceano
in
mezzo a voi”.
Non
sostenni più la vista di quella carogna e mi guardai attorno
in cerca di una
faccia amica. Avevo un disperato bisogno di qualcuno che mi
trasmettesse un po’
d’amore almeno con un’occhiata. Ma ero circondata
da estranei, volti visti
forse in giro, che bisbigliavano attoniti. Meredith, Elena e Stefan non
erano
venuti alla festa. Caroline sembrava scomparsa dal nulla e Matt non era
ancora
tornato.
Ero
sola.
E
non
mi sentii così persa come quella volta.
Finalmente
una festa cui mi faceva piacere partecipare. L’aveva
organizzata Tyler a casa
sua e aveva invitato praticamente tutta
l’università. Ci sarebbeo stati
sicuramente anche i ragazzini del liceo, ma almeno non mi sarei sentito
fuori
posto.
Ero
contento di poter passare una serata con i miei amici e con la mia
ragazza ed
ero ancor più elettrizzato per l’after party.
I
genitori
di Katherine erano via per il weekend e la casa era nostra.
Quando
oltrepassai la porta di villa Smallwood, avvertii subito qualcosa di
sbagliato.
L’atmosfera appariva tipica di una festa: gente che ballava,
bicchieri rossi*
pieni di alcol, un gran chiacchiericcio a riempire l’aria.
Eppure potevo
fiutare una certa tensione.
“L’ho
vista, sai! A Parigi, ho visto tua madre”. Questa era la voce
di Katherine;
l’avrei riconosciuta tra mille.
Mi
feci
largo tra la folla che si era accalcata lungo l’ingresso,
fino a che non
raggiunsi il centro delle scena.
“Ora
organizza sfilate per le grandi firme francesi, è un pezzo
grosso. L’ho
incrociata una volta ad un evento e mi sembrava famigliare. Il mio
agente poi
mi ha detto chi era. Lei mi ha vista da lontano; un secondo dopo era
scappata
via; è quello che sa fare meglio, no?”.
Katherine
aveva visto la mamma di Bonnie? Perché cazzo non me
l’aveva detto?
Non
ero
mai stato un mostro di bontà, men che meno di
sensibilità, ma in quel momento
qualcosa si mosse in me, mentre osservavo quella piccola rossa
spalancare sempre
più gli occhi ricolmi di lacrime. Non avrei mai
più rivisto uno sguardo tanto
triste.
“Non
voleva farsi riconoscere, non voleva rischiare di farsi scoprire, non
voleva
essere trovata. T’immagini che disastro se suo marito si
fosse presentato con
figlie a carico?”.
Per
quasi tutto il discorso ascoltai incredulo quelle parole. Amavo
definirmi un
uomo d’azione e parecchio impulsivo, eppure il tono tagliente
della mia ragazza
aveva bloccato ogni movimento del mio corpo e della mia mente.
Faticavo
a credere che una tale meschinità potesse provenire da quel
volto d’angelo. Katherine
continuò a infierire, affondando una stoccata dopo
l’altra sempre più in
profondità, animata da una vena feroce che quasi
m’impressionò.
“Brucia,
vero? Essere così d’impaccio alla donna che
dovrebbe proteggerti più della sua
stessa vita. Ti considerava talmente un ostacolo che ha messo un oceano
in
mezzo a voi”.
Bonnie
era l’immagine della mortificazione. Mi figurai un cucciolo a
terra, preso a
sassate per divertimento e non lo trovai per niente divertente.
Nemmeno
mi accorsi di aver compiuto qualche passo in avanti. Registrai solo
l’espressione atterrita di Katherine mentre il mio biasimo si
mostrava in tutta
la sua potenza.
“Finiscila
adesso. Hai già dato abbastanza spettacolo”. Non
urlai né alzai la voce di una
nota; gli altri attorno non mi udirono neanche. Era la mia assoluta
calma a
spaventarla, troppo imperturbabile e calibrata per rappresentare un
buon segno.
Le
indicai con un cenno del capo la porta, invitandola a uscire. Lei
ubbidì
subito.
Mi
voltai, ma non trovai più Bonnie. Sospirai, perfettamente
cosciente che il
danno ormai era irreparabile.
Seguii
Katherine in giardino e questa volta la mia frustrazione
scoppiò senza che
riuscissi a trattenerla “Che cazzo ti è salato in
mente?”.
Cercò
di rabbonirmi con uno dei suoi sorrisi da finta innocente “Mi
stavo solo
divertendo”.
“Divertendo?” ripetei incredulo
“L’hai
appena fatta a pezzi!”.
Non
pensava di venire sgridata in quel modo; lo capii dal sopracciglio che
si alzò
incredulo e infastidito. Recuperò in fretta la sua sicurezza
“Non mi farai la
morale proprio tu?!”.
“Sei
andata troppo oltre questa volta” replicai
“Così, davanti a tutti…”.
“Damon,
tu non hai nemmeno il diritto di parlare! Non tu che sei disposto a
romperle il
cuore in due per vendicarti di tuo fratello”.
Il
ragionamento era piuttosto lineare e corretto, ma non vi badai.
Persistetti con
la mia idea; ero troppo furioso per come aveva trattato
quell’argomento così
delicato e non avevo riguardo per nient’altro.
“Tu
non
hai lontanamente idea di quello che hai fatto! Non sai che cosa
significa
crescere senza un genitore o ancora peggio essere abbandonato. Lascia
che te lo
dica: fa dannatamente male!” esplosi.
“Al
contrario
di quello che pensi, so perfettamente cosa si prova a essere messi da
parte”
ribatté stringendo i pugni.
“I
tuoi
non ti farebbero mai una cosa del genere, perché ti vogliono
un fottuto bene;
ma sei troppo viziata e invidiosa di tua sorella per accorgertene! Ti
lamenti
come una bambina capricciosa”.
“Fantastico!
Sei passato da difendere quella mocciosa a difendere la mia
gemellina”.
“Non
sviare il discorso” l’avvertii minaccioso.
“E
tu
non mi dire cosa fare. Non ho bisogno del tuo permesso per umiliare
Bonnie
McCullough. La disprezzi quanto me, quindi non ti ergere a suo cavalier
servente perché non sei credibile” si
attorcigliò una ciocca tra le dita “E poi
ti ho appena dato l’occasione d’oro per far breccia
nel suo cuore. Perché non
vai a consolarla? Scommetto che si scioglierebbe tra le tue
braccia” ipotizzò
ghignando furba “Oppure possiamo lasciare questa festa per
perdenti e andare a
casa mia”.
Scossi
la testa d’istinto “Non mi va di averti intorno
stasera” la stroncai. Le diedi
le spalle e la piantai in asso senza aggiungere altro. Non avrei
tollerato la
sua vista ancora a lungo.
Rientrai
in casa. Katherine provò a seguirmi, ma non me ne curai. In
altre circostanze
mi sarei mostrato cinico e indifferente, mi sarei perfino congratulato
con la
mia ragazza per la sua mente diabolica.
Quel
caso, però, mi toccava profondamente. Mia madre non mi aveva
abbandonato, era
morta, un po’ diverso dalla situazione di Bonnie.
Ciò non significava che non
capissi il vuoto lasciato da quella mancanza. Dopotutto, mio padre mi
odiava e
se non fosse stato per Stefan, forse se ne sarebbe andato anni fa.
Non
era
assolutamente da me provare una tale empatia per quella rossa
fastidiosa, ma
quella sera non lo potei evitare. Non c’entrava la scommessa,
non me ne stavo
approfittando, volevo solo che ritornasse a essere la solita mocciosa
irritante, così avrei potuto tormentarla come meglio sapevo
fare e soprattutto quello
sguardo da cagnolino ferito non
avrebbe più tormentato me.
La
cercai tra le sale della grande villa, senza fortuna. Doveva essersi
rifugiata
da qualche parte a piangere, magari in una delle stanza non aperte alla
festa.
Adocchiai
Sage venirmi incontro. Non avevo molta voglia di perdermi in
chiacchiere;
tentai di evitarlo, ma mi agguantò per un braccio. Poco
lontano da noi, Matt
Honeycutt girava con due bicchieri, scandagliando con attenzione la
sala. Era
chiaro chi fosse l’oggetto delle sue ricerche. Considerai che
lui probabilmente
l’avrebbe confortata molto meglio di me.
“Va
tutto bene?” mi chiese Sage.
“Certo,
perché?” risposi distrattamente.
“Ho
sentito che c’è stato qualche problema con
Katherine”.
“Sarà
successo neppure dieci minuti fa!” esclamai meravigliato
“Si è già sparsa la
voce?”.
“Dicono
che si è presa per i capelli con Bonnie” mi
riferì.
“Sempre
i solito esagerati” sbuffai “Ha solo fatto la
stronza”.
“Questo
spiega molte cose”.
“Tipo?”.
Ero sempre meno interessato a quella conversazione.
“Tipo
la piccola rossa che balla come una forsennata sul divano”.
Solo
allora mi accorsi che Matt osservava con cipiglio due ragazze in piedi
sul sofà
di velluto, scalze, saltare e agitarsi. Una era Caroline,
l’altra era Bonnie e
aveva una bottiglia di tequila in mano, per metà vuota.
Quella
era decisamente una scena cui non mi sarei mai aspettato di assistere.
“Ricordi
quando Tyler ci ha detto che Bonnie era diventata figa e
sexy?” mi domandò
Sage.
Annuii
meccanicamente.
“Potrei
anche dargli ragione adesso. Insomma, è un piacere vederla
così disinibita”
commentò “Il problema è che quella non
è una ragazza che si sta divertendo, è
una ragazza che sta chiedendo aiuto”.
A
volte
mi stupivo dell’acutezza che il mio amico mostrava in certe
situazioni.
Mi
trovavo di fronte alla classica sbronza per dimenticare e non ne
sarebbe venuto
niente di buono, già lo prevedevo.
Caroline
era conciata anche peggio e Matt sembrava piuttosto irritato da quel
comportamento. Nessuno aveva notato che qualcosa si era rotto in lei.
Stefan
in occasione come queste risultava veramente utile, ma ovviamente
aveva deciso di non presentarsi.
Sembrava
proprio che io e Sage fossimo gli unici in quella stanza a renderci
conto della
realtà delle cose. Un gran bel paradosso, dato che eravamo
uno più
irresponsabile dell’altro.
“Che
bomba di festa!” commentò Tyler, circondando le
nostre spalle con le sue
braccia “Dovrei farlo più spesso”, poi
ci guardò con sospetto “Voi due siete
sobri?”.
“Gli
unici a quanto pare” replicai bieco. La scena che si stava
svolgendo su quel
sofà non mi piaceva per niente.
Conoscevo
troppo bene gli effetti di una delusione del genere e affogare i
dispiaceri
nell’alcol era la mia specialità. Bonnie stava
seguendo alla lettera il mio
esempio.
Preferivo
stare nei paraggi e controllare che non combinasse nulla di stupido. Mi
stavo
comportando in modo totalmente contradditorio; quello non ero io, non
avevo
l’abitudine di badare alle liceali. Avevo addosso una strana
inquietudine che
m’impediva di rimanere calmo come al mio solito.
Forse
ero preoccupato, forse quella sera la mia coscienza aveva deciso di
farsi un
po’ più insistente del normale; il motivo non mi
era ben chiaro e non indagai
oltre per evitare di scoprire lati di me che sarebbe stato meglio
lasciare
nascosti.
La
mia
serata perfetta era ormai rovinata e non mi restava altro che fissare
quella
ragazzina mentre perdeva totalmente il controllo nel vano tentativo di
dimenticare.
Qualcuno
avrebbe dovuto farle notare che non sarebbe servito molto: dopo una
sbronza, i
problemi aspettavano in silenzio, pronti a ricomparire la mattina
successiva.
Tyler
si allontanò di qualche metro da noi per rispondere al
cellulare. Tornò poco
dopo con una faccia bianca come un cadavere.
“Mi
ha
appena chiamato il mio amico della centrale della polizia. Hanno
ricevuto una
chiamata per schiamazzi. Stanno venendo a controllare qui”.
“Sta
volta non c’è la marijuana in giro,
vero?” si accertò Sage senza avvedersi del
problema che si agitava davanti a lui.
“No
ma
c’è una marea di alcol e una marea di
liceali” ribatté Tyler.
“Ti
devi disfare delle bottiglie” risolsi io con
semplicità.
“Sbarazzarmi dell’alcol?”
ripeté lui come
se fosse una bestemmia.
“O
butti fuori tutti quelli che non hanno l’età per
bere. A occhio e croce, direi
la metà degli invitati. La prossima volta impari a invitare
i ragazzini delle
superiori”.
Tyler
ci rifletté un paio di secondi, poi corse a spegnere la
musica. Dei lamenti
sconnessi si levarono dalla folla.
“Ascoltatemi
tutti!” urlò salendo su una sedia “Fate
sparire tutte le bottiglie! Avete
cinque minuti prima che piombi qui la polizia e … ehi tu, ho
detto fare sparire e non bere!”
s’infervorò non appena notò un tizio
che si era attaccato a
una bottiglia, desideroso di eseguire l’ordine.
Al
nome
della polizia, iniziò un fuggi fuggi generale di tutti gli
studenti sotto i
ventun anni che non volevano rischiare di finire dei guai.
Fu
a
quel punto che mi accorsi dell’assenza di Bonnie.
“Cazzo”
imprecai “Dov’è andata?”.
“Chi?”
chiese Sage “La piccola rossa? Non lo so”.
Neanche
lo ascoltai finire la frase. Incominciai a perlustrare le altre stanze.
Potevamo anche ripulire la casa di tutti gli alcolici, ma se la polizia
avesse
trovato qualcuno di ubriaco, sarebbero stati guai seri**. Specialmente
per quel
qualcuno.
Finalmente
la individuai, appoggiata a un muro, con gli occhi chiusi.
“Bonnie”
la chiamai avvicinandosi.
Lei
alzò
le palpebre “Questo è un incubo” disse
riabbassandole.
“Cosa?”.
“Ce
ne sono
due … di te”.
Bene,
era già arrivata al punto di vedere doppio. La sua parlata
era un po’
strisciata.
“Damon!”
proruppe alle mie spalle Sage “La polizia è appena
arrivata. Che cosa ci fa ancora
qui?” si agitò quando si
accorse della presenza non proprio sobria di Bonnie “Portala
via prima che la
scoprano! Esci dal retro” mi suggerì.
Non
potevamo sapere se i poliziotti sarebbero entrati a perlustrare la casa
o se
avrebbe effettuato solo un veloce controllo. Era meglio far sparire
ogni prova,
per sicurezza.
Tirai
Bonnie per un braccio, ma quella si divincolò e mi
sfuggì “Devo aspettare
Caroline” protestò.
Sospirai
rumorosamente nella speranza di darmi una calmata o le avrei torto il
collo.
“Fanculo
Caroline” digrignai. Non avevo né tempo
né pazienza, così la sollevai di peso e
me la caricai sulle spalle.
“Non
molto ortodosso ma approvo” considerò Sage, mentre
ci muovevamo verso la porta
sul retro.
“Che
f-fai?” si dimenò Bonnie, tirandomi qualche debole
pugno sulla schiena.
“Ti
salvo il culo; ancora”
sottolineai.
Uscimmo nel grande parco che circondava la villa; Sage mi
salutò e tornò
dentro.
“Mettimi
giù”. Non stava ferma un attimo e cominciava a
rendermi molto nervoso.
Smisi
di camminare e la scaricai a terra come un sacco di patate. Mi piegai
su di lei
puntandole il dito addosso “Non ho nessun problema a mollarti
qui, uccellino. Ci penserai tu a
spiegare a
quei poliziotti e a tuo padre come tutto quest’alcol sia
finito nel tuo corpo”.
Mi
lanciò un’occhiata truce, ma parve infine
sottomettersi. Provò ad alzarsi. Non
era conciata così male come credevo; si mise in piedi e
mosse qualche passo
incerto.
“Hai
intenzione di barcollare fino alla mia macchina?” le chiesi.
Se avessi seguito
il suo ritmo, ci avremmo impiegato due ore; perciò le passai
un braccio intorno
alla vita e la condussi alla mia Ferrari.
L’aiutai
a sedersi, poi presi posto accanto a lei, sul sedile del guidatore.
Abbassai il
vetro del suo finestrino. Un po’ di aria fresca le avrebbe
prima di tutto
schiarito le idee e in secondo luogo le avrebbe impedito di vomitare
nel
prezioso abitacolo della mia auto.
Il
viaggio fu breve e silenzioso, credetti perfino che Bonnie si fosse
addormentata.
Quando
parcheggiai di fronte a casa sua, lei non mosse un muscolo. Aveva il
viso
rivolto alla finestrino e gli occhi chiusi.
Allungai
una mano per scuoterla leggermente, ma la sue parole mi fermarono.
“La
tua
ragazza è una stronza” mormorò.
Puoi
dirlo forte.
“Dovresti
lasciarla”.
Aspetta
e spera.
Ci voleva qualcosa di ben più grave per separarmi da
Katherine.
“Forse
hai solo paura di restare solo”.
Mi
girai di scatto verso di lei. La sua voce era ancora impastata e mezza
assonnata,
probabilmente non sapeva nemmeno che cosa stesse dicendo. La sua
affermazione
mi turbò comunque. Non ero io ad aver bisogno di una
psicoanalisi quella sera.
“Perché
stai zitto?”.
Da
ubriaca
era anche più irritante del solito.
“È
ora
di metterti a letto, Bonnie” le suggerii.
Finalmente
si degnò di guardarmi in faccia e puntò i suoi
grandi occhi nei miei “Non è
sempre così, vero? Prima o poi passa?”.
Immaginai
che mi stesse chiedendo della delusione bruciante sulla nuova vita di
sua
madre. E chi meglio di me era un esperto di genitori negligenti?
No,
di solito va peggio.
Quella era la mia risposta sincera.
“Tra
una settimana non te lo ricorderai neanche più”
mentii, invece.
Annuì
debolmente. “Devo andare” annunciò
all’improvviso, aprendo la portiera per
catapultarsi fuori.
Mi
affrettai a imitarla. Aveva le gambe ancora molli e
l’agguantai appena in tempo
prima che finisse a terra. Il suo precario equilibrio mi persuase a
prenderla
in braccio per evitare spiacevoli e imbarazzanti cadute.
Una
mano dietro la sua schiena e una sotto alle ginocchia e la sollevai. I
nostri
volti si avvicinarono di parecchio, ma non vi feci caso fino a che non
notai il
suo sguardo fisso sulle mie labbra.
“Che
c’è, uccellino? Vuoi un bacio?” la
stuzzicai.
Scosse
i riccioli rossi “Pensavo solo…” e
arricciò il naso poco convinta “Hanno detto
che io e te ci siamo già baciati”.
“Ah
sì?” stetti al gioco, credendo fosse uno scherzo
“E quando? Nei tuoi sogni?”.
Mi
colse alla sprovvista. Se mi fossi accorto prima delle sue intenzioni,
mi sarei
certamente spostato. Allungò con uno scatto repentino il
collo e posò la sua
bocca sulla mia.
Il
contatto tra le nostre labbra mi trasmise una strana sensazione e mise
in
discussione la considerazione che avevo appena formulato. Forse no,
non mi sarei
spostato.
Fu
bello per quel poco che durò; e quasi mi scoprii triste al
pensiero che non
avrei più avuto il pieno diritto di farlo a mio piacimento.
“No”
borbottò Bonnie mentre il suo capo ricadeva pesantemente
sulla mia spalla “Non
sei tu. Quello che ricordo io, baciava meglio”.
Arcuai
le sopracciglia scettico e offeso.
In
quel
momento la porta di casa si aprì e la figura di suo padre
comparve minacciosa
sulla porta.
Il
mio
spazio:
Buon
sabato a tutte!
Finalmente
sono riuscita a completare questo capitolo che mi stava particolarmente
a
cuore. Chissà perché!
Allora
che
ne dite, mi sono riscatta per tutti i capitoli in cui Damon e Bonnie
hanno solo
litigato?
Forse
la storia dell’abbandono della mamma di Bonnie risulta un
po’ melodrammatico, ma
l’ho pensata così fin da subito. L’idea
è ispirata a un episodio di Hart
of Dixie, in cui viene presentata
una situazione simile.
Come
vi
avevo già anticipato, la questione
“mamma” è ciò che
più unisce i protagonisti
di questa storia. Non si sopportano ma non possono fare a meno di
consolarsi
quando uno o l’altra sta male per la mancanza della propria
madre.
Una
cosa
volevo precisare: nonostante ciò che è successo
in questo capitolo, Bonnie
rimarrà sempre sulla difensiva con Damon, a volte in maniera
molto irritante. Sarà
lui a inseguirla per una volta!
E
Katherine?
Parecchio stronza, possiamo dirlo. Forse gli occhi dolci non le
basteranno. E penso
proprio che scriverò anche una scena con Elena.
Bonnie
ha rifiutato l’invito di Klaus, ma il nostro inglese non
desisterà molto
facilmente.
Poi
c’è
anche la questione della scommessa; Damon deve iniziare a darsi da fare
se
vuole vincere.
TVD
è
finito! =(
Mi
manca la mia dose di vampiri settimanale. Che vi è parso del
finale?
A
me
nel complesso è piaciuto molto, in particolare per
Silas/Stefan. Sono davvero
contenta che Paul Wesley abbia questa occasione, perché con
Stefan è stato
messo in ombra in questa stagione.
Il
momento
che ho odiato? Beh, mi sembra chiaro. COME SI SONO PERMESSI DI UCCIDERE
BONNIE
BENNETT?????
Io
forse sono un po’ di parte, ma trovo che le abbiano dato una
dipartita davvero pietosa
. È avvenuta in silenzio, senza che nessuno se ne
accorgesse. Strano, tra l’altro,
che una squadra di vampiri non abbia notato che il suo cuore non
batteva.
L’unico
testimone è Jeremy e qui potrei aprire una parentesi lunga
un chilometro. Mi limiterò
a dire che, se proprio dovevano far fuori l’unica strega
della città, avrebbe
potuto riportare indietro Alaric, invece del piccolo Gilbert.
Non
ho
niente contro Jeremy, ma lo trovo abbastanza inutile e noioso.
Bene,
gente, la prossima stagione ci ritroveremo una Bonnie fantasma che
può
comunicare solo con Jeremy. Strano, vero? Non
abbiamo mai visto scene insieme tra queste due. -_-
Ma
sono
positiva e sono comunque felice, perché hanno mostrato che
Bonnie, per quanto
possa risultare a volte un po’ saccente, è
comunque un’ottima amica, altruista
e leale. Spero solo che se ne accorga qualcuno lì dentro.
Dopo
il
mio sfogo, di cui giustamente non ve ne frega niente, vi saluto e vi
auguro un
buon weekend!
Ci vediamo presto con Would
you hold it against me?
Bacioni
e grazie mille per il continuo supporto!!
Il
titolo è un’espressione comune americana.
L’ho presto dal titolo dell’episodio
2X14 di Glee.
Il
banner è di Bumbuni.
*Non
chiedetemi perché, ma negli Stati Uniti pare che esistano
solo questi grossi
bicchieri rossi. Pensavo fosse una cosa solo dei film, e invece ho
appurato con
i miei occhi che nelle feste ci sono solo quelli.
**
Negli U.S.A è vietato dalla legge bere alcol sotto i ventun
anni. Sono
piuttosto rigidi nei controlli, ma non so fino a che punto. Nei film e
telefilm, vedo spesso che i poliziotti entrano spesso in casa, anche
senza
mandato, per verificare che i minorenni non stiano bevendo, ma prendete
quest’informazione
con le pinze.
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Capitolo 12 *** The hangover ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo dodici: The hangover.
“You, with your switching sides
And your wildfire lies and your humiliation
You have pointed out my flaws again
As if I don’t already see them
I walk with my head down
Trying to block you out ‘cause I’ll never impress
you
I just wanna feel okay again”
(Mean-
Taylor Swift).
“Ciao,
papa” lo salutò Bonnie con voce strisciata,
alzando una mano a fatica.
C’erano
momenti in cui avrei davvero desiderato tagliarle la lingua.
Il
signor McCullough mi adorava e non avevo nessuna intenzione di perdere
la mia
immunità per colpa di questa piccola screanzata.
“Che
cos’è successo?” domandò
perentorio l’uomo.
Valutai
l’idea di rivelargli il motivo di
quell’ubriacatura, ma mi frenai. Non avevo il
diritto di sganciare una tale bomba, soprattutto senza esserne sicuro.
Tornai a
comportarmi come il vecchio me e mi approfittai della situazione.
“L’ho
trovata in questo stato” spiegai “Ho pensato di
portarla a casa prima che
combinasse qualche guaio”. Era una mezza verità,
in fin dei conti.
Non
ebbi problemi a tirarmene fuori. Io non avevo colpe e lei avrebbe
chiarito con
suo padre il giorno successivo, passata la sbornia. Forse si sarebbe
beccata
una bella punizione, ma la considerai un’ottima cosa; almeno
avrebbe smesso di
cacciarsi nei guai. Cominciava a diventare faticoso aiutarla ogni volta.
“Ti
ringrazio, Damon” disse il signor McCullough, spostandosi per
lasciarmi
entrare. Bonnie finalmente si era addormentata, con la testa appoggiata
alla
mia spalla.
Lui
la
guardò preoccupato.
Mi
affrettai a tranquillizzarlo “È solo una sbronza.
Domani mattina si sveglierà
con una bella emicrania, niente di più”.
“Non
capisco. Mia figlia non si è mai ubriacata” si
accigliò, evidentemente deluso
“Le è accaduto qualcosa di male?”.
“Non
che io sappia” risposi subito “Non se la prenda,
signor McCullough. C’è chi ha
fatto di peggio” lo smorzai un po’, mentre salivamo
in camera della ragazza. La
posai sul letto ancora vestita. Non accennò a svegliarsi, si
girò su un lato e
continuò a dormire “E sono sicuro che non ci
riproverà più”.
“Su
questo sono d’accordo. La chiuderò in casa fino
alla laurea” risolse l’uomo
“Non so come ringraziarti, Damon. Sono contento che sia stato
tu a riportarla a
casa”.
“Nessun
problema” gli strinsi la mano e lo salutai. Quando fui
lontano dal suo campo
visivo, scossi la testa compiaciuto: normalmente quando un ragazzo
riportava a
un padre la figlia totalmente ubriaca, non veniva innalzato come eroe
della
serata.
Ma
io
ero Damon Salvatore e il signor McCullough mi amava alla follia. Non
avevo mai
pensato ai vantaggi che avrei potuto ottenere; quello rappresentava di
certo un
enorme passo avanti nella mia scommessa.
Conquistato
il padre, il lavoro si riduceva alla metà.
Una
volta spezzato il cuore di sua figlia, probabilmente sarei uscito dalle
sue
grazie, ma che me ne importava? Un danno collaterale come un altro.
Saltai
in macchina e guidai fino al campus. Mi chiesi se Sage fosse tornato.
Non era
molto tardi, potevamo andare a prenderci una birra e concludere un
po’ meglio
la serata.
Afferrai
il cellulare posto sul sedile accanto al mio.
“Ma
che
caz-?”.
Avevo
tra le mani un telefono, non il mio.
Doveva
essere di Bonnie; magari le era scivolato dalla tasca lungo il
tragitto. Per un
attimo fui tentato di girare la macchina e restituirglielo, ma mi venne
in
mente un’idea migliore.
Scesi
dall’auto e raggiunsi la mia stanza. Solo qualche minuto
prima mi avrebbe
infastidito trovarla vuota, adesso ringraziavo che Sage fosse ancora
fuori.
Mi
stesi sul letto e mi rigirai quel cellulare tra le mani. Sapevo di aver
guadagnato dei punti con la buona azione di quella sera, ma potevo
puntare
molto più in alto.
Scrissi
il messaggio quasi con trepidazione, ripetendomi mentalmente le parole
che
avevo ideato nel tragitto per salire in camera mia.
Quando
finii di digitare, cercai il numero cui volevo spedirlo. Aveva un
cuoricino a fianco;
storsi il naso disgustato e lo selezionai.
Esitai
appena prima di premere il pulsante ‘invio’. Era
una cosa saggia mandarlo?
Non
m’importava molto di essere scoperto, al massimo avrei dovuto
sorbirmi una
bella scenata e le possibilità di conquistare Bonnie si
sarebbero ridotte a
zero. D’altra parte, poteva pure andarmi bene. I miei piani
di norma
funzionavano sempre, anche nei casi più scontati.
Non
fu
l’unico pensiero che mi fermò, perché i
miei propositi si congelarono al
ricordo di quella ragazzina mortificata, con gli occhi spalancati.
Aveva
ricevuto un brutto colpo quella sera e comprendevo il suo dispiacere al
punto
di dubitare delle mie stesse azioni.
Una
scommessa stretta con un mio amico valeva quanto la ferita che avrei
causato a
quella povera anima già abbastanza martoriata?
Il
mio
ego reclamava una rivincita, l’astio verso mio fratello
pretendeva una
vendetta, ma per la prima volta mi soffermai un attimo a riflettere.
L’idea non
mi appariva più così allettante.
Senza
contare che anche Katherine si aspettava chiaramente di ottenere
qualcosa da
quel gioco e non avevo nessuna voglia di concedergliela
finché non avessi
capito il motivo.
Tutto
ciò che mi spingeva in precedenza, ora sembrava attenuare la
sua forza.
Probabilmente avrei pure deciso di lasciare perdere, se un altro tarlo
non mi
si fosse infilato prepotente in testa.
Era
scattato tutto con quel bacio.
Mi
sentivo una femminuccia, eppure quel semplice gesto mi aveva smosso
qualcosa. Non
era niente di romantico o cazzate varie, si trattava più che
altro di un certo
fastidio.
Non
mi
turbava di aver baciato una ragazza non mia, avevo fatto ben di peggio
con
ragazze già impegnate. Tutte loro si erano buttate
spontaneamente tra le mie
braccia, avevano tradito i loro fidanzati senza porsi troppi problemi,
non
erano riuscite a resistermi.
Bonnie
no.
Bonnie
era ubriaca e farneticava.
Bonnie
con
molte probabilità mi disprezza pure.
Era
la
prima volta che baciavo qualcuno che nelle sue piene facoltà
mentali mi avrebbe
tirato uno schiaffo capace di girarmi la faccia.
Quello
mi irritava.
Forse
si era anche immaginata che al mio posto ci fosse Matt, per quello
aveva
parlato di un altro bacio scambiato in precedenza. Non vedevo altra
soluzione,
perché mi sarei ricordato di una cosa simile.
In
sostanza avrei potuto essere chiunque e lei non si sarebbe nemmeno
accorta
della differenza.
Quello
mi fece incazzare, parecchio.
Di
nuovo la mia coscienza venne offuscata dal mio orgoglio.
Inviai
il messaggio.
Quando
piano piano il sonno mi abbandonò, temetti la mia testa
fosse stata percossa
brutalmente con una mazza da baseball.
Così,
appena sveglia, non trovai altra soluzione plausibile.
Non
solo le tempie mi dolevano come se qualcosa me le battesse
dall’interno, ma le
mie orecchie fischiavano e il mio stomaco sembrava sottosopra.
Avvertii
la stoffa fresca del cuscino sfiorarmi la guancia. Istintivamente mi
tuffai con
tutto il volto, in cerca di un po’ di sollievo. Per un
momento mi sentii
meglio, ma durò poco.
Se
una
mia amica mi avesse raccontato i sintomi, avrei subito pensato a una
sbronza;
nel mio caso, però, non era possibile perché io
non bevevo quas-
Scattai
a sedere e mi pentii subito di quella pessima mossa. La mia stanza
tremolò a
destra e sinistra, leggermente indietro e infine si
stabilizzò.
O
cavolo.
Fu
il
primo pensiero sensato che formulai.
Non
potevo più negare la realtà dei fatti: stavo per
affrontare i postumi di una
bella sbornia.
Ora
dovevo solo capire dove me l’ero presa e perché.
Quei punti mi risultavano
ancora un po’ oscuri e soprattutto sfocati.
Prima
cosa: alzarsi dal letto.
Seconda:
buttarsi una secchiata d’acqua gelata in faccia.
Terza:
cercare di chiarire tutta la confusione che mi girava per la mente.
Completai
le prime due azioni senza grandi problemi; riuscii perfino ad abbinare
una
maglietta a un paio di pantaloni.
Quando
arrivò il momento di riordinare le idee, cominciai a
incontrare qualche
difficoltà. Scesi al piano inferiore per fare colazione.
Volevo prendere un bel
caffè e farmi una lunga camminata; mi pareva
l’idea migliore per darmi una
svegliata e affrontare con una mente più fresca il mio
problema.
Trovai
ad attendermi mio padre. Non vi badai molto; lo salutai con un bacio
sulla
guancia e andai a prepararmi il caffè.
Lui
si
schiarii la voce, ma ancora una volta quasi non me ne accorsi, o lo
ignorai spontaneamente,
non saprei dirlo.
Al
quarto colpo di tosse mi voltai un po’ scocciata e finalmente
non potei più
evitare la realtà dei fatti: mio padre appariva furioso e
c’era un unico motivo
che poteva spiegare quell’umore così pessimo.
Ebbi
la
netta impressione di essere in guai seri.
“Com’è
andata ieri sera?” mi domandò.
“Bene”
risposi, forse un po’ troppo in fretta. Aggiunsi qualcosa per
recuperare “La
solita festa. Non sono tornata tardi, mi ha riaccompagnata
Caroline”.
Mio
padre mi guardò duramente poi sospirò
“Non credevo di aver cresciuto una figlia
bugiarda” commentò.
Rimasi
di sasso. Mi aveva beccata? Sarebbe stato tutto molto più
chiaro, se la mia
memoria non si fosse resettata.
“Papà
…” incominciai incerta.
“Mi
reputi davvero così stupido?” mi
ribeccò subito “Ti presenti ubriaca alla
porta, tanto da non reggerti in piedi e adesso provi a
ingannarmi?”.
“Io
non... è successo solo una volta” mi difesi, senza
sapere bene dove
appigliarmi.
“Ti
ho
trovato perfino in casa sola con un ragazzo e non mi avevi neanche
avvertito!”.
“Matt
era
passato per vedere come stavo. È entrato solo un momento e
se ne stava già
andando quando sei arrivato tu! Stefan è stato qui un sacco
di volte e non ti
sei mai arrabbiato” gli rinfacciai.
“Stefan
non è interessato a te in quel senso”
replicò.
“Ho
quasi diciotto anni. Credo di avere il diritto di invitare un ragazzo a
casa
mia”.
“Con
il
mio permesso sì”.
“L’altra
volta non era voluto, te l’ho già detto”
ripetei a denti stretti.
“Non
mi
piace come ti stai comportando” mi gelò
“Ti ho sempre considerata una ragazza
responsabile, non me l’aspettavo proprio. Stamattina ho
incontrato il padre di
Tyler, mi ha detto che la polizia ha fatto dei controlli alla festa. Tu
non hai
ventun anni, potevi finire veramente nei guai. Se Damon non ti avesse
portato a
casa…”.
“Damon?”.
La domanda uscì spontanea e stupita.
“Non
te
lo ricordi nemmeno?” mio padre scosse la testa sconsolato
“Sei in punizione per
due settimane” decretò.
“Cosa?!”.
“Niente
uscite, niente telefono o televisione. Due ore al giorno di computer e
solo per
i compiti. Per i prossimi quindici giorni vedrai solo questa casa e la
scuola”.
“Ma
non
è giusto!”.
“Ringrazia
che non sia un mese”.
Strinsi
i pugni lungo i fianchi e marciai fuori dalla cucina, nella mia camera.
Sbattei
la porta.
Non
ero
mai stata una gran bevitrice, l’alcol non mi piaceva. Mi era
già capitato di
accettare un bicchiere di vino a cena, ma niente di più.
Doveva
essere accaduto qualcosa
di davvero
grave se avevo buttato giù così tanto alcol da
non ricordarmi nemmeno chi mi
avesse riaccompagnato a casa.
Mi
stesi sul letto e provai a ripercorrere la serata; magari avrei
scoperto la
ragione, se fossi ripartita dall’inizio.
Ero
andata alla festa per cercare da Matt. Avevamo parlato e lui aveva
capito le
mie esitazioni, aveva detto che mi avrebbe aspettato. Era andato a
prendermi da
bere e poi era apparsa Katherine.
Saltai
quasi giù dal letto.
Katherine.
Perché
quel nome aveva risvegliato in me una strana inquietudine?
Aveva
sibilato qualcuna delle sue solite cattiverie, non ci avevo fatto molto
caso
finché…
Tutto
mi ritornò improvvisamente in mente.
“L’ho
vista, sai. A Parigi, ho visto tua madre”.
Così
aveva detto. Il resto era caduto completamente nel dimenticatoio.
Incominciai
a respirare affannosamente e la stanza mi parve restringersi. Dovevo
uscire,
dovevo parlare con qualcuno.
Guardai
d’istinto la casa di fronte. Mio padre mi aveva impedito di
uscire, ma non
m’importò molto in quel momento.
Corsi
giù in salotto e lo trovai vuoto. Forse non era
più in casa e neanche me n’ero
accorta. Colsi l’occasione e mi precipitai fuori. Attraversai
la strada ed
entrai come un tornando in casa Salvatore. La signora Flowers mi
osservò
stranita e non mi fermò.
“Stefan”.
Quasi
non mi resi conto di urlarlo. Quando arrivai nella
sua stanza, il mio amico mi aspettava già, preoccupato dal
mio tono, con gli
occhi spalancati.
Lo
raggiunsi in un attimo. L’intenzione era di
abbracciarlo, ma quando mi trovai a pochi centimetri da lui, potei solo
riempirgli il petto di piccoli pungi.
“Non
ti permettere mai più” gli intimai “Non
osare mai
più lasciarmi sola a una festa. Tu
non
puoi lasciarmi sola; sono stufa della gente che lo
fa”.
Lui
corrugò la fronte e mi prese i polsi, allontanandomi
leggermente “Bonnie? Che
cos’è successo? Qualcuno ti ha fatto del
male?” si allarmò.
“Sì,
tu” risposi tirando su con il naso
“Perché non c’eri”.
Stefan
piegò la testa di lato, confuso. Potevo solo immaginarmi
dove stesse correndo
la sua fantasia, dopo avermi visto piombare in camera sua, in lacrime e
sconvolta.
“Va
bene, Bonnie” mi disse e mi prese il volto tra le mani nel
tentativo di
calmarmi “Mi stai uccidendo con questa attesa. Qual
è il problema? Se qualcuno
ti ha toccato, giuro che…”.
Scossi
la testa: aveva frainteso tutto “No” mugugnai
“È colpa di Katherine”.
“Cioè?”
m’incalzò, mentre mi guidava lentamente verso il
letto per farmi sedere.
“Non
so
perché è così cattiva nei miei
confronti, io non le ho fatto niente”
piagnucolai. La scena doveva risultare molto comica
dall’esterno, peccato che
rasentasse il tragico.
“Mi
ha
mortificata davanti a tutti, non si è impietosita neanche un
po’. Come si può
essere così meschino su un argomento del genere?”.
“Qualunque
cosa sia non devi ascoltarla. Katherine si diverte a ferire gli altri.
Non vale
neppure il tuo tempo” provò a consolarmi.
“Ha
detto di aver visto mia madre a Parigi. Ora organizza sfilate per le
grandi
firme, è una persona famosa in Francia. Se
n’è andata perché io ero solo un
intralcio”.
Tra
tutto ciò che potevo rivelare, quello di certo Stefan non se
lo sarebbe mai
aspettato. Contrasse i lineamenti, per nascondere il dispiacere e la
rabbia.
“A
Katherine piace manipolare le persone. Probabilmente è una
delle sue tante
bugie” affermò in un vano tentativo di trovare una
spiegazione che non mi
facesse così male.
“Anche
se fosse?” replicai “Non cambia le cose. Mia madre
mi ha abbandonato perché non
ero abbastanza”.
Avevo
passato tutta la mia vita a chiedermi se in qualche io avessi
contribuito al
suo allontanamento, se ne fossi in parte responsabile, dato che proprio
non
riuscivo a comprenderne il motivo e ora mi accorgevo che la risposta
era sempre
stata davanti a me.
Non
m’importava scoprire se Katherine stesse mentendo oppure no;
non avrei riavuto
indietro mia madre in ogni caso. Lei non voleva fare la madre.
Quindi,
a che mi serviva scoprire dove si trovasse veramente? Non era insieme a
me, che
cos’altro dovevo conoscere?
Non
mi
resi conto che Stefan mi aveva abbracciato fino a che non sentii una
stoffa
umida contro la mia guancia: era la sua maglia bagnata dalle mie
lacrime.
Ero
così dannatamente stufa di piangere ogni volta, ma non
potevo trattenermi.
Dopo
tutti gli anni non avere una mamma era diventata una routine; tendevo a
ignorare la cosa. Non potevo accettarla, perciò cercavo di
non pensarci. Non mi
ero mai fermata un attimo ad analizzare quello che provavo.
All’inizio ero
troppo piccola per capire e poi mi
ero rifiutata di capire.
Avevo
perfino sperato di vederla tornare, come se si trattasse di una
situazione
momentanea e provvisoria.
La
discussione con Katherine mi aveva aperto gli occhi; più che
altro me li avevi
strappati a giudicare dal dolore.
In
casa
non se ne parlava mai. Mary l’aveva cancellata dalla sua vita
e mio padre
conservava il
ricordo di sua moglie come
un gioiello che doveva essere nascosto e rinchiuso in cassaforte e che
sarebbe
rimasto lì, segregato, per sempre.
Loro
aveva accettato l’abbandono, io no. Ne ero terrorizzata,
perciò mi ero
rifiutata di affrontarlo.
Eppure
era la triste verità: mia madre se n’era andata e
non sarebbe più tornata
indietro. Mia madre non mi voleva. Non esisteva un modo migliore per
ingoiare
quella pillola.
Bisognava
cacciarsela in gola, a forza e mandare giù. E fu quello che
feci con il groppo
che si era appostato all’inizio della bocca, impedendomi di
formulare parola
sensate.
Singhiozzai
per ancora qualche minuto, buttai fuori tutta l’amarezza e la
delusione e
finalmente mi calmai.
Faticavo
a distinguere che sensazione mi aveva lasciato quello sfogo; forse era
rabbia o
mortificazione, tristezza. Una sorta di grigia malinconia che mi
svuotò
totalmente.
“Lo
dirai a tuo padre?” mi domandò titubante Stefan.
“No”
risposi con convinzione “Questa è
l’ultima volta che ne parlo”.
“Fai
bene” concordò Stefan “Ci rimarrebbe
troppo male e non sai nemmeno se è vero”.
“Potrebbe
essere dovunque, non me ne frega niente. Non è rimasta con
noi e non ha il
diritto di renderci ancora tristi dopo così tanto
tempo”.
“Scusami,
Bonnie. Avrei dovuto essere lì con te” si
dispiacque Stefan, poggiando il suo
capo contro i miei capelli.
“Adesso
sei qui” ribattei con tono pacato e mi strinsi più
a lui “Ti voglio bene,
Stef”.
“Ti
voglio bene anch’io” sussurrò.
Uscii
da quella camera e percepii che la mia angoscia si era ridotta di
parecchio e
potei tirare un sospiro di sollievo.
Quando
Stefan mi era vicino, tutto si volgeva sempre in una prospettiva meno
tetra.
Non ci servivano molte parole, bastava uno sguardo o un minimo di
contatto.
Se
la
sera prima mi avesse accompagnato alla festa o mi avesse anche solo
stretto la
mano, probabilmente non avrei nemmeno toccato un bicchiere di vino.
Mi
ero
trovata sola, invece, contro Katherine. A quella rivelazione mi ero
sentita
come se il pavimento fosse scomparso da sotto i miei piedi e tuttavia
non ero
riuscita a cadere, a scomparire.
Costretta
a stare sotto gli occhi di tutti gli indiscreti, avevo sopportato la
peggiore
umiliazione della mia vita, e la più dolorosa.
In
fin
dei conti, però, ero sopravvissuta. E sarebbe stato stupido
da parte mia
permettere a Katherine, a mia madre e a tutti gli egoisti come loro di
rovinarmi la vita.
Fu
così
che decisi di cancellare dalla mia memoria la donna che mi aveva
generato,
almeno per quanto potei. Me la buttai finalmente alle spalle e mi resi
conto
che sarei diventata qualcuno di grande senza il suo aiuto.
Aveva
fatto carriera, ma rimaneva una fallita e una codarda e non la volevo
come
termine di paragone, come modello. Mi vergognavo di averla giustificata
così a
lungo.
Amavo
Stefan, lo amavo come un fratello. Lo amavo perché era una
parte di me, una
parte senza cui non potevo vivere. Lo amavo perché un suo
abbraccio mi aveva
fatto capire tutte quelle cose. Sapevo di aver lo stesso valore per lui.
Quindi
al diavolo mia madre e i suoi sogni di gloria, al diavolo Katherine e
la sua
vanità ferita.
Io
non
ero sola. Non ero sola.
Aprii
la porta della mia camera e il primo istinto fu di richiuderla.
No,
chiudere non era il termine adatto.
Desideravo
fortemente sbatterla sul dannato muso che mi stava di fronte e rompere
quel
visino perfetto che stregava tutti. Volevo frantumare quella nauseante
perfezione.
“A
che
cosa devo la visita, fratellino?” gli chiesi un po’
annoiato “Non dirmi che ti
manco”.
Stefan
mi superò ed entrò in camera. Non perse tempo in
strani giri di parole, andò
dritto al punto. Il che mi sorprese; non ricordavo l’ultima
volta che si era
dimostrato così spavaldo nei miei confronti. Ma, in questa
occasione, aveva un
buon motivo.
“Ieri
sera eri alla festa di Tyler?” si accertò.
Annuii
distrattamente.
“Sai
che cos’è successo?”. Non era una
domanda, era un’accusa.
“Scommetto
che non vedi l’ora d’illuminarmi”.
“Bonnie
si è ubriacata” disse con lo stesso tono
tremendamente serio.
“Che
cosa tenera! Sei venuto a raccontarmi della sua prima
sbronza”. Mi era
perfettamente chiaro la ragione che lo aveva spinto a venire fino al
campus per
stanarmi, ma adoravo prenderlo in giro e fare il finto tonto.
“Non
meno di un’ora fa era a casa nostra a piangere”.
“Di
solito non piange mai” commentai con uno sbuffo.
“Devi
tenere a freno la tua ragazza, Damon”
m’intimò mio fratello. Tutto quel
teatrino era piuttosto seccante, eppure non riuscii a buttare fuori
Stefan,
come avrei fatto in altre circostanze. Aveva ragione: Katherine aveva
esagerato, bisognava rimetterla al suo posto. Ma l’idea che
qualcuno mi desse
degli ordini, mi mandava in bestia.
“Quello
che è accaduto la notte di Halloween è tutta
colpa sua” continuò lui.
“Non
ti
aspetterai che la metta in punizione perché la tua amica
è stata così stupida
da ascoltarla. Forse dovresti riferire questa conversazione ai signori
Gilbert”.
“Non
è
solo per Halloween. Se ieri eri alla festa, sai sicuramente che cosa le
ha
rivelato” ne dedusse Stefan.
Gli
diedi le spalle.
“Ne
eri
già a conoscenza?”.
“No,
Stefan” mi esasperai “Katherine ha deciso di
sganciare la bomba con effetto a
sorpresa. Non ne avevo idea. L’avrei fermata ma non ne ho
avuto il tempo. È
inutile piangersi addosso. A Bonnie passerà in
fretta”.
“Com’è
passata a te?” mi provocò Stefan.
Stava
solo cercando di difendere la sua amica e in un certo senso lo
rispettavo per
questo, però non potevo accettare che tirasse in ballo le
mie faccende
personali. Aveva sempre sofferto la mancanza della mamma meno di me,
perché non
l’aveva mai conosciuta e non sapeva davvero che cosa
comportasse quella
perdita.
“Trovo
commuovente che tu sia venuto fin qui convito che la cosa
m’interessasse” lo
schernii “Ora vattene, però”.
“Gliela
fai passare liscia?” si stupì “Damon, ha
oltrepassato il segno questa volta”.
“Non
vedevi l’ora che lo facesse, vero? Non vedevi l’ora
di atteggiarti da eroe”.
“Come
puoi essere così insensibile?” si
costernò “Nemmeno su questo argomento mostri
un po’ di comprensione?”.
“Te
l’ho già detto, fratellino, non sono suo padre.
Non ho alcun potere su di lei”
gli ricordai.
“Cazzate!”
esclamò “Sei Damon Salvatore, ti vanti sempre di
essere il padrone del mondo.
Tu hai quel potere, ma non vuoi usarlo”.
Normalmente
era una teoria che valeva per tutti, tranne che per Katherine. Lei non
poteva
essere domata e sinceramente mi piaceva così.
“Io
non
me ne starò fermo senza fare niente”
dichiarò deciso “Avverti la tua ragazza di
darsi una regolata, perché non le permetterò
più di ferire la mia migliore
amica”. Abbandonò la stanza sbattendo la porta.
Per
poco non mi cadde la mascella. Mio fratello non si era mai mostrato
così sfrontato
in vita sua, almeno non con me.
Nel
silenzio della mia camera, scoppiai a ridere. Da mesi non avevo una
conversazione decente con mio fratello e ci eravamo ritrovati a parlare
proprio
di Bonnie. Decisamente non era qualcosa che avrei potuto prevedere.
Era
ammirevole l’attaccamento alla sua migliore amica. Nonostante
nutrisse un certo
timore nei miei confronti, era comunque venuto a fronteggiarmi per
difenderla.
Sapeva che ero l’unico in grado di mettere un freno a
Katherine.
La
lealtà che legava mio fratello a Bonnie mi sorprendeva ogni
giorno di più e da
un lato m’irritava pure.
Nell’economia
del mio piano, quello rappresentava un bell’ostacolo:
l’uccellino non avrebbe
mai ceduto, consapevole di quanto odiassi il suo amichetto del cuore.
Non
poteva stare con qualcuno che disprezzava Stefan con la mia
intensità.
L’unico
modo per convincerla a darmi almeno una possibilità era
cambiare totalmente
strategia. Fino a quel momento avevo puntato solo un mio fascino e
sulla faccia
tosta che inspiegabilmente piaceva tanto alle altre ragazze; ora dovevo
trasformarmi in un ragazzo dolce e compassionevole, abbastanza maturo
da
lasciarsi alle spalle il passato. Prima cosa: fare qualcosa di carino
per mio
fratello; seconda: assicurarsi che Bonnie ne venisse a conoscenza.
E
avevo
giusto in mente un’idea geniale.
Mi
prepari per uscire. Avevo ancora il suo cellulare, lo avrei usato come
scusa
per andare a trovarla. Nel mettere in atto il mio piano, avevo anche
l’occasione di verificare che stesse bene.
Con
Stefan mi ero atteggiato da indifferente, ma quella vicenda mi aveva un
po’
turbato. Nemmeno io sarei stato capace di infierire su un argomento di
tale
delicatezza. Odiavo nutrire quella
sorta
di empatia nei confronti di Bonnie, ma non potevo evitarlo.
Come
avevo considerato la sera prima, non vedevo l’ora che tutto
tornasse come al
solito, che quella brutta faccenda venisse gettata via, così
magari avrei
finito di provare compassione verso quell’insulsa ragazzina.
Ancora
un volta mi dissi che dovevo togliermi certe espressioni dalla testa o
non
sarei mai riuscito a conquistarla.
In
macchina guardai più volte, piuttosto compiaciuto, il
cellulare posato sul
sedile accanto a me. Mi ero premurato di cancellare il messaggio
precedentemente spedito e mi augurai che il destinatario fosse fesso
come avevo
sempre pensato e che non andasse a chiedere spiegazioni. Una bella
ferita
nell’orgoglio, di solito, era la miglior arma per troncare un
rapporto.
Parcheggiai,
presi il telefono e mi diressi alla porta di casa McCullough. Sperai
che non
venisse ad aprirmi il padre di Bonnie. Nonostante avessi riportato sua
figlia
ubriaca, mi vedeva ancora come un eroe, ma preferivo non tirare troppo
la
corda.
Inaspettatamente,
sulla soglia comparve proprio la persona che stavo cercando.
Mi
salutò allegra e sorridente. E mi lasciò di
stucco.
“Uccellino”
dissi stupito “Ti sei ripresa” constatai. Non
credevo di trovarla moribonda, ma
almeno un po’ provata dalla sbornia o triste per la notizia
su sua madre.
“Pensavi
che mi rinchiudessi in camera mia ad ascoltare Mean
piangendo?” mi rispose ironica.
Beh,
sì.
“Sono
passato per accertarmi che stessi bene” spiegai, colto alla
sprovvista.
Lei
alzò le sopracciglia, scettica. Chi poteva biasimarla? Non
era certo tipico di
me mostrare così tanta premura.
Stranamente
non mi attaccò né mi cacciò via.
Tirò un altro mezzo sorriso e parlò “Ti
devo
ringraziare…un’altra volta”
osservò.
“Non
ce
n’è bisogno. Non mi ha dato fastidio farti da
autista, ma non ti ci abituare”
scherzai. Da una parte stavo recitando il ruolo del ragazzo gentile,
dall’altra
ero rimasto piacevolmente meravigliato dalla dolcezza con cui mi aveva
accolto.
“Oh,
sì
anche per quello” confermò “Ma in
realtà intendevo … grazie di avermi difeso con Katherine”.
Tentennò alla
parola ‘difeso’. Effettivamente sembrava
così strana e azzardata.
“Sai,
i
ricordi stanno tornando a pezzi” mi raccontò
“Ho ancora dei buchi, ma ricordo
che ti sei messo in mezzo a noi e l’hai fermata”.
La
sua
sincerità mi spiazzò; cominciai a sentirmi un
attimo a disagio. Mi domandai se
ricordasse anche il bacio che mi aveva dato.
Tenni
quel commento per me. La nostra conversazione era partita fin troppo
bene,
volevo evitare di rovinarla con una battutina che l’avrebbe
mandata su tutte le
furie.
“In
realtà, sono venuto anche per riportarti questo” e
le porsi il cellulare “Ti
dev’essere caduto mentre eravamo in auto”.
“Santo
Cielo, l’ho cercato dappertutto!”
esclamò sollevata “Credevo di averlo
perso”.
Adesso
era giunto il momento del pezzo forte. Sapevo che l’avrei
stesa con la prossima
richiesta; non poteva rifiutare.
“Bonnie”
la chiamai “Ho un favore da chiederti” confessai
“Ho ordinato un regalo per il compleanno
di Stefan. Devo andare a ritirarlo direttamente in un negozio ad
Atlanta e mi
chiedevo se volessi accompagnarmi. Non è che io conosca
così bene Stefan, ho
bisogno di un consiglio”.
“Hai comprato un regalo per Stefan?”
ripeté basita.
Perfino
io mi rendevo conto dell’assurdità di quella frase.
“Il
suo
compleanno è tra più di un mese”
obiettò.
“Arriva
dall’Europa, dovevo sbrigarmi” chiarii.
“Damon,
non posso accompagnarti. Sono in punizione per due settimane”
ammise.
Ringraziai
mentalmente suo padre; almeno in casa non poteva provocare molti danni.
“Facciamo
tra due settimane allora” proposi “Il regalo resta
lì, non se lo porta via
nessuno. E se non va bene, faccio sempre in tempo a cambiarlo. Non
vorrai che
il compleanno del tuo migliore amico venga rovinato da un pessimo
regalo”
provai a convincerla.
“Va
bene” accettò, anche se non molto convinta
“Ma al primo insulto o battutina,
scendo dalla macchina, chiamo un taxi e torno indietro” mi
minacciò.
“Mi
comporterò come un vero gentiluomo” le promisi.
Prima
fase del piano: completata.
Ora,
dovevo solo cercare un regalo per Stefan e assicurarmi che arrivasse ad
Atlanta
nel giro di due settimane. Dall’Europa.
Che
cazzo potevo prendergli?
Il
mio
spazio:
Chiedo
umilmente venia. Sono in ritardo sparato, lo so =(
Questa
settimana
ha avuto due esami e la tesi mi sta facendo diventare matta,
perciò ho dovuto
rimandare un po’ tutto il resto.
E
soprattutto
mi presento con un capitolo in cui non succede niente; che vergogna!
Comunque,
vi prometto che recupererò nel prossimo. Sapete quanto adoro
le gite fuori
città, perché comportano sempre cose interessanti!
Vi
anticipo
subito un dettaglio sul compleanno di Stefan: dato che, nella storia,
ci stiamo
avvicinando a Natale (qui fa un caldo boia e io vi parlo di Natale, va
beh!),
ho deciso che il suo compleanno sarà il 31 dicembre. Lo
faccio più che altro
per evitare di inserire in ogni capitolo una festa, perché
alla lunga stanca e
diventa poco verosimile. Quindi diciottesimo di Stefan e capodanno
tutto nello
stesso giorno. Che accadrà?
Ora
vi
lascio due quesiti.
A
chi
ha mandato il messaggio Damon? (Questa è facile).
E
secondo
voi, Bonnie si ricorda del bacio e sta facendo finta di niente?
Bene,
ora arrivano le note dolenti: nella settimana del 24 giugno
aggiornerò la mia
storia nel fandom del telefilm, quindi dovrete aspettare un
po’ prima di avere
un nuovo capitolo di questa.
Mi
dispiace molto, ma poi mi concentrerò (giuro) su questa long
e su Would you hold it against me?
Vi
ringrazio
tantissimo per il continuo supporto; siete meravigliose, davvero!
Spero,
comunque, che questa capitolo vi sia piaciuto e che mi lascerete
qualche
commentino XD
Il
banner è di Bumbuni.
La
canzone Mean è
sì di Taylor Swift, ma
personalmente la preferisco nella versione di Glee, quindi se
c’è qualcuno di
voi che non ha una grande stima di questa cantante come me, magari
apprezzerà
quella cover.
A
presto! Grazie mille ancora!!
Fran;)
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Capitolo 13 *** Road to Debussy ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
tredici: Road to Debussy.
“There's something sweet
And almost kind
But he was mean and he was coarse and unrefined
But now he's dear, and so unsure
I wonder why I didn't see it there before”
(Something there- da ‘Beauty and the
beast’).
Quei
momenti in cui ti chiedi: perché
l’ho fatto?
Ultimamente
prendevo un po’ troppe
decisioni di cui mi pentivo in seguito. Questa, lo sapevo,
già, mi avrebbe
portato solo un mucchio di guai.
Era
perfino difficile stabilire che cosa
fosse più strano, il fatto che io avessi accettato o che lui
me lo avesse
proposto.
Non
eravamo gli unici a comportarci in
modo strano, per fortuna. Tutta la città sembrava andare al
contrario, forse
per colpa del Natale che si stava avvicinando.
Damon
che voleva comparare un regalo di
compleanno adatto a suo fratello le superava tutte, ma era solamente la
punta
dell’iceberg.
Meredith
da un paio di settimane
sembrava su un altro pianeta. Non rispondeva quasi mai al telefono, si
distraeva
in classe, passava da stati di palese preoccupazione a stati di
esaltante
felicità. Non mi aveva nemmeno sgridata per essermi
ubriacata alla festa.
Il
primo giorno dopo quel weekend da
dimenticare, era stata una delle prove più temibili che
avessi mai
affrontato. Mi
aspettavo di essere
additata o almeno guardata da lontano mentre la gente bisbigliava alle
mie
spalle, mi aspettavo di trovare Katherine con un sorrisino sfacciato
stampato
in faccia. Non accadde niente di tutto ciò.
Entrai
a scuola e venni totalmente
ignorata. Nessuno si girò stranito, nessuno mi
lanciò sguardi di compassione.
Ebbi l’impressione che nessuno sapesse, ma era impossibile:
quando mai a Fell’s
Church un pettegolezzo come quello non si diffondeva alla
velocità della luce?
Ne
ebbi la conferma nel momento in cui sia
Elena sia Meredith, pure Caroline che era perfino presente alla festa,
mi
chiesero che cosa mi avesse spinto a bere tutto quell’alcol.
Se
neanche le mie migliore amiche ne
erano a conoscenza, allora anche gli altri erano all’oscuro
di tutto.
E
poi c’era Matt, che non mi parlava
più.
Non
riuscivo a capirne il motivo. Da che
ricordassi alla festa avevamo messo in chiaro la nostra situazione. Si
era
mostrato molto comprensivo, aveva persino detto che mi avrebbe
aspettato finché
non mi sarei sentita pronta a iniziare una vera e propria relazione.
Che
cosa diamine avevo combinato per
fargli cambiare idea nel giro di due giorni?
A
meno che, in preda ai fumi dell’alcol,
non mi fossi baciata appassionatamente con qualcun altro davanti a lui,
non
vedevo altra ragione per quel trattamento così freddo.
“A
Parigi?” ripeté Caroline incredula “Tua
madre è a Parigi?”.
Io
annuii “Meno male che c’eri anche tu a quella
festa!” esclamai sarcastica.
“Ero
talmente ubriaca che non avrei riconosciuto neanche mio padre. Mi sono
ripresa
solo verso la fine, quando è arrivata la polizia”.
“È
stata mia sorella a riferirti quella cosa su tua madre? Io
l’ammazzo, l’ammazzo
e la buttò giù da Wickery Bridge. Non
mancherà a nessuno quella vipera”
s’infervorò
Elena.
“Ma
davvero non ne sapevate niente?” chiesi allibita.
Eravamo
già all’ora di pranzo e la notizia sembrava non
essersi diffusa. Una cosa più
unica che rara a Fell’s Church.
“Forse
per una volta questa città ha avuto la decenza di farsi un
esame di coscienza e
di tacere” considerò Meredith.
Ero
oltremodo sorpresa e nel contempo sollevata. Non avrei saputo come
affrontare
gli sguardi impietositi dei miei compagni.
“Tua
madre si dovrebbe vergognare, Bonnie” mi disse Caroline.
“E
anche mia sorella” rincarò Elena “Mi
dispiace così tanto. Non so come scusarmi
per il suo comportamento”.
“Prima
o poi tutte le sue cattiverie le torneranno indietro e io
sarò lì a ridere”
affermò Meredith, con una vena sadica che non le apparteneva.
“Vedi
il lato positivo. Ti sei presa la tua prima sbronza”
esultò Caroline.
“Gran
bel risultato” commentai ironica “Ora sono in
punizione per due settimane e se
Damon non mi avesse riportato a casa, probabilmente sarei anche in
prigione”.
“Damon?!”
esclamarono tutte e tre all’unisono.
“Mi
ha accompagnato lui. Almeno così mi ha detto mio
padre” spiegai.
“Quel
Damon? Quello che tu disprezzi tanto?” continuò
Elena con un sorrisino
compiaciuto “Proprio lui?”.
“Non
so che cosa gli stia prendendo” ammisi ignorando la
soddisfazione nella sua
voce “Mi ha persino chiesto di andare con lui a comprare il
regalo per Stefan”.
“È
stato investito dalla luce del pentimento?”
ironizzò Caroline.
“O
ha picchiato la testa da qualche parte” ipotizzai
“Sarebbe stato molto più
logico domandarlo a te Elena. Andate d’accordo e avrebbe
avuto l’occasione di
passare del tempo con te”.
“Non
vuole passare del tempo con me”
s’intestardì lei “Ha già una
ragazza ed è mia
sorella. Inoltre, sei la migliore amica di suo fratello. conosci Stefan
meglio
di me”.
Storsi
la bocca, poca convinta. “E tu, Mere, che ne
pensi?” la interpellai.
“Di
che cosa?” rispose distratta.
Al
momento non vi prestai molta attenzione. Meredith normalmente aveva
sempre una
parola saggia per tutto, era strano che non mi avesse nemmeno
ascoltato, ma non
mi posi nessun problema.
Matt
mi era appena passato davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Mi
alzai d’istinto. Percepii subito che qualcosa non andava.
Lo
seguii. Lo chiamai. Non si voltò.
Eppure
doveva avermi sentito per forza, ero proprio dietro di lui.
M’ignorò
per il resto del giorno, evitò accuratamente il mio sguardo.
Rimasi come una
scema a fissarlo nella speranza che almeno mi sorridesse per
rassicurarmi.
Non
accadde.
Per
i giorni successivi si era
comportato nello stesso modo. Non mi parlava, non mi guardava, non
rispondeva
al cellulare. Mi aveva salutato solo una volta, perché ci
eravamo trovati uno
di fronte all’altra e non aveva avuto scelta. Era stato solo
un cenno veloce e
quasi impercettibile.
Non
riuscivo a decifrare quell’atteggiamento,
né a ricordarmi precisamente che cos’era accaduto
la sera della festa.
La
soluzione doveva essere per forza in
quelle poche ore.
I
miei quindici giorni di punizione si
erano appena conclusi e io me ne stavo seduta sotto al mio portico ad
aspettare
Damon.
Avrei
potuto chiedere a lui, magari
sapeva se avevo fatto qualcosa di sbagliato nei miei momenti da
ubriaca, ma
sicuramente mi avrebbe soltanto preso in giro.
Ora
mi aspettavano tre ore di macchina
fino ad Atlanta, altre tre per il ritorno e il tempo necessario per
prendere
quel regalo, tutto insieme a Damon.
L’avrei
ritenuto un miracolo se a fine
giornata fossimo tornati entrambi vivi.
Non
ero certo dell’umore per passare un
pomeriggio con lui, se si fosse trattato di me, non avrei accettato.
Questa
volta era per Stefan e dovevo
ammettere, seppur con riluttanza, che Damon ultimamente si era rivelato
molto
più gentile nei miei confronti.
Non
so che diamine gli fosse preso. Mi
sembrava di essere circondata da matti.
Continuavo
a chiedermi come mai avesse
chiesto proprio a me di accompagnarlo. Era strano che non avesse
considerato
Elena come prima scelta, era un’occasione perfetta per
approfittarsene.
Certo,
c’era anche di mezzo Katherine,
ma non potevo credere che Damon si fosse tolto una volta per tutte
Elena dalla
testa.
Dovevo
rassegnarmi, era impossibile
capire la mente contorta di quel ragazzo. A volte pensavo che soffrisse
di
disturbi di personalità.
Udii
il rombo della sua macchina ancor
prima di vederla. Non mi convinceva molto l’idea di salire su
una Ferrari,
specialmente se era lui a guidare.
Temevo
per la mia incolumità. In
generale non mi piaceva correre in macchina. Andavo piuttosto piano,
con
prudenza e apprezzavo quando gli altri facevano lo stesso.
Damon
come minimo l’avrebbe lanciata a
cento all’ora appena usciti dal centro abitato,
chissà in autostrada!
Mi
ripetei che era per Stefan, solo per
Stefan.
Mi
augurai che Damon gli avesse comprato
il regalo più bello del mondo, almeno quella tortura sarebbe
valsa a qualcosa.
Parcheggiò
di fronte a casa mia e
abbassò il finestrino. Non parlò, mi
lanciò solo un’occhiata per invitarmi a
raggiungerlo.
Controvoglia
mi alzai e aprii la
portiera di destra. Era la prima volta che mi trovavo in quella
macchina in uno
stato cosciente.
Istintivamente
accarezzai il cruscotto
di pelle lucidissima e rimasi colpita da quella morbidezza,
così come dalla
comodità del sedile.
Le
macchine sportive non mi avevano mai
dato l’impressione di essere confortevoli, invece mi stavo
ricredendo.
Almeno
non avrei avuto il mal di schiena
a fine giornata. Poteva andarmi peggio.
“Studiatela
bene ora che sei in te” mi
consigliò Damon “Visti i precedenti, ho idea che
non ti accorgerai nemmeno di
essere in macchina al ritorno” scherzò.
Incrociai
le braccia offesa e mi voltai
dall’altra parte. Cominciava già male.
La
prima mezz’ora passò in assoluto
silenzio, non accendemmo neppure la radio per alleggerire la tensione.
Fu
Damon il primo a decidersi a parlare
“Allora, com’è il tuo primo giorno di
libertà?”.
“Pensavo
di trascorrerlo in altro modo”
replicai.
“Coraggio,
Bon Bon, non sarà così male.
So essere un tipo divertente, se voglio”.
“Lo
vuoi?”.
“Per
te questo e altro” rispose con
nonchalance.
Corrugai
la fronte. Perché era così
affabile con me? Nemmeno gli stavo simpatica.
Forse
stava solo cercando di mantenere
una convivenza civile. Dopo tutto non aveva torto: il pomeriggio era
appena
iniziato, ci attendeva un lungo viaggio. Saltarci subito alla gola non
sarebbe
servito a niente.
Sospirai.
“Mi vuoi dire che regalo gli
hai preso?” cedetti.
“No,
è una sorpresa anche per te”.
“Ma
dai! Almeno ti posso dire subito se
è una pessima idea o no. Ci risparmieremmo un viaggio
inutile” commentai,
voltandomi infine verso di lui.
Lo
vidi stringere le labbra “Ti dà così
fastidio fare questa cosa con me, vero?”.
Quella
semplice domanda ebbe il potere
di ammorbidirmi in un secondo. Lo stavo trattando male, sebbene quella
volta
non se lo meritasse.
“Scusami”
mormorai quasi
inconsapevolmente “Non era mia intenzione essere
così cattiva”.
“Sì,
che lo era” mi corresse lui con un
mezzo sorriso “Ma te ne ho fatte di peggio” ammise.
“Ti
stai riscattando piuttosto bene” gli
concessi “Mio padre tra un po’ ti
eleggerà a eroe della famiglia. Dovresti
ringraziarmi, gli sto lasciando credere che tu sia un angelo”.
“A
dispetto del mio nome, sono davvero
un angelo”.
Non
trattenni una risata. Questa le
batteva tutte.
“Conosco
un paio di persone che avrebbe
un’obiezione o due a riguardo, me compresa” lo
stroncai “Però, c’è una
cosa…insomma…”.
“Non
essere troppo chiara, mi
raccomando” m’incalzò sarcasticamente.
Tentennai.
Stavo per fare un complimento
a Damon e non era per niente facile, non per me. “Non so che
genere di regalo
tu abbia preso, ma è un gesto carino e credo che Stefan lo
apprezzerà. È
convinto che non t’importi niente di lui”.
A
volte lo penso anche io.
“Sei
la solita sentimentalona, Bonnie”
mi apostrofò “Sto solo provando a comportarmi in
modo maturo, in fondo è mio
fratello. Questo regalo è una specie di segno di pace, ma
non significa che
conti qualcosa per me”.
Una
frase del genere normalmente mi
avrebbe mandato su tutte le furie. Mi limitai, invece, a scuotere la
testa. Con
Damon funzionava sempre così: un passo avanti e quattro
indietro.
Per
la prima volta notai ciò che Elena
aveva tentato di dimostrarmi per anni: quel ragazzo accanto a me
indossava una
maschera di freddezza e indifferenza, troppo impassibile per essere
vera. Damon
si nascondeva.
“Forse
ti sei dimenticato che cosa si
prova a voler bene a tuo fratello, ma ho l’impressione che la
sensazione sia
ancora lì sotto, da qualche parte” azzardai.
“Devo
aver perso un passaggio,
uccellino. Non mi avevi definito un bastardo senza cuore?”.
“Io
non uso quel linguaggio” ribattei
“Comunque normalmente sì, lo sei”
confermai “Ma hai avuto i tuoi momenti di
compassione umana”.
“Per
esempio?”.
Rimuginai
un attimo in cerca di qualche
memoria passata “Ricordi il giorno in cui mia madre
scappò di casa?”.
Damon
s’irrigidì percettibilmente.
“Ricordi
che rimanesti con me e Stefan
quasi tutta la sera? Tuo fratello chiamava la mamma. Sei sceso tu per
calmarlo”.
“Non
sono sceso per calmarlo, sono sceso
perché non sopportavo più i vostri piagnistei.
Tua madre se n’era appena andata
e quel coglione di mio padre per farvi stare buoni vi mise su la
cassetta di
Bambi. Di Bambi!” ribadì quasi scandalizzato
“Il cartone meno adatto
considerando la situazione. Tu cominciasti e piangere e Stefan ti
seguì a ruota
perché gli mancava la sua di mamma che non aveva mai
conosciuto. Sentivo le
vostre urla da camera mia, così sono sceso e ho cambiato
film”.
“La
Bella e la bestia” dissi
sovrappensiero.
“Era
più divertente, si parlava d’amore.
Sapevo che se tu avessi smesso di piangere, anche Stefan ti avrebbe
imitato.
Sono rimasto con voi per assicurarmi che non riprendeste con i
piagnucolii. Non
era buon cuore, era istinto di sopravvivenza”.
“Odiavi
che tuo fratello stesse
piangendo per sua madre. Anche a te mancava. Ti sei messo vicino a lui
e gli
hai preso la mano. Avevo solo cinque anni, Damon, ma ricordo quel
giorno come
se fosse ieri, quindi non provare a ingannarmi”.
Lo
zittii.
E
ne
fui molto compiaciuta.
Non
avevo mai fatto una cosa del genere.
Mai.
E
se
l’avevo fatto, chiaramente non ero in me o avevo rimosso.
Comunque
non provai nemmeno a controbattere. Quel giorno era stato
particolarmente
doloroso per Bonnie; le avrei mancato di rispetto contraddicendola su
certi
dettagli.
“A
proposito di tua madre” iniziai “Qualcuno a scuola
ha commentato quello che è
successo con Katherine?”.
Lei
scosse la testa “No. Mi sembra assurdo ma nessuno ne ha
parlato. Non lo
sapevano neanche le mie amiche”.
Mi
preparai per la reazione che avrebbero scatenato le mie parole. Erano
due
settimane che non vedevo l’ora di svegliarglielo, ma non
volevo rovinare subito
la sorpresa.
“Una
gran fortuna che ultimamente io sia così
altruista” sogghignai.
“Egocentrico,
più che altro. Ti metti sempre in mezzo”
commentò.
“Questa
volta per una buona ragione. Esercito ancora una certa influenza sui
ragazzini
del liceo, hanno paura di me. Se si fosse sparsa la voce su
ciò che ti aveva
fatto Katherine, non ne sarei stato affatto contento. Mi sono premurato
che
tutti tenessero la bocca chiusa”.
Ed
eccola lì, l’espressione che speravo.
Occhi strabuzzati, bocca
spalancata, sopracciglia
incurvate, qualche suono sconnesso, nessuna parola di senso compiuto.
“Per
me? L’hai fatto per me?”.
Questo
era un colpo da maestro. Non si sarebbe mai aspettata che io potessi
agire in
suo favore così apertamente. L’avevo impressionata.
Riflettendoci
bene, forse non si trattava solo della scommessa. Mi sentivo davvero un
mollaccione, ma su quell’argomento m’intenerivo
come un cucciolo. Ciò non
significava che non me ne sarei approfittato.
Se
proprio dovevo fare la figura dell’idiota, almeno potevo
girarlo a mio vantaggio.
“Perché?”
sussurrò incredula.
“Sto
solo
ricambiando il favore che mi hai fatto tu quando qualche mese fa ho
litigato
con mio padre. Sei stata gentile a non cacciarmi dal tuo giardino e io
ti ho
tirato via da una situazione spiacevole”.
Bonnie
sbuffò “Hai davvero preso una testata da qualche
parte. Prima il regalo per
Stefan ora questo…mi stai lasciando…”.
“Estasiata?”.
“Perplessa”.
“Di
solito ti lasciavo incazzata” considerai. Stavo compiendo dei
bei passi avanti.
“Che
cosa c’è sotto, Damon?”.
Quella
domanda spiazzò me. Avevo la coda di paglia, per cui mi tesi
d’istinto ma fui
molto bravo a non farglielo notare.
Era
impossibile che sospettasse il vero motivo della mia gentilezza.
“Ma
non
ti stanca stare sempre sulla difensiva?” la punzecchiai per
cambiare argomento.
“Non
con te” mi freddò “Tu sei come un
grizzly, prima giocherelli con la preda e poi
affondi” mi rimproverò.
“Un
grizzly?”
ripetei sconcertato “Mi hai paragonato a un enorme palla di
pelo?”.
“Una
palla di pelo letale” precisò lei.
Mi
ritrovai a ridere, come non mi accadeva da tempo. Non perché
la battuta fosse
particolarmente divertente, ma per il modo in cui Bonnie
l’aveva pronunciata.
Non
riusciva a essere cattiva. I suoi insulti erano buffi e mai volgari.
Sembrava
che non volesse offendere, non fino in fondo.
Prendersela
con lei era come sparare sulla croce rossa. Quasi mi sentii in colpa
per tutti
le volte in cui l’avevo trattata da schifo, quasi.
“Va
bene, allora nessuno ti ha dato fastidio per la storia di tua madre. E
tu come
la stai affrontando?”.
Sicuramente
mi sarei guadagnato un po’ di credito ai suoi occhi se mi
fossi interessato
alla sua vita e ai suoi sentimenti.
“Per
come la penso io, mia madre non mi vuole. Non c’è
motivo per cui io dovrei
volere lei. Le vorrò sempre un po’ bene, sai?
Dopotutto è mia madre, ma è tempo
di smetterla di stare male per una cosa successa tredici anni fa.
Insomma,
bisogna penare solo per chi ti ama, per chi ne è degno,
no?” domandò un po’
titubante nell’ultima parte, quasi le servisse una conferma.
Mi
stupii, mi stupii sul serio. Per il suo carattere, per come
l’avevo sempre
vista io, immaginavo che si sarebbe chiusa in camera per settimane a
commiserarsi. Normalmente sfogava ogni emozione nel pianto.
Non
era
la mia persona preferita, ma l’avevo vista crescere e credevo
di conoscerla.
Forse mi ero sbagliato, forse era più di una bambina
piagnona.
“E
tuo
padre come l’ha presa?”.
“Non
gliel’ho detto, nemmeno a mia sorella. Non l’ho
raccontato a nessuno, solo alle
mie amiche. Anzi, ti devo ringraziare. Almeno così sono
limitate le possibilità
che vengano a saperlo da qualcun altro”.
“Non
c’è di che, uccellino, non
c’è di che” mi compiacqui.
Per
il
resto del tragitto, Bonnie non tacque un secondo. Continuò a
blaterale sulla
festa a sorpresa che avrebbe voluto organizzare per Stefan. Lei ed
Elena ci stavano
già lavorando.
Staccai
la spinta a un certo punto. Annuivo e sorridevo ogni tanto, ma in
realtà non
stavo ascoltando per davvero.
Avrebbe
potuto dirmi che si sarebbe tenuta nella mia camera al campus e neanche
me ne
sarei accorto.
Quando
superai il cartello di benvenuto di Atlanta, tirai un sospiro di
sollievo. Non
avrei sopportato un minuto in più delle sue stupide
chiacchiere su Stefan.
Avevo
pianificato tutte quella gita per farle cambiare idea su di me, per
iniziare la
mia opera di conquista e lei pensava solo a mio fratello. La sua
presenza era
ingombrante.
Il
negozio che cercavo stava in una stradina un po’ lontana dal
centro; trovai in
fretta parcheggio.
Bonnie
guardò sorpresa l’edificio davanti a noi.
“È
un
negozio di musica?”.
“Non
ti
sfugge proprio niente”.
Avevo
passato una settimana a scervellarmi per scegliere il regalo perfetto.
Non
doveva solamente piacere a Stefan, doveva soprattutto lasciare Bonnie
di
stucco, doveva manifestare tutta la mia (poca) voglia di
riappacificarmi con
mio fratello. Sapevo che quel gesto mi avrebbe fatto guadagnare punti
ai suoi
occhi.
Alla
fine era arrivata l’idea geniale. Con un po’ di
fortuna e parecchi soldi ero
riuscito nel mio intento. Si trattava di una merce più unica
che rara e il
negozio che aveva fatto da mediatore nella compravendita si era
rifiutato di
spedirmelo fino a casa, richiedendo la mia presenza fisica per
l’identificazione. Proprio quello che mi serviva
perché la storiella che avevo
raccontato a Bonnie due settimane prima stesse in piedi.
Fummo
accolti da un vecchio signore che si premurò subito di
recuperare il pacco nel
magazzino non appena gli ebbi mostrato un documento.
Bonnie
si guardava attorno affascinata. Il negozio conteneva oggetti strani,
strumenti
musicali antichi e d’antiquariato, pezzi unici e quasi
introvabili, preziosi
probabilmente solo a un occhio esperto.
Quando
il signore tornò al bancone con la busta, chiamai la
ragazza. Ero pronto a
ricevere il complimento del secolo, perché quello era un
regalo con la ‘R’
maiuscola.
Bonnie
prese delicatamente tra le mani i fogli un po’ ingialliti,
pieni di pentagrammi
per lei incomprensibili. In alto una scritta recitava The
snow is dancing.
“È
lo spartito originale” le spiegai “Fa parte di una
composizione che Debussy ideò per la figlia,
s’intitola Children’s
Corner”.
“A
Stefan piacerà” mi assicurò
“Lui è molto bravo con il pianoforte”.
Ma
il
bello doveva ancora arrivare.
“Non
credo che l’abbia mai suonata, ma forse se la ricorda,
sebbene fosse molto
piccolo quando l’ascoltava. Non era neppure nato, a dire il
vero”.
Bonnie
mi fissò incuriosita.
“Mamma
suonava spesso il pianoforte” le raccontai
“M’insegnò qualche canzoncina, ma
non ero molto portato. Avevo si e no tre anni, ma ricordo che spesso si
metteva
al piano e suonava questo pezzo, lo adorava. In quei momenti Stefan
calciava
come un matto nella sua pancia. Credo, ecco…credo che gli
piacesse”.
Le
mani
di Bonnie tremarono un attimo e fu costretta ad appoggiare lo spartito
sul
bancone per non farlo cadere. I suoi occhi brillarono. Non avevo mai
visto
quella luce, almeno non rivolta a me.
Per
un
attimo mi sentii estremamente orgoglioso, come se fossi il responsabile
di quel
meraviglioso luccichio. Bonnie non mi era mai sembrata così
bella come in quel
momento.
Fu
una
sensazione che mi spiazzò, tanto da togliermi
l’uso della ragione.
Una
volta mio padre mi aveva detto, in uno dei suoi rarissimi istanti di
sensibilità, che il pensiero umano si azzerava di fronte
alla vera bellezza.
Era questo che intendeva?
Non
impiegai molto a riscuotermi da quello stato di rapimento. Me ne
vergognai
subito dopo. Sicuramente erano state le tre pesanti ore di viaggio ad
avermi
rimbambito.
Bonnie
d’altra parte non si era ancora ripresa dallo shock e
osservava lo spartito,
sorridendo come una bambina a Natale.
Non
so
che cosa l’aveva colpita maggiormente, se il pensiero
delicato che avevo avuto,
o il tono pacato e nostalgico con il quale avevo pronunciato il
discorso.
Quello non era recitato, mi veniva naturale quando rimuginavo sul
periodo in
cui mia madre era ancora viva.
“Credo
che sia la cosa più dolce che ti abbia mai visto
fare” mormorò lei “Come potevi
pensare che questo regalo non fosse adatto e che ti servisse il mio
aiuto? Se
Stefan prova solo a fare una faccia che non rasenti la
felicità assoluta, lo prendo
a schiaffi io stessa”.
Sarei
di certo stato in prima fila ad assistere.
“Voglio
rendere il mio fratellino contento, il giorno del suo
compleanno”. Ma da dove
mi uscivano tali cazzate?
“Meno
male che non t’importa di lui” mi
ribeccò.
Non
mi
presi la briga di rispondere. Avevo ottenuto il risultato che mi ero
prefissato. Per quanto mi riguardava, poteva anche urlare ai quattro
venti che ero
diventato la controparte umana di un orsacchiotto di peluche. Tra pochi
mesi
avrebbe di sicuro cambiato idea. Avrebbe preso me
a schiaffi.
“Aggiudicato,
quindi?” chiesi in conferma.
Bonnie
annuì con forza.
Prima
di tornare in macchina, ci fermammo a bere qualcosa. Ero abituato a
guidare
tanto, ma non avevo proprio voglia di affrontare subito altre tre ore
di superstrada.
Il
mio
piano malefico sembrava funzionare alla perfezione. Bonnie si era
addolcita
molto rispetto all’inizio del pomeriggio e mi guardava anche
in modo diverso,
un po’ meno schifato del solito.
Negli
ultimi due mesi l’avevo tolta da situazioni scomode e
compromettenti e mi ero
preso lo stesso un sacco di insulti. Ora facevo qualcosa di carino per
Stefan e
la rossa cambiava subito opinione su di me.
Ecco
un
altro dei poteri magici del mio fratellino. Tutti avevano un disperato
bisogno
di vederlo felice e contento.
Lui
aveva decisamente l’aspetto di un tenero cucciolo da salvare;
era comprensibile
l’istinto di protezione nei suoi confronti ma non potei
evitare di chiedermi
come mai nessuno avesse mai provato a difendere me, almeno non con la
stessa
intensità.
I
miei
ragionamenti vennero interrotti dalla risata spontanea della ragazza
seduta di
fronte a me. Cominciò a ridere a crepapelle dal nulla.
“Uccellino,
cosa hanno messo in quel tè?” le domandai scettico.
“Nel
mio niente, ma la tua cioccolata deve essere particolarmente
buona” rispose.
Aggrottai
la fronte, senza afferrare il senso della frase.
Fosse
stato per me avrei preso qualcosa di un
po’ più forte, ma sapevo che Bonnie non
sarebbe stata d’accordo, dato che
dovevo mettermi alla guida. Così avevo optato per quella
cioccolata a suo dire
così buona.
“Perché
lo pensi?”.
“Piace
anche al tuo naso”.
Ci
impiegai un paio di secondi a realizzare il significato di quelle
parole. La
mia mano scattò al tovagliolo e mi pulii
frettolosamente.
Avevo
appena intinto il mio naso nella cioccolata?
Prima
avevo pensato che Bonnie fosse addirittura bella e adesso infilavo il
naso
nella cioccolata sporcandomi come un bambino?
Mi
stavo rincretinendo.
Durante
il viaggio di ritorno probabilmente mi appisolai. Chiusi gli occhi per
un
momento e quando li riaprii eravamo già vicini a
Fell’s Church.
Nonostante
il pisolo durato quasi tre ore, ero terribilmente stanca e non solo per
il
tempo passato in macchina.
Damon
era
uno delle ragioni che mi avevano sfiancato quel giorno. Era diventato
difficile
stargli dietro, seguire i suoi sbalzi d’umore e i cambiamenti
repentini d’idee.
Al
mondo
non c’erano persone capaci di coprirsi di una patina di
odioso e saccente
menefreghismo, per poi lasciarmi andare a ricordi e pensieri di una
tale
tenerezza.
Elena
aveva
ragione: Damon non era un totale idiota come poteva apparire.
C’era molto di
più sotto il suo sguardo scuro e freddo.
Aveva
indubbiamente
sofferto nella sua vita, ma nella mia testa non riuscivo a
giustificarlo fino
in fondo per il suo fare irrispettoso e scontroso.
Eppure
mi chiesi come avessi potuto non notare quel suo lato così
diverso dopo
diciotto anni passati a gironzolare in casa sua.
Di
solito
ero brava a inquadrare le persone. Avevo sbagliato con Damon?
“Non
pensare così intensamente, Bon Bon, o ti fumerà
la testa” fu il suo primo
commento quando si accorse che ero sveglia.
“Qual
è
il problema che ti affligge?” continuò.
Non
potevo
certo dirgli la verità, ma mi venne in mente
un’altra idea. Prima di partire l’avevo
completamente escluso; ora invece…
Beh,
tanto valeva un tentativo. Visto che lui sembrava così ben
disposto nei mie
confronti.
“Damon.
La sera della festa di Tyler…ho fatto qualcosa di strano?”.
Lui
alzò
le spalle “Niente di particolare. Hai ballato sul divano con
Caroline. Insomma,
ho visto cartoni animati più trasgressivi di te”.
Arricciai
le labbra irritata, mente l’auto si fermava davanti a casa
mia.
“In
effetti hai fatto qualcosa di …inaspettato” si
corresse “Di sicuro mi hai colto
di sorpresa e non capita spesso”
“Qualunque
cosa sia, dimmi che non l’ho fatta davanti a tutti”
lo pregai. Rifiutavo di
credere che avessi mandato all’aria le mie speranze con Matt
con le mie mani.
“Oh
no”
ghignò lui “È successo proprio qui, in
quest’auto”.
Il
tono
mi stava preoccupando.
“Mi
hai
baciato”.
Se
non
mi venne un infarto in quel frangente, fu solo per un fortunato
miracolo.
“Non
è
divertente” sibilai con una mano già sulla
portiera.
“Giuro
che non è uno scherzo. Mi hai baciato per davvero.
Probabilmente credevi che
fossi qualcun altro, blateravi di un altro bacio”
raccontò con una punta
infastidita.
Sbiancai.
E se nel mio stato d’incoscienza gli avessi rivelato del
bacio al buio? Quello di
cui mi avevano parlato le mie amiche?
Era
questo
cui Damon si stava riferendo.
Ma
perché
diamine lo avevo baciato?
Stava
mentendo,
per forza.
“Non
te
lo ricordi?”.
“No”
borbottai scuotendo la testa. Mi sentivo parecchio confusa. Qualche
immagine cercava
di farsi strada nella mia memoria ma non era niente di definito.
“Rimedio
subito allora” sussurrò.
Uno.
Due.
Tre.
Furono
i secondi che passarono prima di sentire le sue labbra premute contro
le mie.
Uno.
Due.
Tre.
Furono
i
secondi che passarono prima che lui sentisse il mio schiaffo sulla
guancia.
Non
glielo
tirai forte, volevo solo allontanarlo.
Il
suo
sguardo era disorientato, quasi offeso.
“Non
so
a che gioco stai giocando Damon, ma io non voglio farne
parte” lo avvisai. Scesi
dalla macchina e mi diressi con passo deciso verso casa mia.
Udii
la
portiera sbattere e dei passi inseguirmi.
“Hai
idea di quante ragazze pagherebbero per essere al tuo posto
adesso?” mi
rinfacciò.
Mi
voltai
furente “Allora vattene a divertirti con loro! Anzi, ho un
suggerimento. Provaci
con Katherine, la tua ragazza”
sbraita. Aprii la porta e gliela chiusi in faccia.
Avevo
ancora
il fiatone, neanche avessi corso chilometri e chilometri.
Era
impazzito
del tutto?
Il
campanello
di casa suonò.
Raccolsi
tutta la mia rabbia e mi preparai per gettargliela addosso e mettere
fine a
quell’assurdo teatrino.
“Damon,
se non mi lasci in pace, giuro che…Stefan?”.
Cambiai
radicalmente tono non appena mi accorsi che quello sulla soglia era il
mio
migliore amico. Il mio molto agitato
migliore amico.
“Che
cosa ci fai qui?”.
“Katherine
mi ha baciato”.
Uccidetemi
ora.
Il
mio
spazio:
Sono
in
ritardissimo lo so!!
Date
tutta
la colpa alla tesi, è tutta colpa sua!
Va
beh,
ragazze sono tornata con un capitolo bello carico, però!
Spero sia valsa tutta
questa attesa.
Confesso
che mi piace questo capitolo, il che è strano, normalmente
non sono mai sicura.
Adesso voi troverete tutte le incongruenze del mondo ahah!
Avete
visto
che bel casino che sta combinando Katherine? Cosa faranno ora Stefan e
Bonnie?
E Damon quando lo scoprirà?
Ormai
lo
avete capito tutte: il messaggio è stato inviato a Matt per
questo si comporta
così freddamente con Bonnie.
Non
vorrei essere nei panni di Damon quando lei lo verrà a
sapere.
Non
ho
assolutamente idea se esista l’originale del pezzo di Debussy
citato. Se esiste,
ora ce l’ha Damon =)
Ora,
se
tutto va bene, lunedì do l’ultimo esame del terzo
anni (incrocio le dita) e poi
per due settimane sarò libera di scrivere.
Settimana
prossima arriverà il capitolo cinque di Would you hold it
against me?
Spero
anche
di riuscire a postare ancora due capitoli di questa storia, sicuramente
il
quattordicesimo.
Comunque
vi aggiornerò nelle prossima puntate.
Banner
di bumbuni.
Ora
vi
do la buona notte, dato che è tardi.
Vi
ringrazio tantissimo delle recensioni! Siamo a 100!!!!
Grazie
mille
anche a cui segue/legge e mi segna tra le preferite e ricordate!
Un
bacione,
Fran;)
Ps:
la
canzone è azzeccata, vero? La adoro!
|
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Capitolo 14 *** Happy Birtheve ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo quattordici: Happy Birtheve.
“A little party never
killed nobody, so we gonna dance until we drop
A little party never killed nobody, right here, right now’s
all we got
All we got, all we got, all we got, all we got
All we got, all we got, all we got, all we got
Glad that you made it, look around
You don’t see one person sitting down
They got drinks in their hands and the room’s a bust
At the end of the night maybe you’ll find love”
(A little party never
killed nobody- Fergie).
C’erano
momenti in cui credevo che qualcuno mi avesse lanciato contro il
malocchio.
Tutti avevano sicuramente attraversato una fase simile nella loro vita,
ma io
stavo battendo ogni record.
Ero
uscita dalla mia punizione da nemmeno un giorno e mi ero già
ritrovata incastrata
in situazioni che avrei preferito evitare.
Stefan
se ne andava avanti indietro per la mia stanza, irrequieto e nervoso.
Io me ne
stavo stesa sul letto a fissarlo.
Non
sapevo che cosa dire né che pensare. Katherine per me
diventava sempre più
cretina ogni giorno che passava. Non avevo altra spiegazione.
D’altronde
andava a braccetto con quello psicopatico del suo ragazzo. Era per caso
cominciata la settimana del tradimento e nessuno mi aveva avvertito?
Damon
era un idiota e probabilmente stava solo cercando
d’incasinarmi la testa o di
fare uno scherzo a Stefan, ma Katherine che motivo aveva?
Ricordai
le parole di Meredith, alla festa d’inizio anno. Katherine
era sempre stata
gelosa marcia di Elena, aveva sempre voluto ciò che aveva la
sorella.
Katherine
era affetta da un enorme complesso d’inferiorità
che si trasformava in
un’eccessiva voglia di primeggiare.
Aveva
conquistato Damon, ma non era abbastanza: doveva avere anche Stefan,
doveva
soffiarlo alla gemella tanto odiata.
Davvero
non capivo come una persona potesse arrivare a tali livelli di
egocentrismo e
manipolazione.
“Stefan
mi stai facendo girare la testa” mormorai nella speranza che
la smettesse.
“Sapessi
quanto gira a me” sbuffò.
“Raccontami
ancora come è successo” lo incalzai.
“Non
c’è molto da aggiungere. Si è
presentata alla mia porta e ha detto di essere
Elena. Sembrava proprio lei, era vestita come lei, parlava e si muoveva
come
lei. Non ho sospettato nulla finché non mi ha baciato. Mi
sono accorto che
qualcosa non andava perché Elena non mi aveva mai baciato in
modo così
provocante. Mi sono allontanato subito e ho notato un piccolo neo sul
suo
collo…lì ho capito che era Katherine.
L’ho mandata via e lei non ha opposto
resistenza. Ha detto che sarebbe stato il nostro piccolo segreto ma che
non
finiva qui” mi spiegò lasciandosi cadere sul letto
accanto a me.
“Che
razza di sgualdrina” sibilai.
“Damon
mi ucciderà” considerò Stefan.
Non
era
un’ipotesi da escludere. Damon non avrebbe mai sopportato di
venire scavalcato
per l’ennesima volta da suo fratello, sebbene non fosse sua
la colpa.
Aveva
passato una vita fermo al secondo posto: Giuseppe gli aveva sempre
preferito il
figlio minore, Elena amava Stefan e ora ci mancava solo Katherine.
Sembrava
quasi che le persone più importanti nella sua vita facessero
a gara per
ferirlo.
“Damon
non lo dovrà mai sapere” gli suggerii
“Anche Katherine terrà la bocca chiusa,
non è così stupida da rovinarsi con le sue
mani”.
“Non
lascerò che mio fratello venga preso per il culo da quella
poco di buono”
obiettò Stefan.
Ammirai
la sua devozione e normalmente lo avrei incoraggiato per quella strada.
Quella
volta, però, mi dimostrai particolarmente egoista
“Preferisci raccontargli che
la sua adorata fidanzatina ha cercato d’infilarsi tra le
lenzuola di suo
fratell? Già ti odia, Stefan, vuoi peggiorare la situazione?
Troveremo un altro
modo per allontanarlo da Katherine, ma fai in modo di non essere il
motivo
della loro separazione o puoi dire addio a ogni speranza di aggiustare
il
rapporto con Damon”.
“Anche
Elena sarà furiosa” osservò Stefan.
“Non
puoi dirlo nemmeno a lei” lo avvisai.
“Stai
scherzando?” si scandalizzò “Non ti
aspetterai che tenga segreta una cosa del
genere alla mia ragazza!”.
“Se
Elena lo venisse a sapere, staccherebbe la testa a Katherine davanti a
tutta la
scuola. Damon lo verrebbe a scoprire nella mezz’ora
successiva”.
“Scordatelo,
Bonnie” si oppose “Elena ha il diritto di sapere la
verità. E così anche
Damon”.
Mi
mordicchiai le labbra, indecisa. “Aspetta almeno il tuo
compleanno. Lascia
passare la tua festa e poi penseremo a come dirglielo, va
bene?”.
Non
potevo sapere con certezza se Damon fosse sincero o no, ma il regalo
che aveva
comprato a Stefan rasentava davvero la perfezione.
Forse
desiderava sul serio sotterrare l’ascia di guerra, forse
stava cercando di
buttarsi il rancore alle spalle.
Non
avrei permesso che il loro momento venisse distrutto dalle mire malate
di
quella stronza platinata.
La
festa di Stefan, nonché il Capodanno si avvicinavano
velocemente, troppo
velocemente. Dovevo farmi venire in mente un piano per sistemare le
cose e alla
svelta.
Avevo
chiesto un po’ di tempo per trovare il modo migliore e meno
indolore per
smascherare quella piccola manipolatrice di Katherine; in
realtà non sapevo
nemmeno da dove cominciare.
Il
problema non era tanto Elena, si sarebbe arrabbiata a morte con sua
sorella, ma
non me ne importava niente. Stefan non aveva fatto niente di male, era
stato
solo ingannato, perciò quella faccenda non avrebbe rovinato
il loro rapporto.
Non
potevo dire lo stesso di Damon. Non esisteva un modo giusto per
rivelare il
tradimento della sua ragazza. Non solo lo avrebbe distrutto, avrebbe
pure compromesso
qualunque possibilità di riappacificarsi con suo fratello.
Da un paio di settimane non
riuscivo a pensare
ad altro.
No,
in realtà
c’era una cosuccia che ogni tanto mi tormentava e che ogni
volta mi lasciava
infastidita oltre misura.
Damon
mi aveva baciato. Era la terza volta, se non aveva mentito su
ciò che mi aveva
raccontato della notte in cui mi ero ubriacata.
Quella
sera lo avevo baciato io. Avrei davvero desiderato che non fosse vero,
ma le
parole di Damon mi avevano colpito.
“Giuro
che non è uno scherzo. Mi hai baciato
per davvero. Probabilmente credevi che fossi qualcun altro, blateravi
di un
altro bacio”.
Blateravo
di un altro bacio, quello accaduto anni fa alla festa di Tyler.
Mi
sarei strappata la lingua da sola. Fortunatamente, Damon aveva pensato
che
presa dai fumi dell’alcol lo avessi scambiato per qualcun
altro.
Stava
di fatto che lui mi aveva baciato, di sua spontanea volontà
e da sobrio. E non
riuscivo a capirne il motivo. A ventun anni traeva ancora piacere dal
prendermi
in giro?
Forse
sospettava dell’infedeltà di Katherine e cercava
di vendicarsi, forse era
semplicemente idiota. Da qualunque parte la girassi, non riuscivo a
venirne a
capo.
Non
potevo immaginare che cosa avesse in mente, potevo solo stargli alla
larga e
non permettergli d’incasinarmi la testa.
Perché
era quello che normalmente Damon Salvatore faceva: giocava e derideva
qualunque
tipo di sentimento. Non mi sarei lasciata coinvolgere.
In
ogni
caso avevo cose più importarti di cui occuparmi.
“Gattina,
è pronto”.
Il
pranzo di Natale a casa McCullough. Il periodo dell’anno che
più adoravo. Avrei
passato la mia giornata in famiglia e sarei uscita con le mie amiche la
sera
per gli auguri.
Infilai
il maglione rosso e scesi saltellando in sala. Per un attimo ebbi paura
di
trovare strane sorprese ad attendermi, ma non appena scorsi solo mio
padre e
Mary mi rasserenai subito. Non avrei sopportato un’altra cena
con i Salvatore.
Casa
mia durante il periodo natalizio sembrava un pacco regalo. Tutto merito
mio, lo
ammetto. Il Natale mi rendeva allegra e ottimista e portava a galla la
mia
estrosità.
Papà
di
solito mi lasciava fare perché non aveva tempo di addobbare
le stanze e mia
sorella iniziava a trovarla una cosa un po’ infantile.
Così
avevo campo libero e mi sbizzarrivo come più desideravo.
Aiutai
mio padre con il pranzo e portai le patate in tavola. Avevano un
profumo
delizioso, non vedevo l’ora di mangiarle.
Papà
non era un cuoco eccezionale, ma se la cavava, soprattutto se
c’era Mary ad
aiutarlo. In realtà odiava cucinare, non gli era mai
piaciuto. Si era dovuto
dare una mossa quando mia madre se n’era andata. Aveva
cercato in qualche modo
di prendere il suo posto in ogni cosa, e in tutta onestà, si
era rivelato un
genitore di gran lunga migliore di quanto lei
avrebbe mai potuto sognarsi.
“Come
mai Alec non è venuto?” chiese a un tratto mio
padre, riferendosi al ragazzo di
mia sorella.
“Perché
ce l’ha anche lui una famiglia, papà”
rispose Mary.
“Quindi
non state pensando di formarne una vostra?” indagò
lui addentando un pezzo di
arrosto.
“Non
incominceremo questa conversazione” troncò Mary.
“Sono
tuo padre, ho diritto di sapere se mi troverò a breve dei
nipotini”.
Sbuffai
divertita e continuai a mangiare tranquillamente. Papà aveva
a malapena
digerito il fatto che Mary e Alec fossero andati a vivere insieme,
voleva
assicurarsi di non trovarsi altre sorpresine in giro.
“Parliamo
di Bonnie piuttosto” saltò su mia sorella.
Io
alzai la testa di scatto e corrugai la fronte. Che cosa c’era
da dire su di me?
“Giusto,
gattina non ci hai ancora aggiornato sul college. Hai preso una
decisione?” mi
domandò mio padre.
Sbiancai
di colpo. Con tutto quello che mi era successo,
l’università era proprio
passata in secondo piano. O meglio, tutti i miei drammi erano diventati
un’ottima scusa per non pensare a che cosa avrei fatto della
mia vita.
“Sto
valutando un paio di opzioni” temporeggiai.
“Tipo?”
m’incalzò mio padre.
Fulminai
con gli occhi Mary per aver scaricato tutta l’attenzione su
di me. Non sapevo
che cosa inventarmi.
“Io
sono andato alla Dartmouth*” disse casualmente
papà. Credo che fosse l’unica
persona sulla faccia della Terra a essersi laureato all’Ivy
League e aver scelto
di esercitare in una piccola città come Fell’s
Church.
“Papà
per andare Dartmouth ci vogliono punteggi troppo alti ai
test” gli ricordai.
“Niente
di inarrivabile, ti basta impegnarti a fondo”.
Mi
mordicchiai le labbra nervosamente. Ogni genitore è convinto
che suo figlio sia
speciale e intelligente, ma prima o poi mio padre avrebbe dovuto
accettare la
dura realtà: io non appartenevo a quella categoria. Ero
normale, i miei voti si
mantenevano nella media. Non avevo nemmeno una possibilità
di entrare in un
college dell’Ivy League.
“Che
noia questi discorsi. Sai Bonnie, non posso aspettare che tu apra il
mio
regalo. È una bomba!” esclamò
soddisfatta.
Le
rivolsi un sorrisino tirato. Prima mi metteva nei guai, poi mi salvava.
Megera
di una sorella.
Era
una
coincidenza piuttosto inquietante che il giorno di Natale in tv
trasmettessero
il Grinch su tutti i canali.
Un
povero esserino verde che odiava il resto del mondo e soprattutto era
odiato
dal resto del mondo. Io non ero verde e molte persone aveva dichiarato
di
amarmi, ma alla fine dei conti me ne stavo da solo, il giorno di
Natale, chiuso
nella mia stanza del college.
Sage
mi
aveva invitato a casa sua e anche Alaric, ma avevo rifiutato.
Bisognava
passare il Natale con la propria famiglia, non con quella degli altri.
Mio
fratello e mio padre sembravano esserci scordati di me. Non una
chiamata,
nemmeno un biglietto.
Non
che
mi mancassero molto, non ero pronto a ritornare nel dramma di casa
Salvatore.
Dopotutto, me ne stavo bene anche da solo.
Già
non
mi entusiasmava il pensiero che tra pochi giorni sarei dovuto andare al
compleanno di Stefan. Se non fosse stato per quel maledetto regalo, lo
avrei
saltato volentieri. Ormai, però, mi ero cacciato con le mie
mani in quella
seccatura.
Tutto
per conquistare una ragazza che mi aveva sganciato uno schiaffo ben
assestato
al nostro primo bacio. Al primo bacio da sobri, per lo meno.
Mi
sentivo terribilmente ferito nell’orgoglio: non mi era mai
capitato che
qualcuno mi rifiutasse, soprattutto non mi mai capitato di dare
così tante
attenzioni a una ragazza per ricevere quel ringraziamento.
Ero
stato con Meredith Sulez, Santo Cielo!
Bonnie
non era niente di speciale eppure si comportava come se fosse superiore
a
tutti, come se si credesse superiore a me!
Non
vedevo l’ora di farla capitolare sul serio e spezzarle il
cuore in così tante
parti che le sarebbe risultato impossibile ricomporlo.
Dovevo
cambiare totalmente approccio. Mi dispiaceva ammetterlo ma
l’uccellino non era
così stupido come credevo: aveva fiutato qualcosa di
sospetto.
Mi
ero
mosso troppo in fretta, da quel momento sarebbe stato meglio procedere
lentamente. La recita del sentimentalone era un buon punto di partenza,
dovevo
soltanto stare attento a non farmi prendere dall’impazienza.
Se
Bonnie era rimasta affascinata da Honeycutt, quanto avrebbe resistito
con me?
Mi
serviva solo trovare il suo punto debole. Improvvisamente la festa di
Stefan
non mi parve più una tortura. Era l’occasione
perfetta per colpire.
Volevo
chiudere questa storia il più in fretta possibile, volevo
togliermi dalla testa
quella ragazzina dai capelli rossi che mi stava facendo diventare pazzo
con
quel suo modo di negarsi a me e soprattutto volevo scoprire che cosa
avesse in
realtà in mente Katherine.
La
festa di Stefan forse avrebbe risposto a qualche mia domanda. Quel
dannato
compleanno significava anche la fine delle vacanze, grazie al Cielo.
Ero
un
tipo piuttosto popolare, sempre circondato di gente, ma a Natale mi
ritrovavo
solo come un cane e mi sentivo uno sfigato. Odiavo quella sensazione,
perché io
non ero debole e normalmente non permettevo a nessuno di mettermi i
piedi in
testa, di ridurmi in quello stato. Amavo la mia compagnia, era la
migliore che
avessi mai sperimentato, ma non essere desiderato
m’infastidiva parecchio.
E
ultimamente
un po’ troppe persone avevano messo in chiaro di non gradire
la mia presenza,
cosa totalmente assurda per me.
Sbuffai
spegnendo la tv. Stavo cominciando a rimbambirmi a furia di canzoncine
di
Natale. Mi stesi sul divano, pronto per schiacciare un pisolino quando
qualcuno
bussò alla mia porta.
Per
un
attimo lo ignorai, sperando che avessero sbagliato o che desistessero.
I colpi
si fecero più insistenti.
Mi
alzai e aprii la porta con furia, pronto a scaraventare il rompiscatole
giù
dalle scale.
Dal
pianerottolo,
mi rivolse un mezzo sorriso una persona che mai mi sarei aspettato di
vedere:
mio fratello, Stefan.
“Ti
prego, dimmi che non sei lo spirito del Natale passato”
mormorai in un moto di
sarcasmo e incredulità.
Stefan
alzò un pacchetto di fronte ai miei occhi “Ti ho
portato i ravioli della
signora Flowers. Queste camere hanno una cucina da qualche parte,
vero?”.
Una
ventina di minuti dopo stavo mangiando con una certa
voracità quei ravioli
squisiti. La signora Flowers era sempre stata una maga con il cibo.
Era
da
tempo che non gustavo un buon pasto fatto in casa. Sebbene fossi un
cuoco
niente male, i miei piatti non avevano lo stesso sapore di quelli della
mia
governante.
“Che
cosa ci fai qui, fratellino?” gli chiesi, quando ebbi finito.
“È
Natale” rispose semplicemente.
Arcuai
le sopracciglia “Ti ha mandato Alaric per vedere se ero
ancora vivo?”.
“No”
negò “Quei ravioli erano avanzati, sarebbe stato
uno spreco buttarli”.
Non
servì il suo sorrisino divertito per capire la battuta. Non
so per quale strano
motivo mio fratello avesse deciso di passare del tempo con me e
soprattutto non
so per quale incredibile miracolo io non lo avessi ancora cacciato
fuori.
“Giuseppe
non si è arrabbiato? Non è da te lasciare
così presto il pranzo di Natale”.
“Papà
è
andato via presto questa mattina: doveva occuparsi di non so quale
problema”.
Allora
non aveva abbandonato solo me.
“Bene,
adesso che mi hai sfamato te ne puoi anche andare. Sono sicuro che tu
abbia già
altri impegni con Elena” lo liquidai.
Non
potevo dire di essere totalmente infastidito dalla sua presenza: in un
modo
strano e tutto mio quasi mi faceva
piacere. Di certo, però, non era mia intenzione gettarmi a
capofitto in una
giornata tra fratelli. Non ci ero abituato, non ne ero capace.
“Elena
è fuori città con la famiglia. Sono sicuro che lo
sai dato che anche Katherine
è con loro” mi rigirò contro le mie
stesse parole.
Ci
furono minuti di silenzio, poi Stefan sospirò rumorosamente
e parlò “Damon, io
sono qui anche perché devo parlarti di una
cosa…”
Non
lo ascoltai
neanche. Mi alzai di scatto dalla sedia e gli feci un cenno di
seguirmi. Mentre
ci dirigevano verso la mia camera, lui continuò a blaterare
a proposito di
qualcosa di assolutamente importante, ma non gli prestai attenzione.
Entrai
nella mia stanza e mi diressi subito alla cassettiera vicino al mio
letto. Mi
rigirai un attimo lo spartito tra le mani. Non si sarebbe ripresentata
occasione migliore per darglielo. L’idea consegnarglielo
davanti a tutti alla
festa non mi attirava molto.
Tutta
quella messinscena era in atto solo per intenerire Bonnie, per farle
cambiare
idea sul mio conto. Lei aveva già visto quel regalo, quindi
non avrei dovuto
impressionare nessun altro.
Grazie
alla visita a sorpresa di Stefan, potevo compiere la mia buona azione
senza perdere
la faccia davanti all’intera città.
Mio
fratello mi guardò stranito quando allungai la mano per
passargli i fogli
ingialliti dal tempo.
“Regalo
di compleanno un po’ in anticipo” gli annunciai.
“Mi
hai
comprato qualcosa?” domandò allibito.
“Credevi
che mi sarei presentato a mani vuote?” lo presi in giro.
“Credevo
che non ti saresti proprio presentato” ammise “The snow is dancing” lesse
“È di
Debussy” proseguì.
“Ed
è
l’originale” puntualizzai.
Sgranò
gli occhi e mi osservò sospettoso, quasi volesse una
conferma che era la realtà
e non un sogno. “Non ricordo di averla mai suonata”
aggiunse.
“Era
uno dei brani preferiti dalla mamma” gli dissi “Lo
eseguiva spesso. Ho
l’impressione che la melodia ti sarà molto
famigliare. Sembravi apprezzarla
quando eri ancora nella sua pancia”. Neppure mi resi conto
che eravamo entrati
nel pericoloso territorio della nostalgia.
“Damon,
io…” boccheggiò in cerca delle parole.
“Non
c’è di che”.
Stefan
strinse quello spartito come se fosse scritto con fili d’oro.
Non
avevo considerato l’impatto emotivo che un regalo del genere
avrebbe provocato,
non tanto su di lui, quanto su di me. Non avevo memoria
dell’ultima volta in
cui mi ero sentito così in sintonia come mio fratello e mi
accorsi che, in fin
dei conti, non era una sensazione malvagia.
“Che
cos’è che volevi dirmi prima” mi
affrettai a cambiare discorso.
Stefan
mi fissò combattuto e indeciso, aveva una strana tristezza
negli occhi che non
riuscivo a decifrare.
“Niente”
soffiò infine “Niente, solo…un semplice
buon Natale”.
Mia
sorella aveva superato se stessa.
Il
vestito che mi aveva regalato per Natale rasentava la perfezione
assoluta. Mary
aveva sempre avuto un ottimo gusto, non mi ero mai accorta,
però, che
possedesse anche un così buon occhio per le misure.
Non
ero
abituata a indossare abiti di quel genere, ero più la
ragazza jeans e maglietta
della porta accanto. Non mi sentivo a mio agio con i vestiti da sera,
avevo
solo l’impressione di apparire come un gigantesco clown,
ridicolo e sciocco.
Non
fu
la sensazione che percepii non appena provai l’abito: color
avorio, stretto in
vita e aderente nella sua parte inferiore fino alle mie ginocchia,
morbido e
fluente sul petto e sulle spalle a nascondere e a non appiattire
ulteriormente
il mio seno poco pronunciato.
Sorrisi
esterrefatta e arrossii da sola, osservandomi nello specchio. Ero
davvero io?
Non
che
fossi cambiata radicalmente, ma c’era qualcosa in
quell’abito, un’eleganza e
una raffinatezza che potevo avvertire su di me, dentro di me.
Ci
voleva davvero così poco per tirare fuori un po’
di fiducia in se stessi?
Non
sprecai molto tempo a rispondere a quella domanda. Mi truccai poco: un
po’ di
mascara e un leggerissimo rossetto, infilai le scarpe e il cappotto.
Elena
mi aspettava già in macchina con Stefan.
Alla
fine, l’idea del party a sorpresa era saltata miseramente:
lui non ci era
cascato. Senza contare che suo padre aveva già organizzato
tutto: una festa in
uno dei migliori locali vicino a Fell’s Church per il
compleanno del suo
figliolo prediletto, cui era stata invitata praticamente tutta la
scuola.
Si
sarebbe rivelata una baraonda micidiale, già lo sapevo.
E
infatti un gran casino fu proprio quello che ci accolse: musica
altissima, una
marea di persone che si agitava per tutto il locale, luci da capogiro,
chiarissime tanto che sembrava pieno giorno.
Una
scena da cinema. Definizione che non andava molto lontano dalla
realtà dal
momento che mi pareva di stare dentro un film.
“Porca
miseria” fu il commento scioccato di Elena “Tuo
padre si è veramente dato da
fare. Non ricordavo che il diciottesimo di Damon fosse
così” considerò.
“O
no,
papà organizzò una festa del genere anche a
lui” spiegò Stefan “Ma mio fratello
decise di boicottarla e spostò tutto a casa
nostra”.
Naturalmente
non ero stata invitata a quella festa, sapevo solo che un mese dopo
Giuseppe si
era trovato costretto a ristrutturare parte della villa per i danni
causati da
Damon e dai suoi amici.
“Verrà
stasera?” s’informò Elena.
“Non
credo…questo non è il suo gen-” si
bloccò quando i suoi occhi individuarono la
figura del fratello, intento a parlare con Tyler e Katherine.
“Mi
è
salita la nausea” sibilò Elena alla vista della
sorella “Le brutte sorprese di
Capodanno” borbottò sgusciando via.
“Che
cosa diamine ci fa qui?” sbottò Stefan irritato
“Elena mi aveva detto che
subito dopo il Natale sarebbe partita per Parigi per passare le vacanze
con la
zia. L’avrei informata che la sua presenza non era gradita se
avessi saputo che
era tornata. Perché Elena non mi ha avvisato?”.
“A
giudicare dalla sua espressione, anche lei lo ha scoperto
stasera” gli dissi
per cercare di calmarlo: aveva la mascella contratta e gli occhi che
mandavano
fiamme, non l’avevo mai visto così infuriato in
vita mia.
“Non
la
voglio qui, non voglio che faccia danni” affermò
risoluto “Damon mi ha fatto un
regalo, sai?” mi raccontò “E stasera
è venuto alla mia festa. Ci stiamo
riavvicinando e non voglio che quella sgualdrina rovini
tutto”.
“Quand’è
che te l’ha dato?” chiesi sconcertata. Da quello
che avevo capito, Damon
avrebbe dovuto darglielo quella sera.
“Sono
andato a trovarlo il giorno di Natale. Avevo intenzione di rivelargli
tutto su
Katherine. Poi lui ha tirato fuori quel regalo bellissimo
e…non ho potuto
dirglielo. Non me la sono sentita”.
Sospirai:
avevamo appena sfiorato la catastrofe mondiale. Se Damon fosse venuto a
conoscenza di quello che era successo, sarebbe scoppiata
l’apocalisse.
“Non
penso che Katherine sia qui per creare problemi. È qui
perché è Capodanno e non
aveva nessun altro posto dove andare. Tutta la scuola è qui,
Damon è qui, lei
ha semplicemente seguito la massa” lo consolai “Se
fossi in te, cercherei Elena
e poi scambierei due parole con tuo fratello, non appena la vipera si
allontana”.
Stefan
si rilassò percettibilmente alle mie parole, ma era
chiaramente ancora agitato.
“Forza,
è la tua festa!” lo incitai “Goditela.
Un po’ di divertimento non ha mai ucciso
nessuno” gli ricordai canticchiando la canzone in sottofondo.
In
effetti, la serata continuò senza grandi problemi. Vidi
Damon e Stefan
scambiarsi qualche parola, niente di che, ma comunque un gran passo
avanti
rispetto al solito.
Elena
e
sua sorella s’ignorarono. Meredith sembrava su un altro
pianeta, come da un po’
di tempo a questa parte e Caroline si stava dando alla pazza gioia tra
champagne e danze.
Tutto
regolare, tutto tranquillo.
Le
mie
preoccupazioni via via scemarono e cominciai anche io a godermi il
party. Mi
tenni lontana dall’alcol per non ripetere
l’esperienza dell’altra volta, ma mi
lasciai trascinare sulla pista da ballo da Care.
Procedeva
tutto splendidamente e forse sarebbe andato ancora meglio, se a un
certo punto,
osservando Katherine vagare da sola, non avessi deciso di mettere un
paio di
cose in chiaro.
Mi
districai da Caroline che continuava ad agitare le mie braccia come una
matta e
serpeggiando tra la massa, mi trovai proprio di fronte a Katherine.
Mi
guardò dall’alto al basso, un po’
sorpresa dalla mia spavalderia. Era chiaro
che volessi parlare e probabilmente mi credeva ancora spaventata a
morte da
lei.
“Bonnie”
sorrise falsamente “Non è un po’ tardi
per stare in giro? È quasi mezzanotte”.
Non
accolsi la provocazione “Perché sei
qui?”.
Lei
si
accigliò “È l’ultimo
dell’anno, di solito si festeggia. Capisco che tu non ci
sia molto abituata: tutta questa euforia dev’essere difficile
da gestire per
te”.
Non
le
permisi d’intimidirmi. Ignorai le sue continue frecciatine e
replicai “Non so
che cosa tu abbia in mente, ma la festa di Stefan, la
vita di Stefan” mi corressi
“È off limits,
quindi non provare a intrometterti, stagli lontano”.
“Altrimenti?”
sollevò un sopracciglio. Katherine Gilbert non era certo
tipo da permettere a
chiunque di minacciarla e passarla liscia.
“Non
ho
problemi a raccontare a Damon quello che è
successo” sentenziai.
“E
cosa
sarebbe successo, illuminami” mi provocò
“Crederebbe alla parola del suo odiato
fratello e di quella sfigata della sua migliore amica, o alla sua
ragazza di
cui è pazzamente innamorato?”.
Mi
venne da ridere a quell’affermazione. Damon Salvatore non era
mai stato
innamorato di nessuno, di certo non di lei che era solo il pallido
riflesso del
vero angelo, Elena.
“Mettiamolo
alla prova”. Da dove mi usciva quel coraggio?
“Tu
non
dirai niente, Bonnie” m’intimò
“Perché conosco molte più cose di
quanto tu
pensi: non faresti mai niente che possa danneggiare le tue
amiche”.
“Elena
non ne soffrirà. Sei tu la traditrice, non Stefan”
sbuffai.
“Non
parlavo di Elena, ma di Meredith” ghignò
“Non mi considero un’esperta di
diritto, ma sono abbastanza certa che intrattenersi con il professore
di storia
sia illegale”.
Impallidii.
Come poteva Katherine essere a conoscenza di ciò che era
avvenuto tra Meredith
e Alaric?
Al
momento inorridii, poi mi presi un attimo per riflettere. Meredith e il
professor Saltzman non avevano fatto niente di male: non appena avevano
scoperto di essere alunna e insegnante avevano lasciato perdere
qualunque tipo
di relazione che non fosse professionale.
“Questa
è un’assurdità bella e buona. Il
preside non ti crederà mai” ribattei.
“Vogliamo
metterlo alla prova?” mi rigirò contro Katherine
“Rinunciaci, Bonnie, accetta
la sconfitta. Sarò sempre e comunque un passo avanti a
te”.
Cinque
minuti dopo mi trovavo in terrazza. Faceva un freddo cane e non
c’era nessuno,
proprio quello che mi serviva.
Avevo
davvero bisogno di sbollire un po’ la rabbia e avrei preso
Katherine per i
capelli. Gli occhi mi pizzicavano dal nervoso e la testa mi doleva
paurosamente. Tutte quelle chiacchiere su Meredith, poi, mi avevano
spiazzato.
Per
concludere, Katherine Gilbert mi aveva battuto un’altra volta
e io ero stata
così stupida da cascarci.
Era
tremendamente fastidioso non riuscire a tapparle la bocca, non riuscire
a
togliermi quella dannata soddisfazione.
E
ciò
che mi spaventava di più era la calma e la sicurezza che
aveva dimostrato.
Stava di sicuro macchinando qualcosa e io non potevo fermarla.
“Non
sei in vena di stare in mezzo al chiasso, sweetheart?”.
Quella
voce mi sciolse come la neve al sole, l’avrei ascoltata per
tutta la vita.
“Klaus”
mi voltai quasi raggiante.
“È
da
molto che non ci vediamo” osservò mentre compiva
qualche passo verso di me.
“Dove
sei stato?”.
“Un
po’
in giro” rispose “Ho visitato la Virginia coloniale
e mi sono interessato per
qualche università”.
“Vuoi
continuare qui gli studi?”.
“Magari
per un master” suppose “Devo ancora parlarne con la
mia famiglia”.
Annuii
senza controllare il rossore che prepotente colorava le mie guance.
Klaus aveva
un fascino sinuoso e raffinato, uno sguardo attento e ipnotizzante.
Quando
parlava, mi sembrava di venire lentamente e dolcemente soggiogata, cullata. Adoravo quella sensazione.
“Perché
sei qui fuori tutta sola?” mi domandò.
Scrollai
le spalle “Non ero in vena del chiasso” ripetei le
sue stesse parole.
“Chiasso
a Capodanno, davvero singolare” commentò con una
nota ironica “Però ti do
ragione: alcune persone lì dentro sono parecchio
fastidiose”.
“Klaus
posso farti una domanda?” chiesi di getto.
“Tutto
quello che vuoi, darling”.
“C’è
un
motivo in particolare per cui vorresti trasferirti? Che so: cambiare
aria,
costruirti una nuova vita, circondarti di gente che non
conosci”.
“È
questo che vuoi tu? Circondarti di gente che non conosci?”
s’incuriosì di
rimando. Non era stupido, aveva intuito che tutto il discorso fosse
più rivolto
a me che a lui.
“Non
ne
sono sicura. Immagino che sia più facile quando le persone
non sanno come sei,
perché puoi diventare chiunque”.
“Senti
di dover essere qualcun altro?” si accigliò
“Non trovo che ci sia nulla di male
in te”.
“Vorrei
solo dimostrare a tutti che sono cambiata, ma nessuno sembra disposto a
crederci. Sono un po’ stufa di sforzarmi così
tanto, come se fossi
costantemente sotto esame. Alla fine è tutto inutile,
fallisco sempre” conclusi
affranta.
“In
effetti, credo proprio che tu abbia fallito”
concordò con me Klaus.
“Grazie
tante, questo lo so” borbottai piccata, incrociando le
braccia. Nemmeno mi
accorsi che due mani si erano poggiate delicatamente sul mio volto, non
fin
quando fui costretta a incrociare i suoi occhi chiari.
“Ti
preoccupi talmente tanto di quello che pensano gli altri che tu stessa
non ti
sei neanche accorta di quanto in realtà sei
cambiata” mi soffiò a pochi
centimetri dal viso.
Era
vero? Ero cambiata senza rendermene conto?
Sicuramente
mi sentivo diversa dalla ragazzina spaurita di qualche mese prima.
Forse Klaus
aveva ragione, forse non volevo ammetterlo neppure a me stessa.
Udii
in
lontananza e distrattamente i miei amici che incominciavano il conto
alla
rovescia per la fine dell’anno. Le mie mani, invece,
iniziarono a tremolare e a
sudare.
Allo
scoccare dello zero era tradizione baciare qualcuno, che fosse un
fidanzato, un
amico, o un perfetto sconosciuto bello da morire.
Realizzai
in mezzo secondo che su quella terrazza c’eravamo solo noi
due e, data la
vicinanza, Klaus sembrava del tutto intenzionato a baciarmi.
Ripensai
a qualche tempo prima, quando lo consideravo solo una sorta di piacere
proibito, guardare e non toccare.
Avevo
rifiutato il suo invito a uscire perché stavo con Matt.
Adesso
ero totalmente libera, non dovevo più riguardo a nessuno.
Matt mi aveva
scaricata malamente; c’era qualche altra ragione che
m’impediva di lasciarmi
andare?
Klaus
non rimaneva più nella dimensione
dell’immaginazione, non era una fantasia, era
lì di fronte a me, le sue mani mi tenevano ancora il volto e
la fine del
countdown si avvicinava.
Non
mi
sarei spostata nemmeno per tutto l’oro del mondo: ero ben
decisa a prendermi il
mio bacio di Capodanno da quello schianto di ragazzo che con una
semplice frase
era stato capace di risollevarmi l’umore.
Allo
zero, Klaus si piegò su di me e io chiusi gli occhi.
Avvertii il suo respiro
sulla bocca, ma presto si allontanò scaldando la mia
guancia. Con mia somma
delusione, le sue labbra si posarono proprio sotto il mio orecchio e,
comunque,
mi mandarono i brividi fino ai capelli.
“Mi
dispiace, darling, ma temo che
qualcuno non sarebbe felice se ti baciassi veramente” mi
mormorò, lasciando la
presa.
Mi
voltai e intravidi giusto tempo la figura di Matt sparire dal vetro
della porta
finestra.
Non
mi
sentii in colpa, almeno non del tutto.
Mi
chiesi, però, perché Klaus fosse così
rispettoso dei sentimenti di Matt.
Neanche si conoscevano.
“Tra
me
e lui non c’è più nie-” mi
affrettai a specificare.
Ma
su
quella terrazza ero rimasta solamente io. Klaus se n’era
andato.
Tyler
fece l’ennesima battuta sull’ennesima ragazza che
si era portato a letto la
sera prima. Katherine lo ascoltava con un ghigno stampato in faccia e
rincarava
la dose di frecciatine. Era decisamente il tipo che si trovava meglio
in mezzo
ai maschi, con quel suo fare da civetta e la risposta sempre pronta.
La
sua
presenza, in realtà, non era prevista: mi aveva chiamato
dall’aeroporto
pregandomi di andare a prenderla; non voleva più partire per
Parigi, ma restare
in famiglia e festeggiare il Capodanno con i suoi amici.
Si
era
cambiata e sistemata in macchina, nel tragitto di ritorno, e il
risultato
rimaneva comunque ottimo. Non vedevo l’ora di restare un
po’ da solo con lei.
Mi
resi
conto che Katherine non aveva ancora avvertito la sua famiglia, quando
scorsi
Elena trafiggerla con gli occhi, forse nella speranza di farla
evaporare.
La
mia
attenzione gravitò stranamente poco intorno a lei:
virò in fretta sulla figura
accanto.
Non
ebbi problemi a riconoscere Bonnie: il suo stile, la sua innocenza e
ingenuità
erano perfettamente riconoscibili, ma qualcosa di diverso brillava in
lei.
Appariva più sicura e consapevole, a suo agio
nell’abito chiaro che delineava
il suo corpo ancora un po’ acerbo, da ragazzina. Per una
volta, però, non mi
parve un difetto.
Aveva
compiuto una scelta migliore rispetto alla festa di inizio anno, quando
si era
presentata strizzata in un pezzo di carta stagnola.
Quella
sera realizzai che Bonnie McCullough non era affatto male. Tyler aveva
provato
a urlarmelo in tutte le lingue e io stupidamente non l’avevo
ascoltato.
Mi
premurai bene di nascondere la sorpresa e l’apprezzamento
sorti alla vista
della rossa. Avevo ancora una certa reputazione da mantenere e non
desideravo
darla vinta così facilmente a quel decerebrato di Tyler.
Tenni
per me quei pensieri e ascoltai, senza prestarvi veramente caso, i
commenti
poco gentili che Katherine rivolse a sua sorella e a Bonnie.
Quando
l’uccellino sparì tra la folla, sparì
anche dalla mia mente. Ritornai a essere
il solito me stesso e a scherzare con Tyler, stringendo Katherine.
Nel
corso della festa scambiai anche due parole civili con Stefan e per la
prima
volta non provai un gran fastidio a vedere Elena accanto a lui.
Non
appena notai che mancavano pochi minuti alla mezzanotte, condussi
Katherine
lontano dal casino. Era da molto che non stavamo insieme e avevo voglia
di trascorrere
un po’ di tempo con lei, da soli. Non potevo accontentarmi
soltanto di un
bacio, avevo bisogno di più, avevo bisogno di farla e
sentirla mia.
Mai
nella vita avrei pensato che proprio Bonnie avrebbe rovinato i miei
piani, ma
così fu.
Individuai
la sua sagoma e quella di un’altra persona fuori in terrazza.
L’aria
si era raffreddata parecchio, aveva smesso di nevicare da poco; non
capii
perché qualcuno dovesse patire il gelo in quel modo.
Finalmente
identificai l’altro: Klaus. Klaus piegato sul viso di Bonnie,
Klaus un po’
troppo vicino al viso di Bonnie per essere una conversazione innocente.
Mio
cugino incrociò per un breve istante i miei occhi, prima di
poggiare la sua
bocca sulla pelle della ragazza.
Nella
stanza accanto esplose un boato per l’anno nuovo. Scorsi Matt
Honeycutt,
palesemente irritato, marciare via dalla porta finestra, verso
l’altra sala;
poi Katherine mi si gettò addosso, parandomi la visuale, e
coprì le mie labbra
con le sue.
Agognavo
quel contatto da tutta le sera, eppure non dimenticai la scena cui
avevo appena
assistito: continuò a frullarmi in testa anche quando le
mani della mia ragazza
scivolarono nei miei pantaloni.
Riuscii
a scacciarla solamente qualche minuto più tardi, mentre
prendevo Katherine in
un angolo buio, contro al muro, a pochi metri dai festeggiamenti, con
il
rischio di venire pure scoperti. Un suo gemito spodestò
infine l’ultima
considerazione:
Bonnie
non me l’avrebbe mai lasciato fare.
Ritornammo
in mezzo agli altri, nessuno si era accorto di niente, troppo occupati
a
divertirsi. Non c’era traccia di Bonnie; sperai che non
avesse già abbandonato
il party.
Dovevo
ancora mettere in atto il mio piano per riacquistare la sua simpatia,
sempre
che ce l’avessi mai avuta!
Mi
scusai con Katherine e iniziai la mia ricerca tra la folla,
scandagliando ogni
angolo, ma di capelli rossi non vi era neanche l’ombra.
Stavo
per gettare la spugna, quando il mio sguardo intercettò
Klaus appoggiato al
muro, che sorseggiava da solo un bicchiere di champagne.
Nuovo
obiettivo: segnare il territorio.
Non
persi tempo in convenevoli, non aggirai la situazione prendendola
larga. Andai
dritto al punto “Che cosa pensi di fare con Bonnie
McCullough?”.
Lui
sollevò il capo e mi fissò sconcertato
“Scusami?”.
Aveva
capito benissimo, faceva il finto tonto.
“Ti
ho
visto prima sulla terrazza. Ti conosco, Klaus, so quando ci stai
provando con una
ragazza” lo accusai.
“Non
ti
seguo: qual è precisamente il problema?”
“È
impegnata”.
“Da
quanto mi risulta non esce più con quell’amico di
Stefan”.
Si
stava divertendo un mondo, lo percepivo dal suo ghigno.
“Klaus
tu vivi a Londra. Quali sono le tue intenzione: sedurla e
abbandonarla?”
“Ti
stai prodigando veramente tanto per una persona con cui non parli
nemmeno” mi
rinfacciò con tutto il suo aplomb tremendamente british.
“Bonnie
è la regina del dramma, va bene? Come salirai
sull’aereo, inizierà a piangere e
a strapparsi i capelli. Sarà una scena tragica e non ce ne
libereremo per
almeno due mesi. Fidati, stalle lontano, se non vuoi essere tempestato
di
messaggi e di email strappalacrime” gli consigliai. Stavo
decisamente
esagerando la cosa, ma dovevo indurlo a scappare a gambe levate per
avere campo
libero.
Lo
scenario che gli avevo preannunciato non sortì alcun effetto.
“Damon,
ti infastidisce che io ci provi con Bonnie?”.
Di
sicuro non ottenni l’effetto che avevo sperato.
Ma
quanto era stupido? Io geloso di lui e Bon Bon?
Sembrava
l’inizio di una barzelletta.
“È
questo che voi inglesi chiamate humor?”
“Per
esperienza, se un ragazzo ti racconta tante fandonie solo per
scoraggiarti,
significa che c’è qualcosa sotto”.
C’è
una cazzo di scommessa sotto e se non ti
togli dai piedi, mi renderai la vita molto difficile!
“Dammi
retta, Klaus, scappa finché sei in tempo” gli
suggerii. Non tirai ulteriormente
la corda: la conversazione aveva preso una piega che non mi piaceva per
nulla,
era meglio finirla lì. Mi augurai che avesse capito il
messaggio.
“Io
di
certo sono ancora in tempo, la stessa cosa non si può dire
di te” insinuò
“Forse sei venuto a questa festa con la ragazza
sbagliata”, non aggiunse altro.
Mi superò, tornando a immergersi tra la folla.
Scossi
la testa sfinito. Ci mancava solo questa: ma come poteva anche solo
pensare che
io avessi un debole per quell’irritante testolina rossa?
Come
se
l’avessi chiamata, Bonnie mi passò accanto proprio
in quell’istante, senza
degnarmi di uno sguardo.
Mi
scordai subito delle parole di Klaus e mi concentrai su di lei. Era la
mia
occasione, non me la sarei fatta scappare.
“Uccellino”
la canzonai.
Probabilmente
finse di non sentirmi perché non si voltò.
Scocciato,
le afferrai un polso. Bonnie si bloccò sul posto e si
dimenò sgusciando dalla
mia stretta “Non mettermi le mani addosso”
sibilò.
“Non
dirmi che mi hai preso per uno stupratore” osservai scettico.
“Ti
ho
preso per uno da cui dovrei stare alla larga” rispose acida.
La
gattina aveva tirato nuovamente fuori gli artigli.
Mi
imposi di tirare un respiro profondo e non mandarla a quel paese seduta
stante.
Stavo per esibirmi nella messinscena più riuscita della mia
vita; quella messa
in atto ad Atlanta in confronto era una recita da asilo materno.
“Sono
qui con buone intenzioni” le assicurai “Volevo
chiederti scusa… –
quant’era
difficile –
sì, ti chiedo scusa, Bonnie, per il bacio
dell’altro
giorno. Con Katherine è un periodo un po’
complicato e quel bacio è stato una
specie di ripicca, una stupida vendetta. Non avrei dovuto trascinarti
nei
nostri casini, avevi ragione e mi dispiace”.
Dalla
sua espressione era chiaro che il mio discorso l’avesse
colpita. Non capitava
tutti i giorni che Damon Salvatore chiedesse perdono e ammettesse di
aver
sbagliato.
Si
trattava di una montagna di bugie, ma finché risultavano
efficaci non me ne
importava.
“Adesso
sembra tutto risolto” commentò, alludendo alla
situazione con Katherine.
“Lo
è”
confermai.
Lei
parve tentennare: aprì la bocca più volte e la
richiuse altrettante, appariva
combattuta “Damon non…voglio
dire…” temporeggiò “Tu sei
terribile” dichiarò “Ma
lei è peggio. Non perderci troppo tempo, non ne vale la
pena”.
Non
compresi il significato di quel consiglio. Non mi turbarono tanto le
parole
quanto la genuinità con cui me le disse. Un campanello di
allarme suonò nella
mia testa e io, scioccamente, scelsi d’ignorarlo.
Decisi
di smorzare l’atmosfera, per evitare di rimuginarci troppo
“Andiamo, Bon Bon,
non ti sarai mica presa una cotta per me?”
Bonnie
assottigliò le labbra, stizzita, e mi diede una leggera
spinta per oltrepassarmi.
Io
ghignai soddisfatto.
“Stai
davvero bene stasera” mi complimentai mentre lei marciava
via. Rallentò
percettibilmente la camminata, pur non fermandosi del tutto;
girò per metà il
viso, poi proseguì senza prestarmi più attenzione.
Tra
i
due, comunque, quello più stupito ero io.
Me
ne
rimasi lì, immobile, con una strana espressione a dipingermi
il volto.
Stai
davvero bene stasera.
Un
colpo da maestro, una chiusura perfetta.
Me
ne
sarei anche compiaciuto, se non avessi constatato con estrema
preoccupazione,
che quella frase si era rivelata troppo spontanea, troppo sincera e
soprattutto
troppo vera.
Il
mio
spazio:
1
2
3
4
5
Mi
ripresento con estrema umiltà, nella speranza di evitare
lanci di pomodori o
insulti.
Da
quant’è
che manco? Non quantifico, perché me ne vergogno da sola.
So
di
aver detto che avrei aggiornato durante l’estate, eppure sono
sparita. Sono partita
per Londra e quando sono tornata la tesi mi attendeva minacciosa.
Mi
scuso
davvero per l’attesa. D’ora in poi gli
aggiornamenti saranno più frequenti. Mi scuso
anche per il ritardo immenso nelle risposte alle vostre recensioni.
Forse
vi
sono apparsa un po’ ingrata e maleducata. Non lo
farò più, giuro!
Il
capitolo è un più lunghetto rispetto agli altri.
Mi auguro che vi sia piaciuto
e che abbia rimediato all’assenza di questo mese.
Il
prossimo capitolo sarà incentrato quasi interamente su Damon
e capiremo molto
cose sul comportamento ambiguo di Katherine.
Klaus
presto
ci lascerà e sarà chiaro il ruolo che ha in
questa storia, sebbene sia già
abbastanza palese. Solo Damon è talmente cieco da non
rendersene conto.
Il
nostro
protagonista sta cuocendo a fuoco lento, la nostra protagonista
è, invece,
completamente indifferente al suo fascino. Come cambierà
questa situazione?
Avete
apprezzato
il momento tra fratelli? Secondo voi tra quanto scoppierà la
bomba?
Una
piccola
spiegazione sul titolo: birtheve è
una parola inventata da me.
È
un
incrocio tra birthday (quello di
Stefan) e eve.
Eve
vuol
dire vigilia e in questo caso si riferisce alla notte di Capodanno.
Fa
un
po’ schifo, vero? Ahaha
Per
ora
vi do la buona notte!
Vi
ringrazio infinitamente per i commenti e il sostegno. Ho notato che
sono
aumentati anche i preferiti e i seguiti, grazie tantissimo!!!
Scusatemi
ancora per i ritardi! Ormai sarete stufe delle mie continue
giustificazioni =(
Ci
vediamo
presto con il prossimo capitolo!
Banner
di bumbuni.
Bacioni,
Fran;)
Ps:
trovate che le personalità dei personaggi stiano scadendo
nell’OOC? Ho cercato
di mantenere un’evoluzione fedele, ma un parere in
più mi rende sempre più
obiettiva, perciò se avete critiche, non esitate!
Pss:
se non avete mai ascoltato la canzone a inizio capitolo, fatelo. E'
bellissima!
*La
Dartmouth è
un’università molto
prestigiosa negli Stati Uniti e fa parte dell’Ivy
League, ovvero un titolo che accumuna le otto migliori
università private degli U.S.A: oltre a Dartmouth, abbiamo
Harvard, Yale,
Columbia, Brown, Princeton, Cornell, Pennsylvania.
|
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Capitolo 15 *** Slutherine's day ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo quindici: Slutherine’s day.
“I remember years ago
Someone told me I should take
Caution when it comes to love, I did
And you were strong and I was not
My illusion, my mistake
I was careless, I forgot , I did
[…]
Tell them I was happy
And my heart is broken
All my scars are open
Tell them what I hoped would be
Impossible, impossible”
(Impossible-
James Arthur).
Ma
che
diamine ci facevo lì davanti?
Chi
volevo prendere in giro?
Non
avevo frequentato praticamente neanche una lezione per tutto il
semestre e il
momento per la rinuncia agli studi si avvicinava. Non aveva senso
affrontare quell’esame.
Avevo
deciso mesi prima di lasciare l’università, avevo
litigato pesantemente con mio
padre per quello, ero pronto per iniziare a vivere la mia vita senza
nessuna
interferenza.
Eppure
da qualche minuto stanziavo davanti all’aula
dell’esame, indeciso se entrare o
no. Avevo pensato più volte alla possibilità di
sostenerlo. Se inizialmente ero
risoluto a non buttare via tempo, ora cominciavo a non essere
più tanto sicuro.
Mia
madre
sarebbe stata così orgogliosa se mi fossi laureato;
abbandonare così
miseramente appariva quasi un tradimento.
Sapevo
di essere parecchio intelligente, non era la mole di lavoro a
spaventarmi: avrei
potuto recuperare l’anno perso in una sola sessione.
Alla
fine avevo deciso di tentare un unico esame e vedere l’esito,
poi avrei
valutato che cosa fare, tutto ciò all’oscuro di
mio padre.
Non
avevo molto interesse a recuperare il nostro rapporto e soprattutto non
desideravo venire riaccettato solo per aver ceduto a un ricatto.
Nessuno
era a conoscenza di quella decisione, nessuno tranne Katherine. Avevo
sentito
il bisogno di parlarne con qualcuno e lei mi capiva meglio di chiunque
altro:
sebbene a mio parere la situazione fosse ben diversa, anche i suoi
genitori
avevano difficoltà a starle accanto. I signori Gilbert erano
certamente delle
bravissime persone, ma erano sempre stati abituati alla perfezione di
Elena; il
carattere di Katherine era ben più difficile da gestire. Loro, però, non avevano
sbattuto la figlia fuori di casa.
Non
che
mi facesse schifo l’idea di prendere una dannata laurea,
poteva risultare
sempre utile e mi avrebbe anche reso orgoglioso di me stesso. Quello
che mi
rifiutavo categoricamente di
accettare
era la vanagloria di Giuseppe.
Finire
l’università, concludere ciò che avevo
iniziato mi sembrava tanto come piegarmi
al suo volere, come se fosse stato tutto merito suo.
A
pensarci bene, non ricordavo nemmeno un mio successo in cui, in qualche
modo,
non ci fosse anche il suo zampino, non richiesto chiaramente.
D’altra
parte non desideravo nemmeno passare la mia vita a sperperare i suoi
soldi, a
dipendere da lui. Agognavo totale indipendenza e distacco da
quell’uomo e
forse, per assurdo, accontentarlo con quella stupida laurea mi avrebbe
fornito
le basi costruire qualcosa di mio.
In
fin
dei conti, non me ne fregava niente di vederlo contento, ma volevo che
mia
madre fosse davvero fiera di me, ovunque si trovasse.
Spalancai,
dunque, le porte dell’aula ed entrai. Un paio di volti si
girarono, ma
tornarono in fretta a concentrarsi sul manuale negli ultimi minuti che
restavano.
Mi
sedetti stancamente nelle prime file. Ai tempi del liceo copiavo come
un matto
e avevo anche un certo talento: avevo le piene capacità per
superare ogni tipo
di test, ma nel contempo non avevo mai voglia di sprecare energie sui
libri.
Ora,
all’università avevo deciso di provare a fare le
cose per bene.
L’esame
si rivelò più semplice di quanto mi aspettassi,
lo finii anche prima dello
scadere del tempo. Uscii dall’aula con un moto di
compiaciuto. Ero certo di
averlo passato.
Mi
ero
dimenticato delle sensazione di leggerezza che sopraggiungeva dopo aver
sostenuto un esame, potevo abituarmici.
E
se
l’università fosse stata davvero il mio posto?
Avevo
speso
talmente tanto tempo a incolpare mio padre, ad autoconvincermi di non
aver
scelto io quella facoltà, che non mi ero mai accorto di
quanto, invece, quel
mondo mi facesse stare bene.
Sapere
di aver combinato qualcosa di buono nella vita era sempre una grande
soddisfazione, non trovavo giusto privarmi di un traguardo
così importante solo
a causa di quell’idiota.
Alaric
mi aveva suggerito di rimandare qualsiasi soluzione alla fine della
prima
sessione di esami e cominciavo a credere che fosse una buona idea.
Il
mio
futuro buttato al vento per una leggerezza non rappresentava proprio
una bella
immagine e supponevo che quello a rimetterci sarei stato io.
Nel
cortile principale, di fronte all’ingresso, mi aspettava una
meravigliosa e
gradita sorpresa: Katherine.
Era
appoggiata
alla portiera della sua macchina, un piede accavallato
sull’altro e le braccia
incrociate mollemente al petto. Portava dei pantaloni particolarmente
stretti e
neri e un giaccone dello stesso colore, segnato sulla vita. I tacchi le
slanciavano ancor più la figura.
Uno
spettacolo da acquolina alla bocca.
“Hai
finito presto” notò quando mi fui avvicinato.
“Era
per bambini delle elementari” mi vantai.
“E
scommetto che tu sei un genio della finanza” mi
stuzzicò.
“Hai
dubbi?” replicai “A quest’ora hai scuola,
non dovresti essere qui”.
“Lo
so”.
“Potresti
finire nei guai”.
“Lo
so”
mormorò ancora puntando i suoi occhi nei miei.
“Faresti
meglio a tornare là”, ma nemmeno io lo dissi con
convinzione.
“Lo
so”
ribadì distrattamente prima di mordicchiarmi sensualmente le
labbra con i denti
“Sono venuta per premiare il mio intelligentissimo
ragazzo”.
Le
posai le mani sui fianchi e l’allontanai di poco, cercando di
evitare quel
maledetto contatto tra i nostri bacini che stava risvegliando certi
istinti del
mio corpo.
“Katherine,
sono appena rientrato in università, non vorrei essere
sbattuto subito fuori
per attività illecite in luogo pubblico”.
“Pensi
che nel regolamento ci sia qualche divieto esplicito sul
sesso?” mi chiese
curiosa.
“Penso
che rientri negli atti contro il buon costume”.
“Oh”
trillò contrita “Allora è proprio una
fortuna che abbia la macchina con me”
civettò.
“Già,
ma ritengo più conveniente la mia camera vuota a due passi
da qui”.
Le
perplessità che mi avevano attanagliato qualche attimo
prima, svanirono nel
momento in cui lei mi prese la mano invitandomi a farle strada.
Il
tragitto fu breve, silenzioso e frettoloso. Nemmeno ci preoccupammo di
chiudere
la porta a chiave. Non importava quante volte avessi già
esplorato il corpo di
Katherine, non me ne stufavo mai.
Era
una
ragazza scontrosa, competitiva, estremamente egocentrica e vanitosa,
difficile
da domare, ma forse era proprio il suo lato ribelle e imprevedibile ad
attirarmi.
Katherine
mi teneva testa, Katherine m’incantava come un elegante
felino, sapeva imporsi
e brillare. La maggior parte delle volte mi capiva al volo e non
sprecava tempo
in inutili chiacchiere, cercava soluzioni e riempiva i vuoti con la sua
presenza.
Quella
mattina, come sempre, mi persi in lei, nei dolci brividi che il suo
corpo mi
donava, nella confortante percezione che fosse mia e solo mia.
“Non
vedo l’ora che finisca la scuola, così io e te
potremo trasferirci a Parigi”
considerò, mentre ricadeva con grazia sul materasso, un
po’ stanca.
Alzai
la testa dal cuscino, confuso “Parigi?”.
“Sì”
confermò lei “Dopo il diploma ho intenzione di
tornare là per riprendere la mia
carriera da modella. Tu non hai problemi a seguirmi, la tua futura
laurea ti
permetterà di lavorare dappertutto. Mi sembra un piano
eccellente: ti
allontanerai finalmente da tuo padre”.
Un
posto per me valeva l’altro, avevo già preso in
considerazione l’idea di
trasferirmi da qualche altra parte, soprattutto per una vantaggiosa
offerta di
lavoro.
Quello
che mi disturbava era la facilità e la disinvoltura con cui
Katherine aveva
preso quella decisione, senza neanche parlarmene.
Se
io
mi fossi rifiutato, lei sarebbe partita lo stesso?
Non
ero
un ingenuo, sapevo perfettamente che una storia sbocciata al liceo
aveva ben
poche speranze di durare a lungo, ma Katherine non appariva minimante
turbata
da una possibile separazione, come se desse per scontato il mio
consenso o
ancora peggio come se non le importasse.
“Da
quello che ricordo anche New York offre grandi opportunità
per la moda. Non
dobbiamo per forza oltrepassare l’oceano” le feci
notare, accarezzandole il
braccio. Ero semplicemente curioso della sua reazione.
“Damon”
disse con calma “La mia vita è a Parigi, me ne
sarei rimasta là se i miei
genitori non mi avessero obbligato a tornare qui per l’ultimo
anno. Ma tra poco
diventerò maggiorenne e nessuno potrà dirmi cosa
devo fare”.
“Parigi
non è proprio la mia prima opzione” replicai.
“Certo
che lo è!” obiettò “La tua
prima opzione è ovunque io ci sia”,
sparì sotto le
lenzuola e percorse tutto il mio torace con le labbra.
Ma
quella conversazione mi aveva lasciato con l’amaro in bocca e
non riuscii a
godermi la mia coccola preferita.
Qualche
ora più tardi, Katherine mi diede un passaggio fino a casa
di Alaric. Il mio
amico non era rientrato. Aprii con il doppione delle chiavi che mi
aveva
consegnato lui stesso e mi accomodai sul divano, con una birra, in
attesa del
suo arrivo.
Non
mi
notò subito: buttò le chiavi sul comò
all’ingresso e il giaccone
sull’attaccapanni, poi si diresse verso il frigo.
Fu
lì
che qualcosa lo insospettì: gli avevo fregato
l’ultima birra.
Si
girò
confuso e quando i suoi occhi incrociarono i miei, divennero furiosi.
Mi
prese la lattina dalle mani “Ti farai mai una vita
tua?” berciò.
“Sai,
amico, più invecchi più diventi egoista. Che fine
ha fatto ‘mi casa es tu casa’?”.
“Prima
di tutto questa è la mia casa e non la tua!”
precisò “Secondo, mi piacerebbe
non preoccuparmi degli intrusi ogni volta che esco”.
“Intruso,
che parolone!” storsi il naso “È questo
il modo di trattare un amico che è
venuto a farti visita?”
“Di
solito questo amico vuole favori”.
“No
grazie, preferisco le ragazze, ma apprezzo
l’offerta”.
Alaric
mi mandò a quel paese con un gesto della mano e
continuò a sorseggiare la sua
birra.
“Oggi
ho sostenuto un esame” gli rivelai di getto.
Adoravo
dargli fastidio, ma quel giorno volevo parlare di cose serie. Alaric
era il mio
migliore amico e l’unica persona di cui mi fidassi ciecamente.
Non
ero
il tipo da chiedere esplicitamente consiglio, ma il suo parere era
molto
importante per me e in qualche maniera riuscivo sempre a ottenerlo
senza
espormi.
Questo
era il bello di Alaric: non gli serviva nessun aiuto, capiva tutto da
solo.
“Significa
che continui l’università?”.
“Se
passo l’esame, sì”.
“E
come
ti è sembrato?”.
“A
occhio e croce ho preso il massimo”.
“Quindi
non rinunci agli studi”.
“No”.
“E
ti
puoi tenere la tua camera al campus”.
“Sì”.
“Allora
che diamine ci fai ancora sul mio divano?”.
Ghignai,
fregandogli a mia volta la birra “Dobbiamo comprarne
altra” considerai “Trovi
che sia una buona idea continuare?” gli domandai.
“Onestamente,
Damon, ti avrei preso a calci nel culo se avessi davvero
mollato”.
“È
il
tuo modo per dirmi che ami, lo so”.
Alaric
alzò gli occhi al cielo “Tuo padre sa di questo
improvviso cambiamento
d’idea?”.
Scossi
la testa “No, e non ho intenzione di avvertirlo, non sono
fatti suoi. Solo tu e
Katherine ne siete a conoscenza”.
L’espressione
di Alaric mutò radicalmente, ma lui non disse nulla.
“Puoi
evitare di fare quella smorfia disgustata ogni volta che parlo della
mia
ragazza?”.
“Scusa,
è più forte di me” commentò
acido.
Non
avevo mai compreso questo astio di Alaric nei confronti
di Katherine: fin dall’inizio non gli
era mai andata a
genio.
“Ammetto
di essere contento che manchino pochi mesi alla fine della scuola:
almeno ti libererai
di lei. So che preferisci non
sentire certe cose, ma ti farebbe bene allontanarti” mi disse.
“Mi
dispiace stroncare così le tue speranze ma la faremo
funzionare lo stesso”
replicai, leggermente infastidito.
“E
come? Da quello che si dice a scuola, Katherine tornerà a
Parigi”.
Passarono
un paio di secondi prima che…
“Non
andrai anche tu, vero?”.
Il
tono
era chiaramente intimidatorio. Alaric non avrebbe approvato, avrebbe
cercato in
tutti i modi di dissuadermi.
“Da
quando vuoi andare a vivere a Parigi?”.
“Non
voglio, è solo una delle opzioni”.
“E
quali sarebbero le altre?”.
Tacqui
per un momento. Non ero davvero pronto per affrontare il discorso.
“Non
ne
hai, giusto? Ha già deciso tutto lei”.
“Che
cosa ti devo dire? Non so ancora che cosa succederà alla mia
vita tra sei mesi,
non ho le idee chiare. Parigi è una delle
alternative” sbuffai “Perché ce
l’hai
così tanto con Katherine? Ogni volta parli di lei come se
fosse il male
personificato”.
“È
una
mia alunna e ho avuto modo di osservarla: è capricciosa e
vendicativa. Sicuramente
è pure bella e intelligente, molto
sveglia…ma…ammettiamolo: non l’avresti
guardata con occhi diversi se non fosse stata uguale a Elena”.
“Che
cosa stai insinuando?” sibilai.
“Fino
a
qualche mese fa avresti dato qualsiasi cosa per avere Elena e adesso ti
sei
messo con la sua gemella, con la sua copia identica, non ti pare
strano? Mi
stupisco come tu non l’abbia mai chiamata con il nome della
sorella durante
l’orgasmo!”.
“Fottiti,
Alaric, non ho trasferito i sentimenti che avevo per Elena su
Katherine”
sbottai, agguantando la mia giacca.
“Sarebbe
malato, giusto?” mi provocò ancora Alaric.
“Non
prendo lezioni di vita da uno che si è innamorato della sua
stessa alunna.
Questo è malato e illegale”
sbattei
la porta del suo appartamento e mi affrettai a uscire
dall’edificio.
Ero
furente. Mi aspettavo molto di più dal mio migliore amico,
mi aspettavo che
avesse un’opinione un po’ più alta di me.
La
mia
vita amorosa si era sempre rivelata un disastro, la maggior parte delle
volte
per colpa mia. Ero il tipo di ragazzo che non s’innamorava,
che usava le donne.
Poi
era
arrivata Elena. La conoscevo da quando eravamo bambini, non
l’avevo mai
considerata in quel senso fino a che non aveva cominciato a frequentare
il
liceo. Io ero all’ultimo anno, lei al primo. Era ancora
piccola, quattordici
anni appena, ma aveva già un’aria molto matura e
una grazia fuori dal comune.
Per
quanto avesse stuzzicato la mia curiosità, non mi ero mai
fatto avanti: ero
ancora nella fase da play boy e non volevo mancarle di rispetto, non
volevo
turbare la sua innocenza.
Per
un
anno ancora mi ero limitato a osservarla da lontano, niente di
più.
La
nostra “relazione” era incominciata un pomeriggio
di metà ottobre, in un caffè
poco lontano dal liceo Robert E. Lee. Entrambi soli, ci eravamo trovati
senza
accorgercene seduti allo stesso tavolo.
Nonostante
fosse diventato una sorta di appuntamento settimanale, quasi una specie
di
rito, Elena non aveva mai dato segni di voler portare il nostro
rapporto a un
livello superiore, destabilizzandomi completamente.
Verso
maggio, si era diffusa la voce che lei e Stefan avessero iniziato a
uscire
insieme.
Stupidamente
le rivelai i sentimenti che nutrivo nei suoi confronti: nella mia
arroganza, mi
ero convinto che frequentasse mio fratello solo per rendermi geloso.
Mi
rifiutò con dolcezza, scuotendo la testa dispiaciuta. Disse
che ciò che provavo
non era reale, disse che avevo un’idea sbagliata di lei,
l’idea che tutti si
erano fatti: la ragazza perfetta, con i suoi perfetti capelli biondi e
occhi
azzurri, voti perfetti, movenze perfette.
“La
verità è che sono molto lontana dalla
perfezione e nessuno se n’è mai accorto”
aveva
aggiunto.
Mi
raccontò di aver sempre avuto un debole per Stefan, ma lui
non l’aveva mai
degnata di uno sguardo, un po’ perché era stata la
ragazza del suo migliore
amico, Matt Honeycutt, un po’ perché non era
restato folgorato dalla sua
personalità.
“Non
gli piaceva molto la mia indole da
reginetta. Non me l’ha mai detto in modo chiaro, ma mi ha
sempre fatto
intendere che potevo essere qualcosa di più di una bella
ragazza”.
Non
so
di preciso che cosa accadde tra Elena e mio fratello, non entrai mai
nei
dettagli della loro storia. Da quello che potei capire lui la rendeva
una
persona migliore o qualche cazzata simile.
Non
le
parlai per il mese successivo, incredulo e umiliato. Tutto, poi, era
lentamente
sfumato, così come la mia rabbia e la mia delusione.
Perdonarla era stato più
facile del previsto: non mi aveva mai ingannato o illuso, non aveva
fatto
niente di male se non essere onesta.
Che
cosa rappresentasse per me Elena Gilbert restava tuttora un mistero. La
mia
donna ideale, la mia migliore amica, il mio primo amore ormai
dimenticato?
Alaric
non sapeva neanche di che cosa parlava quando la paragonava a
Katherine. Erano
due persone totalmente diverse, l’aspetto fisico le
accumunava ben poco.
Katherine
era vendicativa e capricciosa? Assolutamente sì e mi piaceva
proprio per
quello. Mi assomigliava tantissimo, a volte vedevo qualcosa di me in
lei.
Soprattutto
non era una fantasia, era reale, presente, non si spacciava per
qualcuno che
non era. La conoscevo in tutti i suoi difetti, la conoscevo in tutte le
sue
imperfezioni.
Non
l’avevo mai scambiata per Elena, nemmeno una volta,
soprattutto non in quei
momenti.
Se
Alaric era nervoso perché non poteva stare con la ragazza
dei suoi sogni,
allora erano problemi suoi.
Era
come un libro aperto per me, intuivo i suoi pensieri con una sola
occhiata. Il
fatto che non avessero mai raggiunto l’atto fisico non
significava che la loro
intesa non stesse crescendo sempre di più.
Capitava
che mi parlasse di lei, delle sue intuizione durante le lezioni o
dell’ottima
reputazione di cui godeva a scuola.
Non
si
sbilanciava molto, non diceva niente di che, ma aveva una strana luce
negli
occhi, fiera e affascinata. Ammirava davvero Meredith,
l’ammirava come
studentessa, come persona, come donna.
Malignamente,
quindi, ero convinto che fosse in qualche modo geloso del rapporto che
condividevamo io e Katherine e che, soprattutto, avesse troppo tempo a
disposizione per far vagare la mente.
Un
paio
di giorni dopo ero seduto in macchina, davanti al liceo, in attesa
della mia
ragazza. Avevo passato l’esame con la votazione massima e
avevamo deciso di
andare fuori a pranzo per festeggiare.
Katherine
amava farsi desiderare e non uscì subito. Ero abituato ad
aspettarla, perciò
non ci prestai caso, ormai avevo rinunciato perfino ad arrabbiarmi.
I
miei
occhi si posarono, invece, su un’altra figura e
m’incantai quasi
inconsapevolmente ad ammirarla. Era un’abitudine che avevo
preso da qualche
tempo, quella di ammirarla, e avevo smesso anche di chiedermene la
ragione.
Alla
festa di Stefan mi aveva lasciato di stucco, perché non
capitava spesso di
vederla tutta vestita bene. Ero stato così sciocco da
credere che si fosse
trattato di una circostanza particolare, non destinata a ripetersi; al
contrario mi ero reso miseramente conto di considerare Bonnie
McCullough una
bella ragazza.
Certo,
non era una bellezza esibita e lampante come quella di Katherine;
intendevo
qualcosa di più delicato, quasi trascurato, ma molto lontano
dall’aspetto insignificante
che avevo sempre scorto in lei.
Non
avevo più avuto occasione di parlarle. Le avevo
sguinzagliato dietro Tyler che
non dimenticava mai di riferirmi tutto: non aveva ancora riallacciato i
rapporti con Matt e sembrava anche essersi tenuta lontana da Klaus.
Punti
a
mio favore dato che dovevo ancora trovare la mossa vincente per farla
cadere ai
miei piedi: impresa rivelatasi tutt’altro che facile.
Ero
talmente assorto nella mia contemplazione che non notai
l’arrivo di Katherine:
entrò nella mia auto, sbatté la portiera e mi
salutò raggiante.
Peccato
che nemmeno me ne accorsi.
“Si
può
sapere che hai?” berciò.
Solo
in
quel momento mi girai, degnandola della mia attenzione
“Quando sei arrivata?”.
Lei
alzò le sopracciglia indignata “Stai
scherzando?”.
In
situazioni
come quelle c’era solo una cosa da fare: mentire.
“Ti
prendo in giro, angelo”.
Katherine
apparve soddisfatta, ma io gelai sul posto: l’avevo appena
chiamata con il
soprannome che avevo inventato per Elena anni fa.
E
improvvisamente le parole di Alaric mi riecheggiarono nella mente come
una
condanna.
Avevo
solo un obiettivo: andare a casa e dormire.
Era
da
tutta la settimana che studiavo per i test a scuola ed ero stravolta.
Avrei
pagato per possedere il cervello di Meredith: aveva la
capacità straordinaria
di assimilare qualunque cosa; io al contrario faticavo tantissimo. Mi
ammazzavo
di studio per ottenere risultati decisamente inferiori ai suoi.
Negli
ultimi tempi, comunque, avevo accolto volentieri la crescente mole di
compiti,
mi aiutava a tenere la mente occupata: io e Stefan non avevamo ancora
risolto
la faccenda di Katherine.
Stefan
cominciava a diventare davvero irrequieto, aveva la sensazione che quel
segreto
gli si sarebbe rivoltato contro e ultimamente non potevo che dargli
ragione.
Buttai
la testa sul libro, scoraggiata.
Dirlo
a
Damon sembrava un’impresa impossibile, non avrei mai voluto
trovarmi nei panni
di Stefan e doverlo affrontare.
Non
potevo nemmeno immaginare la sua reazione, ma dopotutto anche lui aveva
le sue
colpe: mi aveva baciato, di sua spontanea volontà.
Che
fosse per vari incomprensioni o per una stupida ripicca non importava:
aveva
fatto esattamente ciò che aveva fatto Katherine.
Se
io
avessi risposto a quel bacio, che cosa sarebbe accaduto, fin dove si
sarebbe
spinto?
Damon
aveva poco di che lamentarsi.
Chiusi
il libro con uno scatto, spazientita.
Odiavo
il lato buono del mio carattere, perché nonostante lui
stesso si fosse
comportato super giù alla stessa maniera, nonostante mi
avesse sempre trattato
come un gioco, non riuscivo a non dispiacermi.
Non
credevo fosse innamorato di Katherine, ma vedersi ancora una volta
superato dal
fratello gli avrebbe fatto molto male.
In
paragone al nostro, il bacio tra Stefan e Katherine era una doppia
pugnalata
alla schiena. La gemella cattiva lo aveva tradito con suo fratello, il
fratello
che gli aveva, in un certo senso, sempre rubato l’attenzione
dei suoi cari.
Non
esisteva un modo giusto per rivelarlo e nemmeno il momento. Ero stata
una
stupida a convincere Stefan a rimandare.
Ora
bisognava
raccontarlo a Elena e poi a Damon.
Avevo
capito che per quel giorno non sarei riuscita a leggere una riga in
più. Scesi
in salotto a farmi una tazza di tè.
Per
me
il tè era un rito, qualcosa di sacro. Bevevo sempre lo
stesso tipo, nella
stessa tazza, possibilmente in una situazione di totale
tranquillità.
Ero
sola in casa, nessun disturbo esterno in vista: da quando mia sorella
si era
trasferita, mio padre si era calmato molto. Probabilmente lo spaventava
più
l’idea di non avere più una delle sue bambine in
casa, piuttosto che l’atto in
sé.
Mary
veniva a farci visita tutti i weekend, a volte con Alec. Era davvero
felice e
serena, sembrava aver trovato il suo posto nel mondo. Prima o poi si
sarebbero
sposati, ne ero certa. Probabilmente aspettavano solo che Mary finisse
il suo
apprendistato e venisse assunta.
Non
avevo osato parlare a mio padre di quelle mie supposizione e non ne
avevo
intenzione: gli sarebbe venuto un infarto, come minimo, poi avrebbe
rinchiuso
Mary in camera sua almeno fino ai trent’anni e ucciso Alec.
Mi
buttai sulla poltrona con il mio bellissimo e profumatissimo
tè in mano, pronta
a godermelo.
Qualcuno
bussò.
Sentivo
che non avrei dovuto aprire, qualcosa mi urlava di stare lontana da
quella
porta, ma non lo feci.
“Damon
lo sa”.
Furono
le parole che mi accolsero, seguite da uno zigomo gonfio, un labbro
spaccato e
un occhio leggermente nero. Dietro tutto ciò, Stefan mi
guardava in preda al
panico.
Piegai
più volte le mie dita doloranti, ma nessun suono
uscì dalla mia bocca.
Non
mi
ero ancora mosso dalla macchina, non volevo scendere, non volevo vedere
nessuno.
Mi
fissai nello specchietto retrovisore e per poco non mi spaventai:
dov’era
finito Damon Salvatore? Di chi era quel riflesso sbiadito? Solo
l’ombra del
ragazzo spavaldo e brillante che ero sempre stato.
Ero
diventato un cliché, un fottutissimo cliché: mi
ero tenuto lontano per tutta la
mia vita da ogni sentimento e avevo lasciato entrare proprio la stronza
che
aveva ben pensato di prendermi per il culo per tutti i mesi della
nostra
relazione.
Quella
storia della scommessa era un immenso campanello di allarme, il mio
sesto senso
mi aveva avvertito ma avevo scelto di non ascoltarlo.
E
ora
mi ritrovavo a crogiolarmi nell’umiliazione, nel mio orgoglio
ferito e anche
nella rabbia.
Ero
mortificato perché Katherine aveva preferito Stefan,
perché Alaric aveva
provato ad avvertirmi, perfino Bonnie ci aveva tentato, e soprattutto
perché mi
ero rovinato da solo, con le mie stesse mani, con la mia stessa,
maledetta
testardaggine.
“Damon,
passa da casa mia: voglio lasciare i
libri giù prima di andare a pranzo”.
Svoltai
alla prima strada a sinistra, verso
la dimora dei Gilbert.
Era
mia intenzione aspettarla in macchina, ma
Katherine mi convinse a entrare. Non so se avesse in mente di
approfittare della
casa vuota, pronta per noi; so solo che dopo due minuti esplose in una
serie
d’imprecazioni contro la sua famiglia.
Da
quello che capii, aveva trovato sul tavolo
da pranzo due biglietti aerei per Parigi intestati ai suoi genitori.
Era
oltremodo arrabbiata perché i suoi avevano deciso di non
portarla con loro. Non
senza una motivazione: Katherine aveva ancora la scuola e gennaio era
un
periodo pieno di test e verifiche, non il momento migliore per
prendersi una
vacanza.
Onestamente
la sua fissazione per Parigi
iniziava a diventare irritante.
“Hai
avuto la tua occasione per andare a
Capodanno” mi lasciai sfuggire con poco tatto.
Lei
si voltò furente “Scusa se volevo passare
del tempo con il mio ragazzo” mi freddò
“Grazie a Dio, l’anno prossimo tornerò
a vivere là e non dovrò
sopportare…”
Non
le permisi di finire la frase “A
proposito di Parigi: non so ancora che cosa farò
l’anno prossimo, non darlo
così per scontato”.
Se
l’avessi insultata, forse se la sarebbe
presa meno.
“Damon,
Parigi è la mia vita e non ho
intenzione di rinunciarci. Se sono qui, è perché
i miei genitori mi hanno
obbligato a finire qui la scuola”.
“Non
mi dà fastidio che tu sia qui” le
rivelai “Non è necessario oltrepassare
l’oceano per allontanarti dalla tua
famiglia”.
“Mi
ami?” chiese a bruciapelo.
“Scusami?”.
“Mi
ami? Perché se mi ami, mi seguirai”.
Non
glielo avevo mai detto, non ero nemmeno
sicuro di essere innamorato di lei, non mi ero neanche posto il
problema.
Katherine
aveva deciso di ricattare la
persona sbagliata.
“Potrei
farti la stessa domanda!”
“Non
c’è niente per te qui! Tuo padre ti
odia, tuo fratello si crede una spanna sopra di te. Niente ti
trattiene, sono
l’unica che hai”.
“Errato:
ho degli amici. Non puoi dire lo
stesso di te” le rinfacciai “E per la cronaca la
tua famiglia ti adora. Te ne
accorgeresti se non fossi così capricciosa e piena di
te!”.
“Stiamo
giocando a chi trova più difetti
all’altro?” mi sfidò “Non mi
sorprende che tutti preferiscano Stefan a te,
scommetto che sa essere molto più comprensivo. Di certo
è un amante fedele e
anche un ottimo baciatore”.
“Peccato
che non avrai mai occasione di
scoprirlo” la stroncai. Non mi piaceva il corso di quella
conversazione, non
comprendevo il motivo di tutto quell’interessamento delle
doti amatorie di mio
fratello.
“Mi
dispiace deluderti ma ho già provato”.
Faticai
a registrare il significato di quelle
parole.
Katherine
non tardò a spiegarmele “Sì Damon,
ho baciato tuo fratello. Più di un mese fa sono andata a
casa sua e l’ho
baciato spacciandomi per Elena. Purtroppo si è accorto quasi
subito
dell’inganno. È troppo devoto a mia sorella, come
tutti del resto”.
Accadde
tutto a rallentatore. La voce di
Katherine mi arrivò distante, la sua bocca si muoveva piano,
il suono usciva in
ritardo.
Mantenni
la calma, m’imposi di non perdere il
controllo prima che Katherine mi raccontasse tutto. Una parte di me
ancora
sperava che fosse uno scherzo di cattivo gusto.
“Hai
un’ottima ragione suppongo” commentai.
“Ti
ho visto” parlò con voce grave “La notte
in cui hai litigato con tuo padre sono venuta a casa tua: volevo stare
con te,
aiutarti. Ti ho visto steso nel giardino dei McCullough con lei. Io non sono
seconda a nessuna, non sono quella che chiami per ultima, specialmente
non dopo
Bonnie”.
Era
successo talmente tanto tempo fa che non
me lo ricordavo nemmeno. Katherine si era davvero arrabbiata per
così poco?
“E
la scommessa allora, era solo un modo per
incasinarmi la testa?”. Mi rendevo conto di quando fosse
stupida la mia
curiosità. Avrei dovuto piantarla lì in asso, ma
avevo troppi dubbi da
risolvere. Sentivo che se non li avessi chiariti, non sarei mai
riuscito a
superare quella notizia.
“Mi
stavo divertendo” sollevò le spalle “Ti
stavo pure mettendo alla prova. All’inizio ero davvero
convinta che non ti
saresti fatto abbindolare, che le avresti spezzato quel suo delicato
cuoricino.
Sono passati mesi e non hai combinato niente. Ti sei lasciato
intenerire” mi
accusò.
“Tu
sei fuori di testa. Mi punisci perché pensi che io mi sia
fatto venire degli scrupoli?”.
“Lo
so, non lo penso! A Capodanno per poco no
ti sono andati gli occhi fuori dalle orbite quando l’hai
vista con tuo cugino”.
“Non
volevo che s’intromettesse” mi
giustificai.
“Tu
mi hai messo da parte, dovevo pareggiare
i conti”.
“Baciando
mio fratello?”.
“Non
atteggiarti da innocente. Ti sei messo
con me solo perché sono la copia identica di Elena. Mi hai
usato, esattamente
come io ho usato te” era impressionante la
tranquillità con cui mi stava
rivelando tutti quei dettagli “Sarò sincera,
Damon, in fondo te lo meriti: il
mio scopo era quello di farla pagare a mia sorella. Rubarle il ragazzo
pareva
il piano perfetto, poi sei arrivato tu. Mi piacevi, mi piaceva
l’idea che il
grande Damon Salvatore avesse scelto proprio me, mi piaceva un meno che
tu non avessi
ancora dimenticato Elena, per non parlare di questa tua fissazione per
la
McCullough…”
“Credevo
che tu non potessi essere gelosa di
Bonnie: è quello che mi hai detto quando mi hai proposto la
scommessa” la
interruppi.
“Sono
delusa. Se preferisci la sua compagnia
o quella di mia sorella alla mia, sei tu che ci perdi”
affermò con sicurezza.
C’erano
state altre grida e insulti. Katherine mi aveva emotivamente distrutto,
sebbene
mi fossi premurato di non farglielo intendere.
L’avevo
lasciata con una mezza minaccia: di non farsi più vedere in
giro o avrebbe
passato l’inferno.
Ma
nello stato in cui mi trovavo, non avevo la forza né la
voglia di escogitare
nessuna vendetta. Quel potere che avevo sempre ritenuto mio, ora mi
sfuggiva
dalle mani.
Avevo
perso tutto un’altra volta: la mia ragazza, il mio migliore
amico e la mia
famiglia. Mio padre non mi avrebbe più permesso di mettere
piede in casa dopo
aver visto come avevo conciato il suo figliolo prediletto.
Stefan
non aveva colpe, eccetto il fatto di essere il favorito di tutti, ma
non mi ero
riuscito a trattenere. Ero corso a casa e lo avevo preso a pugni come
non
succedeva da quando eravamo dei ragazzini. Tra le urla di Elena che
cercava
disperatamente di dividerci, si era lasciato picchiare, non aveva
reagito; forse
perché si sentiva in colpa per non avermi detto subito la
verità, forse pensava
che potesse ripagarmi almeno in parte della sofferenza.
Alzai
ancora lo sguardo su quella villetta bianca. Era la seconda volta che
finivo lì
davanti, quasi inconsapevolmente.
Non
scesi dall’auto, non bussai alla porta e non entrai, sebbene
sentissi il forte istinto
di stendermi di nuovo su quel giardino.
Quando
scorsi,
nella stanza illuminata al primo piano, una massa di capelli rossi
affacciarsi
alla finestra, il mio respiro divenne più angosciato.
Lei
non
mi vide: la mia macchina scura si confondeva con il buio della sera.
Non
mi
vide.
Nessuno
mi vedeva.
Confuso
e arrabbiato, mi resi conto che nessuno, in realtà, mi aveva
mai visto
veramente.
Il
mio
spazio:
Buon
pomeriggio, ragazze!
Ricompaio
con un capitolo praticamente dedicato per intero a Damon.
Ammetto
che è stato parecchio difficile da scrivere e non ne sono
pienamente
soddisfatta, ma non potevo farvi aspettare oltre.
La
bomba è stata sganciata dalla stessa Katherine. Se troverete
le sue motivazioni
completamente assurde, beh è proprio l’effetto
sperato.
Katherine
ha dei grossi problemi di egocentrismo e agisce spinta dal capriccio.
Il flashback
forse è un po’ affrettato, ma tornerò
sui suoi motivi nel prossimo capitolo, in
cui vedremo come se la sta cavando Damon.
Purtroppo
non ci sono state interazioni tra lui e Bonnie, se non per un piccolo
momento a
scuola e qui alla fine, e comunque è tutto dalla prospettiva
di Damon, lei
nemmeno se ne accorge.
Posso
solo
dirvi che non sarà felice delle condizioni in cui
è ridotto Stefan, quindi sì…nel
prossimo capitolo ci sarà sicuramente una scena in cui le
canta a Damon. Ma
come andrà a finire?
Non
mi
sono dimenticata di Meredith e Alaric. Nemmeno di Matt e Klaus. Siamo
già al
capitolo 15 ma devono accadere ancora un bel po’ di cose.
TVD
è
cominciato, ho visto poco fa la puntata. Vi dirò che mi
è piaciuta. Avrei voluto
un po’ più di Bonnie perché mi piace
come personaggio ma non si può pretendere
tutto e subito!
Vi spiego anche il titolo: Slutherine è una storpiatura del
nome di Katherine. Non
è mia, è un soprannome molto popolare nelle
fanfiction in lingua inglese di
TVD. In pratica gioca sul suo essere un po’ sgualdrina: slut significa puttana, scusate il
francesismo ma è così!
La
canzone
Impossible è in
realtà di Shontelle,
ma trovo che la cover di James Arthur sia molto più bella.
Banner
di bumbuni.
Ci
vediamo presto con il prossimo capitolo! Grazie mille a tutte!!
Fran;)
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Capitolo 16 *** All Damon's women ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo sedici: All Damon’s women
“This is how to be a heartbreaker
Boys, they like a little danger
We'll get him falling for a stranger
A player, singing I love you
How to be a heartbreaker
Boys, they like the look of danger
We'll get him falling for a stranger
A player, singing I love you
At least I think I do”
(How to be a heartbreaker- Marina and the
diamonds).
“Davvero,
non riesco a capire perché ti dovresti sentire inferiore a
tuo fratello”.
“Io
non sono inferiore a nessuno”.
“Ma
è così che ti senti”.
Evitai
il suo sguardo: era così limpido e blu e ogni volta mi
faceva ammettere cose
che avrei preferito proprio eliminare dal mio pensiero.
Non
mi reputavo inferiore a Stefan, tutt’altro: mi consideravo
dieci gradini più in
alto di lui, per questo non potevo sopportare di passare sempre per
secondo.
“Tuo
padre non ti odia” affermò con sicurezza Elena
“Dicono che ci comportiamo più
duramente verso chi amiamo. Credo che tuo padre stia cercando di
dimostrare
quanto tiene a te” suppose.
“Che
gran bel metodo di merda” borbottai.
Elena
scoppio a ridere, della sua bellissima e contagiosa risata. A volte
spaventava
perfino me la perfezione che rasentava quella ragazza.
Sapeva
sempre che cosa dire, che espressione fare, come toccarmi, il suo corpo
gravitava senza problemi intorno al mio, con naturalezza.
“Non
m’importa di mio padre” dissi “Ci sono
altre persone che contano di più nella
mia vita” presi un bel respiro. Era qualche giorno che avevo
un dubbio da
togliermi “È vero che stai uscendo con
Stefan?”.
“Ci
siamo visti un paio di volte. Mi ha chiesto un appuntamento e ho
accettato”.
La
fissai un po’ sconcertato: Elena non si era mai sbilanciata
con me, non aveva
palesato le sue intenzioni e io, fatta eccezione per qualche battuta,
ero stato
molto attento a non tirare troppo la corda. Mi ero, però,
convinto che fosse
nato qualcosa tra noi, che le fantasie cresciute nel corso
dell’anno fossero
effettivamente divenute realtà.
Che
cosa rappresentava dunque Stefan? Una distrazione? Un trabocchetto?
“Sprechi
il tuo tempo. Non è adatto a te, non sarai felice”
l’avvisai.
“Ci
stiamo solo frequentando, non mi ha proposto di sposarlo”
obiettò, un po’
imbarazzata.
“Elena”
la chiamai, e per la prima volta la mia voce traballò
“Se ci fosse qualcun altro,
qualcuno che fino adesso non si è fatto avanti, tu
non…tu non sceglieresti
Stefan, vero?”.
Lei
parve finalmente capire il motivo di quel discorso, si rese conto che
stavamo
entrando in un territorio inesplorato, ma che inevitabilmente ci
attendeva.
Non
aspettai la sua risposta. Mi piegai e la baciai con delicatezza. Elena
non
ricambiò, non si mosse. Portò solo le sue dita
sulle mie guance e allontanò con
dolcezza il mio viso dal suo “Damon, credo che tu stia
commettendo un grosso
sbaglio”.
“Non
mi sbaglio mai, angelo” ghignai “Provo per te
sentimenti che non ho mai provato
per nessuna. Tu sei assolutamente perfetta”.
Si
alzò dalla panchina, cercando di mascherare il suo disagio.
Si tirò dietro a un
orecchio una ciocca di capelli e infine si rivolse a me “La verità
è che sono molto lontana dalla
perfezione e nessuno se n’è mai accorto”.
“Sei
perfetta per me!” replicai ostinato.
“Perché
mi ritieni perfetta? Che cosa c’è di
perfetto in me? I miei capelli o i miei occhi, il mio fisico? Vogliamo
parlare
allora del mio egoismo, o della mia testardaggine? I tuoi sentimenti
sono
rivolti all’immagine che hai di me, non a ciò che
sono veramente”.
Piegai
la bocca in una smorfia infastidita e
delusa “Invece il mio caro fratellino ti vede per come sei,
nevvero?”.
“Non
gli piaceva molto la mia indole da
reginetta. Non me l’ha mai detto in modo chiaro, ma mi ha
sempre fatto
intendere che potevo essere qualcosa di più di una bella
ragazza”.
“Pensi
che io non ti conosca abbastanza,
pensi che non abbia mai notato i tuoi difetti. Sono chiarissimi davanti
ai miei
occhi, ma non m’importa. Tu non devi cambiare per me, ti
voglio così…ti voglio
bella, e potente e irresistibile”.
Lei
scosse la testa, aveva l’impressione che
io stesso volutamente mancando il punto di tutta la questione
“Ti sei uno dei
miei più cari amici, Damon, sei il mio migliore amico, se
dovesse succederti
qualcosa di male, ne morirei…”.
“Ma
non sono Stefan, tu preferisci Stefan,
come tutti” conclusi amaramente.
“Non
ho preferito lui a te. Occupate due ruoli completamente diversi nella
mia vita,
nessuno ha sostituito l’altro”.
“Certo,
non sono neanche degno di entrare in competizione”.
“Perché
reputi una sconfitta avermi come amica?”.
“Perché
non è quello che voglio e se non ottengo quello che voglio,
allora ho perso”.
Aprii
un occhio, ma lo richiusi subito.
L’altro rimase nascosto contro al cuscino.
Non
bastava una giornata terribile, ci
mancava anche la notte a tormentarmi. E con tutto quello che potevo
sognare,
proprio il rifiuto di Elena.
Cominciavo
a credere che le sorelle
Gilbert si fossero messe d’accordo per distruggermi. Oppure
lassù qualcuno
doveva volermi molto male.
Tirai
le coperte oltre la mia testa, mi
rifugiai sotto al piumone. Non sarei mai più uscito dalla
mia camera del
campus. Ero diventato una ragazzina piagnona, ero diventato un cazzo di
cliché.
Non
potei fare a meno di chiedermi se
tutte quelle ragazze con cui avevo giocato fossero state male come me.
No, era
impossibile, io non le avevo mai ingannate, più
o meno.
La
signorina Katherine Gilbert si era
rivelata ancora più calcolatrice di quanto avrei mai
immaginato. Aveva studiato
me, i miei punti deboli e aveva colpito senza pietà.
Non
potevo neanche dire se fossi più
deluso dalle sue bugie o dalla mia ingenuità. Io, una volta
così attento e scaltro,
battuto sul mio stesso campo di gioco.
Katherine
era una perfetta macchina per
spezzare i cuori, smaliziata e focalizzata sull’obiettivo.
Tanto simile a me
per certi aspetti e molto più crudele in altri.
Un
giorno solo era bastato per ribaltare
completamente le mie prospettive. A conti fatti, nella mia vita avevo
combinato
poco e niente. In quei mesi credevo di aver compiuto grande passi
avanti e
invece ero rimasto al punto di partenza, dietro a mio fratello.
Stefan
vinceva sempre in un modo o nell’altro,
senza neppure sforzarsi. Avrei potuto perdonargli qualsiasi cosa, stavo
finalmente iniziando a superare la faccenda di Elena, ma non potevo
tollerare
che si fosse preso anche Katherine.
Sebbene
non fosse direttamente colpa
sua, nella mia testa era lui il responsabile. Forse era facile
scaricargli
addosso tutte le mie disgrazie, forse era solo una serie di
coincidenze, ma
stranamente, qualunque cosa di storto mi capitasse, lui era coinvolto.
Dovevo
dargliene atto: Katherine, per
quanto contorta e in un certo senso malata, era stata tremendamente
ingegnosa
nella sua vendetta: in una sola volta aveva colpito sia me che sua
sorella.
Peccato che avesse funzionato veramente solo con me. Nella sua mente
psicopatica forse Stefan si sarebbe innamorato di lei, piantando in
asso Elena;
nella realtà rimaneva un sogno.
Quindi
l’unico fottuto, rimanevo io.
Che
gran bel senso dell’umorismo aveva
il destino.
Io
ero il
perdente. Io ero lo stupido. Io!
Già
m’immaginavo la faccia di Tyler,
come se la sarebbe goduta! La sua grande idea della scommessa non era
nient’altro se non un tassello della mia furbissima ex
ragazza. Una scommessa
che, tra le altre cose, non stavo assolutamente portando a termine
nella
maniera sperata.
Altra
enorme beffa: la piccola Bonnie,
la sfigatella, si rifiutava categoricamente di arrendersi al mio
fascino.
Era
stata la prima a resistermi, a parte
Elena, ma Elena era un’altra storia.
Avevo
baciato Bonnie e mi aveva tirato
uno schiaffo, mi aveva baciato e aveva pensato a Matt o ancor peggio a
mio
cugino Klaus.
Lo
negavo, lo negavo, ma mi infastidiva
terribilmente. Lei m’ignorava e io la cercavo in
continuazione,
inconsapevolmente, e non volevo nemmeno indagarne il motivo.
Ero
diventato un cazzo di cliché.
Porca
miseria.
Le
donne sarebbero state la mia morte.
“Io
lo ammazzo”.
“Siete
tutti un po’ inclini alla
violenza ultimamente”.
“Guarda
come ti ha ridotto, Stefan! E
scommetto che a Katherine non ha nemmeno tirato due schiaffi”
sbottai.
“Non
ce lo vedo mio fratello a picchiare
una donna” constatò Stefan.
“Due
calci nel sedere le starebbero
bene”.
“Ci
penserà Elena, tranquilla”.
Gli
passai il disinfettante sul labbro e
lui gemette. Lo fissai un po’ preoccupata: non era messo
proprio così male, ma
mi chiesi se fosse il caso di portarlo al pronto soccorso per un
controllo.
Mi
resi conto che era solo tempo perso,
compreso quel mio pallido tentativo di medicarlo. La mia amica si era
già presa
cura di lui, sarebbe stato meglio lasciare le ferite libere di
respirare. Elena
aveva assistito al fattaccio. Era in casa quando Damon era piombato
come una
furia per riscuotere la sua vendetta. Stefan le stava raccontando di
Katherine.
Momento chiaramente rovinato da Damon e dalla sua maledetta
impulsività.
Stefan
aveva appena finito di spiegarle
quello che aveva fatto la sua gemella e i motivi che
l’avevano spinto a non
rivelarlo subito (non turbare suo fratello, ad esempio).
Trovavo
davvero molto strano il
comportamento di Katherine: quale motivo aveva di rovinarsi con le sue
mani e
confessare il suo “tradimento” a Damon?
A
Capodanno mi aveva intimato di tacere,
alludendo come ricatto a un’ipotetica relazione tra Meredith
e Alaric,
relazione che Meredith aveva categoricamente negato nel momento in cui
le avevo
chiesto un chiarimento.
Damon
non era un ragazzo dal temperamento
tranquillo, le sue reazioni erano sempre imprevedibili. Katherine
doveva avere
qualche ragione sottesa, forse proprio quella di ferirlo. Anche in
questo caso
non ne vedevo il perché: Damon l’adorava, non ne
era innamorato, ma sembrava
abbastanza felice con lei.
Non
mi veniva in mente niente di tanto
grave per spingerla a baciare il fratello del suo ragazzo, con
l’intento di
rubarlo alla sorella.
Katherine
era pazza e su quello non
c’erano obiezioni. Probabilmente Meredith aveva ragione,
probabilmente
Katherine voleva solo ottenere tutto ciò che aveva Elena, in
un moto d’invidia
e capriccio.
Allora
perché mettersi con Damon?
Desiderava dimostrare di avere entrambi i fratelli Salvatore ai suoi
piedi, di
essere migliore di Elena?
Qualunque
fossero i suoi motivi, ora il
danno si era esteso a dismisura. Non più una stupida
scaramuccia tra sorelle,
ma un’ulteriore spaccatura tra Damon e Stefan.
Questa
volta forse insanabile per
sempre.
“Che
cosa sperava di ottenere Katherine?
Che tu lasciassi Elena per lei?”.
Sospirò
ma non rispose.
“E
se Katherine avesse raccontato a
Damon che sei stato tu a baciarla? Spiegherebbe perché ti ha
attaccato”.
Stefan
scosse la testa “Sospetto che mio
fratello aspettasse solo un pretesto. Non so che cosa gli abbia detto
Katherine
e non m’importa. Ormai è inutile. Avrei dovuto
parlargli prima, ho avuto un sacco
di occasioni e le ho sprecate perché avevo paura”.
“Sono
io che ti ho convinto a rimandare,
mi dispiace” mi scusai, poggiando la fronte sulla sua spalla
“Comunque se l’è cercata:
la prossima volta impara a mettersi insieme a Katherine
Gilbert…quella megera.
Ho provato perfino ad avvertirlo ma non mi ha ascoltato. Gli sta
bene”
m’imbronciai.
Stefan
si spostò leggermente e piegò il
collo per osservarmi meglio “Scusa la franchezza, Bon, ma
perché hai pensato
che mio fratello potesse darti retta? Non sei proprio sulla lista delle
sue
persone preferite”.
“Beh,
no…” concordai un po’ stupidamente
“Però si è fidato di me per il tuo
regalo”.
Stefan
mi fissò stranito. Non aveva idea
che Damon avesse chiesto la mia approvazione prima
di compare quello spartito.
“Sono
andata con lui ad Atlanta a
ritirarlo. Non era sicuro di aver scelto bene, voleva un mio
consiglio”.
“Mio
fratello ha chiesto aiuto a te?”.
Effettivamente
sembrava incredibile.
“Se
per questo mi ha pure baciato”.
Questo
non avrei dovuto dirlo.
“Lui
cosa?!” proruppe Stefan “Perché
diamine me lo dici solo ora?”.
“Non
è stato niente, gli ho tirato uno
schiaffo” chiarii “A Capodanno si è
scusato. Ha detto che si è trattato di un
momento di debolezza perché stava passando un brutto periodo
con Katherine. È
lì che l’ho messo in guardia, senza
risultati”.
“Damon,
ovvero mio fratello, ovvero
proprio quel Damon ti ha chiesto aiuto, ti ha portato ad Atlanta, ti ha
baciato, tu gli hai tirato uno schiaffo e lui si è
scusato?!” ricapitolò Stefan
allibito “Bonnie, c’è
qualcos’altro che mi devi dire? Del tipo che non ti vedi
più con Matt perché hai una relazione segreta con
mio fratello e Katherine l’ho
scoperto e ha baciato me per vendicarsi?”.
Il
mio migliore amico aveva sempre avuto
una fantasia sfrenata. La sua era un’ipotesi interessante, ma
era anche lontana
anni luce dalla realtà.
“Assolutamente
no!” strillai “Io con
Damon, no, no…bleah!” esibii
un’espressione schifata “Katherine è
solo una
schizzata, invidiosa della sua stessa gemella. Ecco perché
si è messa in mezzo
e tuo fratello la segue a ruota. Non potrei mai innamorarmi di una
persona del
genere” affermai con sicurezza.
“Penso
che tu sia l’unica in città a
pensarla così” ridacchiò, tenendosi il
labbro dolorante.
“Ho
una sorta di cotta per tuo cugino,
però” mormorai colpevole.
“Per
Klaus?”.
“A
Capodanno ci siamo quasi baciati. O
almeno ho avuto l’impressione che volesse baciarmi”
arrossii nel confessarlo.
Mi rendevo conto che la sequenza del racconto potesse apparire molto
singolare.
“Anche
lui?” domandò con voce strozzata
Stefan “Adesso che cosa salterà fuori, che Alaric
ti fa la corte?”.
No,
quella è Meredith.
“Seriamente
Bonnie, sta attenta: ho la
sensazione che ti stai per cacciare in un bel guaio. Klaus parte questo
fine
settimana”.
“Lo
so” sussurrai. Non mi ero fatta
chissà che illusioni, ma avrei desiderato più
tempo almeno per conoscerlo. Nelle
due settimane successive alla festa di Stefan sembrava sparito nel
nulla.
Il
discorso cadde nel vuoto: Elena entrò
prepotentemente in casa mia, rossa in viso e affannata “La
porta non era chiusa
a chiave” annaspò “Ho appena parlato con
quella stronza di mia sorella –
sventolò il cellulare – ha negato di aver mentito
a Damon”.
“Questo
significa che anche Damon è uno
str-”.
“Questo
significa che qualcuno mi deve
spiegare che cosa cavolo vi è salato in mente di tenerlo
segreto fino adesso”
ci puntò il dito contro con fare minaccioso “E
come mai Katherine mi ha appena
detto che tu, Bonnie, ne sai più di tutti noi?”.
Stefan
si stiracchiò sulla poltrona
“Mettiti comoda, amore, la nostra amica qui ha un paio di
notizie davvero
simpatiche”.
Lo
trucidai con un’occhiata.
Il
giorno dopo ero ancora nel letto e
programmavo di restarci ancora per molto. Potevo solo ringraziare che
Sage
fosse via per una breve vacanza. La solitudine era proprio quello che
mi
serviva in quel momento.
Se
solo avessi potuto uscire con Alaric
a farmi una birra o meglio a ubriacarmi. Ma quel maledetto sapeva
capire da un’occhiata
se qualcosa non andava in me, mi avrebbe beccato in un nanosecondo, e
io non
avevo voglia di lanciarmi in una sentimentale chiacchierata sui mille
motivi
che mi rendevano così triste.
Avevo
appena scoperto che la mia ragazza
sognava a occhi aperti mio fratello, che cosa dannatamente mortificante!
Con
che coraggio l’avrei confessato a
Alaric, proprio a lui che aveva continuato a ripetermi quanto Katherine
fosse
sbagliata per me?
La
prima volta che sentii bussare,
pensai di essermelo immaginato.
La
seconda non fiatai, per dare
l’impressione che la camera fosse vuota.
La
terza mi gettai verso la porta,
pronto spazzare via chiunque avesse osato disturbarmi. Nella mia testa
tre
erano le possibilità: Alaric che era corso in mio soccorso,
Stefan che era venuto
inutilmente a scusarsi, Bonnie che mi voleva sgridare per aver preso a
pugni il
suo miglior amico.
Ultimamente
alla mia porta si
presentavano solo persone indesiderate.
“Buon
pomeriggio, cugino”.
Quanto
odio il mondo.
“Grazie,
non ho bisogno di niente” lo
liquidai con un finto sorriso, nella speranza che percepisse
l’antifona.
“E
così questa è la tua camera?”
m’ignorò, bloccando ogni mio tentativo di
chiuderlo fuori. Si fece spazio nella
mia stanza con faccia schifata.
“Un
dormitorio come un altro” borbottai.
“Suppongo
di sì…solo più disordinato e
puzzolente. Ti sei lavato ieri sera?”.
“Cosa
diavolo vuoi, Klaus?” ruggii.
“Ho
un presentimento e mi piacerebbe
sapere se è corretto o se mi sono completamente sbagliato.
Seguimi se riesci:
ieri sera sono tornato a casa e ho trovato tuo fratello con il viso
tutto
gonfio, mentre tuo padre sbraitava per tutto il salotto”.
Io
lo sguardavo di sbieco, con una
smorfia infastidita.
“Stefan
ha detto di essersi imbattuto in
una banda di bulli che volevano rubargli il cellulare”.
“Scommetto
che il suo racconto su come
sia riuscito a metterli tutti al tappeto sia stato molto
commuovente”.
“No,
in realtà gliel’hanno portato via
sul serio. Se non fosse che qualche ora dopo ho beccato Stefan usare di
nascosto un telefono davvero simile al suo. Ora, a meno che non abbia
incontrato dei ladri dall’animo veramente sensibile, che
presi dal senso di
colpa hanno deciso di restituirgli il cellulare, direi che la sua
versione è a
dir poco assurda”.
“Perché
pensi che io possa aiutarti?”.
“Perché
poi gli ho rubato io il telefono
e ho letto i messaggi che si è scambiato con Elena.
Conoscendo il tuo
temperamento, se l’è cavata anche bene”.
“Cento
punti, Sherlock. Sono sicuro che
ti proclameranno detective dell’anno.
C’è un motivo per cui sei qui o volevi
solo annoiarmi?”.
“Nessuno
ti ha più visto in giro da
almeno due giorni: sono venuto per controllare che non ti fossi
soffocato con
il cuscino”.
“Beh,
come vedi sono perfettamente in
salute. Non serve che ti accompagni alla porta, vero?” lo
invitai a uscire con
un gesto della mano.
“Sono
qui anche per annoiarti” ammise
con il suo sorrisino da schiaffi. Prese tra le mani la palla ovale, da
football, di Sage e se la rigirò tra le dita “Ti
va qualche passaggio?”.
“C’è
la neve” lo stroncai.
“Hai
paura di un po’ d’acqua?”.
Mi
ero lasciato convincere. Tra tutti,
non avrei mai pensato che proprio Klaus sarebbe riuscito a tirarmi
fuori dal
groviglio di coperte in cui mi ero nascosto.
Quando
eravamo piccoli giocavamo spesso
football, o meglio a rugby: un inglese non potrebbe mai provare
simpatia per
uno sport così popolare negli Stati Uniti.
“Allora
è vero? Mio fratello ha mentito
a mio padre?” chiesi, ancora un po’ sconcertato.
“Sì”
mi confermò “Credo che non volesse
toglierti per sempre la possibilità di rientrare in casa
tua” suppose, mentre
mi lanciava la palla.
“O
forse non voleva prenderne altre”
ghignai, ricevendo il passaggio “Non capisco neanche
perché tu sia qui. Non è
Stefan il tuo preferito?”.
“Così
mi offendi, Damon” disse Klaus
“Hai già dimenticato il viaggio che abbiamo fatto
in Grecia per il mio
diploma?”.
Impallidii
leggermente: c’erano momenti
di quel viaggio che erano marchiati a fuoco nella mia memoria.
“Ti
ricordi quelle due tedesche che ti
stavano sempre addosso?” domandò.
Ecco,
questi momenti per esempio.
“In
realtà, ho l’impressione che sia tu
quello che cerca di evitarmi. Suppongo che tu non gradisca il mio
interesse
verso Bonnie McCullough” continuò lui.
“Sei
serio?” scoppiai a ridere “Per la
piccola Bon Bon? Non scherzare”.
“Mi
hai quasi linciato quando ci hai
visto insieme a Capodanno” s’intestardì.
“È
una ragazzina frignona e credulona.
Ti avrebbe tormentato anche con un oceano in mezzo. Stavo solo cercando
di
farti un favore” mascherai l’effettiva
l’irritazione che era cresciuta a quel
ricordo.
“Il
mio interesse verso di lei si limita
alla pura amicizia” precisò Klaus “Il
mio era soltanto un piccolo esperimento”.
“E
a che conclusioni sei arrivato?”.
“Sempre
le stesse: non capisco perché tu
abbia scelto di stare con Katherine, quando passi la maggior parte del
tempo a
controllare che cosa fa Bonnie”.
Mancai
la presa, la palla volò oltre la
mia spalla. Fissai mio cugino, completamente scioccato dalla sua
affermazione.
Da
una parte mi preoccupava veramente
che qualcuno potesse immaginare me e Bonnie come coppia,
dall’altra fui
stranamente sollevato che Klaus non avesse nessuna mira di quel genere
nei suoi
confronti.
Aprii
la bocca per replicare, ma
qualcosa di appuntito mi colpì in pieno la nuca. Udii un
leggero tonfo e
accanto a me vidi cadere la palla da football.
Mi
girai furente verso chi aveva osato
tirarmela addosso e ricevetti in faccia un mucchietto di neve. Tra il
ghiaccio
mezzo sciolto che mi colava sugli occhi, scorsi la sagoma minuta di
Bonnie
venirmi incontro.
Solo
due sere prima me ne stavo davanti
a casa sua e lei non mi aveva visto neanche per sbaglio. Adesso mi
vedeva,
anche piuttosto bene a giudicare dalla mira.
“Tu,
razza di pallone gonfiato. Bisonte
che non sei altro!”.
Avrei
potuto seriamente incazzarmi, ma
nel momento in cui mi chiamò ‘bisonte’,
mi strozzai per trattenere le risate.
Ed
eccola lì, incarnata in una piccola
furia rossa, la punizione divina per aver picchiato Stefan.
Dopo
la sua invettiva, si lanciò contro
di me; cosa sperasse di fare mi era ignoto: seppur non fossi altissimo,
la
superavo di un bel pezzo ed ero decisamente più forte di lei.
Si
avvicinò con la mano alzata, pronta a
sferrarmi una sberla ben assestata, ma nella sua goffaggine,
scivolò sulla
neve: mi cadde addosso con tutto il peso, trascinando a terra anche me.
Situazione imbarazzante, almeno con chiunque altro.
Bonnie,
per nulla turbata dalla
posizione, si tirò a sedere, ancora per metà su
di me, e iniziò a prendermi a
pugni (per quanto si potessero definire pugni) e a tirarmi i capelli.
Da
fuori la scena doveva apparire molto
comica.
“T’insegno
io le buone maniere”
strepitò, continuano ad agitarsi.
Non
mi stava facendo male, ma odiavo i
pizzicotti con tutto il cuore e Bonnie sembrava divertirsi un mondo a
strizzare
ogni pezzo di pelle che afferrava.
Era
un dannato folletto, agile e veloce.
Faticai
a bloccarle le braccia e quando
ci riuscii, fui costretto a mettermi seduto per fermarle dietro alla
sua
schiena.
In
altre circostanze avrei sentito una
grande carica di tensione fisica; in quel frangente lo sguardo truce di
Bonnie
uccise ogni forma di malizia.
“Non
ti facevo così coraggiosa,
uccellino” la stuzzicai.
“Va’
a quel paese” sibilò “Ti dovresti
vergognare: non si picchia così la gente, brutto
incivile”.
“Qui
sei tu quella che ha alzato le
mani” le feci notare.
“Te
lo meriti per come hai trattato
Stefan. Lui non c’entra niente, è stata Katherine
a baciarlo”.
“Se
n’è rimasto zitto fino adesso, me
l’ha tenuto nascosto. Ringrazia che non gliele abbia date
più forti!”.
“Io
lo sapevo e non ti ho detto niente.
Vuoi prendere a schiaffi anche me?” mi sfidò.
Quella
piccola ragazzina era una
continua sorpresa: non la credevo capace di affrontarmi apertamente, ma
per
santo Stefan questo e altro.
“D’altronde,
cosa potevo aspettarmi da
uno come te. La tua ragazza era Katherine e tu sei esattamente come
lei. La
biasimi perché ha baciato tuo fratello, ma tu avresti fatto
lo stesso se Elena
ci fosse stata” mi accusò.
“Io
stavo con Katherine, non l’avrei mai
umiliata così” mi difesi.
“Ma
avresti umiliato volentieri tuo
fratello!” m’incastrò.
Sbuffai
sonoramente e le lasciai i
polsi. Mi stesi a terra, incurante della neve che mi bagnava i vestiti
“Che
cosa vuoi da me, Bonnie?” soffiai esasperato.
“Non
lo so” ammise lei. Aveva ancora il
fiatone per l’impeto nella lotta e si stese accanto al mio
corpo “Credevo di
aver visto qualcosa di buono in te” disse delusa.
“Niente
è cambiato. Sono sempre il
solito”.
“Potrei
anche cascarci, se non fossi
venuta con te ad Atlanta. Ero lì quando hai comprato quel
regalo a Stefan. Devi
volergli almeno un po’ di bene”.
Ho
scelto quello spartito per conquistarti, averti ai miei piedi e
spezzarti il
cuore.
Non
risposi. Onestamente, non sapevo che
cosa dirle.
Venne
in mio soccorso Klaus. Era rimasto
in silenzio tutto il tempo, a osservarci immobile, quasi non volesse
disturbare
la nostra discussione, o per godersi meglio lo spettacolo.
Bonnie
seguì il mio sguardo e sussultò
quando il suo si posò sulla figura di mio cugino.
“Klaus”
sussurrò “Da quanto sei qui?”.
Davvero
non l’aveva notato?
“Dall’inizio”
disse lui pacato “Io e
Damon stavamo facendo due tiri” spiegò indicando
la palla che giaceva a terra,
accanto a noi.
“Penso
che ora sia il momento di
andarmene, ho fatto il mio dovere” dichiarò con un
sorrisino compiaciuto “E tu
sei pregato di venirmi a salutare prima della mia partenza”
m’intimò, mentre
con passo elegante si allontanava da noi.
Mi
alzai scrollandomi la neve di dosso
“Bene, uccellino, possiamo anche finirla
qui…”.
“Col
cavolo” tuonò, sollevandosi in
piedi a sua volta “Ho ancora un paio di cose da chiarire e tu
rimarrai ad
ascoltarmi” mi minacciò puntando il dito a un
centimetro dal mio naso “Tu non
mi piaci, Damon Salvatore” affermò “Non
mi sei mai piaciuto e ultimamente mi
piaci ancora meno: mi hai insultata, presa in giro, mortificata! Mi hai
chiesto
scusa, mi hai chiesto aiuto, mi hai baciata, mi hai salvata! Soffri di
disturbi
della personalità? Non m’importa, so solo che non
mi piaci” ribadii per
l’ennesima volta “Ma per qualche assurda ragione,
tuo fratello ti vuole un bene
dell’anima e non sarà mai felice finché
non risolverete i vostri problemi,
quindi non permetterò a una vipera qualunque di distruggere
quel poco che
avevate!”.
“Sveglia,
Bon Bon, io e mio fratello non
abbiamo mai avuto un rapporto” la canzonai, desideroso di
sottrarmi a quella
tortura mentale.
“Dalla
a bere a qualcun altro” mi freddò
con una carica impressionante “Tu ora vai da Katherine e le
fai bene capire che
tu sei Damon Salvatore e che nessuno può ferirti senza il
tuo permesso.
Liberati di questo potere che le sorelle Gilbert hanno sulla tua
vita”.
“Io
ho potere sulla mia vita” rimarcai quasi ringhiando.
Bonnie
non arretrò di un centimetro.
“Allora
smettila di farti trascinare dal
rancore”.
Non
avrei mai pensato che Klaus potesse risollevarmi
l’umore e non avrei mai pensato che Bonnie McCullough potesse
darmi una tale
scarica di autostima.
Stavo
lentamente mettendo insieme tutti
i pezzi: da ciò che mi aveva più volte ribadito
Alaric alle ultime battute
scambiate con mio cugino.
Katherine
Gilbert era stata una sorta di
rimpiazzo, almeno all’inizio. Se non avesse avuto lo stesso
identico aspetto di
sua sorella, probabilmente non l’avrei mai degnata di uno
sguardo.
Nessuno
credeva che sarei riuscito a
conquistare Elena, nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo, neppure i
miei
più vecchi amici. Katherine era arrivata come un miracolo
sceso dal cielo, la
mia occasione di rivincita.
Il
suo carattere era molto più simile al
mio che quello della sua gemella, mi riconoscevo nei suoi modi di porsi
e
comportarsi, rivedevo nei suoi occhi la mia stessa brama di potere.
Ciò
che mi aveva tanto attratto
inizialmente, era anche ciò che giorno dopo giorno mi aveva
lasciato dubbioso e
inquieto: era come me, in versione femminile.
Tutte
le cattiverie e le sue subdole
idee così affascinanti, che mi avevano riempito di orgoglio,
ora mi sembravano
degli ostacoli che separavano nettamente i nostri modi di concepire la
vita.
Io
non ero così, non potevo essere così.
Bonnie
non aveva la più pallida idea di
come fossi in realtà, ma su una cosa aveva ragione: le
sorelle Gilbert per
troppo tempo avevano esercitato il loro controllo su di me. Elena mi
aveva
fatto sentire un fallito e un incapace, Katherine si era presa gioco di
me. E
se le intenzione della prima non erano certamente quelle di ferirmi,
non si
poteva dire lo stesso della seconda.
L’aspettai
fuori da casa sua, appoggiato
alla mia macchina, deciso a chiarire un paio di questioni. Quando mi
vide, di
ritorno da scuola, rallentò il passo, sorpresa e intimidita.
Recuperò
in fretta la sua sfacciataggine
“Che cosa ci fai qui, Damon?”.
“Mi
devi delle spiegazioni, raggio di sole”
la schernii.
Lei
sbuffò, palesemente irritata, ma
rimase a pochi passi da me “Credevo di essere stata fin
troppo chiara”.
“Perché
ti sei messa con me?” domandai a
bruciapelo.
Scrollò
le spalle “Perché sei bello, sei
popolare, perché mi sentivo lusingata che tu avessi scelto
me. Ma le voci
corrono e ho scoperto la tua piccola cotta per mia sorella. Scusami
tanto se ho
ridimensionato le mie illusioni” commentò
sarcastica.
“Perciò
io facevo solo parte di un piano
malato e vendicativo?”.
“No,
non da subito. Ho osservato i tuoi
comportamenti per assicurarmi che tu fossi sincero e che non mi stessi
usando
per dimenticare la mia copia. Avevo accantonato le mie macchinazioni,
avevo
perfino in mente di lasciare in pace la mia gemellina, questo almeno
finché non
è entrata in scena Bonnie. Se potevi provare anche una
minima scintilla di
curiosità per quell’esserino insignificante,
chissà cosa avresti fatto se Elena
fosse venuta da te. A queste condizioni non ci potevo stare,
capisci?”.
“Capisco
benissimo” le assicurai “Il tuo
piano diabolico prevedeva di rubare il ragazzo a tua sorella e correre
con lui
verso il tramonto, mentre io e Elena vi guardavamo come due idioti. E
nel
frattempo, hai pensato bene di torturare un po’
Bonnie”.
“Non
prendermi per una ragazzina” mi
avvisò “Sei stato tu il primo a giocare con
me”.
“Hai
fatto tutto da sola, Katherine. Non
ho mai avuto alcun tipo d’interesse nei confronti della
McCullough, neanche mi
stava simpatica. Se tu non avessi proposto quella stupida scommessa, io
non mi
sarei mai avvicinato a lei; se tu non l’avessi convinta ad
andare nel bosco, io
non l’avrei salvata; se tu non le avessi rivelato quelle cose
su sua madre, lei
non si sarebbe ubriacata e soprattutto se non avessi chiamato la
polizia per
rovinare la festa di Tyler, io non avrei dovuto riportarla a
casa”.
“Cos-?”
provò a ribattere.
“Smettila
di fare la finta tonta. So
benissimo che hai chiamato i poliziotti per ripicca. Non potevi
sopportare che
ti avessi dato contro davanti a tutti”.
“Realmente,
perché sei qui?” ripeté sempre
più inviperita.
“Per
farti sentire un po’ stupida” le
risposi con un sorrisetto “E per risistemare un attimo la
gerarchia. Ora che mi
hai sfidato, chissà come potrei ripagarti? Magari
accompagnando Caroline al
prossimo ballo, sono certo che questo l’aiuterà a
guadagnare un po’ di punti
per l’elezione della reginetta della scuola”
ipotizzai “Oppure, ancor meglio,
potrei diffondere la voce che ci siamo lasciati perché tu
non potevi sopportare
le attenzione che riservavo a Bonnie”. Questo
l’avrebbe uccisa: venire battuta
e superata pubblicamente da Bonnie McCullough, era probabilmente il suo
peggior
incubo.
“Ci
siamo lasciati perché io ho
preferito tuo fratello” sibilò, stringendo gli
occhi e assottigliando le
labbra.
“Che
ti ha scaricato dopo due secondi
come un sacco di patate” le ricordai innocentemente
“La storia fila comunque
liscia come l’olio: tu hai deciso di tradirmi con mio
fratello, perché, umiliata
e ferita, avevi scoperto che io avevo già baciato
Bonnie…cosa che in effetti
ho fatto…per ben due volte”.
Katherine
era sul punto di esplodere
come una bomba: rossa in viso dalla rabbia, le labbra tiratissime, i
pugni che
si stringevano a scatti lungo i fianchi. Non mi sarei stupito se i suoi
capelli
si fossero rizzati di scatto in testa.
“Dimentichi
la scommessa, amore” era
sul punto di staccarmi la
testa a morsi.
“Tyler
è l’unico testimone e non aprirà
bocca se io gli dirò di tacere. È la tua parola
contro la mia e questa è la mia
città: posso far credere quello che voglio a chi voglio.
Forse avresti dovuto
rimanere sul serio a Parigi” aprii la portiera della
macchina, non avevo nient’altro
d’aggiungere.
Mi
voltai un’ultima volta “Non
crucciarti così, ti verranno le rughe prima del
tempo”.
Chiusi
appena in tempo la portiera:
Katherine aveva tirato la sua borsa contro al mio finestrino.
Il
mio spazio:
Stasera
sarò velocissima, è tardi e
voglio pubblicare!
Spero
che sia piaciuto questo viaggio
nella mente di Damon, che completa il capitolo precedente.
Adesso
che ci siamo sbarazzati di
Katherine, finalmente entreremo a piena forza nella storia tra Damon e
Bonnie.
Dobbiamo
solo convincere la piccola
rossa!
Mi
sono divertita un sacco a scrivere la
loro piccola scena insieme, chiusi nella loro bolla!
Non
mi sono dimenticata di Would you
hold it against me?, aggiornerò presto anche quello. Volevo
solo portarmi un po’
avanti con Crazy Little Thing Called Love!
Vi
ringrazio sempre e tantissimo per il
continuo supporto!
Il banner è di Bumbuni.
Buona
notte!
Fran;)
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Capitolo 17 *** Baby steps ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo diciassette: Baby steps.
“I got a love of my own, babe
I shouldn't get so hung up on you
I remember the way that we touch
I wish I didn't like it so much
I get so emotional, baby
Everytime I think of you
I get so emotional, baby
Ain't it shocking what love can do”
(So
emotional- Whitney Houston).
“Stai
scherzando, vero?” tuonai, tra
l’incredulità e il panico.
“Sono
estremamente serio, gattina” rispose mio padre con tono
pacato.
“Ma
ho
fatto qualcosa di male? Mi stai punendo?”.
“Perché
lo pensi?”.
“Te
ne
vai per una settimana e mi lasci con i Salvatore” mormorai.
“Ti
sei
sempre divertita a stare da Stefan” replicò,
ottuso.
“Ho
quasi diciotto anni, posso resistere da sola per qualche
giorno” obiettai.
“Devo
ricordarti che un paio di mesi fa sei tornata a casa completamente
ubriaca”.
Quello
era veramente un colpo basso. Non avevo mai sgarrato di un centimetro,
mai
commesso errori, nemmeno una botta di testa. Una rara volta che mi
comportavo
da adolescente, venivo tacciata come la peggiore delle ribelli.
Non
potevo credere che Giuseppe avesse accettato, non potevo credere che Damon avesse accettato. Non ci potevo
credere e basta.
Mio
padre riusciva anche e soprattutto nell’impossibile.
La
notizia era scoppiata come un fulmine a ciel sereno, apposta per
torturare i
miei nervi.
Sapevo
già da qualche giorni che mio padre sarebbe partito per una
settimana per recarsi
a un convegno di aggiornamento medico. Immaginavo di potermi godere la
casa
vuota, invitare qualche amica, ammazzarmi di tv senza aprire un libro.
Non era
stato così.
Il
mio
caro papà aveva appena infranto i miei sogni di gloria: di
ritorno da scuola,
avevo scoperto che i Salvatore mi avrebbero ospitato per tutta la
durata del
convegno.
Fin
qui
tutto bene: non avevo nessun problema a trascorrere del tempo con il
mio
migliore amico, specialmente perché quella villa era
provvista di un’enorme
camera da letto riservata agli ospiti, ovvero
a me.
Tutto
perfetto, se la mia evidente cattiva sorte non avesse cominciato a
lavorare
contro ogni aspettativa di tranquillità: anche Giuseppe
sarebbe mancato per una
settimana.
Aveva
deciso di accompagnare Klaus in Inghilterra e approfittarne per
visitare sua
sorella, suo cognato e tutta la famiglia Mikealson.
Così
io
e Stefan ci eravamo trovati incastrati in una situazione a dir poco
imbarazzante: mio padre aveva convinto –
con
qualche assurdo ricatto pensai –
Giuseppe a lasciare che Damon ritornasse a
casa sua per badare a noi due.
E
questo era davvero il colmo che batteva ogni assurdità.
Damon
non sapeva neanche prendersi cura di sé e soprattutto non
aveva alcun interesse
a sprecare del tempo tenendo d’occhio me né
tantomeno suo fratello.
Non
capivo come diamine avesse potuto acconsentire a questa soluzione. Non
capivo
come Giuseppe avesse potuto cedere alle richieste di mio padre.
“Ho
imparato la lezione. Non ho bisogno della babysitter”
m’imbronciai “E poi Damon
è assolutamente inaffidabile”.
“L’ultima
volta ti ha riportato a casa. Senza di lui forse saresti finita nei
guai”.
“Va
bene, papà, non vorrei davvero ma ti devo aprire gli occhi.
Ti ricordi tutte le
volte che al primo anno del liceo tornavo piangendo? Ecco, di solito
era colpa
di Damon”. Non ne potevo più di sentire mio padre
adorare quel ragazzo.
Non
fece una piega, scrollò le spalle e continuò a
sistemare i vestiti nella sua
valigia “È un giovane irrequieto, non sa ancora
che cosa vuole nella vita e commette
errori. Tu, invece, sei troppo prevenuta nei suoi confronti, gattina.
Da che ho
memoria, Damon ti ha sempre tenuta al sicuro. A modo suo ti
è affezionato.
Detesta vederti stare male”.
Io
alzai
le sopracciglia, scettica “Stiamo parlando della stessa
persona? Onestamente,
credo che tu abbia una visione del tutto distorta di
quell’imbecille. Sono
stupida io che continuo a non raccontarti tutte le cattiverie che mi ha
fatto”.
Mi
ritirai in camera mia senza più aggiungere una parola.
C’era qualcosa di assolutamente
sbagliato in tutta la situazione.
Ero
arrabbiata perché avevo quasi raggiunto la maggiore
età eppure non avevo
nessuna libertà, arrabbiata perché mi trovavo
bloccata sotto la custodia di un
ragazzo che era cento volte meno maturo di me e che aveva dimostrato di
non
sapersi comportare civilmente. Negli ultimi tempi era un po’
cambiato, un po’
cresciuto e in effetti senza di lui sarei rimasta coinvolta in
circostanze
spiacevoli, ma come potevo essere sicura che la bestia non si
nascondesse
dietro quelle buone intenzioni?
Si
era
rivelata con Stefan, c’era qualche motivo per cui la sua
cattiveria non si
dovesse riversare su di me?
Potevo
fidarmi di un tipo che mi aveva disprezzata così a lungo?
La
risposta era negativa e mio padre sembrava cieco a riguardo.
Forse ero io ad aver perso
un passaggio, forse
non conoscevo tutta la storia e forse un giorno avrei finalmente
compreso che
cosa si celasse dietro a quella faccia da schiaffi di Damon Salvatore.
L’idea
di dividere per una settimana la casa con lui non mi entusiasmava
molto, ma
probabilmente non c’era da preoccuparsi: sicuramente gli
serviva qualche favore
da Giuseppe, per questo aveva acconsentito.
Guardai
dalla finestra la villa dei Salvatore e solo allora mi accorsi che la
luce
nella stanza del ragazzo era accesa. Fino a quel momento Klaus
l’aveva
occupata, ma che sarebbe accaduto una volta partito?
Scostai
la mia tenda per osservare meglio quella camera e un moto di tristezza
mi colse
di sorpresa: appariva così sbagliato che il suo legittimo
proprietario non
fosse più lì.
Non
potevo concepire che una famiglia fosse così
irrimediabilmente distrutta.
Nonostante mia madre ci avesse abbandonato senza più
voltarsi indietro, noi tre
eravamo quasi dipendenti uno dall’altro. Non potevo vivere
senza mio padre e
mia sorella.
Stefan,
Damon e Giuseppe non avevano idea di che cosa si stessero perdendo.
Sospirai
e lasciai ricadere la tenda a ricoprire una parte della finestra.
Sarebbe stata
una settimana da pazzi, ma non l’avrei sprecata.
Non
potevo fare niente per il rapporto tra Damon e suo padre. Giuseppe era
totalmente fuori dalla mia portata, incomprensibile.
Stefan
e Damon, invece, erano tutt’altra storia. In qualche modo
sentivo di avere il
potere di aggiustarli. Erano fratelli, dovevo solo far sì
che se lo
ricordassero.
Nessuna
ragazza in mezzo e soprattutto nessuna Gilbert. Nessun Giuseppe a
seminare
zizzania. E forse i pezzi di quella famiglia disastrata si sarebbero
ricomposti.
Andai
a
dormire con un animo molto più tranquillo.
Ero
ancora furiosa per quell’idea assurda, ma almeno adesso avevo
uno scopo: potevo
scrivere un lieto fine a quella maledetta storia.
Un
Damon felice era un Damon che non creava problemi. Una vincita su tutti
i
fronti.
Ingenua
io che credevo di poter vedere finalmente una soluzione ai miei
dilemmi. Mi ero
talmente abituata a dare la colpa di tutto a quel ragazzo, che non mi
aspettavo
proprio altre sorprese.
E
invece
la sorpresa arrivò dalla persona più pacata e
prudente. Lei che doveva essere
una sicurezza, lei mi provocò quasi un colpo al cuore.
Meredith
avvinghiata ad Alaric. Ecco, la scena che mi si presentò
davanti agli occhi,
quando, il giorno dopo, entrai nella classe di storia. La lezione era
finita,
io mi ero dimenticata un libro in classe.
“O
Santo Cielo!”.
Ultimamente
passavo davvero troppo tempo a fissare le case degli altri. Quella, in
realtà,
era la mia, ma da mesi non ci mettevo più piede e iniziavo a
non sentirla più
vicina come una volta. Non era più il mio rifugio sicuro.
L’idea
di ritornarci, anche se solo per qualche giorni, mi turbava parecchio.
Quando
mio padre mi aveva telefonato, proponendomi di badare a Stefan e a
Bonnie per
quella settimana, ero scoppiato a ridere, poi avevo interrotto la
comunicazione.
Pochi
minuti dopo mi aveva richiamato. Era stato parecchio insistente, il che
mi era
parso ancor più ridicolo della richiesta in sé.
E
al
contempo ero anche un po’ deluso, benché fossi
restio ad ammetterlo. Per un
momento avevo immaginato che lo scopo della sua chiamata fosse di
congratularsi
con me per l’eccellente esito del mio esame. Invece stavo
solo cercando di
accontentare il suo vecchio amico, Rudy McCullough*.
Alla
fine non avevo rifiutato, sorprendendo perfino me stesso. Avevo,
però, delle
buone motivazioni: prima di tutto lo studio.
Aprire
un libro con Sage che continuava a fare avanti e indietro per la stanza
con
ragazze diverse ogni volta, stava diventando davvero complicato. Non mi
era mai
importato, perché non mi ero mai dedicato seriamente
all’università.
Ora,
non vedevo altro scopo che quello nella mia vita: la mia ex ragazza mi
aveva
preso in giro per tutto il tempo, la mia famiglia mi evitava, il mio
migliore
amico stava aspettando delle scuse di prima classe da parte mia.
Mi
ero
già preso in parte la rivincita con Katherine e per il
momento non avevo alcun
interesse di riallacciare i rapporti né con Stefan
né con mio padre. Avevo
intenzione di sistemare le cose con Alaric, ma non avevo tutta sta
voglia di
dargli ragione subito.
Lo
studio era la mia unica distrazione. Non sarei mai riuscito a passare
il resto degli
esami del primo semestre se fossi rimasto al campus e la biblioteca non
faceva
per me.
Casa
mia era il luogo ideale per stare un po’ in pace. Mio padre
sarebbe rimasto per
una settimana o più a Londra dai miei zii e con molte
probabilità non avrei mai
neanche incrociato mio fratello: la casa era grande e lui era sempre
impegnato
tra allenamenti di football e tutte le sue cagate da adolescente.
Questo
mi lasciava non solo il tempo e la tranquillità per
studiare, ma anche la
possibilità di avere Bonnie sotto lo stesso tetto, a portata
di mano. Solo
perché la mia storia con Katherine si era conclusa, non ero
obbligato a mettere
la parola fine anche alla scommessa.
Avevo
ancora una certa reputazione io e non avrei permesso a Tyler di darmi
del
perdente fino alla fine dei suoi giorni.
Senza
contare che sarebbe stato un bello smacco verso la mia ex ragazza
Gilbert. Ci
avevo riflettuto su parecchio ed ero arrivato alla conclusione che la
miglior
ripicca si celava proprio dietro quella scommessa che lei stesse aveva
messo in
piedi.
“Potrei
diffondere la voce che ci siamo lasciati perché tu non
potevi sopportare le
attenzioni che riservavo a Bonnie”.
Una
frase buttata lì per ferirla, si era rivelata una grande e
diabolica idea,
degna di me.
Rimaneva
sempre il solito problema: Bonnie non mi poteva sopportare.
Rudy
McCullough mi aveva dato la possibilità di cambiare le cose.
Era davvero
impressionante la fiducia che quell’uomo riponeva in me,
considerando
soprattutto il numero di padri che mi avevano intimato di stare lontano
dalle
proprie figlie.
Non
ne
avevamo mai parlato, io e il signor McCullough, però sapevo
che la sua simpatia
verso di me risaliva a molti anni fa: il giorno in cui Abby aveva
deciso di
andarsene.
Un
bambino di otto anni non comprende tante
cose.
Un
bambino di otto anni osserva, si stranisce
e continua la sua vita.
Un
bambino di otto anni si pone delle
domande, ma spesso non aspetta il tempo necessario per ottenere delle
risposte
e torna alle sue occupazioni da bambino di otto anni.
Io
non ero così.
M’impicciavo
degli affari altrui, insistevo,
mi capitava di pestare i piedi a qualche adulto, di solito mio padre.
Oltretutto ero piuttosto perspicace.
Quando,
dal mio portico, osservai
la signora McCullough trasportare
una grossa valigia dentro la macchina, fiutai all’istante
aria di problemi.
Il
signor McCullough assisteva in silenzio a
quello strano avanti e indietro, con un’espressione da
funerale stampata in
volto. Non la stava aiutando come avrebbe fatto un qualsiasi
gentiluomo,
neanche si degnava di spostarsi dalla porta quando lei doveva passare.
Comportamento davvero strano, trattandosi del padre di Bonnie, ovvero
la
gentilezza fatta a persona. Non come il mio.
Si
scambiarono qualche parola, non riuscii a
sentirle. Non sembravano amichevoli, però.
Cosa
altrettanto strana, dato che non li
avevo mai visti litigare.
Lui
era una maschera di freddezza, talmente
diverso dall’uomo gioviale cui ero abituato.
Lei
non lo guardava neanche negli occhi, come
se fosse colpevole di qualcosa. Continuava a sistemare le sue cose nel
baule
della macchina e replicava alle affermazioni del marito in modo quasi
meccanico, come se avesse imparato il copione a memoria.
La
compostezza del signor McCullough non durò
a lungo e ben presto si ritrovò a supplicarla con lo
sguardo, come un disperato
senza altra possibilità.
In uno
scatto di risoluzione, si avventò sul bagagliaio, lasciato
momentaneamente
incustodito dalla moglie, e iniziò a scaricare tutto
ciò che gli capitava per
le mani.
Abby
ricomparve sulla soglia con l’ultimo
borsone. Non appena si accorse del marito, lo fermò,
riponendo tutto nuovamente
al suo posto.
Alzò
la voce e gli intimò di stare lontano,
perché ormai lei aveva preso la sua decisione,
perché lì in quella città non le
era rimasto più niente a renderla davvero felice.
Fu
in quel momento che capii, quasi con
orrore che cosa significasse quella scena che fino a un secondo prima
mi pareva
solo strana.
Ero
un bambino di otto anni, mi impicciavo
degli affari altrui, insistevo, mi capitava di pestare i piedi a
qualche
adulto, di solito a mio padre. Oltretutto ero piuttosto perspicace.
E
tremendamente impulsivo.
Non
spesi nemmeno qualche istante a pensare.
Scesi i gradini della mia veranda e attraversai la strada, percorrendo
la
distanza che mi separava dalla donna.
Con
voce più innocente e ingenua che riuscii
a riprodurre, dissi “Va da qualche parte, signora
McCullough?”.
Lei
sussultò. Si voltò e piegò il collo
verso
la mia direzione “Damon” mi chiamò
“Non dovresti essere a scuola?”.
“Sono
malato”.
“Non
sembri malato”.
Le
riservai un sorriso furbetto. Tutti si
meritavano qualche giorno di riposo.
“Vado
qualche giorno fuori città” mi rispose,
frettolosamente, forse nella speranza di liquidarmi senza tante
spiegazioni.
“Sono
tante valigie per una persona sola”
considerai.
“È
una vacanza un po’ lunga”.
“Bonnie
è ancora all’asilo. Non l’aspetta,
non la saluta?”. Serviva ben altro per sbarazzarsi di me.
La
donna sospirò “Damon, se sei davvero
malato, dovresti stare in casa al caldo”.
“In
realtà è una domanda molto
intelligente”
s’intromise Rudy “Non saluti le tue
figlie?”.
Abby
ebbe un tremito.
“Mia
madre voleva rimanere, non voleva
lasciarci. È stata costretta” sussurrai
tristemente “Un bambino non deve
crescere senza la sua mamma”.
Avevo
toccato un tasto dolente, perché parve
cedere per qualche istante. Presto ricompose la sua espressione
determinata
“Tua mamma era una donna coraggiosa”.
Sembrava
quasi dire ‘Io
non lo sono’.
E
infatti aggiunsi “Lei invece è codarda”.
Avevo
imparato quella parola qualche giorno
prima, guardando un film, e mi sentii estremamente orgoglioso a usarla.
Abby
si accigliò, sorpresa che un bambino di
otto anni si fosse preso tutta quella confidenza di accusarla
così
spudoratamente. Non aveva altro da dire, niente l’avrebbe mai
assolta dal gesto
che stava per compiere.
Salì
in auto e chiuse con un botto la
portiera. Non accennò neppure un saluto a suo marito, che se
ne stava in piedi
accanto al veicolo.
Mise
in moto, ingranò la marcia e sparì
dietro l’angolo, lasciandosi dietro una scia leggera di fumo.
Io
non sapevo che fare, incredulo. Pensavo e
ripensavo a ciò che sarebbe accaduto una volta che Mary e
Bonnie avesse appreso
la notizia.
Il
signor McCullough si accovacciò di fronte
a me e mi posò le mani sulle spalle, stringendole
delicatamente “Diventerai un
ometto degno di tua madre” mi disse.
Io
mi morsi un labbro e annuii con un mezzo
sorriso.
“Ti
devo chiedere un favore, Damon: mi devi
aiutare con le mie figlie, specialmente con Bonnie perché
è ancora tanto
piccola. Mi prometti che la terrai d’occhio, che proverai a
proteggerla?”.
Il
mio petto si gonfiò di orgoglio e ancora
una volta annuii con forza.
Non
lo
intendeva sul serio, o almeno non l’aveva mai considerata una
promessa
vincolante; solo ora lo comprendevo.
Era
più
che altro un tentativo di rincuorarmi, di ripagarmi per il mio sforzo:
avevo
provato a fermare la mamma di Bonnie
e
non ci ero riuscito.
Suo
padre in cambio aveva cercato di ricompensarmi, di darmi la
possibilità di fare
comunque qualcosa di buono.
Nel
corso degli anni non avevo proprio tenuto fede alla promessa. Non
potevo
soffocare la mia indole, non potevo comportarmi sempre bene, non era da
me.
Era
divertente prendere in giro Bonnie, era facile ed estremamente
soddisfacente.
Non avevo mai sopportato il tuo attaccamento verso Stefan o i suoi modi
da
bambina frignona o la faccia da vittima che esibiva ogni volta che
qualcosa
andava storto.
E
fino
a qualche settimana fa ero sicuro, al cento per cento, che niente fosse
cambiato. Invece tutto era cambiato.
Per
quanto provassi a non pensarci, per quanto provassi a ingannare gli
altri e
soprattutto me stesso, dovevo arrendermi all’idea che Bonnie
McCullough non
fosse più una bambina frignona e insopportabile.
Katherine
ci aveva visto giusto, Klaus ci aveva visto giusto. E quel grandissimo
stronzo
di mio cugino mi aveva sbattuto pesantemente in faccia la nuova
realtà delle
cose, macchinando una trappola in cui ero cascato come un pivellino
colto dalla
gelosia.
Forse
senza il suo brusco intervento e senza il tradimento della mia ragazza
non me
ne sarei mai accorto. Gettando un’occhiata indietro alle
ultime settimane della
mia storia con Katherine, era lampante che qualcosa si fosse incrinato.
Non
mi
sarei mai avvicinato a Bonnie senza quella stupida scommessa, senza
tutti i
piani che Katherine aveva ideato per farmi vincere o mettermi alla
prova o
qualunque fosse il suo cazzo d’intento. Ma ora che era
successo, mi risultava
molto difficile tornare indietro, ai tempi in cui snobbavo Bonnie con
tanta
naturalezza.
La
settimana che mi aspettava rappresentava una grande occasione: oltre
allo
studio, finalmente forse avrei capito per quale dannato motivo mi era
sorto un
improvviso debole per le rosse di capelli.
La
scommessa e la vendetta verso Katherine erano solo delle scuse, degli
schermi,
dei pretesti per indagare a fondo: il mio era solo un capriccio? Mi ero
intestardito perché Bonnie non ne voleva sapere di me?
Oppure si trattava di
qualcosa di più..?
Meglio
non pensare alla seconda ipotesi.
Scesi
dalla mia macchina e mi tirai dietro un borsone. Klaus mi aveva
chiamato
chiedendomi di aiutarlo a preparare le sue valigie. Avevo colto
l’occasione al
volo, dato che dovevo sistemare un paio di cose in camera mia.
Stefan
era a scuola, mio padre al lavoro. Non rischiavo incontri spiacevoli.
Appena
entrato feci giusto in tempo a compiere un paio di passi.
Cos’è che avevo
detto? Che mio padre era al lavoro.
Porca
p-
“Damon”
pronunciò il mio nome con quella nota strisciata in grado di
mettere paura a
chiunque.
“Pensavo
che in casa non ci fosse nessuno” dissi di getto.
“E
io
non mi aspettavo di vederti varcare quella porta. I miracoli avvengono
davvero,
suppongo” continuò mentre ritirava dei documenti
nella sua cartella.
“Salgo
in camera mia e chiudo questa conversazione prima che inizi”
troncai.
La
voce
di mio padre mi fermò, quando posai il piede sul primo
gradino delle scale.
“Ho
ricevuto la lettera per il pagamento della seconda rata della tua
università.
Ti conosco bene, Damon: ti piace la vita comoda, ti piace sfruttare la
libertà
che il college ti dà senza dare gli esami. Non hai il
coraggio di rinunciare
agli studi…quello implicherebbe trovare un lavoro. Ma non
pagherò altro se non
vedrò dei risultati”.
“Ho
anche
io la firma sul conto” gli ricordai, mentre mi giravo. Non
ero furente come
avrei immaginato, ero calmo e sicuro di me “Non che siano
affari tuoi, ma ho
dato da poco un esame e ho preso il massimo. Entro fine semestre
avrò
recuperato il tempo perso. A fine anno mi laureo e tu non sei invitato
alla
cerimonia. Ho già pagato la seconda rata con i soldi che mi
ha lasciato mamma.
Quindi tu e il tuo denaro potete farvi compagnia l’uno
all’altro”.
“Dimmi
che scherzi ti prego!”.
“Non
eri tu che trovavi questa cosa molto romantica?”.
“Sì,
ipoteticamente parlando”
m’indignai.
“Bonnie…”
“No,
niente Bonnie. Questa non la scampi. Hai dieci secondi per raccontarmi
tutto!”.
“Non
c’è molto da raccontare: per mesi siamo stati
lontani, a mala pena ci
salutavamo. Poi un giorno, un po’ prima di Natale, ci siamo
incontrati al bar.
Io stavo leggendo un libro, ero all’inizio. Lui mi ha detto
di lasciare
perdere, che era una schifezza. E da lì abbiamo cominciato a
vederci sempre più
spesso. Parlavamo di scuola, del college, argomenti innocenti e
neutrali…fino a
che un giorno ci siamo baciati e il resto lo sai”.
Sbiancai
e mi passai una mano tra i capelli. Facevo su e giù per la
palestra vuota,
cercando di calmarmi.
Quando
avevamo scoperto che Alaric era il nostro insegnante, ero stata la
prima e
forse l’unica a tifare per loro. Mi piaceva
quell’idea di proibito e rischioso,
l’idea dell’amore impossibile ma abbastanza forte
da superare quel grandissimo
ostacolo.
Ma
era
accaduto prima di Matt e di Klaus, di Damon, di Katherine, di mia madre
e di
tutti i casini che mi erano piombati addosso.
Certo,
era bello immaginarsi un mondo di favole, la vita però era
un po’ diversa:
normalmente andava tutto storto e il gioco in cui si era invischiata
Meredith
era molto pericoloso.
“Me
lo
sarei aspettata da Caroline, ma da te proprio no!” le puntai
un dito contro.
“Nemmeno
io sono così contenta della situazione, ma non ho potuto
resistere. È come
avevi detto tu: ‘se c’è attrazione non
ci puoi fare nulla, prima o poi ti
colpirà alle spalle’. E questa non è
semplice attrazione” specificò, dopo aver
citato le mie esatte parole.
“Da
quando tu mi dai retta?”
mi stupii, per
niente felice. Con tutti i consigli che avevo dispensato, decideva di
seguire
proprio questo!
“È
inutile resistere. Ci abbiamo provato e non ha funzionato. A giugno
finisce la
scuola, mancano solo pochi mesi. Dobbiamo solo essere discreti e poi
potremmo
fare quello che ci pare” mi spiegò, pratica come
al suo solito.
“Discreti?
Vi stavate baciando nella sua aula! Poteva entrare chiunque e infatti
sono
entrata io!” la sgridai senza alzare la voce.
“Questa
è stata una mossa stupida, lo ammetto” mi concesse
“E assolutamente non da me. Credo
di essermi fatta prendere dall’euforia, sai. Sono sempre
stata così composta e
razionale. Mi piaccio così, non mi cambierei
mai…è solo che ogni tanto viene
voglia anche a me di sgarrare qualche regola o di fare cose
stupide”.
“Beh,
le fai in grande stile” ironizzai.
“Sono
pur sempre un genio”.
Cercai
di trattenere una risata, ma proprio non ci riuscii.
L’abbracciai ridendo come
una pazza.
Se
avessi avuto un minimo di senno, non avrei lasciato perdere
così facilmente
l’argomento. L’anima romantica e sognatrice aveva
sempre soffocato la mia parte
razionale. Con che faccia tosta potevo stroncare la sua prima vera
storia
d’amore? Con quegli occhi che brillavano di agitazione e
allegria.
Provai
un po’ d’invidia per quella luce.
Avrei
tanto desiderato essere su di giri come Meredith. Trovare qualcuno che
mi
facesse buttare al vento ogni cautela. Eppure i ragazzi che avevano
dimostrato
così tanto interesse verso di me, ora sembravano totalmente
indifferenti.
Klaus
mi aveva mandato segnali molto ambigui, ma non era mai arrivato al
dunque.
Matt
era
invece sparito del tutto. Mi conosceva da anni e non si era nemmeno
degnato di
darmi delle spiegazioni. Qualunque fosse il motivo meritavo di saperlo.
Dovevo
aver combinato un bel guaio quella sera alla festa di Tyler. Avevo
bevuto molto
e non mi ricordavo praticamente niente, ma più ci ripensavo
più non riuscivo a
immaginare che cosa di tanto grave avessi fatto per allontanarlo in
quel modo.
E
fu in
quel momento, come una risposta divina, che Matt mi passò
accanto.
Mi
fermai nel mezzo del corridoio. Impiegai circa due secondi e mezzo per
racimolare il coraggio necessario, poi mi voltai e marciai verso di
lui. Stava
sistemando dei libri nell’armadietto.
Lo
chiamai e gli chiusi praticamente l’anta in faccia.
Bonnie
in modalità pazzoide, accesa.
“Chi
ti
credi di essere Honeycutt, eh?!” lo fulminai “Siamo
amici dall’asilo. Era tanto
difficile dirmi le cose di persona?”.
“B-bonnie…”
la sua voce tremava, non per spavento, quanto per la sorpresa.
“Che
scusa hai adesso? Prima mi fai tutti quei discorsi su noi due, mi dici
che sei
disposto a fare le cose con calma e poi sparisci senza nemmeno
rivolgermi più
la parola?”.
Era
trascorso più di un mese e mezzo, ma tutta la rabbia mi era
salita tutta d’un
tratto. Guardare Meredith così felice, mi aveva fatto capire
che anche io
meritavo un po’ di rispetto.
“Io…ho
avuto l’impressione che avessi cambiato idea su noi
due” disse, chiaramente
colto alla sprovvista dalla mia carica.
“Ho
cambiato idea? Io? Va bene, quella
sera ho bevuto un po’, evidentemente ho fatto qualcosa che ti
ha offeso, ma non
sono io quella che ti ha voltato le spalle”.
“Non
mi
hai offeso…cioè, mi sono sentito preso in giro.
Ero davvero intenzionato a
cominciare qualcosa di serio con te ma tu…tu mi hai detto di
non volerne più
sapere di me, che cercavi qualcuno di diverso. Hai detto che potevi
puntare più
in alto”.
Io
corrugai la fronte “Neanche da ubriaca potrei dirti una cosa
del genere. Forse
sei tu quello che ha esagerato con l’alcol”.
Mi
voltai pronta ad andarmene. Non né tempo né
voglia di stare ad ascoltare le sue
stupide scuse campate per aria.
“Non
me
l’hai nemmeno detto, in realtà” si
corresse Matt “Me l’hai scritto. Mi hai
piantato in asso con un messaggio”.
“Questa
sì che è un’immensa
sciocchezza!” mi alterai “Quella notte non avevo
neanche il
cellulare, me l’ero dimenticata in macchina
di…”.
O
cavolo.
Impallidii,
mentre collegavo con crescente irritazione i dettagli appena scoperti.
Damon
Salvatore era un uomo morto.
Qualcuno
quel giorno evidentemente voleva che io risolvessi tutti i miei
problemi senza
affaticarmi troppo. Sembrava che le occasioni cadessero dal cielo
pronte per
essere sfruttate.
L’auto
di Damon stanziava di fronte a casa sua.
Non
mi
fermai nemmeno un secondo a chiedermi perché fosse
lì. Posai il mio zaino in
salotto e uscii di nuovo sulla strada.
Mi
appoggiai
alla Ferrari e lo aspettai, pazientemente.
“Che
cosa ci fa lì, uccellino? Ammiri la mia macchina?”
fu il suo primo commento
quando mi vide.
“Sto
decidendo se staccarti lo specchietto o direttamente la
testa”.
“E
dire
che credevo di non aver fatto nulla di male in questi due
giorni”.
“Ricordi
quando mi hai riportato a casa, dopo la festa di Tyler?”.
“Non
c’è
bisogno di ringraziamenti. L’ho fatto con il cuore”
mi disse, mettendosi una
mano sul petto.
Incrociai
le braccia e lo trucidai con lo sguardo “Hai tenuto il mio
cellulare per quasi
tutto il giorno. Me l’ero dimenticato qui dentro” e
picchiai un dito sul finestrino.
Lui
fece
un bel sospiro e alzò gli occhi al cielo “Ne
deduco che hai ripreso a parlare
con Honeycutt”.
“Non
ti
difendi neanche?” mi scandalizzai.
“Era
solo uno scherzetto” liquidò il fatto.
“Solo-
uno-scherzetto?” scandii bene le parole, ripetendole.
“Uh,
uh, qualcuno ha lasciato nello zaino il senso
dell’umorismo” mi canzonò.
“Come
ti sei permesso!” ruggii “Ho passato più
di un mese a chiedermi che cosa avessi
fatto di male. Io e Matt non ci siamo più
parlati!”.
“Tu
vorresti stare con uno che si gira dall’altra parte, invece
di chiederti spiegazioni?
Svegliati, uccellino, ti ho fatto solo un favore” si
gongolò.
“Vuoi
farmi un favore? Allora stammi alla larga, perché quelle che
faccio nella mia
vita non sono affari tuoi!”.
Mi
resi
conto di aver oltrepassato il limite quando i suoi occhi brillarono di
un
luccichio sinistro. “Vuoi che ti stia alla larga, Bonnie?” soffiò il
mio nome con una strana delicatezza, mentre si
muoveva passi lenti verso di me “Ne sei sicura?
Perché ultimamente mi sei
sempre intorno, a sgridarmi per un motivo o per un altro. Forse sei tu
che non
riesci a starmi lontana” ipotizzò, con evidente
compiacimento.
Ora
ero
bloccata tra il suo corpo e la portiera dell’auto. Le sue
mani si erano posate
sui miei fianchi e nemmeno me n’ero accorta.
Deglutii,
“Se non ti sposti, ti tiro uno schiaffo” lo
minacciai.
“Sto
aspettando” mi sfidò. Si piegò ancor
più nella mia direzione e le punte dei
nostri nasi si toccarono.
Io
non
chiusi gli occhi, non cedetti, ma rimasi immobile, incapace di
districarmi da
quella situazione e soprattutto dalla sua presa.
Da
una
parte volevo scappare il più lontano possibile,
dall’altra cominciavo a
prendere confidenza con il disagio che mi procurava la sua vicinanza.
Un disagio
inebriante.
Improvvisamente,
mi liberò dalla stretta. Mi fissò per un
po’, dopodiché fece il giro della
vettura e aprì la portiera del guidatore.
“Ci
vediamo sabato, Bon Bon. Non vedo l’ora di tenerti
d’occhio”.
Era
serio
o ancora si divertiva a beffeggiarmi?
Una
cosa
era certa: io non ne sarei uscita viva.
Quel
sabato non fu un lieto giorno per me.
Era
l’inizio della mia settimana a casa Salvatore.
L’inizio
di sette interminabili giorni sotto lo stesso tetto di Damon.
Io,
in
mezzo ai due fratelli. Avvertivo aria di catastrofi.
Era
anche il giorno della partenza di Klaus.
Mi
dispiaceva: quel ragazzo era stato il primo a farmi sentire davvero
speciale,
così com’ero. Non mi aveva mai detto nulla di che,
ma il suo sguardo più di una
volta mi aveva lasciato senza fiato.
Ero
affascinata da Klaus e mi emozionava pensare che io avessi sul serio
catturato
la sua attenzione. Per fortuna non ero ancora così coinvolta
da lui da
strapparmi i capelli, ma avrei tanto desiderato avere un po’
più di tempo per
approfondire qualunque cosa ci fosse tra noi.
Il
modo
migliore per affrontare quel distacco, era semplicemente considerare
quella
parentesi solo come un bellissimo ricordo.
Ero
cresciuta grazie a Klaus. Avevo cominciato a credere più in
me e a pretendere
più dagli altri. Non potevo negare che il nostro incontro
avesse lasciato una
forte impronta.
Potevo
solo ringraziarlo e parlargli per un’ultima volta, almeno
fino alla prossima
visita, se mai ci sarebbe stata.
Stava
caricando le valigie sul taxi, mentre Giuseppe salutava Stefan. Damon
non si
vedeva da nessuna parte.
“Salve,
darling” mi
salutò con il suo
splendido accento inglese “Sei qui per dirmi
addio?”.
“Spero
di no” gli sorrisi “Ti aspetto qui per quel
master”.
Piegò
un angolo della bocca all’insù “Allora
ci rivedremo prima del previsto
suppongo. Se non hai niente da fare quest’estate, prima del
college, vieni a
trovarmi. Scommetto che Londra ti piacerebbe da matti”.
“Oh
sì,
soprattutto la pioggia e la nebbia” scherzai “Sarai
il primo a saperlo,
comunque, sei dovessi trovarmi dalle tue parti”.
“Mi
mancherà il rossore che hai sempre sulle guance quando ti
parlo” mi confessò
“Sei adorabile, Bonnie. È seccante andarmene
proprio adesso. Sarei stato
davvero contento di diventare tuo amico”.
“Solo
amico?”. E questa da dove mi era uscita? O giusto, dalla
nuova me, quella un
po’ più spavalda, quella che in situazioni come
questa avrebbe dovuto tacere.
“Non
ho
speranze né desiderio di essere di più. Non sono
abituato a essere la seconda
scelta. Credo che sia colpa del mio narcisismo
sovrasviluppato”.
“A
Capodanno stavi per baciarmi” continuai, trattenendo con
tutte le mie forze
l’agitazione “Ti sei fermato perché hai
visto Matt. Avrei davvero voluto
provare, sentire…” mi avvicinai sempre
più a lui, fino a far sfiorare i nostri
corpi “Vorrei un ultimo ricordo” lo pregai,
alzandomi sulle punte.
Era
mia
intenzione baciarlo, togliermi quello sfizio. Ero partita davvero
decisa,
eppure a pochi centimetri dalle sue labbra, gelai. Non riuscii ad
andare
avanti, come se un muro invisibile si fosse piazzato davanti a me.
Klaus
mi prese gentilmente per le spalle e mi allontanò
“Che ti avevo detto? Seconda
scelta. Non sono io quello giusto per te”.
Scossi
la testa “Mi dispiace, io…ho parlato con Matt. Ci
siamo chiariti. Non stiamo
insieme, ma non sarebbe giusto nei suoi confronti”.
“Non
parlavo di Matt, darling. Matt non
è
mai stato un problema per me, nemmeno a Capodanno”.
Mi
scostai per guardarlo meglio.
“Che
co-?”.
“Ti
auguro ogni fortuna, sweetheart. Ti
aspetto a Londra” mi posò un bacio sulla fronte e
mi strizzò l’occhio.
Klaus
salì sul taxi. Salutò suo cugino con un gesto
della mano, poi la macchina
partì.
Stefan
mi si avvicinò, chiaramente stranito.
“Bonnie,
cos’era quello?”.
“Onestamente
non ne ho idea”.
Il
mio
spazio:
Stasera
aggiorno tardi, perché domani non ci sono tutto il giorno.
Meglio adesso
quindi!
Mi
piace
particolarmente questo capitolo. Mi piace per quel ricordo di Damon, mi
piace perché
sempre Damon si prende una piccolissima rivincita con suo padre e mi
piace perché
finalmente iniziamo a vedere la luce per i nostri protagonisti.
Abbiamo
molti più punti di vista di Bonnie, ma in realtà
credo che Damon la faccia da
padrone. I piccoli passi, i “baby steps”, sono
suoi. È lui che prende coscienza
di quello che sta iniziando a provare per Bonnie.
La
ragazza,
invece, non sa più che cosa le stia succedendo.
Il
prossimo
capitolo sarà incentrato sulla loro breve convivenza a casa
Salvatore. Che cosa
prevedete?
Mi
sono
concentrata soprattutto su Damon negli ultimi capitolo,
perché sono stata influenzata
un po’ dalla serie tv, lo ammetto. Questo vampiro si sta
facendo davvero in
quattro per rendere tutti contenti, per riportare in vita una ragazza
con cui
non ha mai avuto molto a che spartire. Mi aspetto dei ringraziamenti da
Oscar.
Me li aspetto, sul serio. Altrimenti avrò la conferma che
gli autori di questo
show lasciano troppe cose al caso.
Infine,
ringrazio tantissimo tutte le persone che si sono fermate per lasciarmi
un
commento. Nei capitoli precedenti avevo avuto l’impressione
che l’interesse
fosse un po’ calato, ma la volta scorsa mi avete veramente
risollevato il
morale.
Ho
anche
aggiornato Would you hold it against me?,
se volete farci un salto!
Grazie
mille a tutte!!
A
presto con il prossimo capitolo!
Il
banner è di Bumbuni.
Buona
notte =)
Fran;)
*Ho
scelto per i genitori di Bonnie gli stessi nomi che hanno nello show.
Ps:
se
avete qualche richiesta per i capitoli successivi, ditemi pure.
Cercherò di
accontentarvi!
Pss:
come vi ho detto domani sono via tutto il giorno, quindi
ritarderò un po’ con
le risposte alle recensioni! Scusatemi fin da ora.
|
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Capitolo 18 *** The ugly truth ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
diciotto: The ugly truth.
“He kissed my lips
I taste your mouth
He pulled me in
I was disgusted with myself
‘Cause when I'm with him
I am thinking of you
What you would do if
You were the one
Who was spending the night
I wish that I was looking into your eyes”
(Thinking of you- Katy Perry).
Io,
Bonnie McCullough, ero
cresciuta, ero maturata e non mi spaventava più niente.
Non
vi era nulla di strano,
quindi, se me ne stavo rintanata sotto le coperte e mi rifiutavo di
uscire
dalla camera. Assolutamente niente di strano.
Dopotutto,
con il febbrone da cavallo che mi ritrovavo, era perfettamente normale
non
voler lasciare il letto. Solita routine da ammalata.
Non
c’entrava proprio niente il fatto che Damon si trovasse nei
paraggi, pronto a
tendermi un’imboscata. A dire il vero non ero certa che il
ragazzo fosse in
casa: non ero più uscita dalla camera da ventiquattro ore.
Stefan mi aveva
messo a riposo forzato.
Si
era
accorto il giorno prima, tornati da scuola, della mia pallida cera. Era
bastato
toccarmi la fronte per sentire quanto fosse calda la mia pelle.
Era
saltato
fuori che rotolarmi nella neve nella speranza di suonarle a Damon non
fosse
stata proprio una delle mie idee migliori. Quella era la mia punizione
per
essermi impicciata di fatti che non mi riguardavano.
In
quelle ore passate da sola, nel letto, mi ero presa del tempo per
rimuginare
molto su ciò che era accaduto qualche giorno prima.
Cominciavo
a essere davvero confusa dai comportamenti di Damon e turbata dalle mie
stesse
reazioni.
Lui
si
era sempre divertito a incasinarmi la testa e per questo motivo non
avevo mai
prestato molta attenzione all’improvvisa fissazione che aveva
sviluppato nei
miei confronti.
Non
ero
un tipo vanitoso, ma ripercorrendo gli ultimi mesi non potevo non
notare che in
qualche modo Damon fosse sempre lì nei paraggi: nel bosco,
alla festa di Tyler,
quando mi aveva chiesto di aiutarlo con il regalo di Stefan, a
Capodanno.
Tutto
mi era sembrato irrilevante, almeno fino a un paio di giorni prima.
“Non
vedo l’ora di tenerti d’occhio”.
Pareva
una minaccia. Che cosa significava?
Ancora
non riuscivo a capacitarmi dello sguardo che mi aveva lanciato,
tremendamente
serio da una parte, e compiaciuto dall’altro. Mi aveva
destabilizzato.
Ricordavo
benissimo il bacio che mi aveva rubato al ritorno da Atlanta. Era stato
inaspettato,
ma non mi aveva scatenato nessuno scompiglio, tranne un bel
po’ di rabbia. Lo
avevo classificato come il solito vecchio Damon che si divertiva a
tormentarmi,
lo avevo classificato come una stupida ripicca nei confronti di
Katherine,
tanto assurda allora, quanto giustificata alla luce della loro rottura.
Sebbene
si fosse trattato di un gesto inusuale per Damon, non ci avevo visto
niente di
allarmante né di sospetto.
Non
era
stato lo stesso per la brevissima conversazione che avevamo avuto in
merito al
messaggio che aveva mandato a Matt. In quel momento, il mio istinto mi
aveva
suggerito che qualcosa era inevitabilmente cambiato.
Non
riuscivo proprio, però, a capire cosa.
Da
dove
saltava fuori quell’interesse per me? Per quale motivo
stuzzicarmi con frasi
lasciate a mezz’aria e doppi sensi? E tutto quel discorso su
Matt?
Potevo
considerarla un’altra vendetta verso Katherine, potevo per
quitarmi il dubbio.
Aveva anche senso: la sorella di Elena mi odiava e sarebbe crepata di
vergogna
a sapere che il suo ex ragazzo nutriva una sorta di simpatia per me.
Ottima
teoria per mettermi l’animo in pace, ma non ero
così ingenua da credere che non
ci fosse altro sotto. Ed ero inquietata da quell’altro.
Fin
da
quando eravamo dei ragazzini, Damon aveva impostato la maggior parte
delle sue
relazioni con le donne sotto forma di ossessione: lui amava tutto
ciò che non
poteva avere.
Era
stato così per la sua insegnante di chimica del secondo anno
di liceo, era
stato così per Elena, e poi per Katherine, ovvero il
surrogato di Elena.
Avevo
la
brutta sensazione di essere improvvisamente entrata in quel lungo
elenco e non
lo pensavo per presunzione.
Damon
aveva le ragioni più disparate per considerarmi la sua
prossima preda, tutte
sbagliate: per fare un dispetto a suo fratello, per divertirsi, per
riassaporare il piacere della caccia e della conquista, per dimostrare
a se
stesso di potermi sedurre, nonostante l’astio che gli avevo
più volte
riservato.
Forse
erano allucinazioni dovute alla febbre, forse dovevo smetterla di
leggere libri
d’amore per ragazzine, forse mi stavo fasciando la testa per
niente.
Forse.
Nel
frattempo preferivo restarmene fuori dal suo giochino perverso,
qualunque
fosse.
Avevo
bisogno di mantenere il mio spazio. Mi ero lasciata troppo coinvolgere
dai
drammi di Damon. Lo stavo facendo per Stefan, per farli riunire, ma mi
stavo
lentamente accorgendo che in me qualcosa si era incrinato.
Non
era
da me rimanere pietrificata mentre quello spaccone si permetteva non
solo di
invadere il mio spazio personale, ma anche di sputare sentenze sulla
mia vita.
Normalmente
non era lui ad allontanarsi, ero io a spingerlo via.
Uscire
da quella stanza era fuori discussione. Conciata com’ero, non
avrei resistito
due secondi a fronteggiarlo.
D’altro
canto, non ero migliorata nemmeno un po’ e avevo bisogno di
prendere ancora la
medicina per abbassarmi la febbre.
Stefan
prima di andare a scuola mi aveva lasciato una compressa sul comodino e
io
l’avevo preso poco dopo. Erano passate cinque ore e il
termometro segnava una
temperatura ancora troppo alta.
Avevo
mal di testa, nausea e mal di ossa, non riuscivo più a
dormire.
L’istinto
di sopravvivenza fu più forte della paura
d’incontrare Damon. Non sapevo
nemmeno se fosse in casa, non l’avevo ancora sentito
muoversi. A dire il vero,
non l’avevo neanche ancora visto da quando mi ero trasferita
a villa Salvatore.
Scivolai
giù dal letto e oltre la porta. Il corridoio era vuoto, non
si udiva un rumore.
La
cassetta dei medicinali stava sul ripiano più alto di un
armadietto nel bagno
del piano terra. E l’armadietto, chiaramente, non ero sotto
al lavandino.
Purtroppo per me, se ne stava attaccato al muro accanto alla doccia, ad
un’altezza improponibile. Per qualcuno bassino quanto me, era
una vera impresa
raggiungerlo.
Salii
su uno sgabello e protesi la mano. Afferrai la scatola e la sollevai.
In quel
momento mi colse un capogiro dovuto alla stanchezza.
La
cassetta con le medicine cadde a terra e io la seguii, picchiando la
schiena
sulle piastrelle del pavimento. Mi si mozzò il fiato.
“Ma
che
diavolo stai facendo?”.
Ci
mancava
solo questa.
Poteva
andare peggio?
La
vidi
stesa sul pavimento del bagno, circondata da scatoline, scatolette,
tubetti di
pomate e cerotti. Tra il bianco del pigiama, delle piastrelle e della
sua
pelle, non l’avrei mai individuata se non fosse stato per i
suoi capelli rossi.
La
pelle di Bonnie era color del latte, quasi trasparente, ma quel giorno
era
veramente pallida, tendente al cadaverico.
“Hai
deciso di fare bungee jumping dallo
sgabello?” chiesi con ironia, mentre mi piegavo su di lei per
accertarmi che
non si fosse spaccata la schiena.
“Sono
caduta” rispose con un gemito.
“Non
dirmelo!” l’aiutai ad alzarsi e quando notai le sue
gambe tremanti la presi in
braccio. Stranamente non oppose resistenza. La trasportai con
facilità fino al
salotto e la posai sul divano. Lei si stiracchiò e si
accoccolò sul cuscino.
“Hai
davvero un aspetto orribile” le rivelai.
“Ho
la
febbre, idiota” borbottò, senza la sua solita
acidità.
“Se
avevi bisogno delle medicine, potevi chiamarmi, invece di arrampicarti
sugli scaffali
e buttarti giù”.
“Me
le
avresti portate?”.
“No”.
“L’ho
già detto che sei un idiota, vero?”.
“La
tua
fiducia nei miei confronti è quasi pari al tuo senso
dell’umorismo”
considerai.
Bonnie
chiuse gli occhi e non rispose. Credetti che nel profondo del suo cuore
sperasse che io sparissi nel nulla.
Mi
alzai e mi diressi in cucina. Tornai da lei con un bicchiere
d’acqua e una
compressa sciolta al suo interno.
“Tieni”.
Aprì
gli occhi e senza repliche prese il bicchiere e mandò
giù tutto il contenuto.
“Odio
la febbre” si lamentò.
“La
prossima volta ci pensi due volte a immergerti nella neve solo per
me”
scherzai.
Bonnie
mi squadrò da capo a piedi. Appariva un po’
sconcertata e sulla difensiva. Non
era mai stata troppo serena in mia presenza, ma adesso mi guardava come
se
fossi sul punto di sbranarla con i denti.
“Da
quanto sei qui?” mi domandò “Non ti ho
visto in questi giorni”.
“Appena
arrivato” disse indicando il borsone pieno di vestiti
abbandonato sul tappeto.
“E
hai
in programma di restare qui molto?”.
“Fino
a
che non tornerà mio padre. So che non puoi resistere senza
di me” la canzonai.
Si
ritrasse maggiormente contro lo schienale del divano, come se si
volesse
allontanare da me. Alzai le sopracciglia, sorpreso.
“Hai
già incontrato Stefan?” continuò con la
raffica di domande.
“No”
grugnii “E se ho fortuna riuscirò a evitarlo per
il resto della settimana”.
“Che
cosa sei venuto a fare qui allora?” si stizzì.
“Studiare”
spiegai e mi allungai sulla poltrona su cui ero seduto.
Bonnie
liberò una debole risata “Studiare. Tu?”.
“Devo
per forza mettermi sotto se voglio laurearmi a luglio”
conclusi con ovvietà.
Tirò
leggermente su la testa, piacevolmente stupita “Allora ogni
tanto mi dai
ascolto. O almeno il tuo inconscio mi dà retta, dato che eri
ubriaco quando ne
abbiamo parlato”.
“Sì,
ho
un vago ricordo” sminuii subito la cosa. In realtà
avevo ben in mente il
discorso che mi aveva fatto Bonnie quella sera di fine settembre.
“Idiota”
mormorò.
“È
la
terza volta che mi chiami così. I soprannomi che io ho dato
a te sono molto più
carini”.
Bonnie
strusciò il viso contro al cuscino con aria stanza.
Probabilmente il medicinale
cominciava a fare effetto, dandole anche un po’ di sonnolenza.
“Non
sei qui solo per studiare” affermò “Tu
hai sempre un secondo fine”.
Mi
sorprendevo che non avesse ancora compreso quale. Più
lampante di così.
“E
c’entra Stefan, che tu lo voglia ammettere o no”
proseguì.
Non
capivo se facesse la finta tonta o se fosse sul serio così
ingenua. Temevo la
seconda ipotesi, conoscendo il tipo.
“Tu
non
lo odi…tu fingi. Sei qui per stare vicino a tuo fratello
senza tuo padre tra i
piedi”.
Cominciai
a credere che il dosaggio di quella compressa fosse troppo alto per
quel
corpicino.
“È
il
caso che tu dorma, uccellino. Stai straparlando”.
“Sì,
sì, dormo” concordò chiudendo gli occhi
“Quando mi sveglio sistemo tutto…”.
“Che
cosa dovresti sistemare?”.
Non
ricevetti risposta.
Spostai
lo sguardo sulla sua figura: era scivolata nel sonno, il suo respiro
era molto
più tranquillo e il suo colorito meno cadaverico.
Improvvisamente
mi ritrovai catapultato tempo addietro, quando cercavo disperatamente
di
cattura l’attenzione di Bonnie senza successo.
Non
l’avevo mai rivelato a nessuno, ma c’era stato un
periodo, tra i dieci e gli
undici anni, in cui ero rimasto completamente affascinato da quella
bambina dai
capelli rossi.
Mi
piaceva il suo aspetto da bambola di porcellana, la sua voce melodiosa
e il suo
sorriso sempre luminoso. Avevo inventato allora il soprannome
‘uccellino’,
decisamente azzeccato per una creaturina così delicata.
Mio
padre iniziava a mostrare la sua insofferenza verso di me, mi
considerava
sempre meno. Io mi sentivo solo, tagliato fuori.
Stefan
avrebbe dato un braccio per me, ma io lo tenevo a distanza. Non avevo
bisogno
di un fratello, non di quel
fratello.
Avevo bisogno di un amico.
Volevo
il rapporto che condividevano lui e Bonnie. Volevo Bonnie.
Invidiavo
la loro amicizia, leale e intima. Me la meritavo anche io. Avevo deciso
che
qualcuno doveva voler bene anche a me, per forza.
Avevo
provato a dimostrare la simpatia che avevo per lei in ogni modo
possibile, senza
alcun successo: Bonnie, come ora, non aveva mai avuto la minima
considerazione
per me.
Stefan,
solo Stefan. Nessun altro potevo superarlo.
Ormai
odiarlo era diventato la normalità, ma a ripensarci forse il
mio disprezzo era
cominciato proprio allora.
L’avevo
sempre guardato con un po’ di diffidenza, dato che nostra
madre era morta dopo
averlo dato alla luce. La preferenza che aveva per lui mio padre aveva
contribuito ad aumentare il mio fastidio.
Era
abitudine di mio fratello portarmi via tutto. Non lo faceva apposta, ma
il
risultato era quello e io non ero un tipo comprensivo, men che meno
incline al
perdono.
Con
la
faccenda di Bonnie, avevo messo un punto su quella strana relazione di
amore e
odio tra me e Stefan. Contemporaneamente, avevo sviluppato rancore
verso Bonnie
stessa. E gliel’avevo fatta pagare a oltranza negli anni
successivi.
Le
cose
non sembravano essere cambiate.
Non
solo Bonnie non era affatto interessata a me, ma neanche si accorgeva
dei miei tentativi
di fare colpo. Qualunque altra ragazza si sarebbe buttata tra le mie
braccia
per molto meno.
A
questo punto, assecondarla diveniva la soluzione migliore per entrare
nelle sue
grazie, e per una volta non lo intendevo letteralmente.
Già
mi
veniva male alla testa al pensiero di tutte le chiacchierate su Stefan
che
avrei dovuto sorbire, ma magari ne sarebbe valsa la pena.
Avevo
già avuto prova che il mio fratellino era il punto debole di
Bonnie: non era
mai stata così sorpresa da me quanto il giorno in cui
l’avevo portata ad
Atlanta.
Potevo
accettare d’ingoiare qualche rospo, potevo fingere che
m’importasse di Stefan.
Sarebbe stata davvero una grande rivincita, se fossi riuscito a
soffiargli la
sua migliore amica.
Mi
misi
a studiare in sala da pranzo: comunicava attraverso un grande arco con
il
salotto, e potevo tenere d’occhio Bonnie e assicurarmi che
non combinasse altri
danni.
Era
stata una grande idea spostarmi a casa mia per quella settimana:
studiai ore di
fila senza neanche una distrazione. La rossa continuò a
dormire beatamente,
tanto che un paio di volte controllai che respirasse ancora.
Stefan
non era ancora tornato. Aveva chiamato sul telefono di casa, cui io non
avevo
risposto, lasciando un messaggio: il suo allenatore, Tanner, li aveva
trattenuti
per ulteriori esercizi in vista della partita di fine weekend. Chiedeva
a
Bonnie di richiamarlo quando avesse ascoltato il messaggio e fargli
sapere se
stava bene.
Ero
solo contento di quella notizia, almeno non avrei avuto mio fratello
tra i
piedi.
Venne
buio e intuii che era giunto il momento di chiudere i libri. Accessi
qualche
luce e finalmente Bonnie si mosse, girandosi sul divano.
Mi
inginocchiai accanto a lei e aspettai che si svegliasse del tutto: si
stiracchiò, sbadigliò e infine aprì
gli occhi. Socchiuse le palpebre e mi
fissò.
“Perché
sei in camera mia?” berciò.
“Siamo
in salotto” le suggerii “E sono quasi le sette di
sera”.
Lei
corrugò la fronte “Perché non mi hai
portato in camera?”.
“Perché
volevo accertarmi che non cercassi più di
ucciderti” ironizzai puntandole il
dito contro come a sgridarla “Ho badato a te fino
adesso”.
“Mentre
dormivo? Sarà stato faticoso” replicò
con sarcasmo.
“A
giudicare dal tasso di acidità nella tua voce, direi che
stai meglio” scommisi.
“Decisamente!”
esultò, tirandosi a sedere.
“Hai
fame?” le domandai “La signora Flowers ha preparato
un sacco di roba e l’ha
lasciata in freezer. Posso scongelare qualcosa…”
le proposi “Anche se…credo che
il tuo stomaco non abbia voglia delle sue lasagne” valutai.
Bonnie
si portò una mano sulla pancia “No” mi
confermò “È meglio qualcosa in
bianco”.
“Tortellini
in brodo” decisi battendo le mani, dandola come cosa fatta.
“Sai
farli?” si preoccupò.
“Devo
prendere dei tortellini e metterli nel brodo. Non ho ancora una laurea,
ma mi
arrangerò”.
“Non
sono molto leggeri” osservò lei “Forse
berrò solo un po’ di brodo”.
“Cattiva
idea. Devi mangiare anche qualcosa di solido o ti tornerà la
nausea” le
sconsigliai, mentre mi dirigevo in cucina per apprestarmi a preparare
la cena.
“Oh,
prima scopro che sei un cuoco e ora un medico?” si
accigliò con finto stupore.
“Sai,
Bon Bon, non vorrei allarmarti ma mi assomigli sempre di
più: ormai hai il
sarcasmo nelle vene” la zittii.
In
effetti tacque, impallidendo leggermente.
Misi
l’acqua a bollire e cercai nel freezer un sacchetto di
tortellini. Nel
frattempo agguantai anche una teglia di lasagne. Io non ero malato e
avevo
bisogno di sostanza.
“Dov’è
Stefan?” s’informò, rendendosi contro
che il suo migliore amico non c’era.
“Non
ne
ho idea” scrollai le spalle.
Udii
uno sbuffo dietro di me “Con te è sempre la solita
storia: chissenefrega di
cosa accade a tuo fratello, basta che non ti stia tra i
piedi”.
Posai
stancamente il mestolo sul ripiano dei fornelli “Ha chiamato
oggi pomeriggio:
ha detto che sarebbe tornato tardi a causa degli allenamenti”
le comunicai, con
tono chiaramente infastidito.
“Oh”.
“Già
oh” ribadii “Al
contrario di quello che
pensi, non sono un orco che prega sempre nell’improvvisa
scomparsa del suo
stesso fratello”.
Bonnie
si sedette e accennò un sorriso “Faccio davvero
fatica a capirti, sai Damon?
Passi anni a maltrattare tuo fratello e poi decidi di comprargli il
regalo più
bello che abbia mai visto. Lo picchi per una cosa di cui non
è nemmeno
colpevole e ti arrabbi se insinuo che non te ne importa
niente?”.
“Stefan
non mi piace” affermai “Non mi piace
quell’aria da bravo ragazzo, non mi piace
la sua dannata perfezione, non mi piace dover sempre combattere contro
di lui,
anche se so che è inutile perché non
vincerò mai. Questo non significa che gli
auguro il male. Per odiare qualcuno per tutti questi anni, bisogna
volergli
anche un po’ di bene”.
Mi
ero
preparato il discorso nei minimi particolari, le parole, le pause.
Credevo mi
avrebbe nauseato, invece mi lasciò un certo senso di
sollievo, come se dirlo ad
alta voce mi avesse liberato di un peso.
“Mi
stai dicendo che vuoi bene a Stefan?” si sbalordì
Bonnie.
“No,
sto dicendo che non lo detesto quanto tutto il mondo pensa”
la corressi.
Spensi
il fuoco e iniziai
a trafficare con le
pentole e i piatti. Quando mi girai per darle i suoi tortellini, la
trovai a
guardarmi con un’espressione confusa e scettica.
“Non
sforzarti a capire, uccellino” fu il mio suggerimento
“Tu sei cresciuta in un
mondo dove tu e tua sorella giocavate a Piccole
donne tutto il giorno”.
“Nel
mio mondo abbraccio mia sorella per dimostrarle che le voglio bene, non
la
prendo a schiaffi” mi fece notare, mente portava alla bocca
il cucchiaio.
“Mi
piace distinguermi” ghignai.
“Ti
piace incasinarmi la testa”. Subito dopo quel commento
arrossì vistosamente,
dandomi l’impressione che le fosse sfuggito, che in
realtà non volesse
esprimerlo.
Il
resto della cena trascorse per lo più in silenzio, con
qualche battutina da
parte mia per stemperare la tensione.
Mi
aiutò a ritirare i piatti nella lavastoviglie, poi, muta
come un pesce, salì in
camera sua. Sospettai che avesse qualcosa a frullarle nella testa e che
preferisse stare sola.
Finii
di sparecchiare e mi buttai sul divano a guardare
un po’ di tv. Il mio momento di pace venne
interrotto dal telefono di casa.
Mi
alzai di malavoglia e risposi.
“Damon?”
si sorprese una voce all’altro capo “Sei
tu?”.
“Mi
lusinga che il mio fratellino mi riconosca ancora” lo
canzonai.
“Dov’è
Bonnie? Sta male?”.
“Tutt’altro”
dissi con compiacimento “Siamo rimasti insieme tutto il
giorno e ci siamo
divertiti un sacco. Non ci sei mancato per niente, anzi non disturbarti
a
tornare. Ce la caviamo benissimo da soli”.
La
chiamata s’interruppe.
Le
mie
parole erano state molto ambigue, erano andata a implicare molto
più di quello
che era realmente successo. Probabilmente mio fratello aveva avuto un
colpo al
cuore.
Osservai
le scale che con una curva attorno al muro della casa salivano nel
buio.
Incapace di trattenermi, mi avviai verso la stanza di Bonnie.
“Perché
sei qui?” s’insospettì subito, tirandosi
le coperte fino al mento in un gesto
segnato da una pudicizia di altri tempi.
“Controllo
veloce prima di andare a dormire” spiegai con nonchalance
“Niente nausea?
Rigetto? Spasmi strani?Allucinazioni?”.
“Sto
bene” mi assicurò.
“Bene”
dissi, sentendomi improvvisamente a corto di argomenti
“Allora buon riposo” le
augurai e mi girai per chiudere la porta.
“A
volte sono gelosa di Mary” mi bloccò la sua voce
delicata. Fece una pausa,
deglutì, poi riprese a parlare “Lei era quella
brava a scuola, prendeva sempre
dei voti eccellenti. Aveva le idee chiare. Era spigliata. Usciva con i
ragazzi,
si divertiva. Una volta tornò talmente ubriaca che si
addormentò sul portico,
fortunatamente la trovai io e non papà” mi
raccontò “Non piange quasi mai, è
tremendamente forte, sa gestire qualunque tipo di problema. Io non sono
mai
stata nulla di tutto ciò e…e mi capita di
invidiarla”.
Non
seppi bene come reagire a quella rivelazione, ma compresi
all’istante che era
il suo modo di assolvermi almeno in parte da tutte le accuse che mi
aveva
lanciato. Perché anche lei a volte era gelosa di sua sorella
e anche lei a volte poteva capirmi.
Annuii,
ringraziandola silenziosamente e le diedi la buona notte.
Ora
mi
serviva sul serio del tempo da passare da solo, a riflettere. Mi
sembrava di
aver appena concluso una straziante conversazione a cuore aperto,
quando in
realtà non ci eravamo neanche spinti troppo in là.
Purtroppo,
come misi piede sull’ultimo gradino delle scale, la porta
della villa si aprì e
la figura di Stefan apparve sulla soglia, trafelata e affannata.
“Ti
sta
inseguendo un serial killer, Stef?” lo presi in giro.
“Dov’è
Bonnie?” domandò ancora con il fiatone
“È tutto il giorno che provo a chiamarla
e non risponde. E voi due…che cosa sta
succedendo?”.
La
tentazione di scoppiare a ridergli in faccia era forte.
“Calmati,
supereroe, la tua Bonnie sta
benissimo. L’ho curata, le ho fatto da mangiare e
l’ho messa a letto. No, non
nel modo che pensi tu” mi affrettai a precisare
“Non è successo niente di
grave”.
“Ah”
si
tranquillizzò leggermente, appoggiandosi al muro. Mi
scrutò come se avesse
davanti un fantasma “Sei a casa”
constatò.
“Sportivo
e intelligente” ironizzai.
“Non
credevo che accettassi la proposta di papà”
mormorò con una nota di contentezza
nella voce.
“Invece
sono qui” replicai con altrettanta enfasi, come se fossi
davvero contento di
vederlo “Ti ho lasciato delle lasagne nel microonde, se ti
vanno”.
Non
gli
diedi il tempo di commentare oltre. Gli voltai repentinamente le spalle
e
marciai verso camera mia.
Un’irritante
consapevolezza si fece strada nella mia testa: forse Bonnie non aveva
tutti i
torti.
Forse
era ora di ammettere una dura verità: non odiavo
più Stefan.
Due
giorno dopo mi ero totalmente ripresa dalla febbre. Finalmente mi ero
guadagnata la possibilità di uscire da quella casa.
Stefan
mi aveva rivoltato come un calzino per non aver mai risposto alle sue
chiamate.
Dopo il disastro in bagno, mi ero dimenticata il cellulare in camera e
Damon
non mi aveva riferito il messaggio che Stefan aveva lasciato nella
segreteria
del telefono fisso.
Mi
stupivo perfino io a pensarlo, ma la sua preoccupazione era infondata:
non solo
la febbre era scesa, avevo anche passato una piacevole giornata.
Damon
non si era comportato da stupido come avevo immaginato, non mi aveva
neppure
messo a disagio.
Ero
sincera quando avevo ammesso che per me era davvero difficile capirlo:
stare
dietro a quel ragazzo era un’impresa impossibile. Non sapevo
mai quale versione
di lui avevo di fronte, se quella sbruffona e maligna, o quella
maliziosa, o
ancora quella sorprendentemente sensibile e profonda.
Quest’ultima
appariva sempre nei frangenti in cui si parlava di suo fratello. Damon,
con
molte probabilità, non ne era neanche consapevole.
Mi
ero
sbagliata, mi ero totalmente sbagliata. A malincuore dovevo accettarlo:
non
avevo mai capito un bel niente di ciò che Damon provava
davvero per Stefan.
Non
erano state le sue parole a convincermi, ma il suo sguardo malinconico
e la
voce un po’ roca per trattenere l’innocenza che
invece avevo percepito
fortissima.
A
questo punto il mio aiuto non era più indispensabile.
Già il fatto che Damon
fosse disposto a descrivere così liberamente il loro
rapporto in mia presenza,
rappresentava un grande passo avanti. Doveva solo ammorbidirsi del
tutto e la
loro riconciliazione sarebbe stata immediata.
Non
lo
giustificavo, avevo però smesso di puntargli il dito contro.
Damon rimaneva un
cazzone e aveva tanto da farsi perdonare. Il suo problema erano sostanzialmente i
suoi momenti alterni.
Doveva imparare a tenere sotto controllo la sua impulsività.
Non
so
come mi era venuta in mente quella storia su mia sorella: avevo solo
sentito un
improvviso bisogno di condividere un ricordo, e di confortarlo.
C’era
sempre qualche problema tra fratelli e tra sorelle. C’era
sempre un po’ di
gelosia latente, non era un peccato.
Non
avevo mai serbato rancore per Mary, ma la sua forte
personalità mi aveva spesso
messo in soggezione e in ombra. Era un peso piuttosto ingombrante avere
una
sorella così, abbinata alle amiche più popolari
della scuola.
Non
ero
niente, non mi sentivo niente e non ero mai riuscita a elaborare il
pensiero di
essere gelosa di Mary, me ne vergognavo.
Mi
ero
sorpresa quando l’avevo detto a Damon. Tra tutte le persone
al mondo, lui
sarebbe stata l’ultima. Forse era stata l’emozione
del momento a convincermi,
oppure la mia crescente sicurezza.
Gli
avevo dato un’arma in più per ferirmi o per
burlarsi di me. Eppure non me ne
pentivo.
Mi
si
sarebbe ritorto contro. Succedeva così ogni volta che agivo
d’istinto.
Questo,
però, non risolveva la misteriosa fissazione che Damon aveva
per me. Sebbene
non avesse tentato niente di strano, si era preso cura di me con una
dedizione
destabilizzante.
Il
vecchio lui mi avrebbe lasciato moribonda sul letto. Di certo non mi
avrebbe
cucinato i tortellini.
La
situazione puzzava di losco e mi veniva difficile credere nella sua
genuinità.
Continuavo a credere che ci fosse qualcos’altro dietro i suoi
atteggiamenti quasi cortesi.
Anche
se non potevo negare che quelle improvvise attenzioni mi facessero
piacere. Da
dove veniva fuori tutto questo apprezzamento?
Avevo
la testa più confusa di prima. Damon adorava incasinarmi la
testa, era il suo
sport preferito. Mi era pure scappato nella nostra conversazione.
Sperai
che non se ne fosse accorto: sarebbe stato controproducente mostrare
così
palesemente il mio turbamento.
Decisi
di non badarci troppo: sicuramente era un’inclinazione
momentanea. Damon mi
vedeva come il suo giocattolino del momento. Quando ne avrebbe trovato
un altro
più divertente, mi avrebbe dimenticato in un attimo.
Le
premesse erano buone, ma non riuscivo a pensare ad altro. Era un chiodo
fisso,
latente e fastidioso.
Mi
sentivo come se mi fossi appena svegliata da un sogno e non riuscissi a
concentrarmi su nient’altro, come se quel sogno avesse
cambiato la mia
prospettiva.
“Ehi
Bonnie? Bon, mi stai ascoltando?”.
I
miei
viaggi mentali si presentavano sempre nelle circostanze meno opportune.
“Certo
Matt” gli sorrisi.
Ed
era
vero: gli avevo prestato attenzione, fino a un certo punto.
Mi
aveva invitato prendere un caffè dopo cena, per chiarire un
po’ di cose.
Eravamo andati in un baretto non lontano da casa mia. Un posto
decisamente più
tranquillo e raffinato del Grill. Avevo ordinato un tè, lui
una cioccolata.
Dopo
essere stati serviti, Matt si era lanciato in un discorsone su tutto
quello che
aveva fatto durante le vacanze di Natale: grazie alle sue doti sportive
era
stato scelto per un programma di orientamento in un college del North
Carolina.
Ero
contenta per lui perché se lo meritava. Date le sue scarse
possibilità
economiche, spesso si era trovato costretto a stare a casa, mentre noi
partivamo per le feste.
A
metà
racconto, però, avevo staccato la spina.
“Tu
hai
fatto qualcosa di bello?” mi chiese.
Scossi
la testa, cercando di mascherare la mia espressione vacua.
“Sono
felice che tu abbia accettato il mio invito. Mi sei mancata”
disse con un adorabile
luccichio negli occhi “Non posso credere che Damon si sia
intromesso così nella
tua privacy e che mi abbia inviato quel messaggio!”.
“Non
posso credere che tu abbia smesso di parlarmi per quel
messaggio!” sbuffai “Ci
sono rimasta malissimo. Pensavo che non volessi più stare
con me e non avessi
il coraggio di dirmelo. O ancora peggio che io avessi combinato qualche
disastro alla festa di Tyler, qualcosa che ti avesse offeso o che ti
avesse
fatto arrabbiare”.
“All’inizio
volevo parlartene, ma preferivo discuterne fuori da scuola. Ho provato
a
prenderti da sola, è stato impossibile. E sei sparita per i
giorni successivi:
non ti si vedeva più in giro”.
“Mio
padre mi aveva messo in punizione” spiegai.
“Dato
che nemmeno tu mi avevi cercato, mi sono sentito preso in giro: non
m’interessava
più chiarire, se non eri disposta a scusarti. Poi sono
partito per il college e
quando sono tornato a Capodanno per la festa di Stefan, ti ho visto con
Klaus”.
“Non
è
successo nulla con Klaus” mi affrettai a puntualizzare
“Io ero libera e lui era
carino, mi aveva colpito il fascino dello straniero. Alla fine
è stata solo
platonico, nessuno dei due era veramente interessato”
affermai “Quando ci siamo
salutati, prima che ritornasse a Londra, ho pensato
di…baciarlo, però non ci
sono riuscita”.
“Per
me?” s’incuriosì speranzoso.
“I-io…”.
Non
feci
in tempo a concludere la frase: Matt si sporse verso di me e mi
baciò, premendo
le labbra contro le mie con slancio.
Non
mi
opposi e per un attimo percepii le mie guance imporporarsi.
Impallidirono subito,
quando mi accorsi che qualcosa non quadrava. Dov’erano finite
le farfalle? Dov’era
l’euforia, l’entusiasmo, la trepidazione?
Ricordavo
palpitazioni diverse l’ultima volta che ci eravamo baciati.
“Vorresti
stare con uno che si gira
dall’altra parte, invece di chiederti spiegazioni? Svegliati,
uccellino, ti ho
fatto solo un favore”.
Oddio,
come mai udivo la sua voce?
“Vuoi
che ti stia alla larga, Bonnie? Ne sei
sicura?”.
E
come
mai adesso vedevo pure la sua faccia?
Mi
staccai
spaventata, temendo di trovarmi davanti un’altra persona. Mi
calmai,
incrociando gli occhi azzurri di Matt e non quelli neri di qualcun altro.
“Devo
rientrare, scusami” tagliai corto, alzandomi “Mi
accompagni?”.
“Non
sei a casa dei Salvatore? Hai comunque il coprifuoco?”
scherzò.
“Ho
avuto la febbre e Stefan non vuole riconsegnarmi a mio padre malata. Mi
ha
pregato di non tornare tardi”. Questo era vero.
La
strada
del ritorno sembrò più lunga del solito. Arrivati
al portico, salutai Matt con
un veloce bacio sulla guancia e scappai dentro.
Tirai
un
sospiro di sollievo, appoggiandomi alla porta ormai chiusa.
Avevo
intenzione
di precipitarmi in camera, dormire e dimenticare quella brutta
sensazione. Come
al solito i miei buoni propositi fallirono: una luce soffusa mi
attirò fino in
soggiorno.
Un
figura
era seduta al tavolo da pranzo, con le spalle ricurve e la testa
appoggiata su
un libro aperto: Damon si doveva essere addormentato durante lo studio.
Rimasi
davvero
impressionata dall’impegno che stava dedicando alla sua
laurea.
Ignorai
la tentazione di coprirlo almeno con una coperta. Abbandonai la sala e
salii in
fretta le scale verso la mia stanza.
Quello
che
non potevo ignorare era una dannata, dura verità: non odiavo
più Damon.
Il
mio
spazio:
Ben
trovate a chi di voi è ancora sveglia a quest’ora!
Pubblico
ora perché almeno domani troverete il capitolo bello pronto
per essere letto.
Sarò
brevissima:
è il punto di svolta. Non c’è molto
altro da aggiungere: stanno cambiando tante
cose per Bonnie.
Vi
anticipo
che nel prossimo capitolo ci sarà il concorso di Miss
Fell’s Church. Ottima occasione
per fare accadere qualcosa, no?
Ora
è
tardi, vado a dormire e
vi lascio stare.
Il
banner è di Bumbuni.
Vi
ringrazio
tantissimo!!!
Buona
notte,
Fran;)
Ps:
purtroppo
il prossimo aggiornamento arriverà un po’ in
ritardo, perché settimana prossima
sarà via per qualche giorno.
|
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Capitolo 19 *** Caroline does it so much better ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo diciannove: Caroline does it so
much better.
“I know it's late, I know you're
weary
I know your plans don't include me
Still here we are, both of us lonely
Longing for shelter from all that we see
Why should we worry, no one will care girl
Look at the stars so far away
We've got tonight, who needs tomorrow?
We've got tonight babe
Why don't you stay?”
(We’ve got tonite- Bob Seger).
Giorni
folli erano quelli che precedevano il concorso di Miss Fell’s
Church.
Tutte
le ragazze della città impazzivano. Non so che cosa si
aspettassero da quella
dannata fascia, come se aprisse le porte a una grande carriera.
Probabilmente
era più che altro per gratificazione personale, lo
consideravano come un
riconoscimento dato loro dalla comunità.
Non
mi
ero iscritta alla gara. Non m’interessava e non mi avrebbero
preso nemmeno sul
serio. Io non ero una modella, non ero un miss. Ero la ragazza della
porta
accanto.
In
passato avevo più volte desiderato di salire su quel palco,
con un abito lungo,
i capelli bel acconciati, a sfilare come una principessa.
Per
tanti anni avevo ammirato Elena e Caroline per la loro naturale
eleganza, e Meredith
per la sua straordinaria personalità e intelligenza. Le
avevo invidiate, perché
io non mi ero mai sentita bella o speciale. Ora, quella sensazione di
inadeguatezza era lontana anni luce.
Anzi,
il pensiero di stare su di un palco sotto gli occhi di tutti mi
nauseava ancora
più che rimanere nell’ombra per tutta la vita.
Non
cercavo di fare la preziosa o la superiore. Non parlavo per invidia,
non ero
frustrata perché si trattava di qualcosa che non potevo
avere.
Semplicemente
mi ero resa conto di non appartenere a quella vita, di non desiderarla
più.
Avevo smesso di inseguire con affanno un ideale che nemmeno era mio.
La
mia
non era una bellezza da reginetta e mi stava bene così. Un
tempo aggettivi come
graziosa o carina mi irritavano al solo suono. Adesso non avrei saputo
come
descrivermi in altro modo: io ero così.
E
mi
sentivo diversa, in un senso positivo.
Per
il
primo anno, finalmente, potevo godermi quel dannato concorso con animo
sereno.
Distaccata e quasi divertita da tutta quell’euforia.
Euforia
era un termine inadatto e fin troppo gentile: si aveva a che fare con
vero e
proprio panico.
Panico
che si trasformava in isteria se il tuo nome era Caroline Forbes.
Isteria
che eri costretta a percepire se eri la migliore amica di Caroline
Forbes.
Dopo
il
disastro di Homecoming, Care era ben decisa a prendersi la sua
rivincita su
Katherine. E se ogni ragazza di Fell’s Church si limitava a
ordinare il vestito
settimane prima e a scegliere la pettinatura, Caroline oltrepassava
ogni
limite.
Da
parecchio si stava esercitando con i passi del valzer, con le risposte
alle
interviste, con le pose e le espressioni da foto e la sfilata in
passerella.
Aveva
preparato tutto fino al minimo dettaglio: sapeva a memoria le movenze,
le
parole da dire, i sorrisi da elargire.
La
sua
indole da maniaca del controllo ci sguazzava in quella situazione.
Katherine
era un’avversaria da temere, ma credevo che Caroline avesse
ottime possibilità
di vittoria, a partire dal suo ruolo attivo nelle iniziative proposte
dalla
comunità.
Non
vedevo nessun intoppo nel suo percorso: per portare la corona di Miss
Fell’s
Church bisognava anche incarnare lo spirito della città e
Katherine con i suoi
anni passati a Parigi non rientrava proprio tra le candidate. Da questo
lato,
Elena, pur essendo uguale alla gemella, avrebbe avuto molte
più chance, ma si
era rifiutata ancora una volta di competere.
Ero
convinta che niente potesse andare storto, almeno
finché…
“Ha
la
varicella!” piagnucolò Caroline, accucciata sul
divano del suo salotto.
Era
saltato fuori che il suo accompagnatore, un tal rampollo di una
facoltosa
famiglia della Virginia, si era ammalato come un bambino a pochi giorni
dal
concorso.
“Chi
si
prende la varicella al giorno d’oggi?! Non era stata
debellata?” inveì Care.
“È
varicella, non peste” osservò Meredith con il suo
solito senso pratico.
“Beh,
signorina so-tutto-io, varicella o meno, sono rimasta senza
cavaliere!” sbottò
e strizzò tra le mani un fazzolettino di carta ormai tutto
bagnato di lacrime.
“Non
è
la fine del mondo” provai a consolarla “Sono sicura
che avrai una fila intera
disposta ad accompagnarti”.
“Ma
questo era perfetto” si lamentò lei
“Avevo stilato una lista delle qualità che
doveva possedere il mio cavaliere. Lui ha riempito tutte le
caselle”.
A
volte
il suo bisogno patologico di organizzare tutto fino
all’ultimo dettaglio
spaventava perfino me.
“Non
vincerò mai” e nascose ancora il volto nel
fazzoletto.
“Sarò
dannata prima che mia sorella stringa tra le mani quella
corona” giurò Elena
“Personalmente, credo che non sia un uomo a regalarti la
vittoria, ma dato che
ci tieni tanto…ti ho procurato il ragazzo più
desiderato della città”.
Caroline
saltò subito giù dal divano “E chi
è? Un nuovo arrivato? O, ti prego, dimmi che
quel gran figo di Klaus è tornato a Fel-”.
“No, psycho barbie, parlava di me”
s’intromise una voce alle nostre spalle,
all’entrata del salone.
Non
mi
girai. Lanciai a Elena un’occhiata confusa e lei mi rispose
con un occhiolino.
“Stai scherzando?”
boccheggiò Caroline in
preda a un attacco d’indignazione.
Alla
fine mi voltai, per averne la conferma: eccolo là, Damon
Salvatore con il suo
ghigno strafottente e la posa da ‘sono il dio del
mondo’.
Improvvisamente
mi si ribaltò lo stomaco.
“Calmati,
va bene. È la scelta più sensata” le
suggerì Elena.
“No,
è
ciò che mi farà perdere ancora prima
d’iniziare. Lo odiano tutti!” si oppose
Caroline, in piedi a fronteggiare Damon.
“Mi
amano tutti” la corresse lui “Mi odi tu
perché ti ho piantata in asso”.
Meredith
afferrò il braccio di Caroline appena in tempo, prima che
questa gli si
scagliasse addosso.
“Così
non migliori la situazione” lo rimproverò la mora.
“Non
è
divertente neanche per me, sai” ironizzò Damon.
“Ti
tolgo subito d’impiccio: piuttosto che presentarmi con te,
ritiro la mia
candidatura” lo ribeccò Caroline.
“Perfetto”
concordò Damon “Scusami Elena, io ci ho
provato”.
Il
ragazzo diede le spalle a tutte noi e io, senza esserne nemmeno ben
consapevole, mi ritrovai a parlare “Dovresti accettare,
Caroline”.
I
presenti in quella stanza quitarono il loro vociare e mi guardarono
come se
improvvisamente mi fosse spuntata un’antenna sulla testa.
“Elena
ha ragione” continuai “Katherine
diventerà nera quando ti vedrà con il suo ex
ragazzo, e poi Damon appartiene a una delle famiglie fondatrici,
è ben visto,
sa i passi del valzer e ti farà fare un figurone con il
ballo. Conquisterà
certamente la parte femminile della giuria…anche se i motivi
mi sono
sconosciuti” aggiunsi, per precisazione.
Caroline
mi fissò allibita “Tu
quoque? Da
quando sei entrata nel suo fan club?”.
“Ma
come?
Non sapevi che l’uccellino è la mia ammiratrice
numero uno?” mi canzonò Damon,
mentre i suoi occhi neri non lasciavano un attimo il mio viso.
“Ci
ho
ripensato, Care. Uccidilo pure” replicai, acida.
La
discussione andò avanti ancora per qualche minuto. Tra un
insulto e un’accusa,
finalmente Caroline si convinse che Damon era la scelta più
azzeccata.
Più
che
altro furono Elena e Meredith a parlare, io mi chiusi nel silenzio. Non
vedevo
l’ora di uscire da quella stanza.
Erano
passate un paio di settimane dalla mia permanenza a casa Salvatore e da
allora
ero stata molto attenta a non incrociare più Damon.
Ero
rimasta troppo sconcertata dalla premura che mi aveva riservato quando
mi ero
ammalata e dalle parole con cui mi aveva spiegato il suo rapporto con
Stefan.
Non
le
avevo capite appieno: io e mia sorella ci trattavamo in
tutt’altro modo, ma
almeno iniziavo a riconoscere una certa volontà di
riappacificazione.
Forse
il mio intervento dopotutto era inutile.
E
per
una volta ero ben contenta di non immischiarmi e lasciare che se la
sbrigassero
da soli. Se c’era qualcosa che non tolleravo più
di Damon in modalità
strafottente, era Damon in modalità gentile. Di solito non
prometteva niente di
buono.
Mi
stupiva ancor più il fatto che io ne fossi rimasta
affascinata, sconcertata più
che altro.
Mi
avrebbe mandato al manicomio primo o poi.
Una
volta era così facile per me guardarlo con sospetto e
detestarlo. Adesso quasi
mi sentivo in colpa, o quantomeno a disagio.
Quel
senso di inadeguatezza era ciò che mi infastidiva
maggiormente. Continuavo ad
avvertire i suoi occhi puntati addosso, anche quando non mi stava
prestando
attenzione.
Non
mi
piaceva questo inaspettato interesse, non mi piaceva perché
mi obbligava a
mettere in discussione le mie convinzioni. Rendeva tremendamente
complicate le
cose.
Tenevo
sempre il mio sarcasmo e la mia diffidenza. Una volte, però,
le battute al
vetriolo uscivano spontanee, da qualche settimana invece mi dovevo
sforzare per
non mostrare il cambiamento che mi stava tormentando.
Avevo
sempre
accusato Damon di tirare fuori il peggio di me. Non mi ritenevo una
persona
cattiva, men che meno vendicativa. Ero forse fin troppo buona,
comprensiva e
generosa. Con Damon no; mi era capitato di provare un fortissimo
desiderio di
ripagarlo di tutte le lacrime che mi aveva fatto versare.
Ed
era
una sensazione che non sopportavo, perché io non volevo
essere quel tipo di
persona. Negli ultimi mesi la mia prospettiva si era ribaltata: di
colpo mi ero
ritrovata a prodigarmi per assicurargli un po’ di
felicità.
Stefan
era stato il mio obiettivo principale, Damon ci era finito in mezzo, ma
sotto
sotto ero davvero sollevata che anche lui avesse ottenuto un
po’ di pace.
Mi
sorprendeva la svolta che stava dando alla sua vita: finalmente si
stava
impegnando con l’università, aveva mollato quella
palla al piede di Katherine e
per la prima volta aveva speso belle parole nei confronti di suo
fratello. Con
me! Praticamente la sua peggior nemica.
Mi
aveva colpito, mi aveva destabilizzato. E ancora peggio mi aveva
impedito di
godermi la mia serata con Matt.
Avevo
deciso di non indagare troppo sulle ragioni di quel mio disagio. Non
ero il
tipo da lasciarsi abbindolare da un bel sorriso e un paio di occhi
penetranti,
se dietro non c’era sostanza. Non potevo credere che fosse
bastata quella
giornata con Damon per scordarmi della
mia prima vera cotta.
D’altra
parte mi sentivo nauseata ogni volta che ci pensavo. Mi sembrava di
essermi
comportata male con Matt, di averlo ingannato, preso in giro.
Guardavo
avanti, nel nostro futuro e faticavo a vedere un punto
d’incontro. Come
potevamo esserci allontanati così tanto in poche settimane?
Quando
mi aveva toccata, quando mi aveva baciata, avevo percepito un brivido
d’imbarazzo. Un imbarazzo dato non dalla trepidazione e dalla
poca esperienza,
ma da un senso di estraneità.
Matt
mi
era parso uno sconosciuto.
Nessuno
problema finché avevamo parlato e scherzato,
finché ci eravamo comportati da
buoni amici. Avevo iniziato ad avere spiacevoli sensazioni nel momento
in cui
le cose si erano spinte oltre, in un territorio che non apparteneva
più a Matt.
Mi
sentivo una persona orribile, colpevole.
Mi
sentivo come se gli avessi voltato le spalle, dimenticandomi di
avvisarlo.
Oscar
Wilde diceva che l’attesa del piacere era essa stessa il
piacere. Probabilmente
avevo passato così tanto tempo a sperare che Matt si
accorgesse di me, che il
mio stesso desiderio era andato diminuendo.
Damon
ne era solo in parte causa. Nel periodo in cui io e Matt avevamo
troncato ogni
contatto, avevo sperimentato molte più cose che in anni
della mia vita.
Era
cresciuta, ero diventata più forte. Avevo superato la
delusione per l’abbandono
di mia madre, avevo imparato ad affrontare le mie paure. Avevo
conosciuto Klaus
e avevo capito di non essere solo la ragazzina dai capelli color fuoco
amica di
Elena Gilbert.
L’infatuazione
per Matt si stava lentamente trasformando in un ricordo.
Non
era
il finale che avevo immaginato. Ne ero rimasta delusa, quasi mi fossi
accorta
che il mio più grande sogno fosse solo una mera illusione.
Non
potevo fare a meno di chiedermi se le cose sarebbero andate comunque
così anche
senza il messaggio di Damon.
Per
quanto cercassi in tutti i modi di convincermi, di essere arrabbiata
con lui,
non ci riuscivo fino in fondo. Avevo l’impressione che prima
o poi io e Matt ci
saremmo allontanati in ogni caso.
Adesso
dovevo solamente trovare il modo per dirglielo. Non so dove avrei
trovato il
coraggio o le parole.
Ironia
della sorte: avevo passato talmente tanto tempo a preoccuparmi di non
piacere
alla gente, di non essere adatta a fare la fidanzata, con la paura di
venire
mollata da un momento all’altro, ed ora non avevo la
più pallida idea di come
spiegare a Matt i miei ripensamenti.
Non
potevo tenerglielo nascosto per molto. Non ero in capace di recitare,
non ero
capace di portare avanti la recita e tenermi tutto dentro.
Il
concorso di bellezza si sarebbe tenuto nel fine settimana. Matt aveva
proposto
di andare insieme. Decisi che gli avrei parlato in
quell’occasione.
Alzai
lo sguardo sul gruppo di persone davanti a me e ritornai con i piedi
per terra:
ero ancora nel salotto di Caroline, non potevo permettermi di
fantasticare
troppo.
Ci
mancava solo che Damon se ne accorgesse e cominciasse a infastidirmi
come al
suo solito.
Lanciai
un’occhiata a lui e a Caroline, stretti in un abbraccio poco
convincente mentre
la mia amica cercava d’insegnarli i passi del valzer.
Entrambi
li conoscevano alla perfezione ma entrambi volevano condurre il ballo.
In altre
parole era atto una lotta per decidere chi dei due portasse i pantaloni
in famiglia.
Era
davvero assurdo che Damon si prestasse a quelle condizioni. Normalmente
scappava da ogni formalità o obbligo. Per non parlare di
quanto odiasse quegli
eventi a suo parare così ridicoli e noiosi.
Come
aveva fatto Elena a persuaderlo rimaneva un mistero.
In
fondo, lei era Elena e tutto poteva, specialmente con Damon.
Dovevo
ricordarmi che sì si era liberato di Katherine, ma che forse
non si sarebbe mai
liberato di Elena.
Quel
pensiero m’incupì e mi fece sentire ancora
più stupida di quanto avrei mai
immaginato.
In
quei
giorni mi ero arrovellata il cervello a cercare di capire
perché Damon si fosse
di punto in bianco dimostrato così carino e disponibile con
me. Avevo fin
immaginato che qualcosa in lui stesse finalmente cambiando, che forse
prima o
poi anche io avrei potuto vederlo come una persona diversa.
Ma
Elena era sempre lì. Lei aveva un potere su Damon pari a
quello di nessun
altro. Non era il tipo da approfittarsene ma ciò non
significava che lui ne
fosse libero, dato che era il primo a permetterglielo.
Se
mai
mi era passato per la testa una qualche possibilità di
relazione tra noi, mi
bastava ricordare che io non sarei mai stata abbastanza. Nessuna poteva
competere.
Mi
alzai dal divano e salutai frettolosamente tutti. Abbandonai la stanza
e la casa.
Stare
in quella sala mi mandava fuori di testa.
Ero
infastidita, turbata e sconcertata. Damon rimaneva comunque una
presenza
tossica per me. Era difficile diventare amica di qualcuno che tentava
in tutti
i modi di metterti a disagio.
Unica
soluzione? Stargli lontano.
Avevo
detto che non m’importava niente di Miss Fell’s
Church.
Avevo
detto che non desideravo più da tempo avere una corona in
testa.
Avevo
detto di essere finalmente in pace con me stessa.
Ma
diamine, mi sciolsi quasi letteralmente mentre ammiravo un bellissimo
vestito
che Caroline aveva spedito a casa mia per la serata di gala.
Lungo
fino ai piedi, color azzurro-ghiaccio, senza spalline, stretto in vita
da una
cintura di brillanti, con una sottile allacciatura sulla schiena che si
apriva
in uno scollo per poi ricongiungersi con la stoffa.
Le
scarpe costituivano già un problema, ma potevo sopportare
quell’altezza killer
per il bene dell’abito. Potevo anche sopportare il trucco!
Ero
elettrizzata all’idea di indossarlo, mi sentivo come una
bambina a Natale.
Sembrava
proprio che alla fine sarei riuscita a vivere il mio momento da
principessa. E
tale mi sentii quando varcai le porte della sala patronale del
municipio.
La
moglie del sindaco aveva superato se stessa: non appariva un concorso
di bellezza,
piuttosto come un ballo di alta società.
Matt
mi
prese la mano e mi condusse per la sala, in cerca di Stefan, Elena e
tutti gli
altri.
Sgusciai
dalla stretta e gli agguantai il polso. Meglio togliermi subito quel
peso.
“Matt,
ti
devo parlare”.
Non
avevo mai partecipato a così tanti eventi mondani come in
quei sei mesi. La
maggior parte delle volte nemmeno si trattava di una mia iniziativa.
Accompagnatore
di Caroline, ma come mi era venuta in mente?
Elena
me l’aveva chiesto con tale gentilezza che non avevo potuto
rifiutare. In fin
dei conti, veniva in tasca qualcosa anche a me: avrei fatto un favore
al mio
angelo, Katherine sarebbe diventata verde dalla rabbia e forse avrei
stupito
Bonnie una volta per tutte.
Avevo
l’impressione che qualcosa fosse davvero cambiato tra noi da
quando aveva
passato una settimana a casa mia: la vedevo sempre agitata,
più acida del
solito, vedevo i suoi occhi guizzare sempre su di me, anche quando non
la stava
guardavano, come se le piacesse tenermi sotto controllo.
Stava
lontana da me, si isolava e tendeva a parlarmi il meno possibile.
Comportamenti
che aveva sempre tenuto in mia presenza, per altri motivi
però.
Era
chiaro come il sole che adesso non le provocavo più un senso
di disgusto, ma
piuttosto la confondevo, la provocavo. Il fatto che me lo permettesse,
seppure
inconsapevolmente, significava che stava piano piano cedendo. Mancava
solo il
colpo di grazia.
Ero
intenzionato a sferrarlo proprio stasera.
Rimasi
seduto fuori dai camerini in attesa che la signorina Forbes facesse la
sua
comparsa tutta tirata a lucido.
I
giorni precedenti erano stati particolarmente divertenti per me:
stuzzicare
Caroline era un hobby alquanto soddisfacente, dato che lei ci cascava
ogni
volta. Era estremamente irritabile, e l’idea che fossi io ad
accompagnarla non
l’aveva proprio esaltata.
Potevo
capire il suo rancore: l’avevo usata e abbindolata, ma
sinceramente la cosa non
mi aveva mai turbato più di tanto. Era passato parecchio
tempo, era ora che lei
lo superasse.
Vivere
in maniera civile non comportava per forza un legame di amicizia.
Neanche
a farlo apposta, Katherine aprì la porta dei camerini e
uscì, fasciata
splendidamente da un abito viola. Era inutile negarlo: quella ragazza
era bella
da impazzire con qualunque cosa indossasse.
Mi
concesse un brevissimo sguardo sprezzante, prima di andarsene con un
bell’imbusto che fino a quel momento era rimasto appoggiato
alla parete accanto
a me.
Non
ne
fui infastidito, con mia grande sorpresa.
A
parte
il mio orgoglio ferito, quell’incontro non mi aveva suscitato
nessun’altra
emozione. Mi chiesi a che cosa fossero serviti i mesi passati insieme a
lei.
Era
bastato
così poco a farmela dimenticare?
Una
forte delusione poteva allontanare due persone, non far sparire un
sentimento.
Sempre che il sentimento ci fosse mai stato.
Mi
ero
sempre rifiutato di pensare che Katherine fosse solo una sostituta di
Elena, la
sua copia uscita male. Arrivato a questo punto, mi rendevo conto che
era
solamente il suo pallido riflesso. Avevo finto di poterla sostituire.
L’avevo
usata per scordarmi della sua gemella innamorata di mio fratello.
Ma
Katherine non era stata all’altezza delle mie aspettative e
mi aveva preso in
giro. Non sentivo nemmeno di meritarmelo: in tutto il tempo in cui
eravamo
stati insieme, non le avevo mai fatto mancare nulla, non
l’avevo mai trattata
come il surrogato di sua sorella.
Mi
ero
davvero convito di poterla amare per ciò che era e mi ero
comportato di
conseguenza.
Quei
giorni mi parevano lontanissimi, totalmente estranei.
Katherine
non era più nei miei pensieri e neanche Elena. Per assurdo,
quella tremenda esperienza
mi aveva aiutato a liberarmi dall’ossessione che nutrivo per
le Gilbert.
Reputavo
Elena una grande amica, forse la mia unica amica, l’unica
ragazza che avevo
rispettato davvero fino all’ultimo, fino a che i miei
sentimenti di conquista
non si erano trasformati in qualcosa di molto più puro e
genuino.
E
molto
probabilmente solo per lei in questo mondo avrei potuto sottopormi a
quella
pagliacciata che era Miss Fell’s Church.
Finalmente
l’aspirante reginetta mise piede fuori dal camerino.
Se
qualcuno si meritava quel titolo era proprio Caroline Forbes. Con quel
vestito
color bronzo avrebbe steso i giudici e chiunque con un po’ di
buon gusto e
senso estetico.
“Madame”
le porsi il braccio.
“Madame
un corno” mi rispose piccata, superandomi “Hai
visto Katherine, vero? È uscita
prima di me. L’hai vista? Era uno schianto. E sai chi
è il suo accompagnatore?
È quello che doveva venire con me! Quello stronzo mi ha dato
buca per la
sgualdrina di Fell’s Church. Scommetto che gli
avrà promesso un giro in giostra
dopo il concorso. Altro che varicella, spero gli cada il
pis-”.
Non
ricordavo che Caroline Forbes incazzata facesse così paura
nella sua schizzata
e maniacale maniera di affrontare i problemi.
Il
bell’imbusto quindi era il suo precedente cavaliere, quello
che si era dato
malato di varicella. Interessante scambio di coppie.
“Potrei
sentirmi quasi offeso. Ho certamente più carisma di quel
damerino” osservai “E
poi noi accompagnatori serviamo solo per il valzer. Non credo che
cinque minuti
con quel tizio possano garantire la vittoria a Katherine”.
“Quel tizio è uno dei migliori
ballerini
della Virginia. Lo avevo selezionato apposta. Tu non conoscevi nemmeno
i passi
fino a due giorni fa” sbuffò.
Stizzito
dal suo commento, la presi per un braccio e le feci fare una piroetta.
Mi finì
addosso, come previsto, e strinsi una mano dietro la sua schiena.
“Posso
fare cose su quella pista da ballo che neppure
t’immagini” le soffiai sul viso.
Non
so
se rimase più incantata o intimorita dalla mia reazione, ma
di certo le infusi
un po’ di coraggio. Intrecciò le dita con le mie e
mi trascinò nell’enorme
salone.
Si
destreggiò tra le personalità della
città e tra i giurati, esibendomi come se fossi
un gioiello. Glielo permisi senza tante cerimonie: per una sera potevo
anche
accettare il suo comando, se fosse servito ad assicurarle la vittoria.
Tutto
pur di togliere quel ghigno soddisfatto dalla faccia di Katherine
Gilbert.
Non
passò molto prima che Caroline sparisse dietro il palco,
pronta per mettersi in
mostra come un pezzo d’asta.
Mi
nascosi dietro una colonna in attesa del mio momento. Non avevo voglia
di
intrattenermi con nessuno. Conoscevo più o meno tutti, mio
malgrado.
Evitavo
soprattutto Elena e le sue occhiatine divertite.
La
mia
attenzione, però, venne risvegliata da una figura vestita di
azzurro: Bonnie
McCullough era praticamente irriconoscibile.
Sembrava
che quell’abito l’avesse trasformata: camminava in
maniera molto più
aggraziata, sorrideva con garbo, perfettamente a proprio agio.
Un’immagine
molto diversa da quella che ricordavo della festa di inizio anno.
Coperto
dalla colonna, potei continuare ad ammirarla indisturbato.
Lei
non
si curò di me, ma notai con piacere che Matt Honeycutt non
le ronzava più
intorno. Che finalmente gli avesse dato il benservito?
Lo
spettacolo iniziò e le ragazze cominciarono la loro sfilata.
Quando
venne annunciato il valzer, uscii dal mio nascondiglio e mi posizionai
accanto
alle scale per accogliere la mia dama.
Caroline
sprizzava gioia da tutti i pori e per un attimo parve dimenticare
l’antipatia
che provava nei miei confronti.
Si
abbarbicò al mio braccio come se fossi il suo principe
azzurro. Lei
probabilmente si sentiva Cenerentola.
No,
Caroline Forbes non poteva essere Cenerentola, al massimo la regina dei
ghiacci.
Mi
accorsi a malapena della musica e dei commenti acidi che la mia partner
lanciava verso le sue avversarie. Poco m’importava di
principi e principesse,
quella sera il mio unico obiettivo era una splendida fata. Una fata che
non mi
staccò gli occhi di dosso per tutto il ballo. Io cercai di
ricambiare lo
sguardo ogni volta che giravo nella sua direzione.
Se
fossero spariti tutti, non me ne sarei accorto.
Non
me ne sarei proprio accorto.
Ci
fu
un istante prima dell’annuncio in cui mi prefigurai il peggio.
Venne
sbalzata indietro, al ballo di Homecoming, quando la voce al microfono
aveva
annunciato la vittoria di Katherine.
Sapevo
per certo che questa volta Caroline l’avrebbe ammazzata,
seguita da Elena.
Avrebbero danzato sul suo corpo insanguinato e forse Damon avrebbe
messo la sua
testa su una picca.
Perciò
ebbi serie difficoltà a credere alle mie orecchie e ai miei
occhi, quando la
mia amica venne dichiarata Miss Fell’s Church e
camminò sul palco per ricevere
fascia e corona.
Seguirono
feste e applausi: Elena saltava sui suoi tacchi, rischiando di rompersi
una
caviglia, e si sbracciava. Stefan fischiava di gioia.
Era
solo uno stupido concorso di bellezza, ma a noi sembrava di aver appena
trionfato nella guerra per la conquista del mondo.
Scorsi
Matt battere le mani e congratularsi con Caroline. Fingeva che tutto
andasse bene,
ma a me non sfuggì la patina triste che gli adombrava gli
occhi.
Non
era
stata una grande serata per lui. Ci eravamo lasciati abbastanza bene,
eppure
non potevo evitare di chiedermi se la nostra amicizia avrebbe superato
anche
questo ostacolo.
Mi
defilai silenziosamente, in cerca di un attimo di pace. Fuori, sul
portico
faceva un freddo cane, ma almeno potevo restarmene un po’ da
sola.
Lontana
da Matt e dal mio senso di colpa, lontano da Damon e dalla confusione
che avevo
in testa. Solo alla fine del suo valzer con Caroline mi ero resa conto
di
averlo fissato per tutto il tempo e di essere stata beccata.
Ma
che
cosa mi stava prendendo?
Per
tutta sera non lo avevo perso di vista: sebbene mi fossi opposta con
tutta la
mia volontà, una strana forza mi aveva obbligato a
controllare ogni sua mossa.
Stavo
diventando ciò che avevo sempre aborrito: una maniaca
spiona, una dannata fan
del club di Damon Salvatore.
Ero
una
mollacciona, mannaggia a me! Tutta colpa del mio debole per i bei
ragazzi. Era
mia abitudine farmi incantare da personaggi particolarmente fascinosi,
così
come era accaduto con Klaus.
Adesso
che lui e Matt erano spariti dal mio interesse e Damon aveva sfoderato
le sue
armi, io stavo cadendo come una pera cotta.
Bella
prova, Bonnie.
“Perché
sei qui fuori da sola?”
Quella
voce mi era fin troppo nota. Non dovevo
nemmeno girarmi per vedere a chi apparteneva. Lo sapevo benissimo.
“Aspetto
che i palloni gonfiati come te spariscano
dalla faccia della terra!” replicai con voce un po’
troppo acuta.
“Adoro
quando fai la simpatica” commentò Damon con
tono chiaramente ironico. “Non dovresti festeggiare con
Caroline? Ha appena
battuto Katherine, sarai al settimo cielo”.
Io
non risposi, sperando che se lo avessi ignorato,
lui se ne sarebbe andato.
“Ti
ho visto prima, durante il valzer” iniziò e il
sangue mi si gelò nelle vene “Mi sembrava avessi
voglia di provare anche tu.
Adesso hanno aperto la pista a tutti. Scommetto che Honeycutt non vede
l’ora di
pestarti i piedi”.
“Non
credo che Matt voglia ballare con me” ammisi
con rimpianto “E poi non mi piacciono balli da sala: la gente
ti si fa troppo
vicina e comincia a farsi gli affari tuoi” questo era un
chiaro riferimento a
lui.
Damon
non si scompose. Allungò una mano verso di me
“Posso anche rimanere in silenzio, se preferisci”
mi promise.
Lo
guardai costernata “No, io con te non ballo!”
affermai sicura, alzando il naso con fare stizzito.
“Mi
stai dicendo che non muori dalla voglia di fare
neanche una giravolta?”.
“Non
con te”.
“Con
nessuno mi pare di capire”.
“Che
cosa t’importa? Non c’è neppure la
musica” lo
ribeccai, augurandomi che la smettesse.
“Se
stessi zitta, la sentiresti” considerò Damon.
In lontananza si udiva effettivamente una melodia.
“Non
ho intenzione di ballare né con te né con
nessun altro” lo stroncai.
“Perché?”.
“Perché
no”.
“Uccellino…”
“PERCHÈ
HO VERGOGNA!” sbottai senza poter frenare
la lingua.
Mi
accorsi di ciò che avevo detto e avvertii la
rabbia montare dentro di me. Non solo mi ero resa ridicola davanti a
quell’idiota ma avevo anche ceduto al suo gioco. Voleva farmi
scoppiare per
sapere la verità e ci era riuscito.
Mi
aspettavo di vederlo ridere o prendermi in giro.
Mi voltai di scatto per andarsene e non guardare la soddisfazione negli
occhi
di Damon. Un mano afferrò il mio polso in una stretta salda
e mi tirò indietro.
Cercai di puntare i piedi ma Damon era più forte. Mi
inchiodò a sé avvolgendomi
la vita sottile con le braccia e incominciò a muoversi
lentamente.
“Dico
ma sei impazzito?” chiesi con voce strozzata.
“No,
ti sto facendo passare la vergogna” rispose
con semplicità
“In
realtà la stai facendo aumentare” dissi, tesa
come una corda di violini.
“Siamo
soli qui fuori” mi fece notare. La sua voce
era quasi un soffio, vulnerabile. Riacquistò in fretta la
sua spavalderia “Sei
sempre impettita, seria, sembri una creatura intoccabile, sciogliti un
po’.
Divertiti”
“Per
essere una che pare intoccabile, tu mi stai
toccando un po’ troppo” dissi alludendo alle mani
del ragazzo terribilmente
vicine al mio sedere.
“E
dire che mi sto trattenendo!” e rise.
Scossi
la testa. Non c’era più nulla da fare. Lui
era troppo testardo e aveva una presa d’acciaio. Non sarei
mai stata capace di
sgusciare via. Tanto valeva farlo contento e sperare che dopo un ballo
si
stancasse. Dopo tutto aveva ragione: un po’
di divertimento non aveva mai fatto male a nessuno. Gli
posai una mano
sulla spalle e con l’altra presi la sua. Provai a mettere una
certa distanza
tra noi, ma Damon mi aveva tirata davvero molto vicina. Quel contatto
mi
ricordò un momento già vissuto: quello del
‘bacio al buio’.
Non
ci avevo mai creduto fino in fondo, avevo
pensato che le mie amiche si fossero prese gioco di me. Eppure sentii
le stesse
emozioni, la stessa tranquillità.
Il
cuore iniziò a battere furiosamente, per
l’agitazione
e l’incredulità. Quasi mi ritrovai a sovrapporre
le due immagini, mentre la mia
mente lavorava ormai per conto suo: mi sembrava di essere tornata
indietro, a
quella festa. Eravamo solo noi due, condividevamo un ballo, gli altri
erano spariti
dalle nostre preoccupazioni e attendevamo il bacio.
Chiusi
gli occhi e li riaprii di scatto per
scacciare quella scena. Non era la realtà.
Stupidamente
avevo sperato che quel minimo gesto
potesse farmi ritornare in me e invece produsse l’effetto
contrario.
Ipnotizzata,
spinsi lentamente il viso verso Damon,
mentre lui si piegava su di me. Le nostre fronti si toccarono. Non
andammo
oltre e fu ancora più intimo.
Mi
sottrassi all’abbraccio con un brusco strattone.
Senza
rivolgergli una parola, gli voltai le spalle
e ritornai nel grosso salone.
Mi
stavo cacciando in un guaio troppo grosso per
me.
Il
mio spazio:
Non
so come scusarmi per il ritardo.
Per
assurdo queste settimane di dicembre sono state
più frenetiche dei mesi più intensi di
università.
Spero
davvero che ora sarò più libera, dato che
sono in pausa esami.
Per
questo capitolo mi sono chiaramente ispirata
all’episodio di Miss Mystic Falls di TVD.
Bonnie
sta cominciando a prendere consapevolezza,
ma questo non vuol dire che si arrenderà così su
due piedi. Nel prossimo
capitolo succederà qualcosa che scuoterà
l’equilibrio che si è creato.
E
se da una parte questa cosa li avvicinerà,
dall’altra
li porterà ad accantonare per un po’ qualunque
progetto romantico (un po’, eh,
non molto!)
Spero
davvero che il capitolo vi sia piaciuto.
Lasciatemi un parere, please! =)
Il
banner è di Bumbuni.
Bene
ragazza, vi ringrazio tantissimo per il vostro
supporto e vi auguro di passare un felice Natale e di divertirvi
tantissimo a
Capodanno.
Ci
rivediamo con l’anno nuovo!
Grazie
ancora a tutte voi!
Bacioni,
Fran;)
|
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Capitolo 20 *** Daddy issue ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo venti:
Daddy issue.
“I
was once like you are now and I know that it's not easy
To be calm when you've found something going on
But take your time, think a lot, why, think of everything you've got
For you will still be here tomorrow, but your dreams may not
How
can I try to explain? When I do he turns away again
It's always been the same, same old story
From the moment I could talk I was ordered to listen
Now there's a way and I know that I have to go away
I know I have to go”
(Father
and son- Cat Stevens).
A
volte la vita concedeva qualche soddisfazione.
Gli
esami di metà anno erano andati alla grande,
Katherine aveva avuto un piccolo assaggio della sua medicina, avevo
aiutato
Caroline a vincere e nel frattempo mi avvicinavo sempre di
più al mio
obiettivo: Bonnie.
Era
cotta a puntino. Finalmente.
Era
stata la prova più dura che avessi mai
affrontato. E nonostante cominciasse chiaramente a sentirsi attratta da
me, le
sue remore continuavano a costituire un problema.
Era
restia a lasciarsi andare, frenata dai suoi
principi morali.
Io
ero quello
stronzo e cattivo, il manipolatore, il donnaiolo, l’odiato
fratello del suo
migliore amico. Non esisteva al mondo nessuno peggio di me secondo la
sua
opinione.
Cedere
al mio fascino significava rinnegare tutto
ciò che aveva ben predicato per tutti questi anni. Capivo la
sua reticenza e mi
ci rispecchiavo.
Avevo
affrontato gli stessi suoi dubbi. L’immagine
che avevo di lei si era completamente ribaltata: fino a qualche mese fa
Bonnie
per me non esisteva nemmeno.
Una
bambina immatura, a volte frignona. Carina, ma
per nulla attraente.
Ora
era il mio chiodo fisso.
Purtroppo
mi rendevo conto che la scommessa
c’entrava sempre meno e lentamente stavo cominciando ad
accettarlo.
All’inizio
l’idea mi atterriva, perciò comprendevo
la sua esitazione.
Infatuato
di Bonnie McCullough! Mi faceva senso
solo pensarlo.
Per
ora mi limitavo all’infatuazione, non mi
azzardavo ad andare oltre. Mi sembrava già un bel traguardo
ammetterlo.
Katherine
non aveva nemmeno idea di che cosa avesse
scatenato accettando per me la scommessa proposta da Tyler.
Quello
che era cominciato come un gioco stava
diventando tremendamente serio, tanto da spaventarmi.
Eccomi
lì, Damon Salvatore, ventun anni, a
ritrattare una della convinzioni più radicate della mia
vita. Eccomi lì ad
accettare il fatto che Bonnie McCullough non fosse una bambina,
né immatura né
frignona.
Si
trattava di una donna, che con la sua innocenza
e la sua a tratti irritante bontà, era stata in grado di
intrigarmi molto più
di quanto avessero fatto le mie precedenti conquiste.
Ragazze
bellissime, seducenti che alla fine avevano
perso ogni barlume di fascino.
E
quella piccola impertinente mi tormentava come la
peggiore delle tentatrici.
Durante
il ballo avevo fatto ricorso a tutta la mia
forza per non piantare Caroline su due piedi e andare da Bonnie.
Durante il
nostro piccolo interludio, avevo combattuto l’istinto di
portarla altrove, dove
nessuno ci avrebbe disturbati.
Il
mio bisogno di baciarla era stato frenato da un
suo possibile rifiuto. Sapevo che in fondo al cuore anche lei avrebbe
voluto
cedere, ma sapevo anche che il suo orgoglio l’avrebbe fermata
in tempo.
Così
era stato: l’avevo osservata scappare via da
me, da ciò che poteva accadere.
Le
mie braccia si erano sentite improvvisamente
vuote e l’aria era diventata più fredda. Solo
allora mi ero reso conto di
quanto la presenza di Bonnie portasse un gran sollievo con
sé.
Onestamente
non sapevo più come comportarmi.
Era
palese che anche lei avesse iniziato a
guardarmi con occhi differenti. Lo mostravano il suo sguardo, i suoi
movimenti,
le sue parole. Aveva lasciato Matt.
Non
potevo giurarlo al cento per cento, ma mi
piaceva pensare di esserne almeno in parte la causa. L’avevo
sconvolta, l’avevo
stupita.
Non
era, però, ancora abbastanza, io non
ero
abbastanza.
Accettare
quel cambiamento significava, secondo il
suo punto di vista, tradire i suoi principi, tradire Stefan.
Evidentemente io
non valevo quel sacrificio.
Sempre
la solita storia. Già sentita, già vista.
Non
ero stato degno di Elena, non ero stato degno
di Katherine e non ero degno di Bonnie.
Persino
il mio stesso padre mi disprezzava, perché
qualcun altro avrebbe dovuto riconoscere del buono in me?
Mi
sforzavo, m’impegnavo ma non arrivavo mai al
traguardo.
Bonnie
era maledettamente complicata.
Una
creatura pura, incontaminata, priva di
qualsiasi malizia. Spendeva sempre parole gentili per tutti, non
augurava mai
il male ad altri, nemmeno al suo peggior nemico. In lei non
c’era traccia di
corruzione o desiderio d’imporsi.
Tutte
le ragazze con cui ero stato, avevano sempre
sentito una certa curiosità per il mio lato più
oscuro e misterioso, perfino la
compassionevole Elena era rimasta intrigata dalla vita passionale e
travolgente
che avrebbe potuto condividere con me. Si era trattato di una piccola
scintilla, consumatasi sul nascere, ma almeno aveva dato qualche segno.
Bonnie
era fin troppo integra per lasciarsi
ammaliare.
Si
era un po’ ammorbidita perché le avevo fatto
credere di poter essere migliore. Nella realtà rimanevo il
solito viziato,
sfrontato, cattivo ragazzo. Lei si sarebbe sempre fermata un secondo
prima di
baciarmi, non mi avrebbe mai accettato fino in fondo.
Non
ero una persona per bene.
Nonostante
ne fossi consapevole, il mio immenso
egoismo m’impediva di arrendermi. Il buon senso mi diceva di
lasciarla stare,
ma non ero un tipo particolarmente razionale.
“Damon,
volevi vedermi?”. Elena si sedette di
fronte a me al tavolo.
Avevo
richiesto i rinforzi.
“Finalmente
quella vipera è tornata a strisciare
nel suo buco!” esultò Caroline.
“Che
linguaggio nobile. Hai letto Shakespeare
ultimamente?” osservò Meredith senza alzare lo
sguardo dal suo libro.
“Non
essere così snob” la ribeccò Caroline
“Sei
solo contenta che Katherine non abbia vinto”.
“Lo
ammetto, non avrei sopportato la sua aria da
regina del mondo”.
“E
invece ho vinto io!” si compiacque Caroline
“Questo finisce dritto nel mio curriculum per
l’agenzia di moda che ho
adocchiato”.
“Di
solito funziona al contrario” la prese in giro
Meredith “Sono loro che dovrebbero adocchiare te”.
“Scusami!
Non tutti hanno ricevuto una borsa di
studio da Harvard”.
Quel
commento mi fece sentire ancora più uno
schifo. Non ero molto contenta della piega che aveva preso la
conversazione,
perciò me n’ero tenuta fuori.
Avevo
ancora poco tempo per mandare le mie
iscrizioni all’università, non sapevo nemmeno che
facoltà scegliere. Ero negata
in matematica e non ero una grande studiosa, avevo problemi di
concentrazione.
Non
avevo mai avuto il coraggio di parlarne con
nessuno, mi vergognavo troppo. Mio padre era convinto che avessi
già inviato i
moduli, le mie amiche conoscevano la verità ma non osavano
per chiedere.
Senza
parlare degli esami SAT*. Avevo già provato
delle simulazioni e non erano andate benissimo.
Mi
sentivo persa, disorientata. Il college erano molto
costosi e sbagliare scelta sarebbe stato un grave peso. Non avevo
speranze di
ottenere una borsa di studio con i miei voti.
Per
tutti quei mesi avevo provato a trovare una
soluzione, ma la sola idea mi mandava in panico. Avevo parlato perfino
con la
consulente scolastica, senza venirne a capo.
Alla
fine mi ero ridotta all’ultimo e il tempismo
non era certo dei migliori.
Non
avevo la mente per niente sgombra, anzi era più
incasinata che mai.
Mi
ero rimproverata da sola quando avevo permesso a
Damon di avvicinarsi e mettermi in soggezione, gli avevo permesso di
impressionarmi con le sue premure e qualche giorno prima avevo perfino
condiviso un ballo.
Peggio,
un momento estremamente intimo.
Se
non fossi ritornata in me all’ultimo, forse mi
avrebbe pure baciato. Il fatto era già di per sé
grave, ma non contenta mi ero
resa anche più ridicola: l’avevo fissato tutta
sera.
Non
ero gelosa di Caroline e ancora meno avrei
voluto essere tra le braccia di quel presuntuoso; semplicemente non ero
riuscita a togliergli gli occhi di dosso. Mi ero trasformata in una di
quelle
ragazzine che avevo tanto odiato, una di quelle che agognavano per un
sorriso
di Damon.
Da
quando?
Era
stato un gesto involontario, il che era anche
peggio: almeno ne fossi stata consapevole, avrei potuto fare qualcosa
per
impedirlo.
Se
ci si metteva in mezzo il subconscio, allora ero
davvero fregata.
Non
che lui mi rendesse la vita più facile. Da
quando si era intestardito con me, sbucava ad ogni angolo.
Dalla
fine della scuola, mi ero trovata costretta
insieme a lui in più di un’occasione. Quelle che
avevo considerato coincidenze,
ora sembravano parti prese da un copione.
Sinceramente
dei motivi che avevo portato Damon a
interessarsi a me, poco m’importava. Il vero punto della
questione era: come
mai io stavo ricambiando quel singolare gioco? Perché
diamine non lo avevo
stroncato sul nascere?
Fuori
da ogni vana gloria o presunzione femminile,
avevo il presentimento che sotto ci fosse qualcosa di ben
più complicato.
Qualche
settimana prima ero giunta alla conclusione
di non odiare Damon Salvatore, ora mi stavo pericolosamente avvinando
ad
accettare una probabile quanto inquietante cotta nei suoi confronti.
Fantastico!
Avevo piantato Matt per sostituirlo con
il peggiore dei soggetti.
Tendevo
troppo spesso a dimenticare che stavamo
parlando dello stesso ragazzo che non avrebbe esitato un attimo a
soffiare la
ragazza a suo fratello, che aveva preso in giro una delle mie migliori
amiche e
che per anni mi aveva trattato come uno zerbino.
Ultimamente
si era comportato bene, tanto da farmi
pensare che l’esperienza con Katherine lo avesse davvero
aiutato a crescere.
Solo
che non riuscivo a capacitarmi di come quel
suo cambiamento potesse aver causato un così grande
turbamento in me.
Peggio
ancora, non riuscivo a buttarmi alle spalle
tutte le cattiverie che mi aveva gettato addosso. Potevo trovare tutte
le
giustificazioni, le attenuanti, ma l’immagine che avevo di
Damon era sempre la
stessa e non potevo scrollarmi di dosso la sensazione che alla fine,
una parte
di lui, sarebbe rimasta per sempre cattiva.
“Tu
hai molte spiegazioni da darci, signorina!” mi
apostrofò Caroline.
Fu
un’affermazione che mi colse di sorpresa e
saltai sulla sedia con espressione colpevole, come se mi avessero
beccata con
le mani nella marmellata. Avevano per caso letto nella mia mente?
“Mi
hai sorpreso, in effetti” concordò Meredith
“Non è da te”.
Considerando
che lei intratteneva una relazione
clandestina con un professore, non aveva nessun diritto di fare la
predica a me
per una cosa che neanche era ancora accaduta.
“Ci
hai spiazzato tutte” rincarò Caroline
“Di’ la
verità: hai aspettato apposta il concorso. Volevi che io
fossi occupata per
avere campo libero. Se me ne fossi accorta, ti avrei impedito di fare
una
stupidata”.
“Adesso
non esageriamo” provai a placarle “È
stato
solo un momento di debolezza”.
“Il
tuo momento di debolezza ha colpito duramente
Matt”.
Io
sbiancai “Matt? Lo sa anche lui?”.
“Certo
che lo sa! Chi pensi che ce l’abbia detto?”
trillò Caroline “A fine serata non ti trovavamo
più e abbiamo chiesto a Matt.
Ha dovuto informarci, per forza”.
“Ma…ma…eravamo
soli…non c’era nessun altro” mi
allarmai “Come ha potuto accorgersene?”.
“Bonnie”
mi chiamò dolcemente Meredith “Ora non
stare in pensiero. Se è quello che vuoi, va bene. Mi sembra
logico, però, che a
Matt bruci ancora: è difficile non notare quando si viene
scaricati”.
Fu
come se un grosso peso si fosse levato dalle mie
spalle. Non parlavamo del ballo tra me e Damon, ma della rottura tra me
e Matt.
Non
potevo credere di essere entrata subito in
panico per un’incomprensione. Avevo qualcosa da nascondere,
ero davvero
arrivata al livello di dover tenere un segreto alle mie migliori
amiche. Tutto
ciò rendeva il mio rapporto platonico con Damon, non
più tanto platonico e
molto reale.
Per
salvare le apparenze, mi ricomposi in fretta.
Era comprensibile che Caroline e Meredith desiderassero discutere di
Matt: per
anni le avevo tirate matte con la mia cotta per lui e adesso che avevo
finalmente raggiunto l’obiettivo, rinunciavo.
“Mi
ero infatuata di un’idea” confessai. Fu
un’epifania anche per me, perché non avevo mai
considerato quel punto di vista
“Matt è un bravissimo ragazzo ed è
anche bello. Quando mi ha chiesto di uscire
la prima volta ero al settimo cielo, ma qualche mese fa non avevo
ancora capito
che cosa volevo dalla vita”.
“E
ora lo sai?” m’interrogò Meredith.
“Non
voglio Matt” ammisi “Non sento le farfalle
nello stomaco, non sento il bisogno di stargli accanto. Nelle settimane
in cui
non ci siamo parlati non ho fatto niente per sistemare le cose, stavo
bene
così”.
Mai
una volta avevo provato a chiarire. Niente mi
aveva spinto verso di lui, tutt’altro. Avevo pure flirtato
palesemente con
Klaus.
Eppure
non ero riuscita a stare lontana da Damon.
“Lo
reputo un caro amico” dissi “Temo che le mie
aspettative siano stato deluse”.
“Ha
fatto qualcosa per deluderti così tanto?”
s’intromise Caroline.
“No,
lui no” negai “Mi riferivo a me stessa. I miei
obiettivi hanno preso una piega diversa”.
“Si
chiama crescere, Bon” esordì Meredith.
Che
fregatura.
Io
e il caro papà non eravamo mai andati d’accordo
e questo era risaputo.
Non
c’era feeling tra noi, da che ricordassi.
Quando
ero piccolo, lui voleva vestirmi come un
damerino e io preferivo le scarpe da ginnastica.
A
quattordici anni, mi aveva portato in azienda,
esibendosi in una scena a mo’ di “Il re
leone”, “tutto questo sarà
tuo” e una
settimana dopo ero quasi finito in centrale per aver fumato uno
spinello.
A
diciotto anni, mi aveva organizzato una grandiosa
festa per la maggiore età ed era partito il giorno del mio
compleanno senza
nemmeno farmi gli auguri. Allora avevo spostato la festa a casa mia,
che per
poco non era andata a fuoco.
Avevamo
interesse diversi, niente per cui
prendersela tanto.
Ma
mio padre non aveva mai accettato di avere
generato un figlio così ribelle e poco rispettoso della sua
persona.
Non
avevo rispetto per lui, non l’avevo mai
considerato degno.
Indubbiamente
era un grande uomo d’affari. Aveva
costruito un futuro e una carriera dal nulla, aveva garantito alla sua
famiglia
un benessere e un prestigio di rilievo.
Umanamente
parlando, però, era una merda. Perfino
con Stefan, il suo figliolo prediletto.
O
eri con lui o contro di lui. Non esisteva
comprensione o via di mezzo.
Mi
odiava perché ero la sua delusione più grande.
Aveva risposto le sue più rosee aspettative in me e quando
si era accorto che
mai avrei potuto soddisfarle, aveva scelto di ripudiarmi. Non
legalmente, ma
affettivamente.
Mi
aveva escluso dal suo amore (se mai gliene fosse
rimasto un briciolo), dalla sua stima, dal suo interesse, perfino dalla
sua
cortesia.
Gli
importava solamente dell’impressione che
suscitavo negli altri, e dato che la maggior parte delle volte davo il
peggio
(o il meglio, a seconda delle opinioni) di me, eravamo sempre in rotta,
costretti a litigare, a scontrarci.
Entrare
in casa mia mi dava, di conseguenza, la
nausea. In un modo o nell’altro mio padre spuntava fuori da
ogni angolo, a
qualsiasi ora.
Ultimamente
aveva preso l’abitudine di chiamarmi.
Per mesi non si era fatto sentire, e adesso sembrava aver immediata
urgenza di
parlarmi.
Non
avevo mai risposto. Io non avevo alcuna
intenzione di sprecare il mio tempo. Sapevo per certo che nessuno dei
miei
famigliari era in pericolo di morte, per cui non era necessario nessun
contatto
tra noi.
Purtroppo
per me, avevo stupidamente dimenticato
alcuni libri in camera mia e mi servivano per le lezioni.
Non
avevo altro scelta che entrare in casa mia e
riprenderli.
Mi
soffermai un attimo a osservare il portico di
Bonnie. Mi ricordai una sera di fine estate, quando avevo cercato
qualche
informazione piccante sull’estate che lei e Elena avevano
passato in Spagna. Mi
sembravano secoli fa.
La
chiacchierata con il mio angelo si era rivelata
parecchio utile. Quella ragazza aveva sempre avuto la
capacità di farmi vedere
le cose sotto un’altra prospettiva.
Ma
ora non avevo il tempo di occuparmi di Bonnie.
Nel
vialetto di fronte alle mia villa, era
posteggiata la macchina di mio padre. Considerai di girare la mia auto
e
tornare un’altra volta.
Avevo
davvero bisogno di quei libri e non potevo
continuare a evitare mio padre. Non valeva niente per me e mi dovevo
comportare
di conseguenza.
Io
non avevo paura di affrontarlo.
Era
seduto sulla sua solita poltrona a studiare
delle carte, presumibilmente per il suo lavoro.
Quando
mi udì entrare, alzò il viso e mi
osservò
come sei avesse visto un fantasma.
Posò
i suoi documenti sul tavolino di vetro di
fronte e si tirò in piedi, venendomi incontro.
“Hai
ricevuto i miei messaggi?” disse.
Sollevai
un sopracciglio. Immaginai che parlasse
dei messaggi che aveva lasciato nella mia segreteria, quelli che avevo
cancellato.
“Sei
qui per questo?”.
“Mi
servono dei libri che ho dimenticato” lo gelai,
lapidario.
Parve
deluso dalla mia spiegazione. Si riscosse in
fretta, riappropriandosi della sua espressione fredda e autoritaria
“Non
importa. Dato che sei qui, posso dirtelo di persona. Dopo quello che mi
hai
detto l’ultima volta, ho fatto delle indagini, chiesto in
giro: sembra che tu
ti sia davvero dato una regolata con gli esami, con ottimi risultati
aggiungerei” affermò fieramente “Non so
se siano state le mie parole o la paura
di perdere i soldi, ma almeno ho raggiunto il mio scopo. Un patto
è un patto:
tu hai fatto la tua parte, quindi non dovrai più
preoccuparti delle tasse
finché terrai questo ritmo. Ma ho un’altra
richiesta: pranzerai qui tutte le
domeniche. Non mi piace essere argomento di conversazione nei salotti
della
città. Da quando te ne sei andato, la gente ha messo sempre
più il naso nei
nostri affari. La famiglia deve stare unita. Non posso più
accettare le voci
che mi sono giunte all’orecchio”.
Rimasi
scioccato, quasi pietrificato dalla mente
calcolatrice che si svelava dietro quelle parole. Scossi la testa,
rassegnato.
“Certo
che no: come può un padre di merda ammettere
di essere effettivamente un padre di merda?” gli chiesi con
tono provocatorio.
“Bada
al tono, ragazzino” mi rimproverò subito.
“Puoi
scordatelo” urlai “Come puoi scordarti di
vedermi qui tutte le domeniche per salvare le apparenze. Non siamo una
famiglia
perfetta e tutti lo sanno”.
“Damon,
non stiamo trattando, non era un invito. Ti
sto comunicando quello che accadrà nelle prossime domeniche
della tua vita”.
“Non
ho nessuna intenzione di tornare in questa
casa per un tuo capriccio”.
“Sono
tuo padre. Farai quello che ti dico. Mi rifiuto
di assecondare il tuo orgoglio” disse perentorio. Mi
voltò le spalle per
tornare ai suoi documenti.
Un
fremito di rabbia di percorse. Lui aveva finito,
io non avevo ancora cominciato.
“Smettila
di fare il santo, non se la beve più
nessuno. La tua richiesta è la cosa più infima
che abbia mai ascoltato. Non solo
mi rivuoi in casa per mettere a tacere le voci che girano su di te, ma
nemmeno
me l’avresti chiesto se non avessi ottenuto il mio successo
all’università. Vuoi
solo sbandierarmi come un trofeo ai tuoi amici. Tu non sei mio padre,
sei solo
quello che mi ha dato il cognome. Puoi anche riprendertelo per quanto
mi
riguarda” mi parve di sputare veleno. Da una parte mi
sfogavo, dall’altra
sentivo il disperato bisogno di fargli male, fargli terribilmente male
“Sei un
fallimento come padre, come uomo. Non sai che cosa sia una famiglia,
non hai
mai fatto nulla per noi. Hai tenuto un comportamento un po’
più decente con
Stefan solo perché ti è venuto dietro. Sei stato
anche un fallimento come
marito. Ricordo che la mamma piangeva sempre, eravamo sempre io e lei.
Tu dov’eri?
Magari a farti la segretaria!”.
Lo
vidi diventare paonazzo. Mi puntò il dito contro
“Non ti permettere. Tu non sai niente di me e di tua
madre!”.
“E
tu che cosa sapevi di lei? Non la conoscevi,
altrimenti non l’avresti lasciata sola” lo accusai
“Ho sempre incolpato Stefan,
ma forse sei stato tu a farla ammalare. L’hai logorata, le
hai tolto la voglia
di vivere. Sarebbe stata meglio senza di te, tutti noi saremmo stati
meglio! Perché
non sei morto tu? Perché tu hai ancora il diritto di
respirare, quando lei sta
sotto tre metri di terra?”.
Avevo
esagerato. Ne ero consapevole, ma non me ne
pentivo.
Se
le meritava, se le meritava tutte.
Me
ne andai in camera, senza guardarmi indietro.
Tornai
a casa tardi quella sera.
Ormai
era diventata un’abitudine passare le ore in
biblioteca dopo la scuola. Gli esami SAT si avvicinavano e mi serviva
un
punteggio abbastanza alto per entrare in un college decente.
Appena
mi chiusi la porta alle spalle notai che
qualcosa non quadrava: le stanze erano buie e silenziose. Sembrava che
mio
padre non fosse nemmeno tornato dal lavoro.
Eppure,
a giudicare dall’ora, doveva aver finito da
un pezzo.
Controllai
sul cellulare se mi avesse chiamato o
mandato un messaggio per avvisarmi del ritardo, ma constatai che la
batteria si
era scaricata. Nemmeno restava acceso.
Mi
ero immersa talmente tanto nello studio da non accorgermene
neanche. Mio padre sicuramente mi aveva chiamato decine di volte senza
ricevere
risposta. Mi aspettava una bella lavata di capo.
Accesi
la luce del salotto e presi il cordless dal
tavolino. Salii in camera mia dove attaccai il mio cellulare alla presa
elettrica, mentre con il telefono fisso digitavo il numero di mio padre.
Questa
volta fui io a non ottenere risposta.
Immaginai che avesse avuto un’emergenza al lavoro, non ci
feci molto caso.
Quello
che catturò la mia attenzione fu una luce
accesa in casa Salvatore, la luce della stanza di Damon. Mi stranii,
dato che
nessuno l’abitava ora che Klaus era tornato in Inghilterra e
il legittimo
proprietario si era trasferito al campus.
Il
telefono squillò.
“Bonnie?”.
“Papà,
ero in biblioteca. Si è scaricato il
cellulare”.
“Sono
in ospedale”. Pareva che non mi avesse
neppure ascoltato.
“Sì,
lo sospettavo”.
“È
accaduto un incidente: Giuseppe si è sentito
male” mi rivelò.
“Male?”
chiesi con voce sempre più allarmata
“Quanto male?”.
“Ha
avuto un infarto”.
Trattenni
il respiro e involontariamente mi girai a
guardare fuori dalla finestra, verso quella luce accesa al piano
superiore di
Villa Salvatore.
“Stefan
è qui in sala di aspetto. Elena è con
lui”.
“E
Damon?” domandai a bruciapelo.
“Non
è qui. So che è stato lui a chiamare
l’ambulanza, ma non si è ancora
presentato” sospirò “Faresti meglio a
raggiungerci. Stefan ha bisogno di te”.
“Arrivo
subito”. Interruppi la chiamata.
Mi
precipitai nuovamente in salotto in cerca della
giacca che avevo abbandonato poco prima. La indossai e uscii con la
borsa sotto
braccio.
La
macchina mi aspettava nel vialetto. La osservai
per qualche secondo, indecisa, combattuta. Stefan mi attendeva
all’ospedale,
gli serviva la sua migliore amica. Ma Stefan aveva già Elena
con sé e c’era un
nome nella mia testa che non riuscivo a dimenticare.
Cominciai
a muovere qualche passo, quasi
involontariamente, poi con sempre più convinzione
finché non mi trovai davanti
alla porta di casa Salvatore.
Estrassi
dalla mia borsa le chiavi di riserva ed
entrai: una luce filtrava giù dalla scale; appena chiusi la
porta, si spense.
Lasciai
la tracolla lì a terra e salii velocemente
i gradini. Mi diressi verso la stanza di Damon, ora immersa nel buio.
Procedetti a tentoni, guidata dalle luci dei lampioni della strada.
La
porta era spalancata, ma non potei vedere
niente. La mia mano strisciò sulla parete in cerca
dell’interruttore.
Venni
fermata da un ordine.
“Non
farlo” mi disse “E vattene”.
“Damon”
sussurrai. Riuscivo a scorgere il profilo
della sua figura, allungata sul letto.
“Non
ti avvicinare”.
“Damon,
non dovresti essere qui” lo rimproverai.
Ci
furono minuti d’interminabile silenzio, poi un
sospiro affannato.
Corrugai
la fronte. Fu un suono che mi preoccupò.
“È
tutta colpa mia” ammise con voce rotta
“L’ho
quasi ucciso”.
M’inginocchiai
accanto a lui e allungai una mano
fino a sfiorargli una guancia. Si ritrasse con uno scatto, ma avvertii
comunque
le mie dita bagnarsi: stava piangendo.
Aveva
spento la luce perché non voleva che lo
vedessi piangere.
Stavo
per chiedere maggiori informazioni. Damon mi
precedette, come un fiume in piena.
“Abbiamo
litigato, pesantemente” precisò “Ho
detto
delle cose orribili. Quando sono sceso da camera mia, l’ho
trovato riverso a
terra”.
“Perché
non sei in ospedale?”.
“Non
ho potuto” mormorò “La mia sola presenza
gli
darebbe il colpo di grazia”.
“Sei
suo figlio, Damon” gli ricordai, stringendogli
la mano.
Lui
non si sottrasse al mio tocco, ma replicò con
una nota di panico “Mi odia, mi ha sempre odiato. Adesso
l’ho quasi mandato
nella tomba, come pensi che mi accoglierà? Gli ho detto che
avrei volentieri
scambiato la sua vita con quella di mamma. Le mie parole hanno lacerato
quello
che era rimasto del suo cuore”.
“Non
incolpare te stesso, non darti pena. È la tua
famiglia. Il tuo posto è là con loro, con Stefan.
Dovete stare uniti adesso”.
“L’ho
accusato per anni di essere stato la causa
della morte di nostra madre. E adesso ho mandato il nostro unico
genitore in
ospedale. Mi detesterà, mi disprezzerà”.
“Stefan
ti adora” lo corressi.
“Gli
ho reso l’esistenza un inferno. Come si può
voler bene a uno come me?”.
Quella
domanda mi gelò come una fredda mattina
d’inverno. Per poco faticai perfino io a respirare, colta da
un’opprimente
malinconia.
Gli
lasciai la mano e mi sedetti sul letto. Lo
abbracciai, cingendolo delicatamente per paura che sfuggisse al mio
conforto. Non
si oppose. Nascose il volto nei miei capelli e si schiacciò
contro di me, come se
avesse paura che qualcosa mi portasse via da lui.
“Non
è difficile volerti bene” lo rassicurai
“Stefan è tuo fratello e non potrebbe sopportare
che voi foste divisi per
sempre. Ti vuole bene più di chiunque altro al
mondo”.
“Allora
perché mi abbandonano tutti?”.
“Nessuno
ti ha abbandonato. Siamo qui per te”
esitai un attimo prima di concludere la frase “Io sono
qui per te e
starò qui finché non ti convincerò a
seguirmi in ospedale”.
“Rimaniamo
qui ancora per un po’, per favore” mi
supplicò “Soltanto qualche altro minuto. Non ho la
forza di muovermi”.
“Damon”
lo chiamai con un soffio di voce.
“Ho
paura di lasciare questo letto, ho paura che
farò ancora del male a qualcuno”.
“Ti
prometto che andrà tutto bene” gli disse
all’orecchio “Non sei da solo. Senti, vero? Di non
essere da solo?”.
Annuì
debolmente “Hai detto che Stefan è già
in
ospedale”.
Glielo
confermai.
“Che
cosa ci fai qui? Non dovresti essere con
lui?”.
“Ti
dispiace
che io sia qui con te?”.
“No”
ammise, dopo una lunga pausa.
“Immagino
che il resto non abbia importanza,
allora” supposi.
Non
parlammo più, non indagammo oltre.
Restammo
abbracciati e stretti a lungo, aggrappati
uno all’altro, non solo in senso fisico.
Non
seppi dire quando Damon finalmente si decise a
lasciare quel letto. Seppi solo che non lasciò mai la mia
mano.
Il
mio spazio:
Ultimamente
mi trovo ad aggiornare a orari
improponibile. Ma è ora o mai più.
Questo
capitolo è stato parecchio complicato da
scrivere, ci sono state un paio di scene che non sapevo bene come
affrontare.
Spero
di non aver toppato in pieno, spero di essere
rimasta comunque delicata su certi argomenti.
Per
sollevarvi il morale, ho un’ottima notizia.
Pronte??
Oddio, magari qualcuna di voi lo sa già!
Lisa
Jane Smith continuerà la sua versione del “Diario
del vampiro”. Pubblicherà sotto forma di fan
fiction grazie a un’iniziativa di
Amazon. Vi lascio qui sotto il link del suo sito ufficiale:
http://www.ljanesmith.net/
E
sì, Bonnie avrà un ruolo più centrale
e sì, Damon
non perderà il suo interesse per lei come nei libri della
ghost writer.
Il
banner è sempre di Bumbuni.
Ora
vi saluto, sono stanca morta!
Non
dimenticate di lasciarmi i vostri pareri. Adoro
sentire le vostre opinioni e discuterne con voi. Vi ringrazio
tantissimo!
Buona
notte, care!
*I
SAT sono dei test che i ragazzi dell’ultimo anno
svolgono per accedere ai college statunitensi. Mi sa, tra
l’altro, che le
domande d’iscrizione devono essere mandare entro gennaio o
forse anche prima. Qui
siamo un po’ in ritardo, ma prendetela come una licenzia
poetica.
Ps:
domani giuro che rispondo alle vostre recensioni ;)
|
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Capitolo 21 *** Family business ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventuno: Family business.
“Five hundred twenty-five
thousand six hundred minutes
Five hundred twenty-five thousand moments so dear
Five hundred twenty-five thousand six hundred minutes
How do you measure, measure a year?
In
daylights, in sunsets
In mid nights, in cups of coffee
In inches, in miles, in laughter, in strife
In five hundred twenty-five thousand six hundred minutes
How do you measure a year in the life?
How
about love?”
(Season
of love- da “Rent”).
Così
entrammo
in ospedale. Con le mani ancora intrecciate.
Ero
un po’
più indietro: non gli lasciavo la mano ma non osavo nemmeno
affiancarlo.
Sapevo
quanto
fosse difficile per lui varcare quei corridoi. Non bastava la
preoccupazione
per le condizioni di suo padre a tormentarlo, si aggiungeva anche la
paura di
essere rifiutato, accusato, disprezzato.
La
sua
andatura era incerta, i suoi occhi vulnerabili trasmettevano un
qualcosa
d’infantile: come un bambino che sa di aver combinato un
guaio e comunque
ostinatamente sente il bisogno di cercare la mamma.
Me
ne stavo
in posizione defilata per non impormi sul suo animo già di
per sé molto
volubile. Rimanendo indietro, lasciavo a lui la scelta, gli permettevo
di
credere che fosse lui il padrone della situazione, che avrebbe potuto
in
qualsiasi momento cambiare idea, prendersi il suo tempo.
Non
aveva
parlato durante il tragitto in macchina. Aveva guidato in maniera
estremamente
lucida, quasi fredda, senza frenate brusche, o strappi al semaforo.
Una
condotta
calma e attenta, che mi aveva quasi indotto a credere che Damon, dopo
il suo
sfogo, si fosse nuovamente rinchiuso in se stesso.
Quella
era la
peggiore delle mie paure, perché un atteggiamento simile, in
una tale
situazione, lo avrebbe distrutto.
D’altra
parte
consideravo già un miracolo che avesse pianto di fronte a
me, che mi avesse
confidato i suoi sensi di colpa e rimorsi. Forse si era trattato solo
di un
momento, forse aveva solo ceduto alla debolezza.
E
adesso
poteva finalmente tornare a indossare la maschera.
Non
lo
biasimavo, comunque: non so che cosa avrei fatto se fosse successo
qualcosa di
grave a mio padre, men che meno se ne fossi stata la causa.
Era
comprensibile che Damon credesse di avergli provocato
l’infarto. Da ciò che mi
aveva raccontato, la lite era stata furibonda.
La
rabbia
aveva dettato quelle parole velenose, ma la giustificazione non rendeva
meno
amara o tragica la situazione.
Se
Giuseppe
non si fosse rimesso, Damon sarebbe colato a picco con lui.
Gli
strinsi
la mano più forte mentre entravamo in ascensore, per
infondergli un po’ di
coraggio, e lo osservai. Ma lui non ricambiò il mio sguardo,
continuando a
fissare dritto davanti a sé.
Mi
morsi il
labbro, un improvviso disagio mi colse, al ricordo delle parole di
Damon su suo
padre e Stefan: aveva riconosciuto i suoi sbagli, in una sorta di
confessione
liberatoria.
Lo
avevo
ascoltato in silenzio. Più lui parlava, più mi
rendevo conto che avrei dovuto
puntare verso me stessa un grosso dito di accusa.
Non
che Damon
si fosse mai comportato da santo, ma stupidamente non mi ero mai
sforzata di
guardare oltre. Stupido e ignorante, così lo reputavo.
Avevo
lasciato che m’ingannasse, senza mai accorgermi della
montatura che aveva
architettato nel corso degli anni, tanto da renderla la sua
verità.
Damon
non si
era pentito di aver trattato come uno sconosciuto suo fratello, mq se
ne
vergognava. Il suo orgoglio gli aveva sempre impedito di provare a
cambiare e
l’imbarazzo lo avevo convinto a non svelare mai se stesso.
Non
credeva
che qualcuno lo avrebbe mai perdonato, forse perché a ruoli
invertiti lui
avrebbe serbato rancore per sempre, o forse perché per primo
non si era ancora
perdonato.
Ed
eccomi lì,
chiusa in un ascensore con quello che avevo sempre considerato il mio
peggior
nemico, a provare un immenso dispiacere per lui.
E
a darmi
della stupida, cosa ancor più grave.
Volevo
spezzare quell’opprimente silenzio, ma non osai. Mi sembrava
di tenere per mano
una bomba pronta a esplodere e non un essere umano.
Adesso
ero io
a provare vergogna. Poche persone si sarebbero fatte i miei stessi
scrupoli,
quasi nessuno si sarebbe tormentato come stavo facendo io.
Sentivo
di
aver contribuito ad aggravare in peso che stanziava sulle spalle di
Damon, di certo
non mi ero mai preoccupata di alleggerirlo.
Parlare
mi
appariva inopportuno e quasi non avevo il coraggio.
Desideravo
con tutto il cuore rassicurarlo, ma qualsiasi modo mi sembrava
inadeguato.
Potevo
fare
ben poco, qualunque mio tentativo non sarebbe servito a nulla.
Damon
aveva
bisogno di una sola cosa: la sua famiglia.
Aveva
bisogno
di essere abbracciato, di essere accolto. Solo Stefan e Giuseppe
potevano
donargli un po’ di pace. Solo loro potevano finalmente farlo
sentire davvero
amato.
Non
mi esprimevo
su Giuseppe, ma avevo piena fiducia in Stefan: ero certa che non
l’avrebbe mai
abbandonato.
Damon
chiaramente non riusciva proprio a sperare che qualcuno lo accettasse,
nonostante i suoi errori.
Nessuno
di
noi si era mai impegnato, e neppure interessato, a conoscerlo
veramente. Solo
Elena lo aveva sempre difeso, inutilmente. Immagino che per Damon fosse
in ogni
caso una magra consolazione, dato che lei aveva scelto Stefan.
Lanciai
ancora una veloce occhiata nella sua direzione: aveva la mascella
contratta e
le labbra tirate. Sospettavo che stringesse la mia mano solo per non
prendere a
pugni le pareti dell’ascensore che sembrava proprio non voler
affrettare la sua
salita.
Mossi
le
dita, sfilandole leggermente dalla sua presa. Non era obbligato a
tenermi la
mano, gli stavo dando una via d’uscita.
Ma
lui mi
riagguantò prima che potessi defilarmi del tutto. Mi fece un
po’ male, impresse
troppa pressione. Rimasi in silenzio e sopportai.
Aveva
bisogno
di percepire del contatto umano.
Mi
domandai
da quanto non ricevesse un abbraccio. Probabilmente da molto tempo.
Probabilmente neanche conosceva il vero significato di un abbraccio:
aveva
scelto una vita in solitudine, lontano dal calore di una vera famiglia.
Aveva
perso
la mamma da piccolo, ma non poteva neppure dire di aver calmato la
mancanza con
l’affetto di un fratello o di un padre.
Colpa
in
parte sua, senza dubbio. In quella circostanza così
drammatica, però, veniva
spontaneo chiedersi: e se avessi agito diversamente?
Se
invece di
ripetere a Stefan che suo fratello era ovviamente un demone degno del
suo nome,
lo avessi incitato a stargli vicino?
Ero
stata
cieca a ritenere che Damon non lo volesse e adesso avevo
l’impressione di stare
accanto a una persona decisamente migliore. Migliore di ciò
che avevo creduto,
migliore di ciò che aveva mostrato.
Quando,
finalmente, le porte dell’ascensore si aprirono, Damon
camminò deciso verso il
corridoio di terapia intensiva.
Ne
rimasi
stupita, dato che fino a un istante prima mi aspettavo di vederlo
correre nella
direzione opposta. Gli stavo dietro un po’ a fatica e un paio
di volte rischiai
di pestargli i piedi. Aprii la bocca per dirgli di rallentare o di
mollarmi,
quando girammo l’angolo, trovandosi davanti a Elena e Stefan,
seduti uno di
fianco all’altra.
“Damon!”
esclamò Stefan saltando in piedi
“Io…sai, temevo che…ti ho chiamato
più volte,
non sapevo se…”.
Fu
in quel
momento che lasciò la mia mano per posarla sulla spalla di
Stefan “Sono qui”.
Il
mio
migliore amico nemmeno si era accorto che eravamo entrati mano nella
mano. I
suoi occhi erano lucidi e tristi, ma nel vedere il fratello si erano
accesi
nuovamente.
A
Elena
invece non era sfuggito quel particolare e mi studiava con fronte
corrugata.
Non
fare quella faccia. Sono più
sorpresa io di te.
Passarono
pochi minuti e sopraggiunse anche mio padre con una cartella tra le
mani.
“Sono
felice
di vederti, ragazzo mio” disse “Mi hanno chiamato
dalla segreteria
dell’ingresso per avvisarmi che eri arrivato”
continuò. I suoi occhi guizzarono
su di me “Gattina, non sapevo che ci fossi anche
tu”.
“Era
con
Damon, signor McCullough. Sono venuti insieme”
spiegò Elena con un tono un po’
forzato, come se volesse sottintendere qualcosa.
Per
caso
aveva cominciato a fare comunella con mio padre?
“Come
sta?”
chiese Damon, ignorando completamente e saggiamente la questione del ‘Si
sono presentati assieme’.
“Ha
avuto un
piccolo infarto. Non ti mentirò dicendoti che non
è grave. È una cosa seria,
dovremo tenerlo qui per qualche giorno, ma è fuori pericolo
di vita: tra una
settimana tornerà a essere il solito brontolone”.
“Possiamo
vederlo?” disse
Stefan.
“Ora
sta
dormendo” spiegò mio padre “Fareste
meglio a tornare a casa e riposare. Vi
chiamerò non appena di sveglierà”.
“No”
obiettò
Stefan “Io resto qui”.
“Possiamo
vederlo?” ripeté la domanda Damon.
Papà
annuì e
fece cenno con il capo di seguirlo.
Stefan
si
voltò verso Elena e l’abbracciò
“Non c’è bisogno che resti qui. Domani
abbiamo
scuola, va’ a dormire” le consigliò
dolcemente.
“Non
mi va di
lasciarti solo” si oppose lei.
“Non
sono
solo” la rassicurò “Va’ a
casa. Andate tutte e due” aggiunse e abbracciò
anche
me “Grazie per averlo convinto a venire” mi
sussurrò all’orecchio.
Gli
sorrisi
distrattamente. La mia attenzione era tutta concentrata su suo
fratello: Damon
non disse una parola, si affrettò solo a seguire mio padre.
Cercai
di
nascondere la delusione per essere stata liquidata senza nemmeno un
ringraziamento o un saluto.
Non
ebbi il
tempo di elaborare bene ciò che era successo,
perché Elena mi prese sotto braccio
e mi trascinò verso l’uscita.
“Credo
che
dovrei stare qui ancora un po’, aspettare mio
padre” obiettai, guardandomi
indietro “Non ho la macchina…”.
“Ti
porto a
casa io” rispose Elena, tirando dritto.
“Preferirei
non sparire così” provai a ribattere, debolmente.
“Hanno
bisogno
di rimanere da soli, Bonnie” replicò lei
“È una questione di famiglia”.
“Ma…Elena,
non possiamo mollarli lì così”.
“Hai
sentito
che cosa ha detto Stefan, giusto?” insistette
“È un momento delicato e non
sarebbe giusto intrometterci. Entrambi sanno che noi siamo qui per
loro, ma non
ci hanno chiesto di rimanere. La nostra presenza non serve”.
Ammisi
che
aveva ragione. Né Damon né Stefan avevano dato
segno di aver bisogno del nostro
sostegno, non ora che erano finalmente insieme.
Restare
sarebbe stata solo un’imposizione. Non potevo rovinare
l’unica occasione che
avevano per parlarsi apertamente e sinceramente.
Non
sapevo
nemmeno spiegare perché mi fossi intestardita fino a quel
punto. Avevo già
fatto tanto, avevo portato Damon in ospedale, gli avevo dato la forza
di
affrontare una delle sue più grandi paure. Stefan se
n’era accorto, mi aveva
ringraziato.
Eppure
non mi
sembrava abbastanza.
“Sali
in
auto, Bon” m’incitò Elena
“È giunta l’ora, per te e per me, di
fare una bella
chiacchierata. E non mi scappi questa volta” concluse,
chiudendo le sicure
della vettura.
“Riguardo
cosa?”.
“Non
fare la
finta tonta” mi rimproverò “Damon non si
fa trovare per ore e poi compare con
te a fianco? Mano nella mano per giunta”.
“Beh,
la
situazione era seria. Mi sembrava educato…si fanno certe
cose in casi del
genere, no?”.
“Bonnie
McCullough, provi qualcosa per Damon?”.
O
lei era
impazzita oppure io avevo le allucinazioni.
Liberai
una
risatina imbarazzata “Non dire stupidaggini. Come ti
è venuto in mente?”.
“Che
cosa ci
facevi con Damon?” proseguì il suo interrogatorio.
“Frena
l’immaginazione, Elena” la stroncai “Dopo
aver ricevuto la telefonata di mio
padre, mi sono accorta che la luce della camera di Damon era accesa.
Sai com’è
fatto: non appena accade qualcosa di brutto, come minimo dà
di matto. Ero
preoccupata che stesse spaccando tutta casa o qualcosa del genere.
L’ho trovato
nella sua stanza, disperato. Allora sono rimasta con lui”.
“Un
mese fa
non saresti entrata in quella camera neanche con un fucile puntato alla
schiena”
osservò Elena, scettica.
“Questo
non è
vero!” m’indignai “Io non sono
un’insensibile. Non potrei mai gioire delle
disgrazie di qualcun altro”.
“Non
ho detto
che ne avresti gioito, ho detto che non l’avresti
aiutato”.
“Altra
cosa
falsa: non ho mai sbattuto la porta in faccia a Damon quando ha avuto
bisogno”.
“E
ultimamente è successo spesso, vero?”
insinuò.
Ignorai
il
suo ultimo commento. Cercai di smorzare l’argomento, cercai
di attribuirgli
poca importante, perché chiunque avrebbe agito come me.
“Senti,
mi
sarei comportata ugualmente se al posto di Damon ci fosse stata tua
sorella, va
bene? Non vedere cose che non ci sono”.
Parve
finalmente arrendersi e riportò la sua attenzione sulla
strada, tacendo per un
paio di minuti.
Pensavo
davvero di aver scampato la ramanzina, almeno per quella sera. Mi
sbagliavo, mi
sbagliavo di grosso.
“Sono
quasi
offesa, Bonnie” mi disse seriamente “Credevo di
essere la tua migliore amica”.
E
adesso che
cosa c’entrava?
“Lo
sei”
risposi con ovvietà.
“Evidentemente
non ti fidi abbastanza o te ne vergogni e non so quale sia
peggio”.
“Sto
facendo
fatica a starti dietro” ammisi, senza avere la più
pallida idea di che cosa
stesse parlando.
“Avrei
preferito che me lo confidassi tu, non qualcun altro”.
Probabilmente
si accorse del mio sguardo vacuo e della mia totale confusione
sull’oggetto
della discussione. Ci mise un secondo a chiarire “Intendo
quello che è successo
durante il concorso di Miss Fell’s Church”.
Ben
decisa a
non farmi ingannare com’era capitato con Caroline e Meredith,
pronunciai subito
il nome di Matt, pronta a raccontare le ragione della nostra rottura.
Elena
mi
bloccò ancor prima che io potessi terminare la prima frase.
“Scusa
per la
brutalità ma non m’interessa di Matt.
M’importa molto di più del ballo tra te e
Damon, del vostro quasi bacio. Oppure vogliamo discutere di quando vi
siete effettivamente
baciati, anche se da quanto mi è parso di capire tu non eri
molto collaborativa
in quel frangente”.
Mi
sentii
come se tutto il sangue nelle mie vene si fosse congelato. Altri
paragoni
particolarmente azzeccati e altrettanto banali erano: come se mi
avessero tolto
la terra da sotto i piedi o come se il mondo mi fosse crollato addosso.
Comunque
l’avessi messi, il concetto rimaneva lo stesso: paralizzata,
sbigottita, intontita
e tremendamente spiazzata.
“Elena”
mormorai con un fil di voce “Tu come sai queste
cose?”.
“Me
le ha
dette Damon”.
Perfetto,
ora
avvertivo anche un principio di svenimento.
Forse
allontanarsi dall’ospedale non era stata una grande idea.
“Era
un modo
per farti ingelosire?” mi scandalizzai “Mi stava
prendendo in giro? Sicuramente
si sarà vantato di come sono caduta ai suoi piedi. Quel
pallone gonfiato…”.
Elena
scosse
la testa e sbuffò “Santo Cielo, è
peggio di quanto pensassi”.
“Non
fidarti
di quel presuntuoso. Scommetto che ogni sua parola è una
bugia”.
“Bonnie”
disse il mio nome con estrema lentezza “Il suo racconto
è stato piuttosto
dettagliato, non ha lasciato nulla sottinteso e…come dirtelo
senza sconvolgerti
troppo?”.
“Ho
già
capito tutto, tranquilla. Quando suo padre si
riprenderà…”.
“È
cotto di
te” sparò a bruciapelo.
Mi
ammutolii,
frastornata “Cosa?”.
“Damon
è
cotto di te” ribadì il concetto
“Chiaramente non ha usato queste parole,
ma…insomma, ce l’aveva scritto in
faccia”.
“Scusami
Elena, ma com’è diamine saltato fuori questo
discorso?”.
“Mi
ha
chiamato lui, voleva dei consigli. Ti posso assicurare che è
ben consapevole
della repulsione che hai nei suoi confronti: non si è
inventato niente Bon, ha
ammesso che il suo pluri-provato fascino da playboy con te non
funziona”.
“È
solo una
fase” sminuii io “Katherine l’ha piantato
e si è attaccato alla prima ragazza
sotto mano. Non è cotto di me, è annoiato e
single. Probabilmente lo intriga
solo il fatto che io sia la prima a non cedere alle sue
lusinghe”.
“Wow,
non
mostrare troppo la buona opinione che hai di lui, mi
raccomando” mi rimproverò
con evidente ironia.
“Damon
non è
mai stato buono con me. La mia diffidenza è totalmente
giustificata” replicai
con un mezzo cipiglio.
“Ti
è venuto
a riprendere nel bosco. Ti ha portato a casa quando ti sei ubriacata
alla festa
di Tyler. Ha impedito che le voci su tua madre si spargessero per la
città dopo
che Katherine l’ha urlato ai quattro venti. Onestamente, mi
sembra che stia
cercando di rimediare ai suoi errori in maniera egregia”.
“Ti
ha
raccontato lui queste cose?” domandai.
“Sì.
Sono
forse false?”.
“No”
disse
subito. La curiosità mi stava divorando “E che
cos’altro ti ha detto?”.
“Ha
ammesso
particolari interessanti. È stata una sorpresa sentirli
dalla bocca di Damon.
Ha cominciato con la vostra gita ad Atlanta, la prima volta in cui si
è accorto
di trovarsi davvero bene con te. Ha detto di aver rovinato tutto
baciandoti e
che si è preso uno schiaffo. Poi ha parlato del rapporto tra
te e Klaus, e di
come l’ha messo in crisi, specialmente quando vi ha visti
insieme a Capodanno.
Quello è stato un grande campanello d’allarme,
perché lui stava con mia sorella
e non avrebbe dovuto sentirsi geloso di qualcun’altra. Quando
ha scoperto il
doppiogioco di Katherine è rimasto più ferito
nell’orgoglio che nel cuore. In
effetti l’ha superata abbastanza bene e abbastanza in fretta
per essere Damon”
commentò con un sorriso compiaciuto “Alla fine mi
ha confessato di averti
sempre in testa e non sa come comportarsi perché non ha
speranze con te. Voleva
ascoltare il parere di qualcuno che ti conosce davvero”.
“E
tu che
cosa gli hai risposto?”.
“Che
quando
si tratta di te, l’arma migliore è la
sincerità. Tu conosci tutti i suoi
trucchetti con le ragazze, i suoi giochi mentali. Finché non
ti parlerà
onestamente, non gli crederai mai, anzi sarai convinta che ti sta solo
prendendo in giro come ha fatto con tutte le altre”.
Non
entrammo
nella stanza. Ci limitammo a osservarlo dalla vetrata.
Dormiva,
mentre una macchina monitorava la sua attività cardiaca.
Così quieto e inerme,
talmente diverso dall’uomo che avevo imparato a detestare e
in parte a temere.
Adesso
non
faceva più tanta paura, e suscitava più pena che
odio.
Una
persona
tanto potente e rispettata, ma in fondo sola, sola come un cane. Non
eravamo
poi tanto diversi, noi due.
Io
l’avevo
ridotto in quello stato così vulnerabile e avrei dato di
tutto per tornare
indietro e non perdere il controllo come invece avevo fatto.
La
solitudine, al contrario, era connaturata nel suo carattere.
Allontanare gli
affetti e chiudersi in se stesso era due delle sue più
sviluppate abilità.
Con
estremo
orrore, mi accorgevo di assomigliargli sempre di più.
Gettai
un’occhiata verso Stefan che se ne stava ritto accanto a me,
talmente
silenzioso che quasi potevo sentire i suoi pensieri.
Prima
o poi
doveva giungere il momento di parlare, ma onestamente non sapevo
nemmeno da
dove cominciare.
Non
dalle
scuse, poco ma sicuro. Non era mia abitudine scusarmi e mi serviva del tempo, molto tempo,
per elaborare l’idea.
D’altra
parte
non avevo altra scelta che raccontare a Stefan della nostra litigata.
Meglio
ascoltare la verità da me, piuttosto che da nostro padre.
Una
volta
sveglio, avrebbe puntato subito il dito contro di me. Io non avevo
alcuna
intenzione a passare per un vigliacco.
Guardai
ancora Stefan e per la prima volta in vita mia, avvertii
l’irrefrenabile
istinto di comportarmi da fratello maggiore, di proteggere il mio
fratellino.
Si
meritava
una famiglia migliore. Una famiglia che nonostante le liti, i
contrasti, si
volesse bene fino in fondo.
Stefan
non
aveva mai conosciuto niente che vi si avvicinasse.
Avevo
ricordi
sfocati del tempo passato con nostra madre, ma ero certo che fossero i
momenti
più felici della mia vita. Perfino mio padre
all’epoca poteva definirsi una
persona decente. Non troppo incline a dimostrazioni di affetto, ma
almeno
capace di donare un bacio sui capelli prima di andare a dormire.
Stefan,
purtroppo, era estraneo a tutto ciò. Non aveva mai percepito
il calore di un
abbraccio materno e non aveva neanche idea che nostro padre nascondesse
un lato
umano.
Un
lato che
aveva sepolto da anni, dimenticato e probabilmente cancellato.
Solo
allora,
guardandolo steso in quel letto di ospedale, mi ero ricordato di quel
lato, mi
ero ricordato che una volta ero solito chiamarlo papà e non
padre.
E
se lui
prima o poi si fosse ricordato che io ero suo figlio, e non soltanto
una
delusione vivente, forse avrei potuto perdonarlo.
Poco
importavano, però, i miei sentimenti, i miei buoni
propositi. Il problema non
ero io, erano loro, perché non mi avrebbe mai accettato.
Dopo
l’inferno che avevo fatto passare a Stefan, come potevo
credere di scamparla
dopo aver spedito nostro padre all’ospedale?
E
soprattutto
come potevo credere che suddetto padre non mi avrebbe disprezzato ancor
più di
quanto già non facesse?
Ero
una causa
persa. Senza più speranze di un riscatto.
Contemplai
l’idea di aspettare il suo risveglio e poi andarmene,
sfuggire ai suoi occhi
accusatori. Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza.
Ma
non ero un
codardo e rimasi lì ad affrontare le mie
responsabilità. E il mio compito
numero uno era badare a Stefan, non lasciarlo solo.
Così
finalmente mi decisi a rompere il ghiaccio e a inoltrarmi nella
conversazione
che più mi spaventava.
“Per
quanto
sei stato qui, da solo?” domandai. Mi sentii uno schifo per
averlo abbandonato
in un momento come quello.
“Quando
l’ospedale mi ha chiamato ero con Elena. Siamo venuti
insieme”.
Almeno
non
dovevo tenermi anche quel peso sulle spalle.
“Dov’eri
finito?” disse lui “Hanno detto che hai chiamato tu
l’ambulanza. Perché ci hai
messo così tanto ad arrivare?”.
“Ero
con lui”
spiegai “Cioè, non proprio con lui, ero a casa e
lui era lì. Mi serviva un
libro che avevo dimenticato in camera. Quando sono tornato in salotto,
l’ho
trovato steso a terra”.
“Non
capisco:
papà non ha mai avuto problemi di cuore, o almeno non ne ero
a conoscenza”
osservò Stefan, mesto.
“Se
avesse
avuto qualche problema non l’avrebbe certo comunicato a
me” fu la mia replica
“Ma, forse sotto una grave dose di stress e dopo un evento
particolarmente
provante…”.
“Evento
provante? Il massimo sport che faceva era giocare a golf”.
“Beh
sai…dopo
una furiosa litigata, un paio di battute al vetriolo e un
bell’augurio di morte
da parte del proprio figlio, non stento a credere che si sia quantomeno
alterato”.
Avevo
provato
a metterla giù in maniera ironica, ridicola. Ne era uscito
un disastro.
Tenni
gli
occhi dritti davanti a me, ma potevo sentire quelli di Stefan puntati
su di me,
forse nell’intento di fulminarmi “Che cosa intendi
per augurio di morte,
Damon?” insinuò, pronunciando il mio nome con una
nota più alta.
“Abbiamo
litigato come al solito. È incominciato con lui che mi
ordinava di presentarmi
tutte le domeniche per pranzo ed è finito con me che
esprimevo il mio forte
desiderio di essere orfano di padre e non di madre”.
Stefan
aprì
la bocca e la richiuse un paio di volte. Stava meditando se tirarmi un
pugno o
urlarmi addosso.
“Oh…Damon”
mormorò pallido come un cencio “È per
questo che sei sparito fino adesso”.
“Non
volevo
dargli il colpo di grazia”.
“Ti
sentivi
in colpa?” s’insospettì mio fratello.
“Ma
cosa…?”
sbuffai incredulo “Io? No…no”.
“Damon,
non
sei stato tu a mandare papà all’ospedale. Di
sicuro ha qualche problema
cardiaco, qualcosa di cui non ci ha parlato. E poi nostro padre ama
provocarti.
Non te ne faccio una colpa se sei esploso”.
Annuii,
un
po’ incerto. Non erano le parole che mi sarei aspettato.
“Tu
non lo
speri davvero?” continuò lui.
“Che
cosa?”.
“Che
papà
muoia. O che preferiresti avere qui mamma al posto suo”.
Temporeggiai.
Non esistevano modi per esprimere l’immenso amore che
tutt’ora provavo per mia
madre. Avrei dato qualsiasi cosa per riaverla con me, per passare
almeno
qualche minuto nel suo abbraccio.
Qualsiasi
cosa.
Ma
non la vita
di mio padre.
Non
ero un
mostro, non ero senza cuore, sebbene ci fosse molte persone pronte ad
affermare
il contrario. Non potevo contemplare uno scambio. Erano entrambi miei
genitori.
“No”
sospirai.
“Non
ti
torturare, Damon, non serve a niente. Tu sei il mio unico fratello, non
ti
accuserò”.
“È
carino che
tu mi consideri ancora tuo fratello, non è che mi sia mai
comportato come tale”
gli feci notare un po’ a disagio “So che questa non
è la famiglia che vorresti,
so di non essere proprio la persona più affabile del mondo,
ma se per caso uno
di questi giorni ti capita di passare al campus e per caso hai voglia
di
vedermi…beh, potrei anche essere libero per una
chiacchierata”.
Mai
nella
vita gli avrei detto esplicitamente “Ehi fratellino,
recuperiamo il nostro
rapporto”, ma il messaggio sembrava chiaro comunque.
“E
se per
caso ti capita di annoiarti, il mio numero non è
cambiato” mi rispose con un
mezzo sorriso che io ricambiai.
Non
ci fu
molto tempo per la nostra riconciliazione: alle nostre spalle una voce
proruppe
in un potente insulto, riferito a me stranamente.
“Brutto
bastardo che non sei altro!” ruggì Alaric
“Tuo padre finisce all’ospedale e tu
non ti degni nemmeno di fare una chiamata?”.
“Ric?”
domandai basito “Come l’hai saputo?”.
“L’ho
avvisato io” confessò Stefan “Credevo
avessi bisogno di un amico. Non avrei mai
immaginato che saresti arrivato mano nella mano con Bonnie”.
Allora
se n’era accorto.
“E
tu sei
venuto?” mi rivolsi nuovamente ad Alaric.
“Certo
che
sono venuto, razza di coglione. Per chi mi hai preso? Solo
perché sei una testa
di cazzo non significa che ti pianterei in asso in una situazione
simile”.
Borbottò
ancora un paio di volte la parola coglione e alle
fine mi tirò un pugno
sulla spalla come monito per occasioni future.
Alaric
era
stato il primo cui avevo pensato quando avevo visto mio padre portato
via in
barella. Non avevo osato avvertirlo, convinto che mai si sarebbe
presentato
dopo la nostra litigata. Ero abituato agli abbandoni facili.
Tutti
desideravano stare con me, essere miei amici, ma una volta sperimentato
il mio
carattere tremendamente egoista e sbruffone, svanivano più
in fretta della
luce.
Avevo
mal
giudicato Alaric e la cosa mi rincuorò. Fino a
un’ora prima, mi ero convinto di
aver toccato il fondo, ora c’era qualcuno che mi stava
aiutando ad alzarmi.
“Damon
guarda!” mi scosse Stefan, indicando la stanza attraverso il
vetro, per poi
affrettarsi a cercare un medico.
Nostro
padre
si era svegliato.
Venne
visitato
immediatamente. Mio fratello entrò per sentire i nuovi
sviluppi, io attesi
fuori con Alaric.
Non
passò
molto che Stefan mi raggiunse in corridoio. Non disse nulla, non
servì.
Sapevo
che
cosa mi aspettava: papà voleva me.
Non
tentennai, non questa volta. Era inutile rimandare. Se dovevo essere
diseredato, meglio togliersi il pensiero subito.
Giuseppe
era
steso sul letto, immobile, con gli occhi fissi davanti a sé.
Non mi guardò quando
entrai.
Rimasi
sulla
porta.
“Ho
sbagliato
tutto con te, ragazzo” alla fine si decise a parlare e
l’inizio non era dei
migliori “Ti ho sempre considerato una delusione, ma anche io
devo aver fallito
se sei arrivato a odiarmi così tanto”.
Quest’ultima
parte mi prese in contro piede. Che cosa potevo rispondere a un uomo
reduce da
un infarto. “No, non ti odio”.
Stupido,
banale. Vero, ma comunque poco convincente.
“Oh
sì
invece” replicò
mio padre tirando un
sorriso “Sei sempre stato difficile da gestire: hai ereditato
la testa dura di
tua madre, e il mio dannato orgoglio. Non siamo tanto dissimili io e
te, per
quanto non ti possa piacere questo fatto: noi non parliamo di
sentimenti, non
mostriamo emozioni o dolcezza o sensibilità. Tua madre era
molto più brava di
me in queste cose, conosceva l’affetto,
il calore”.
“Era
abbastanza fantastica” concordai.
“Sì,
lo era”
annuì “Suppongo di non essere stato un
bell’esempio. Ti ho in qualche modo
rovinato. Un carattere ribelle come il tuo avrebbe avuto bisogno di
qualcuno
molto diverso da me. Tua madre sarebbe stata un modello migliore e
forse hai
ragione, forse uno scambio avrebbe reso tu e tuo fratello molto
più felici”.
“Ero
arrabbiato” mi giustificai.
“Non
significa che non lo pensassi e non ti biasimo”.
Mi
accorsi
davvero che io e mio padre eravamo più simili di quanto
avrei mai potuto
immaginare: quelle erano le sue scuse e io le capivo benissimo, non
avevo
bisogno d’altro. Comprendevo la sua difficoltà ad
ammettere gli sbagli, e ancor
più la reticenza a svelare una parte di se stesso. Giuseppe
non era il tipo da
lasciarsi andare ai sentimentalismi, io neppure.
Non
pretendevo né lacrime né parole piene di rimorso
o dramma. Ciò che aveva detto
era sufficiente.
“Che
cosa
hanno detto i dottori per il tuo cuore?”.
“Dovrò
rimanere qui qualche giorno in osservazione. Hanno scoperto un piccolo
problema, ma non è molto grave. Andrò avanti
tutta la vita a prendere medicine”
mi spiegò “Beh, mi aspettavo di peggio”.
“Resterai
in
giro ancora per un po’, quindi” conclusi.
“Temo
che non
ti sarà così facile liberarti di me”.
“Bene,
allora
magari c’è tempo per organizzare uno di quei
pranzi domenicali di cui mi parlavi”
sogghignai.
Io
e Stefan
passammo in ospedale la notte, con papà. La nostra non fu
una conversazione
particolarmente lunga. Giuseppe si addormentò dopo poco e
noi vegliammo su di
lui finché il sonno non ci colse.
Mi
svegliai
intorno alle otto. In quella stanza dormivano ancora tutti. Mi alzai
dalla
poltrona su cui mi ero appisolato e uscii in corridoio per sgranchirmi
le
gambe.
Alaric
era
tornato a casa la sera prima, per cui non mi aspettavo di trovare
qualcuno
sulle sedie delle sala di attesa.
“Bonnie?”.
Lei
mi
sorrise “Ho portato la colazione” disse indicando
il sacchetto di Starbucks
posato sulle sue ginocchia.
Mi
sedetti
accanto a lei “Grazie”.
Prima
che
potessi aggiungere o fare qualcosa, Bonnie intrecciò le sue
dita con le mie e
mi strinse la mano.
“Così
va
meglio” borbottò a bassa voce.
Ghignai,
prendendo con l’altra mano una tazza di caffè.
Sì,
così andava decisamente
meglio.
Il
mio spazio:
Ho
finito gli
esami e ho finito il capitolo.
Scusate
per i
continui ritardi ma ultimamente sono un po’ impegnata.
Sappiate comunque che
non ho intenzione di abbandonare questa storia.
Non
manca
moltissimo al termine, non so di preciso quanti capitoli ma forse
dovrei
terminarla prima dell’estate (contando i miei tempi un
po’ lunghi).
Che
ne dite? Trovate
che sia un capitolo troppo melenso?
Ho
cercato di
non esagerare con i sentimentalismi perché mi sembravano
fuori dal personaggio,
sia di Damon sia di Giuseppe.
Elena
versione cupido? Vi piace?
Le
cose dal
prossimo capitolo cambieranno: Bonnie forse finalmente si è
convinta.
Qualcuna
di
voi ha per caso letto i libri della Smith di cui vi avevo parlato su
Amazon. Io
non ho fatto in tempo ma ho sentito voci sul fatto che siano
disponibili sono
per gli utenti statunitensi. Sapete se è vero?
Grazie
tantissimo per i vostri commenti! E preferiti/ricordati/seguiti, anche
le
letture aumentano sempre più!!
A
presto(spero)!
Un
bacione,
Fran;)
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Capitolo 22 *** Game on ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventidue: Game on
“You
had a hold on me right from the start
A grip so tight I couldn't tear it apart
My nerves all jumping acting like a fool
Well, your kisses they burn
But my heart stays cool
Fire! Oh kisses like fire
Love what you're doing now
Fire, touching me
Fire, touching me, burning me”
(Fire- Bruce Springsteen)
Non
mi ero
mai ritenuta una persona particolarmente agitata.
Certo
non
avevo la sicurezza di Elena, la compostezza di Meredith o il controllo
maniacale di Caroline, ma non avevo neppure mai dato di matto per
l’isteria.
A
una
settimana dalla scadenza per la consegna delle iscrizioni
dell’università,
fissavo ancora quel cavolo di foglio bianco senza avere la minima idea
di che
cosa scrivere. Cominciavo sì a mostrare i primi segni di
cedimento:
irritabilità e sbalzi d’umore.
Avevo
sgridato mio padre per aver cotto la carne più da un lato
che dall’altro,
litigato con mia sorella per essere arrivata tardi alla cena di
famiglia.
Evitavo
le
mie amiche come la peste perché non volevo sentire dei loro
progetti futuri.
Avevo perfino impedito a Stefan di studiare con me per via del suono
della sua
voce che disturbava la mia concentrazione.
Ero
diventata
acida, tendenzialmente sgradevole, difficile da sopportare.
Se
non avessi
subito risolto la situazione, mio padre avrebbe capito che qualcosa non
andava,
che gli avevo mentito per mesi.
Che
disastro
di figlia!
Avevo
molti
interessi, ma nessuno mi sembrava abbastanza stimolante per una
carriera
universitaria.
Materie
scientifiche assolutamente da escludere, ero una frana.
Questo
stringeva di poco il campo.
Guardai
per
l’ennesima volta gli opuscoli sparsi sul mio letto. Molti
riportavano proposte
allettanti e non c’era un numero massimo di iscrizioni:
potevo mandare le
domande a tutti i college che desideravo. Puntare sulla
quantità mi dava una
mezza garanzia che da qualche parte mi avrebbe accettato.
D’altro
canto, si trattava di università valide e selettive. I loro
requisisti
spaziavano anche nel campo delle attività extracurricolari e
io non ne avevo
praticamente nessuna. Ormai era troppo tardi per rimediare.
In
definitiva, da una parte ero davvero confusa su ciò che
aspettavo dal mio
futuro, dall’altra temevo fortemente di venire rifiutata.
C’era
pur
sempre Dalcrest. Un campus sì buono, ma non troppo rigido.
Dalcrest,
però, era molto vicino a Fell’s Church.
L’idea
di
rimanere bloccata nella mia piccola città mi nauseava.
A
modo mio
l’amavo: era il luogo dov’ero cresciuta, dove
viveva la mia famiglia, dove
avevo trovato amici e affetti, ma non potevo credere che la mia vita
potesse
riassumersi, iniziare e finire qui.
I
miei amici
avevano grandi progetti, grandi ambizioni, nessuno di loro sarebbe
rimasto a
Fell’s Church. E io? Potevo essere l’unica a
rimanere indietro?
Non
riuscivo
nemmeno a concepirlo, figuriamoci accettarlo.
Pretendevo
di
più dalla mia vita, da me stessa. Dovevo costruirmi delle
aspettative.
Ero
cambiata
così tanto in quei pochi mesi e non potevo rovinarmi con le
mie mani.
Un
passo in
più, mi serviva solo un passetto per completare il mio
percorso.
Stavo
crescendo, stavo maturando. La sicurezza aumentava di giorno in giorno,
la mia
autostima, prima ammaccata e fragile, ora si faceva sentire con forza.
Non
arretravo, non mi spaventavo, non mi nascondevo.
Ma
senza un
piano per il futuro erano solo parole a vuoto e gesti inutili.
Avevo
impiegato tanta energia per uscire dal mio guscio e adesso mi ritrovavo
indecisa proprio sulla cosa più importante.
Potevo
già
immaginarmi la delusione e la rabbia di mio padre, la compassione di
mia
sorella e la pietà di tutti gli altri.
Povera,
piccola Bonnie.
L’università è un compito troppo
difficile, una responsabilità troppo pesante
da portare sulle spalle.
Povera
Bonnie
un cavolo.
Non
ero un
uccellino ferito come a tanti piaceva pensare. Non ero una ragazzina da
compatire, né tanto meno da biasimare.
Avevo
superato l’abbandono di mia madre, avevo superato il suo
tradimento, cosa che
avrebbe lasciato la maggior parte delle mie coetanee nella confusione
più
assoluta. Non per questo avevo indossato la maschera della vittima, non
avevo
chiesto comprensione o favoritismi. Mi ero sempre comportata da brava
ragazza,
nessuna botta di testa, nessuna voglia di ribellione.
Mi
ero
rialzata, anche se a fatica. La ferita era sempre lì e a
volte bruciava, eppure
non le avevo mai permesso di condizionare la mia vita.
Non
aveva
senso buttare via il duro lavoro proprio adesso, a un soffio dal
traguardo.
Presi
quei
cataloghi, accessi il computer e mi armai di santa pazienza.
Iniziai
a
concentrarmi sui lavori che mi sarebbe piaciuto svolgere, poi pensai
alle
facoltà più adatte per quella formazione.
Restrinsi la cerchia e valutai le
università che offrivano i programmi migliori.
Ritornai
sui
moduli e cominciai a compilarli. Ne stampai altri, inerenti ai college
che
avevo selezionato. Non
avevo intenzioni
d spedirli tutti, di alcuni non ero neppure sicura, ma almeno potevo
avere
ampia scelta prima della decisione finale.
Un
paio di
ore dopo avevo quasi finito. Mancava solo una cosa: la lettera di
presentazione.
Non
tutte le
università la richiedevano; un paio di quelle che avevo
visto sì.
Non
era solo
una questione di dati anagrafici, bisognava convincere di essere la
miglior
candidata per quell’università. Non era
assolutamente scontato come passaggio.
Come
potevo
raccontare di me senza sembrava ordinaria, una delle tante? Per
tantissimo
tempo gli occhi di Fell’s Church mi avevano relegato al ruolo
della secondo
scelta.
Adesso
dovevo
spiccare.
Ma
dopo
qualche minuto, capii che non sarei riuscita a scrivete niente, non in
quel
momento.
Mancava
ancora un po’ all’ora di cena, avevo tempo per
uscire, pensare in tranquillità.
Non sopportavo più le mura della mia camera.
Avvisai
mio
padre, che in cucina già stava preparando da mangiare, e
scattai fuori dalla
porta prima che potesse obiettare.
La
strada, e
scoprii poi tutto il quartieri, era tremendamente silenziosa: tutti in
casa ad
attendere la cena.
Io
ero l’unica
fuori, come una stupida a riflettere sui massimi valori della vita.
Forse
non
proprio i massimi valori in assoluto, ben lungi da voler apparire come
la
filosofa dei poveri. Di certo non avrei risolto i problemi del mondo in
quella
mezz’ora, mi accontentavo di trovare una soluzione ai miei.
I
minuti
passavano e la situazione non migliorava. Qualunque cosa mi venisse in
mente,
mi sembrava scontata e noiosa.
Io
non ero una
scrittrice, non ci sapevo fare con le parole.
Mi
resi conto
di essere una completa imbranata: solo io potevo mancare
l’obiettivo per
carenza di iniziativa.
Che
diamine
aveva d’interessante da scrivere una ragazzina che aveva
sempre vissuto in un paesino
di provincia, che cosa avevo imparato di tanto sorprendente da stupire
la
commissione di accettazione?
Fu
al piccolo
parco giochi del quartiere che avvertii finalmente un po’ di
tranquillità. Quel
posto mi aveva sempre ispirato un gran senso di calore.
Quando
eravamo piccoli io e Stefan andavano sempre lì a giocare. A
volte ci portavano
i nostri genitori, a volte scappavamo dai nostri giardini per trovarci
lì. Ai
tempi ci sembrava una grossa trasgressione, ci faceva sentire grandi,
capaci di
conquistare il mondo.
Mi
piaceva
quella sensazione (che non era sparita nemmeno dopo che mia madre se
n’era
andata) mi piaceva credere che avrei potuto fare qualsiasi cosa.
Mi
resi conto
con compiacimento di aver speso la maggior parte della mia vita a
essere una
sognatrice e constatai con rammarico che quel lato di me era purtroppo
svanito
durante il liceo: nessuno mi considerava, nessuno credeva in me.
“Ti
preoccupi talmente tanto di
quello che pensano gli altri che tu stessa non ti sei neanche accorta
di quanto
in realtà sei cambiata”
Me
ne
accorgevo, me ne accorgevo eccome.
Ero
forte,
ero sicura. Una stupida lettera non aveva il potere di fermarmi.
Volevano
sapere chi fosse Bonnie McCullough, bene: li avrei accontentati. Ero
decisa a
stupirli, a creare l’immagine che mi ero sempre figurata di
me stessa. Non solo
un’immagine, ma un obiettivo anche, un modello che stavo
lentamente
raggiungendo.
La
mia
passeggiata alla fine si era rivelata utile e ne ero sollevata: temevo
che la
prospettiva della lettera avesse bloccato quell’improvviso
slancio, invece così
non era stato.
Ma
ero
soltanto un’illusa se credevo che i miei guai per quel giorno
fossero finiti.
I
miei guai
di solito si presentavano sotto la forma di un ragazzo di ventun anni,
con i
capelli neri e gli occhi ancora più neri che spiccavano sul
quel volto diafano.
Se
ne stava
dall’altra parte del parco giochi, dondolava mollemente
sull’altalena. Aveva lo
sguardo fisso davanti a sé e non dava segni di avermi visto.
Valutai
l’idea di ignorarlo e tornare a casa il più
velocemente possibile senza
immischiarmi come sempre in fatti che non mi riguardavano.
Le
mie gambe
rifiutarono qualsiasi movimento. Per la prima volta in vita mia, rimasi
a
contemplare Damon Salvatore in tutto il suo splendore.
Non
avevo mai
negato la sua bellezza, ma nemmeno l’avevo mai capita fino in
fondo.
Un
ragazzo
sicuramente affascinante, niente di più di un bel faccino.
Un
pensiero
decisamente riduttivo in confronto alla figura che stavo osservando.
Era
tutta
colpa di Elena e del suo discorsetto su Damon. Avevo percepito una
sorta di
cambiamento in lui e anche in me, avevo già compreso che
qualcosa si fosse
incrinato o evoluto, ma sentirlo dire ad alta voce faceva
tutt’altro effetto.
Un
effetto straniante.
Mi aveva colpito, aperto gli occhi, illuminato.
E
adesso
faticavo a guardarlo nello stesso modo di prima, perché
sapevo che anche la sua
percezione era diversa.
Non
che mi
fidassi totalmente del suo inaspettato interesse nei miei confronti. I
dubbi
rimanevano ben saldi, ma non potevo negare di ricambiare quel
sentimento di curiosità.
Lo
chiamavo
curiosità e niente di più per non compromettermi
ulteriormente.
Mi
conoscevo
fin troppo bene e tendevo a farmi trasportare dalle emozioni una volta
scoperte.
Questa volta ero ben decisa a restarne fuori per quanto mi sarebbe
riuscito.
Elena
aveva
ragione: fino a quel momento avevo tenuto Damon lontano da me per paura
di
finire come Caroline e molte altre ragazze prima di me. Buttata via
come un
fazzoletto sporco.
Per
anni
Damon si era dimostrato uno spocchioso, viziato e arrogante, incurante
dei
sentimenti altrui, senza un minimo di rispetto.
Lo
avevo
detestato per così tanto tempo e così
profondamente da rendere quasi assurda
l’idea che in lui ci fosse altro, che in lui battesse un
cuore.
Ero
innocente
ma non del tutto ingenua: sebbene l’avessi tenuto per me,
avevo capito da tempo
che l’atteggiamento di Damon verso di me si era fatto
più ambiguo.
Ed
era
proprio la cosa che più mi disturbava, quel suo fare
equivoco, a metà tra la
seduzione e la presa in giro. Quel suo flirtare quando ancora stava con
Katherine, e poi le sue parole velenose, sempre pronte a colpire non
appena
alzavo un po’ la voce.
Era
un gioco
cui non volevo partecipare, totalmente estraneo al mio modo di essere.
Insomma,
se
da una parte avevo inevitabilmente preso atto del suo cambiamento,
dall’altra
non mi ero lasciata coinvolgere perché non confidavo in un
reale miglioramento.
Era
solo una
montatura, era solo un passatempo.
Quando
mai
Damon Salvatore aveva buone intenzione, soprattutto con me?
Poi
suo padre
si era sentito male e tutto era diventato ancor più confuso
di quanto già non
lo fosse stato prima.
Ero
corsa da
lui, in casa sua. Lo avevo consolato, lo avevo abbracciato, avevo
provato
dolore e avevo avvertito un vuoto quando ero stata costretta a
lasciarlo solo
con la sua famiglia.
Tutti
sentimenti che non avevo ben compreso finché Elena non aveva
parlato.
Strano
come una
semplice conversazione potesse ribaltare le carte in tavola.
Mi
aveva
sconvolta? Era un eufemismo.
Damon
aveva
raccontato a Elena, la ragazza di cui era sempre stato innamorato, dei
suoi
sentimenti per me.
E
già
quest’ultima affermazione racchiudeva
l’assurdità delle circostanze.
Damon
Salvatore che si metteva a discorrere di sentimenti che
nutriva per me
con Elena.
O
era
totalmente impazzito o per una volta era sincero.
Il
fatto che
la sua confidente fosse proprio Elena rendeva la notizia abbastanza
affidabile.
Damon
non
avrebbe mai compromesso il rapporto con lei solo per
‘spassarsela’ con me. Era
una persona troppo importante nella sua vita per deluderla in maniera
così
eclatante.
Ciò
significava che ogni gesto, ogni parola, perfino quel tentativo di
baciarmi
dopo la gita ad Atlanta, tutto era stato dettato da qualcosa di vero.
Qualcosa
che al tempo era ancora latente, praticamente inconscio. E nonostante
tutto,
alla fine era rimasto.
Questo
dove
mi lasciava?
Che
non fossi
completamente indifferente era palese anche ai sassi, ma ero davvero
disposta a
gettare dalla finestra tutti i miei principi o a dimenticare gli anni
che avevo
trascorso a piangere per i suoi scherzi crudeli?
Tutte
le mie
domande restarono sospese, senza risposta.
Non
perché
ero ancora troppo indecisa, ma perché Damon alzò
il capo, notando finalmente la
mia presenza.
Mi
guardò un
po’ sorpreso.
Io
ricambiai
e sorrisi.
Forse
qualche
risposta ce l’avevo.
Trovavo
quel
fatto più incredibile che impossibile.
Non
ricordavo
nemmeno l’ultima volta che era accaduto, se mai era accaduto.
Per
ovvie
questioni mi ero trasferito nuovamente a casa mia, dopo che mio padre
era stato
dismesso dall’ospedale.
In
realtà non
ero di molto aiuto: non sistemavo, non cucinavo, non pulivo. Quelli
erano
mestieri che per fortuna la signora Flowers svolgeva egregiamente. In
qualche modo
mi piaceva pensare che la mia presenza fosse comunque di conforto.
Stefan
si
sentiva meno solo e mio padre era più tranquillo sapendo di
aver qualcun altro
su cui contare oltre a un diciasettenne sì dal cuore
d’oro, ma davvero poco
pratico nelle situazioni drammatiche.
Non
avevamo
ancora litigato e questo aveva appunto dell’incredibile. Mi
trovavo
sorprendentemente bene a casa mia.
Cosa
che non
avrebbe dovuto creare scalpore dato che ognuno stava bene a casa
propria, ma io
non ci ero abituato.
Mangiavamo
insieme alla sera, un po’ presto perché
papà di solito era stanco e preferiva
andare a dormire. Io e Stefan passavamo la sera in salotto. Non
parlavamo
molto, non ci confidavamo i segreti, e neanche ci lasciavamo andare a
momenti
strappalacrime sul tempo perduto. Guardavano la tv e ci godevamo
semplicemente
la compagnia uno dell’altro.
Mi
alzavo di
buon’ora alla mattina per raggiungere
l’università in tempo e seguire i corsi.
Quando rientravo ero distrutto.
In
quelle
settimane avevo dimenticato che cosa volesse dire avere una vita
sociale e
stranamente non mi mancava.
Non
so quanto
avrei resistito a quel ligio regime, ma per ora mi bastava. Avevo fatto
il
coglione per così tanto tempo che adesso mi pareva un
privilegio spendere
qualche ora tranquillo con la mia famiglia.
Stavo
finalmente crescendo?
Secondo
mio
padre, quell’infarto era stato una benedizione che mi aveva
inculcato un po’ di
buon senso nel cervello. Un commento tipico del vecchio Giuseppe
Salvatore, ma
il tono bonario e quasi compiaciuto lo rendevano molto più
sopportabile.
Continuavamo
a essere una famiglia non convenzionale, almeno però adesso
potevamo chiamarci
effettivamente una famiglia.
Tra
noi tre,
Stefan era sicuramente quello più euforico, sembrava un
bambino in un negozio
di giocattoli. Sorrideva sempre, a volte non stava zitto un attimo,
altre non
osava parlare per paura di rompere il nostro equilibrio.
Io
e papà
eravamo un po’ più disincantati, ci osservavamo
ancora con occhio critico,
procedevamo con calma. Ci stavamo conoscendo.
Una
volta al giorno
il signor McCullough passava o chiamava per avere notizie del suo
amico. Bonnie
invece non si era più vista.
Non
che
visitare mio padre fosse un suo dovere, ma era ciò che mi
sarei aspettato da
lei, sempre così apprensiva e buona.
Avevo
accennato una volta a mio fratello di trovare quel fatto molto strano e
lui mi
aveva risposto che Bonnie non si voleva intromettere, non si voleva
imporre.
Stefan
non ne
era chiaramente turbato: poteva vederla tutti i giorni a scuola, poteva
passare
del tempo in sua compagnia, parlarle.
Io
non avevo
quel lusso.
Il
mio
fratellino non aveva più sollevato l’argomento
‘mano nella mano’ e io avevo
fatto finta di nulla, ben contento di non dovere spiegazioni.
Anche
se me
le avesse chieste, avrei liquidato la cosa come un semplice gesto di
conforto.
Io
per primo
faticavo ancora a capire, a definire quell’assurdo rapporto
che si era
instaurato tra me e la rossa.
E
ancora meno
capivo il suo comportamento.
Mi
era stata
di grande aiuto con tutta la situazione di mio padre. Era venuta spesso
a
trovarmi in ospedale, con la scusa della colazione o semplicemente per
chiedere
informazioni sulle condizioni di Giuseppe.
Apprezzavo
la
sua presenza discreta e rispettosa, sapeva quando tacere e quando
stordirmi con
le sue infinite chiacchiere su quello che le era successo a scuola. Non
che
fossi veramente interessato, ma almeno riusciva a distrarmi.
Non
la vedevo
dal giorno in cui mio padre era stato dimesso e cominciava a mancarmi.
Mi ero
abituato ad averla intorno.
Pensavo
che
avessimo fatto dei passi avanti, pensavo di essere riuscito in qualche
modo a
entrare nel suo guscio, a convincerla che in fondo non ero
così male.
Dopotutto,
se
si tralasciava la storia della scommessa, le mie intenzioni erano quasi
buone.
Bonnie non doveva saperlo per forza, non c’era una regola che
m’imponeva di
raccontale tutta la verità. La verità poteva
essere un po’ distorta.
Il
dettaglio
di quella sfida tra me e Tyler era irrilevante.
I
motivi per
cui mi ero avvicinato a lei erano sbagliati, ma ciò che ne
era derivato era
assolutamente autentico: non volevo conquistare Bonnie per via della
scommessa;
la volevo e basta. E se nel frattempo avessi tolto quel sorrisino
strafottente
dalla faccia di Tyler, allora tanto meglio.
La
reticenza
di Bonnie era più che comprensibile: io per primo avevo
fatto molta fatica ad
accettarlo.
Non
mi ero
reso conto di quanto fossi veramente coinvolto finché non
avevo parlato con
Elena. Un azzardo e il più grande scoglio che avessi mai
superato.
Si
trattava
della ragazza che avevo desiderato più di ogni altra al
mondo e adesso mi
ritrovavo a discutere con lei della mia vita amorosa. Il soggetto era
niente
meno della sua migliore amica.
Era
stata una
mossa rischiosa: non solo c’era una buona
possibilità che mi prendesse a
schiaffi, ma se avessi fatto un piccolissimo passo falso, mi sarei
potuto
scordare per sempre del mio angelo.
I
miei
propositi erano più che seri, per due motivi: primo, non
avrei mai chiesto
certi consigli a Elena se ormai non l’avessi considerata
solamente come
un’amica; secondo, se il mio intento fosse stato di
ingelosirla, non avrei
scelto Bonnie come vittima.
Potevo
concludere di aver completamente dimenticato la mia ossessione per
Elena.
Io
avevo
fatto chiarezza nella mia mente, Bonnie era evidentemente ancora
combattuta. Mi
era stata accanto finché
ne avevo avuto
bisogno, poi era scomparsa.
Stefan
diceva
che non voleva intromettersi nelle nostre questioni di famiglia, io
dicevo che
era terrorizzata all’idea d’incontrarmi, avendo
ormai capito che le cose tra
noi erano cambiate, a un punto decisivo. Ora bisognava scegliere se
andare
avanti o indietro.
Il
momento
della verità sembrava giunto più in fretta del
previsto: quando alzai la testa,
trovai ferma di fronte a me proprio la ragazza che mi stava facendo
diventare
pazzo.
Ero
preparato
a tutto: a vederla scappare o abbassare la testa, ero pronto ad
affrontare la
sua espressione imbarazzata e pentita, ero pronto a sentirla balbettare
qualche
scusa per svignarsela via e non più ritornare.
Non
ero
preparato al suo sorriso.
Che
cos’era?
La quiete prima della tempesta?
“Non
hai il
coprifuoco, Bon Bon?”.
Oh
sì, questa è un ottimo metodo
per non farla incazzare.
“Tu
non
dovresti essere a casa a occuparti di tuo padre?” mi
ribeccò.
“Mi
hanno
dato un’ora libera” risposi.
Lei
ridacchiò
e sorprendentemente prese posto sull’altalena accanto alla
mia “Come vanno le
cose tra voi?” mi domandò.
“Non
ci siamo
ancora picchiati, se è quello che intendi”.
Calò
un
silenzio imbarazzante. Un tempo accadeva spesso perché non
avevamo nulla da
dirci, adesso c’era fin troppo da dire.
“Tuo
padre si
sta rimettendo bene?”.
“Lo
conosci.
Passa la sua giornata a lamentarsi di tutto. Odia non poter andare al
lavoro,
ma è meglio così: alla sera è sempre
molto stanco, anche se non lo ammetterebbe
mai”.
“Normale
considerando
quello che gli è capitato” osservò.
“L’altra
sera
si è addormentato sul divano. Quando si è
svegliato, ha detto che era tutta
colpa del film: noioso e con poca azione. Stavamo guardando
l’ultimo di Star
Trek, giusto per intenderci”.
“Decisamente
poca azione” concordò ironica “Sono
davvero contenta per voi, Damon. mi spiace
che tuo padre sia stato male, però finalmente avete iniziato
a comportarvi
come...”.
“Una
famiglia?”.
“Stavo
per
dire come persone civili. La tua definizione è ugualmente
accettabile”.
“Grazie
per l’approvazione”
commentai “Credevo che saresti venuta a trovarci, sai? Dopo
quello che hai
fatto per trascinarmi in ospedale, mi pareva il minimo”.
“Potevate
cavarvela benissimo da soli e poi sono stata impegnata con le domande
di ammissione
al college” mi spiegò.
“Sei
quasi al
limite, Bonnie, non manca molto alla scadenza”.
“Avrei
già
finito se non fosse per quelle stupide lettere di
presentazione”.
“O
certo”
affermai dondolandomi “Le lettere per
l’università. Dalcrest non le richiede, non
ho mai avuto il piacere di descrivere me stesso”.
“Scommetto
che il tuo ego ne sarebbe stato felicissimo”.
“Può
darsi”
sghignazzai “Se fossi in te scriverei qualcosa del tipo: mi
chiamo Bonnie
McCullough, ho diciott’anni, vivo a Fell’s Church
da quando sono nata” dissi
tutto cercando di imitare la sua vocina “Nella mia
città tutti mi considerano
una ragazzina immatura, a volte piagnucolona, un po’
petulante, che vive
all’ombra delle sua amiche popolari. Non esprimo mai la mia
opinione perché ho
la voce troppo bassa per farlo e soprattutto non ho sufficiente
coraggio.
Nessuno mi ritiene capace di fare qualcosa di buono nella mia vita,
nessuno in
realtà si è quasi mai accorto della mia
presenza” conclusi con tono
provocatorio.
Bonnie
allargò gli occhi, furente, e aprì la bocca
pronta probabilmente a insultarmi,
ma io la bloccai “Oppure…potresti scrivere che sei
esattamente il contrario di
tutto ciò e che la maggior parte delle persone non ha mai
capito niente di te”.
“Oppure…potresti
scrivere che sei esattamente il contrario di tutto ciò e che
la maggior parte
delle persone non ha mai capito niente di te”.
Non
fu tanto
quello che disse, ma il tono che usò: fragile, un
po’ sommesso, sincero.
Mi
voltai di
scatto verso di lui. Onestamente non pensavo che quel momento sarebbe
arrivato
così in fretta.
Mi
alzai per
mettere un po’ di spazio tra di noi: era difficile ragionare
avendolo così
vicino.
“Damon,
io…”.
“Hai
parlato
con Elena” dichiarò.
“Cosa?”.
“Hai
parlato
con Elena” ribadì “Sei saltata come una
molla per un mezzo complimento”.
Appariva così calmo e sicuro. Io invece ero un fascio di
nervi.
“Non
serve
che tu aggiunga niente” lo fermai bruscamente “Dopo
tutta la storia con
Katherine, beh…capisco la tua confusione. E ora le cose con
Stefan stanno
andando bene, non sarebbe carino rovinare tutto ritornando a
perseguitare Elena
con le tua avances…”.
“Che
cosa
stai insinuando?” s’indispettì.
“Possiamo
continuare come se niente fosse. Ti sono capitate un sacco di cose
spiacevoli
in poco tempo e io ero lì, ero conveniente.
Passerà nel giro di poco, magari ti
è già passata. Forse è questo che mi
volevi dire, che è stato tutto uno
sbaglio, che hai frainteso. Non c’è nessun
problema, non facciamone un dramma”.
Io
stessa non
avevo ancora deciso se fidarmi o no delle parole della mia amica.
Cercavo di
dare una via d’uscita a Damon nel caso avesse cambiato idea,
cercavo di finirla
ancor prima che fosse cominciata.
Si
alzò anche
lui dall’altalena che tremò violentemente sotto il
peso della spinta “Quindi,
secondo te, mi sono solo fatto trascinare dalle circostanze. Secondo te
io
sarei andato a chiedere consiglio su un’altra alla ragazza
per cui avevo
un’ossessione folle solo per capriccio? Grazie Bonnie, grazie
per questa
perfetta analisi! Che dote meravigliosa, quella di poter leggere la
mente
altrui”.
Aveva
alzato
la voce e tanto. Il che mi fece infuriare a mia volta, tanto da non
cogliere
subito la parola ossessione dove un tempo avrebbe
usato amore.
“Scusami,
con
che diritto ti stai arrabbiando? Io dovrei essere arrabbiata
casomai!”.
“Perdonatemi
vostra
freddezza, sono mortificato che le mie attenzione vi
indispongano così
tanto!” esclamò sarcastico e velenoso.
“Non
osare
darmi della fredda solamente perché non voglio essere presa
in giro!”.
“Ti
stai
prendendo in giro da sola, ragazzina” ribatté
gelido “Ma è così tipico di te
tirarti indietro ogni volta che la sfida si fa un po’
più difficile. Non hai
nemmeno il coraggio di accettare i tuoi stessi sentimenti”.
“Adesso
siamo
passati ai sentimenti?” mi scioccai “Io non potrei
mai provare sentimenti per
uno come te. Ricordi tutto quello che mi hai fatto? Tutte le volte che
ho
pianto per colpa tua? Sei un illuso se speri che io possa
dimenticare”.
Non
lo vidi
neanche avvicinarsi. Fu fulmineo a spostarsi proprio di fronte a me, a
impedirmi
il passaggio e a spingermi verso le gabbia di ferro del parco giochi
dietro di
me.
Quando
la mia
schiena toccò i tubi di metallo mi resi in conto di aver
tirato troppo la
corda; non per aver scatenato l’ira di Damon, ma
perché sentirlo così vicino mi
provocò un subbuglio allo stomaco.
“Sì,
uccellino,
sono quello che ha reso la tua vita un inferno al liceo, sono quello
che si è
preso gioco della tua amica Caroline, sono quello che ha tormentato
Stefan
durante questi anni, ma non cambia i fatti, vero? Tu sei attratta da
me,
piccola rossa, nonostante tutto”.
“Sei
visionario” fu la mia unica, debole, obiezione.
Allungò
una
mano per spostarmi una ciocca di capelli “Devo aver avuto le
allucinazioni
anche dopo il concorso di Fell’s Church, allora”.
“Quello
è
stato solo un momento di debolezza” constatai “Sai
che ho un debole per i bei
ragazzi”. Meglio ammettere il suo immenso fascino, piuttosto
che dargliela
vinta sulla questione sentimentale.
“Stronzate”
mi stroncò “Qualche mese fa ho provato a baciarti
e mi hai tirato uno schiaffo.
Non sei il tipo che si sofferma solamente sull’aspetto
fisico. Tu quella sera
stavi per cedere perché qualcosa tra noi è
cambiato”.
“Sì,
stavi
diventando una persona quasi decente” gli concessi
“Adesso non ne sono più
tanto sicura” tentai di provocarlo e di suonare convincente.
“Non
ti ho
mai considerata un’ipocrita, ma dovrò rivedere la
mia opinione dato che
continui a criticarmi e poi ti sciogli come un ghiacciolino appena mi
avvicino
un po’ più del dovuto”.
“Non
darmi
dell’ipocrita” tuonai puntandogli il dito contro.
Riuscii finalmente ad
allontanarlo un po’, ma durò poco.
Mi
trovai
ancor più schiacciata sui tubi di ferro alle mie spalle.
“Dimostramelo,
uccellino” soffiò sulle mie labbra
“Dimostrami di non esserlo”.
Volevo
farlo,
volevo farlo davvero.
Volevo
prenderlo a schiaffi, volevo colpirlo con le ginocchia in mezzo alle
gambe,
volevo spingerlo via e tornare a casa mia.
Ero
molto
determinata a mettere in atto questo piano, sul serio. Quindi non seppi
dire
perché invece finii per baciarlo.
No,
baciarlo
non era il termine adatto. Lo soffocai quasi.
Gli
strinsi
il collo così forte da lasciargli un graffio dietro la nuca
e mi spinsi sulle
punte dei piedi per raggiungere la sua bocca. Damon
m’incontrò a metà strada.
Ricambiò
il mio slancio, la mia presa, schiacciandomi tra lui e la gabbia. Ci
mise
qualche secondo prima di prendere totale controllo del bacio, come se
non
aspettasse altro da tempo.
In
casi del
genere è normale descrivere le sensazioni come
‘farfalle nello stomaco’ o ‘fuochi
d’artificio’.
Io
sentii
proprio di tutto in quel dannato bacio: vertigini, morsa allo stomaco,
il mio
cuore accelerò i battiti e ogni singola parte del mio corpo
si risvegliò
urlando.
Damon
non si
fermava. Mi baciava, mi lambiva, mi mordeva e io lo imitavo,
completamente
sopraffatta e maledettamente felice.
Fino
a che
non mi resi conto di che cosa stessa accadendo, in un brevissimo
momento di
lucidità: stavo baciando Damon Salvatore. Damon
Salvatore.
“N-no”
balbettai con la mia bocca ancora sulla sua. Mi staccai, sconcertata, e
sgusciai via, toccandomi le labbra per accertare che fosse successo
davvero.
Lui
se ne
stava appoggiato alla gabbia e mi guardava compiaciuto e strafottente.
“Come
ti sei
permesso?!” mi scandalizzai “Mascalzone che non sei
altro”.
“O
sì certo,
adesso mi dirai pure che ti ho obbligato” mi
canzonò.
“Questo
non
capiterà mai più” precisai, indicando
me e lui “Non diventerò un cliché, non
diventerò la brava ragazza che si arrende al cattivo di
turno” strillai, mentre
giravo i tacchi.
“Invece
fare
la fidanzatina d’America fino al midollo non è
affatto un cliché” commentò
Damon sarcastico “Rinchiuderti in quel convento che ti sei
costruita attorno è
assolutamente originale e innovativo”.
Udivo
i suoi
passi dietro ai miei, ma lo ignorai.
“Molto
meglio
ripiegare su un tipo alla Matt Honeycutt, molto più
rassicurante”.
“Non
entrerai
nella mia testa” lo avvisai minacciosa “E smettila
di seguirmi!”.
“Non
ti sto
seguendo, casa mia è da quella parte. O il bacio
è stato talmente scioccante da
farti scordare che siamo vicini?” mi stuzzicò.
Puntai
i
piedi e mi voltai verso di lui “Chiariamo subito una cosa:
quel bacio non è mai
accaduto. Noi ci dimenticheremo di quel bacio, lo cancelleremo dalla
nostra
memoria. Eliminato. Nessuno dovrà mai saperlo. Quel bacio
non è mai esistito. Siamo
d’accordo?”.
Damon
era
proprio dietro di me e ghignò piegando il volto in avanti
“Mi stai facendo
venire ancor più voglia di baciarti”
confessò prima di premere di nuovo le sue
labbra sulle mie.
Esitai
un
istante e mi spostai “No!” gli intimai
istericamente “Mai più! Mai
più!”.
Affrettai
il
passo per raggiungere casa il più velocemente possibile.
Quando richiusi la
porta d’ingresso, mi appoggiai stanca e sospirai di sollievo.
Qualunque
cosa
si fosse messo in testa Damon, dovevo stroncarla sul nascere. Lui non
mi
piaceva, io non desideravo quelle attenzioni. Si era trattato solo di
un attimo
di debolezza (un altro), niente di cui preoccuparsi.
Io ero forte, io
potevo resistere.
“Sei
tornata
finalmente, gattina” mi accolse mio padre, mentre entravo in
cucina “È successo
qualcosa?” mi domandò.
“No”
risposi
già in agitazione “Perché?”
proseguii con voce stridula.
“Hai
un
sorriso che va da un orecchio all’altro”.
E
osservando
la mia immagine riflessa nella finestra, mi accorsi che Damon aveva
ragione:
ero diventata un cavolo di cliché.
Il
mio spazio:
Stappiamo
la
bottiglia: finalmente si sono baciati!
Ragazze,
se
non ci metto almeno una ventina di capitoli prima di farli concludere,
non sono
mai contenta, ehehehe.
Il
prossimo
capitolo arriverà molto più velocemente
perché in parte è già scritto e non
preoccupatevi da qui in poi si andrà solo in avanti, niente
più passi indietro,
nonostante i dubbi di Bonnie.
Damon
ha
deciso di prendere in mano la situazione ed è riuscito a far
esplodere la
nostra rossa. Vedremo gli effetti di questo bacio, effetti che la
manderanno in
totale agitazione.
Più
tardi
risponderò alle vostre magnifiche recensioni.
Vi
ringrazio
tantissimo!!
Buona
serata,
Fran;)
|
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Capitolo 23 *** This is what it feels like ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventitré: This is what it feels like
“The way you make me feel
You really turn me on
You knock me off of my feet
My lonely days are gone”
(The way you make me feel-
Michael Jackson).
Sapevo
esattamente quali sarebbero state le conseguenze di quel bacio, quello
che non
ero riuscita a dimenticare.
Primo:
un
immenso imbarazzo a ripensare a quel momento.
Secondo:
un
discreto fastidio per aver infine ceduto.
Terzo:
totale
confusione mentale, perché, nonostante cercassi in tutti i
modi di convincermi
che non mi fosse piaciuto, a malincuore dovevo ricredermi.
Quarto:
completa incertezza sul da farsi.
Erano
tutte
domande vitali per la mia situazione emotiva. Ci pensavo notte e
giorno, erano
diventate la mia tortura.
Mi
ero
immaginata tutti gli scenari possibili. Avevo scomposto e analizzato
quel
problema come se si trattasse di un esperimento scientifico. Mai ero
stata così
razionale e accurata. Mi ero sforzata tantissimo per rimanere
distaccata.
Normalmente
tendevo a giudicare tutto con il cuore, ad agire come comandava il mio
istinto,
ma questa volta avevo davvero provato a evitarlo.
Forse
non si
era rivelato tutto inutile, ma quasi, per colpa di un dannato fattore
che
proprio non avevo calcolato: quel bacio mi aveva provocato uno
scompenso
ormonale da record.
Supposi
che Damon
si fosse guadagnato il titolo di seduttore più ambito per
una valida ragione.
Sapeva come usare le sue mani e la sua bocca, indubbiamente.
E
nella mia
poca esperienza, aveva di sicuro fatto centro.
La
mia mente
non era del tutto convinta, ma il mio corpo era stregato.
Considerazione banale
e piuttosto frustante, almeno per me che mi ero sempre vantata di
essere
l’unica a non aver mai trovato affascinante Damon Salvatore.
Prima
o poi
doveva succedere: nella vita di ogni ragazza arrivava il momento in cui
i
bisogni fisici si facevano sentire in maniera più forte di
quelli razionali.
Alla fine lo sviluppo aveva beccato anche me, in ritardo ma mi aveva
comunque
scovato.
Forse
la
stavo affrontando più tragicamente di quanto non fosse
necessario. Insomma non ero
ancora corsa da Damon come una disgraziata bisognosa di affetto e di
carezze;
per adesso mi limitavo a sognare quel bacio e le sensazioni che mi
aveva
donato.
Tralasciando
strani sbalzi ormonali, non potevo negare che quel maledetto pallone
gonfiato
mi avesse scombussolato la vita più del necessario.
Era
stato
lento e scrupoloso, si era infilato nella mia testa senza nemmeno farsi
notare
e aveva cambiato tutta la mia prospettiva.
Avevo
rifiutato Matt per lui. Era difficile, era assurdo, era imbarazzante,
ma dovevo
ammetterlo: avevo lasciato Matt perché non sentivo i brividi
dell’attesa,
perché non mi mancava, perché non suscitava in me
abbastanza emozioni.
E
tutto
quello l’avevo sentito con Damon.
Non
l’avevo
voluto, non l’avevo chiesto. Le cose stavano così,
però. Pure e semplici.
Forse
iniziavo a capire l’irrazionalità del sentimento
di cui avevo tanto letto e che
non avevo mai sperimentato, men che meno compreso.
Un
passo alla
volta, comunque.
Non
avevo
nessuna intenzione di buttarmi tra le braccia di Damon. Avevo bisogno
di
esserne sicura al cento per cento.
Non
credevo
che fosse una sbandata passeggera, ma era accaduto tutto troppo in
fretta e
troppo inaspettatamente. Mi ero ripromessa di evitare un sacco di
situazioni in
cui invece ero capitolata senza tante obiezioni.
Adesso
era
giunto il momento di chiedere aiuto. Era giunto il momento di affidarmi
a mani
più esperte, anche a costo di mandare all’aria la
mia reputazione da
santarellina.
Dovevo
confessare.
Come
tutti i
miei buoni propositi, trovai anche questo più facile a dirsi
che a farsi.
Avevo
invitato le mie amiche a casa mia con la scusa di prendere un
tè tutte insieme,
dato che non ci vedevano da un po’ sole e solette.
Elena
già
sapeva tutto. Meredith e Caroline ne erano all’oscuro. Volevo
che fossero
presenti al completo cosicché non sarebbe stato necessario
ripetere il
misfatto. Una volta era più che sufficiente.
Ero
decisa,
quindi, a vuotare il sacco non appena le tre si fossero accomodate in
salotto.
Ma
Caroline
era in ritardo come al solito e quando arrivò nemmeno si
perse in convenevoli.
“Ragazze,
è
successa una cosa…non riesco neppure a dirla”.
Benvenuta
nel club.
“Dovrei
pentirmene ma non ci riesco”.
Mal
comune mezzo gaudio.
Come
previsto
catalizzò l’attenzione su di sé e il
mio piano andò a farsi friggere.
“Se
si tratta
di un acquisto sbagliato, mi alzo e me ne vado” la
avvisò Meredith mentre
soffiava sul suo tè bollente.
“Quello
lo
potrei restituire. Potrei rimediare” disse Caroline
sconsolata.
“Che
cos’hai
combinato?” l’accontentò infine Elena.
“Ieri
ero in
piscina, stavo facendo qualche vasca così per allenarmi. Non
mi piace granché
nuotare, ma dicono che faccia bene ai muscoli e
quindi…”.
“Anche
Katherine ieri era in giro per la scuola per allenarsi” disse
Elena “Se hai
rischiato di affogarla, sappi che non te ne devi pentire. Hai la mia
benedizione”.
“Non
ho
nemmeno visto Katherine” smentì Caroline
“C’era Tyler, però”.
“Tyler
Smallwood? A scuola dopo la fine delle lezioni? Intendi quel
Tyler?” mi stranii
io. In realtà non ero attentissima al discorso. Stavo
pensando a come sganciare
la bomba e a come trovare il coraggio di rivelare il mio segretuccio,
nonostante Caroline avesse rovinato il momento perfetto. Non ci fece
caso,
perciò quando mi rispose “No, intendevo
Matt”, non colsi il sarcasmo.
“Allora
c’era
Matt?” osservai, distratta.
“No,
c’era
Tyler” insistette lei, forse accortasi del mio poco interesse.
“Niente
Matt?”.
Evidentemente
Caroline decise di non darmi più ascolto e
proseguì con il suo racconto. Ero
l’unica a non seguirla con attenzione; le altre due la
guardavano in attesa.
“Mi
ha
baciata”.
“Chi?”
domandò Meredith. Aveva già capito ma voleva una
conferma.
Io
ero su
tutt’altro pianeta e misi insieme i pezzi sbagliati di
ciò che avevo ascoltato.
“Matt
ti ha
baciata?”. Non stavamo insieme, poteva fare quel che voleva,
ma con una delle
mie migliori amiche…
“Noooo”
ribadì Caroline “Tyler”.
“Tyler
ha
baciato Matt?”.
Caroline
sbuffò, giustamente innervosita. Mi prese il viso tra le
mani e guardandomi
negli occhi, scandì bene
“Tyler-ha-baciato-me”.
Questa
era
bella. Quasi più bella della mia notiziona.
Improvvisamente
non mi sentivo più colpevole.
Damon
poteva
anche essere uno stronzo patentato, ma Tyler era il re dei cretini.
Insomma
nella gara del bacio più imbarazzante, stupido vinceva su
stronzo.
Tyler
Smallwood era sempre stato un bulletto della peggior specie. Si
atteggiava da
granduomo, ma aveva il cervello di un topolino.
Le
sue
battute erano grezze e i suoi hobby si limitavano a donne e football.
Almeno
questo era quello che potevo dire per come lo conoscevo io. Non ci
eravamo mai
frequentati e faceva parte del gruppetto di Damon, ergo al liceo era
complice
dei suoi scherzi.
Non
sembravo
l’unica sconvolta in quella stanza: Elena aveva sgranato gli
occhi e Meredith
aveva una smorfia eloquente sulle labbra.
“Perché?”
si
scandalizzò.
“Non
ho detto
che ho ricambiato, ho detto che lui mi ha baciato”
ribatté Caroline.
“L’hai
mandato via quindi?” concluse Elena.
Caroline
abbassò la testa “No, mi sono lasciata baciare e
ho anche partecipato”.
“Allora
la
domanda resta: perché?” ribadì Meredith.
“Lo
so che è
rozzo e arrogante. Sostanzialmente è anche un
perditempo…che cosa vi devo dire…mi
ha aiutato un po’ con l’allenamento e poi abbiamo
fatto una pausa. Abbiamo
parlato della fine della scuola, dei nostri progetti, è
saltato fuori che non è
così stupido come pensavo, solo non ha voglia di
studiare”.
“Mi
sono
persa come in tutto ciò le vostre bocche si sono
unite” la punzecchiò Elena.
“Quando
mi ha
accompagnata alla macchina, è successo
lì”.
“E
ora?”.
“Mi
riterreste una persona orribile se volessi continuare a
frequentarlo?”.
“O
Care, no,
no” scosse la testa Meredith
“C’è chi ha fatto di peggio”.
Annuii,
d’accordo. Quello era il mio momento. La reazione sarebbe
stata attenuata dalla
novità di Caroline.
Se
lei era
riuscita ad ammettere quello di cui tutte noi ci saremmo vergognate,
allora
pure io potevo fare uno sforzo. Erano le mie migliore amiche, non mi
avrebbero
giudicato.
“Io
ho una
storia segreta con Alaric Saltzman” sparò a
bruciapelo Meredith.
Questa
volta
toccò a Elena e a Caroline spalancare la mascella.
Io
inveii
mentalmente. Mi avevano battuta sul tempo per la seconda volta. Era
forse un
segno che avrei fatto meglio a tacere?
“Il
nostro
professore?” si accigliò Caroline.
Meredith
confermò
con un cenno della testa.
“No
scusa, mi
hai guardato come se avessi ucciso qualcuno e poi salta fuori che ti
sbatti il
prof di storia?”.
“Caroline!”
esclamammo io e Elena per contenere la sua carica.
“O
santo
Cielo, se mi dici che non l’avete fatto, ti prendo a
schiaffi. Figo com’è!”
commentò con la sua solita profondità.
“L’ho
tenuto
segreto fino adesso
perché…beh…perché
è una cosa delicata, Alaric potrebbe
andare nei casini e io potrei rimetterci Harvard. Onestamente non
credevo che
sarebbe durata. Mi rendo conto che è una pazzia”.
“Mere,
non ti
fidavi di noi? Avevi paura che ti avremmo giudicata?” si
preoccupò Elena.
“C’è
in mezzo
un’altra persona. Mi sembrava di tradire la sua fiducia a
parlarvene”.
“Non
oso
immaginare come sia stato non potere sfogarsi con qualcuno”
s’intristì
Caroline.
“Bonnie
lo
sapeva” svelò Meredith.
Adesso
gli
occhi erano puntati su di me. Per il motivo sbagliato. Grazie,
Mere!
“Li
ho
beccati in flagrante, ecco perché lo so” ci tenni
a presentare.
“La
vita ti
sorprende sempre” considerò Caroline
“Mai avrei sognato che la razionalissima
Meredith Sulez nascondeva un segreto più piccante del
mio”.
“A
questo
proposito…” iniziò io, un po’
tentennante “In effetti vi ho invitato qui perché
anche io ho una confessione da farvi” e scambiai
un’occhiata con Elena.
Nemmeno
lei
conosceva gli ultimi risvolti, però rispetto alle altre
aveva un’idea.
“Che
cosa
avrai mai combinato di tanto grave” sbuffò
Caroline “Hai per caso un
ripensamento su Matt?”.
“No”
smentii
“Ho baciato Damon Salvatore”.
Il
gelo calò
nella stanza. Elena era quella meno sorpresa, perché
già era al corrente della
situazione e se la rideva sotto i baffi, ma Mere e Caroline erano
pietrificate.
Una
aveva
intrecciato una relazione clandestina con il suo insegnante,
l’altra progettava
di uscire con il re degli scimmioni e improvvisamente ero io sotto
accusa.
“Mi
sa che
non ho capito bene” affermò Meredith
“Anzi ne sono certa perché la mia amica
Bonnie vorrebbe tirare Damon sotto con la macchina”.
“No,
no…avete
sentito benissimo” confermò Elena, compiaciuta
come non mai “Anzi, mi sorprendo
che ci abbiamo messo tanto”.
“Tu
lo
sapevi?” si sbalordì Caroline.
“L’ho
scoperto ora, ma Damon mi ha raccontato del loro rapporto un
po’ complicato”.
“Rapporto?
Siamo addirittura a un rapporto? Elena, perché non
l’hai stroncato sul
nascere?!” si indignò Caroline.
“Sono
fatti
l’una per l’altro” obiettò
Elena.
“Stiamo
parlando degli stessi Bonnie e Damon che conosco io?” si
accigliò Meredith.
“Ehilà!”
sventolai una mano per riportare un po’ di ordine
“Sono ancora qui”.
“Da
quant’è
che va avanti questa storia?” mi chiese con tono quasi
minaccioso Meredith.
“Non
lo so”
ammisi onestamente “Ora potrei dirti che è
incominciato verso settembre,
ottobre, ma non me n’ero accorta allora”.
“Settembre
o
ottobre?” ripeté Caroline “Ma non stavi
con Matt?”.
“Non
so dirti
il momento preciso. Abbiamo cominciato a parlare civilmente
all’inizio della
scuola e poi…sono successe un paio di cose”.
“Tipo?”.
“La
notte di
Halloween, il regalo di Stefan, il ballo al concorso di
Fell’s Church, la
rottura con Katherine, Klaus”.
“Dov’ero
io
in tutto questo tempo?” Meredith era sempre più
sconvolta.
“A
studiare
con il professore, suppongo” sogghignò
Elena.
“Chi
l’avrebbe mai detto che saresti stata proprio tu quella con
la vita
sentimentale più prevedibile” scherzò
Caroline “Di certo non avrei scommesso un
centesimo su queste due” e indicò Meredith e
Bonnie “E sto ancora decidendo se
sia peggio questa che sta infrangendo ogni regola della scuola o quella
che si
è presa una cotta per il figlio cattivo di
Lucifero”.
“Va
bene,
Bon, è il momento della verità. Spara”
mi incitò Meredith.
“E
io sono
pronta a correggere nel caso omettesse qualcosa” si
offrì Elena con un
sorrisino diabolico.
Caroline
posò
la tazza sul tavolino e si alzò dalla poltrona.
“Dove
stai
andando?” le chiesi.
“A
cercare
del vino. Se proprio devo stare ad ascoltarti mentre racconti di come
tu e
Damon siete diventati due piccioncini, allora ho bisogno di qualcosa di
forte”.
La
mattina
successiva iniziò peggio rispetto a tutte le altre.
Noi
abitanti
di Fell’s Church ci eravamo svegliati sotto la pioggia. Sotto
un dannatissimo
acquazzone per essere precisi.
La
simpatica
sveglia del cellulare sul comodino si era rifiutata di suonare. Mio
padre non
si era sprecato di venirmi a chiamare. Era uscito come tutte le mattine
mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni.
Solitamente si fermava sempre ad
avvertire, ma quella mattina, l’unica in cui avrebbe dovuto
rompermi le balle,
aveva scelto di lasciarmi dormire tranquilla.
Quando
un
tuono si propagò nell’aria facendo tremare i
vetri, mi svegliai di soprassalto.
Capii subito che qualcosa non andava. L’ora lampeggiante in
rosso sul display
del lettore dvd me lo confermò. Otto e quarantacinque. Avevo
un quarto d’ora
per arrivare a scuola.
Cacchio.
Mi
tuffai
nell’armadio in cerca dei vestiti. La stanza era buia per via
della luce
plumbea che filtrava attraverso le tende pesanti e non feci molto caso
a ciò
che mi capitava in mano.
Buttai
i libri
nella borsa a tracolla e uscii dalla camera, mente m’infilavo
i pantaloni. Sbucai
nel garage, quasi trascinando la cartella con un piede. Aprii la
portiera della
macchina, la basculante si alzò e io partii a tutta birra.
Sembrava
che
tutti i semafori si fossero messi d’accordo per diventar
rossi alla vista della
mia macchina, per non parlare della quantità
d’imbecilli che incontrai lungo il
tragitto.
Erano
le nove
in punto quando parcheggiai l’auto davanti al Robert Lee High.
Non
ero
l’unica comunque ad essere arrivata in ritardo. Qualcun altro
si era attardato,
ma non di certo per non essersi svegliato in tempo. In cima alla
scalinata
principale, stavano parlando due ragazzi che non avevo mai visto.
Sembravano
più grandi di me, per questo ci feci caso e persi un
po’ di tempo a osservarli
nonostante il ritardo pazzesco. I due stavano ridendo di gusto e
nemmeno si
erano accorti della mia presenza.
La
testa
della donna si spostò leggermente di lato e finalmente
riuscii a riconoscere il
viso di lui: era Damon.
Quella
scena
mi riportò indietro di anni, quando Damon frequentava ancora
il liceo: mi
capitava spesso di trovarlo fuori dalla scuola, incurante delle
lezioni, ad
amoreggiare con la tipa di turno.
Era
senza
dubbio un bel ragazzo, forse uno dei più belli che avessi
mai visto in vita mia
ed era sempre circondato da una marmaglia di ragazze adoranti. Beccarlo
in
compagnia di qualcuno era all’ordine del giorno. Ci ero
abituata, non avrebbe
dovuto farmi un effetto così strano. Stavano solo parlando,
sebbene la distanza
tra i loro corpi non fosse molta.
Forse
per la
pioggia, forse per il ritardo, forse perché mi aveva baciato
solo due giorni
prima, vederli
insieme mi innervosì.
Mi
seccò
talmente tanto che, marciando spedita su le scale, pronta a rendere
nota la mia
presenza e farlo sentire un verme, non guardai dove mettevo i piedi e
scivolai
sull’ultimo gradino, capitolando in avanti. La mia cartella
cadde a terra,
insieme all’ombrello, e la pioggia mi colpì senza
pietà, come ultimo tocco di
quella immensa figura di cacca.
Avvertii
un
dolore lancinante nel punto in cui la gamba si era piegata nella caduta.
Damon
abbandonò
l’angolo protetto vicino al muro dove si era fermato a
parlare con quella donna
e mi raggiunse.
“Bonnie”
disse sorpreso, piegandosi su di me.
Fu
particolarmente seccante farsi aiutare da lui ad alzarsi, ma lo fu
ancor più
appoggiarsi al suo braccio nel tragitto verso l’infermeria.
Mi sarei fatta
tagliare la gamba piuttosto, ma erano circostanze estreme non avevo
davvero la
forza di saltellare fino all’infermeria per farmi controllare
la caviglia.
La
tipa ci
aveva seguito, con un’espressione preoccupata e con la mia
cartella in mano.
Era stata gentile, stava cercando di essere utile, ma io
l’avrei fulminata.
Fortunatamente
si tolse di torno in fretta, adducendo non so quale scusa. Doveva incontrare qualcuno, una
roba del genere. Non
m’importò.
Mi
assicurai
solo che lasciasse la mia cartella ai piedi del lettino ospedaliero e
poi la
fissai sparire oltre la porta. Non prima di aver ringraziato Damon di
averla
accompagnata con un sonoro bacio sulla guancia.
“Sei
diventato il Cicerone della scuola adesso?” commentai, il
tono volutamente
acido.
“Attenta,
uccellino, stai diventando verde” replicò.
“Non
sono
gelosa!” obiettai, quasi offesa.
“Adesso
ti si
allunga pure il naso” mi prese in giro, mentre mi aiutava a
issarmi sul lettino
in attesa dell’infermiera che era sparita
nell’altra sala. Tornò poco dopo e,
inforcati gli occhiali, esaminò attentamente la mia gamba.
La
tastò,
premendo forte sul punto che mi faceva male. Storsi il naso dal dolore.
Delicata
come un macigno!
“No,
non è
rotta, è solo una storta, però è
meglio se per i prossimi giorni usi queste!” e
mi mostrò un paio di stampelle, adagiate contro al muro
dietro di me.
“Sta
scherzando vero? No, senta non mi servono quelle, io cammino beniss
…” nel
parlare saltai giù dal lettino e atterrai su i due piedi.
Una fitta di dolore
risalì per la gamba infortunata e fui costretta a spostare
tutto il peso
sull’altra.
Damon
mi
sostenne per un braccio “Che ne dici di seguire gli ordini
per una volta?!”
propose con tono ironico.
Gli
lanciai
un’occhiata di fuoco. Se
mi fosse stato
possibile, gli avrei sferrato un calcio di quelli potenti.
Afferrai
arrabbiata le stampelle e, addossandomi a quelle, uscii in corridoio.
“Bonnie!
La
borsa!” mi rincorsi Damon.
Cercai
di
prenderla tenendo con una mano le due stampelle e allungando
l’altra, ma ciò
comportò solo la perdita dell’equilibrio e
rischiai di finire ancora a terra.
Damon
mi
agguantò appena in tempo e mi mise le mani attorno alla vita
per tenermi su
mentre mi ero aggrappata alla sua giacca in un gesto istintivo.
Ci
trovammo
così a fissarci dritti negli occhi, tremendamente vicini.
Furono attimi di
panico per me. Non mi ero mai sentita così in balia di
qualcuno come in quel
momento.
Osservai
il viso
di Damon avvicinarsi e avvertii la sua mano risalire per la mia schiena
fino a
toccare i miei capelli.
Io
attendevo
come un’ebete. Ma cosa attendevo esattamente? Un altro bacio?
Bonnie,
un po’ di forza di
volontà! M’impose
la mia coscienza.
Scostai
il
volto e balbettai “La b-borsa”.
Damon
si
riscosse da un sogno. Rimase qualche secondo stupito poi
parlò con voce bassa e
un po’ delusa “Te la porto io se vuoi”.
“No,
grazie.
Ce la faccio da sola”. Avevo riacquistato un po’
del mio coraggio e del mio
buon senso. Senza aggiungere altro,
proseguii, da sola e impacciata, per la mia strada con la
borsa a
tracolla in pericoloso bilico sulla mia spalla.
Gattina,
so che non puoi
rispondere perché sei a scuola, ma ho avuto
un’emergenza in ospedale e mi hanno
messo anche il turno di notte. Non mi va che tu stia a casa da sola con
quella
gamba malconcia. Ho parlato con Giuseppe: stasera andrai da i
Salvatore. Non
voglio sentire storie.
Quello
era il
messaggio che avevo trovato sul cellulare alla fine delle lezioni.
Onestamente
non so se mio padre lo facesse apposta o se fossi io quella beffata di
continuo
dalla sorte.
Casa
Salvatore era il posto da cui volevo stare il più lontano
possibile e il caro
papà mi ci spediva come cappuccetto rosso in bocca al lupo.
Lo
avevo
avvisato del mio incidente con la gamba e lo avevo convinto a non
venirmi a
prendere a scuola solo dopo avergli giurato di non essermi fatta
seriamente
male.
Ma
era
evidente che la sua preoccupazione non fosse svanita o non mi avrebbe
imposto
di trasferirmi da Stefan per la notte.
Da
una parte
ero tentata di ripiegare su una delle mie amiche, dall’altra
non me la sentivo
di allontanarmi troppo da casa.
Dopotutto
se
papà aveva parlato con Giuseppe significava che Giuseppe era
lì e per forza ci
doveva essere anche Stefan. Non sarei rimasta sola con Damon, potevo
stare
tranquilla.
Avevo
capito
che non potevo fidarmi di me stessa se era nella vicinanze. Odiavo
ammettere
una cosa del genere, mi faceva sentire debole e senza spina dorsale.
Quante
volte
avevo biasimato quelle ragazze che si lasciavano ammaliare da un bel
visino?
Io
ero molto
suscettibile al fascino maschile, ma nessuno mi aveva mai abbindolato.
Non ero
la classica ragazza che si perdeva dietro lo stronzo di turno, io avevo
sempre
cercato qualcuno che valesse davvero. L’aspetto fisico da
solo non bastava.
Ora,
invece,
mi ritrovavo a non avere più il controllo del mio corpo e
delle mie azioni. La
vicinanza di Damon mi stordiva completamente.
Il
che mi
lasciava perplessa come non mai dato che non mi era mai capitato prima.
Caroline
e
Meredith mi avevano avvisato di stare molto attenta. Superato lo shock
iniziale, si erano mostrate comprensive più di quanto mi
aspettassi e non
avevano nemmeno sprecato molto tempo a dar contro a Damon.
Certo,
non
erano saltate dalla gioia (Caroline in particolare), ma avevano cercato
di
rimanere il più neutrali possibili.
Meredith
era
preoccupata specialmente per il lato più da donnaiolo di
Damon, Caroline
attaccava, invece, il lato più cattivo.
Entrambe
concordavano sul fatto che quell’interesse fosse quanto meno
curioso. Ma come
avevo cambiato io parere, anche lui aveva tutto il diritto di
rivalutare
l’opinione che aveva di me. Perché dovevo avere
dei pregiudizi?
Perché
fidarsi è bene, non
fidarsi è meglio.
Se
di lui o di
me, questo era ancora da scoprire.
In
entrambi i
casi le mie due amiche mi avevano consigliato di tenere un
po’ le distanze.
Appurato
che,
nonostante avessi gli ormoni in subbuglio, il mio non fosse solamente
interesse
fisico, valeva davvero la pena mettersi in gioco? Oppure era meglio
ritirarsi
subito, prima di raggiungere il punto di non ritorno?
Al
contrario
di Mere e Care, Elena mi aveva suggerito senza tanti giri di parole di
godermi
il momento e non farmi troppe paranoie mentali.
Lei
sì che
aveva piena fiducia in Damon e tifava per noi due senza ritegno.
Così,
alla
fine, avevo deciso di seguire la sua idea, dopo
aver rifletto a lungo
sui pro e i contro. Conclusione?
Non ero
arrivata a nessuna conclusione.
Fortunatamente
non avevo in programma di restare da sola con Damon. Quella sera sarei
rimasta
attaccata a Stefan tutto il tempo e magari avrei pure trovato il
coraggio di
confessargli che avevo baciato suo fratello. E che l’avrei
rifatto volentieri,
molte altre volte.
Scossi
la
testa per scacciare quell’idea. Era così difficile
pensare lucidamente.
E
chi aprì la
porta?
“Uccellino,
ti aspettavo”.
Eccolo
lì, a
gongolare con il suo sorriso soddisfatto.
“Mi
aspettavi?” ripetei.
“Sì,
ho
accompagnato mio padre in ospedale e ho incontrato il tuo. Gli avevano
appena
comunicato che sarebbe dovuto rimanere anche per il turno di notte ed
era
preoccupato per la tua gamba. Così mi sono offerto di badare
a te. È già la
seconda volta, mi devi un favore”.
Occuparmi
di te. Mi sono offerto.
Ho accompagnato mio padre in ospedale.
“Scusa,
ma
Giuseppe non c’è quindi?” chiesi in
panico.
“No,
è in
ospedale per dei controlli. Lo vado a riprendere domani
mattina”.
Che
razza di
manipolatore!
“Mi
sono
stupito che tu abbia accettato” ammise “Stamattina
non hai voluto il mio aiuto”
mi rinfacciò.
Feci
scivolare lo zaino con le cose per la notte giù per la
spalle e glielo passai
in malo modo, poi mi appoggiai alle stampelle ed entrai, guardandomi in
giro.
“Dov’è
Stefan?” m’informai.
“Non
c’è. È
da Elena”.
“E
quando
torna?”.
“Boh,
penso
domani”.
A
quel punto
gelai sul posto. Scoppiai a ridere un secondo dopo: mi aveva fregata,
era solo
uno scherzo “Sii serio. Stefan non mi pianterebbe mai in
asso, soprattutto con
una gamba fuori uso”.
“Non
sa che
sei qui. Mi sono dimenticato di avvertirlo, mi è proprio
passato di mente”.
Mi
resi conto
con orrore di essere caduta in pieno nella sua trappola. Come una
cretina.
Frenai
l’istinto di sollevare una stampella e tirargliela in testa.
“Siamo
io e
te, qui, da soli” conclusi.
“Non
fare
quella faccia arrabbiata, Bon Bon, so perfettamente che è
come un sogno che si
avvera per te” mi stuzzicò.
“Più
un
incubo” replicai acida “Damon non ho bisogno della
babysitter. È solo una
storta”.
“Ricordi
quando
avevi la febbre e sei volata sul pavimento del mio bagno? Se ti dovesse
succedere mentre sei da sola? Se ti dovessi rompere quella
gamba?”.
“Non
te ne
frega nulla della mia caviglia. Tu volevi incastrarmi” lo
accusai.
“Sempre
questi paroloni” scherzò “Ho visto
un’occasione e l’ho colta. Non venirmi a
raccontare che non sei contenta, non ti crederei”.
Non
ero
contenta davvero. Avevo bisogno di più tempo per riflettere
e per prendere le
mie decisioni. Con quel gesto mi sembrava di non avere il controllo
della
situazione.
“Almeno
c’è
da mangiare? Sto morendo di fame” mugugnai. Avevo lo stomaco
che pretendeva di
essere riempito.
“La
signora
Flowers ci ha cucinato tutto il giorno quando ha saputo della tua
gamba. C’è
tanta di quella roba che potresti scoppiare”.
A
fine cena
stavo in effetti per esplodere. Non ricordavo l’ultima volta
che avevo mangiato
così bene. La signora Flowers era una cuoca eccezionale.
Quando ero bambina
volevo sempre restare a cena da Stefan solo per i piatti della sua
governante.
Damon
si
dimostrò un perfetto uomo di casa e si occupò di
ripulire tutto senza che io
muovessi un dito. Con la mia gamba malmessa avrei avuto molte
difficoltà a sistemare.
Avevo
provato
a stare in piedi senza stampelle, ma la mia caviglia bruciava
tremendamente.
Era peggiorata rispetto al mattino, probabilmente perché
l’avevo stancata
durante la giornata. Prima di andare a letto, avrei fatto meglio a
prendere un
antidolorifico.
“Fa
ancora
male?” s’interessò Damon.
“Un
pochino”
ammisi.
“Mi
sorprende
che ti sia presa solo una storta. Credevo ti fossi spaccata la testa
quando sei
caduta” disse.
“Mi
sorprende
che tu mi abbia perfino notata. Mi sembravi parecchio
distratto”.
Lui
sogghignò
mentre riponeva l’ultimo piatto nella lavastoviglie
“Mi eviti come la peste,
però t’infastidisci quando l’attenzione
non è tutta su di te” considerò.
“Questo
non è
vero!” obiettai “Non sono
un’egocentrica”.
“Oh, andiamo
uccellino, di’ la verità: mi vuoi
tutto per te” mi provocò.
“Smettila”.
“Non
sopporti
nemmeno che io parli con qualcun altro”.
“Smettila”.
“Hai
fulminato quella povera ragazza”.
“Quello
che
fai nel tuo tempo libero con le tue povere ragazze non è
affar mio. La mia era
una semplice osservazione: eri talmente preso dalla vostra
conversazione che
non ti sei accorto di me fino a che non sono rotolata sul pavimento
davanti a
te. E se mi vedi infastidita forse dovresti chiederti se è
giusto baciare una
ragazza e poi provarci con un’altra due giorni dopo. Ma che
cosa pretendo! Tu
sei Damon Salvatore”.
“Già”
mi fece
eco, arrabbiato “Io sono un poco di buono”.
“Ti
aspettavi
un applauso?” mi accigliai “È
così che speravi di convincermi?”.
“Non
ho
bisogno di convincere nessuno. E neppure mi scuserò per
quello che hai visto”.
Ci
rimasi di
sasso. Lo avevo palesemente beccato con le mani nel sacco, era in torto
marcio,
eppure aveva ragione lui.
“Grazie,
Damon, mi hai appena semplificato la vita”. Se quelle erano
le premesse, tanto
valeva non cominciare neanche.
Afferrai
le
mie stampelle e lasciai la cucina. Gradino dopo gradino, faticosamente
raggiunsi il piano superiore e poi la stanza degli ospiti.
Indossai
il
pigiama e mi misi sotto alle coperte con il mio libro di lettura. Se
Damon
voleva comportarsi da bambino, non avevo nessun problema. Non avevo
bisogno
della sua compagnia.
“Sei
la
persona più irritante che conosca!” proruppe lui,
entrando nella camera. Scostò
le lenzuola che coprivano il mio corpo e si sedette in fondo al letto.
Ritirai
le
ginocchia al petto, spaurita e incerta.
Con
una mano,
agguantò una delle mie gambe, quella dolorante, e la
esaminò: si era gonfiata
un po’ e aveva un grosso livido dove avevo picchiato contro
al gradino.
Solo
in quel
momento mi accorsi che Damon aveva in mano il tubetto di una pomata. Ne
spremette un po’ sulla mia pelle e iniziò a
massaggiarla.
“Questa
la
usava sempre la signora Flowers quando mi facevo male da piccolo.
Attenuerà un
po’ il gonfiore” mi spiegò.
Ero
immobile.
Le dita sulla mia pelle erano delicate e piacevoli e avrei potuto
addormentarmi
sotto il tocco di quelle carezze.
“Era
la
sorella di Alaric quella che era con me oggi. Sono andato a prenderla
in
stazione. Non si vedono da tempo e lei voleva fargli una sorpresa,
così mi ha
chiamato e mi ha chiesto di accompagnarla a scuola. E prima che ti
vengano
strane idee, convive con il suo fidanzato da tre anni e a ottobre si
sposano”.
Lo
guardai
mortificata. Tanto rumore per dimostrare che non ero più una
bambina frignona e
alla prima prova mi comportavo esattamente come tale.
Come
avrei
desiderato nascondermi sotto al letto in quel momento.
“Tu
mi odi,
vero?” domandò a bruciapelo.
Aspettai
a
rispondere. No, non lo odiavo.
Ma
se non era
odio quello che provavo, che cos’era?
“Non
ti
biasimo. Mi sono sempre comportato male con te e con quelli che ti
stanno a
cuore. Ho dato il peggio di me”.
“Penso
di non
averti mai capito”, le parole mi uscirono dalla bocca prima
che potessi
fermarle “Io vedo il buono nelle persone, ogni volta, ma con
te è stato difficile”.
“Perché
sono
uno stronzo”.
“Perché
non
ho voluto” confessai “Non ho voluto trovare del
buono in te. Non lo so, Damon,
forse mi hai sempre messo paura…”.
“Paura?”.
“Sì,
paura. Non
osavo avvicinarmi per paura. Mi facevi sentire piccola
così…prima”.
“E
adesso?”.
“Adesso
mi
spaventi ancora di più. Adesso so che ciò del
buono in te, l’ho visto e ho
paura di non poter più farne a meno” mi morsi un
labbro imbarazzata.
Le
dita di
Damon risalirono lentamente verso il ginocchio “Non devi aver
paura, uccellino.
Sei l’unica che può dirlo. Ogni volta che ti
guardo, mi sale una dannata voglia
di prendermi cura di te”.
“Allora
perché
non mi hai detto subito che quella era la sorella di Alaric?”.
Strisciò
sul
materasso per avvicinarsi. Le sue mani avevano abbandonato la mia gamba
e
stringevano la mia vita attraverso la maglietta.
“Volevo
che
ti sentissi come me” soffiò sul mio volto.
Baciò lentamente una guancia “Che ti
sentissi come quando ti vedevo con Matt” e poi
baciò la mia fronte “E con Klaus”
e poi baciò la pelle vicino all’orecchio.
“In
che senso
vorresti prenderti cura di me?” lo sfidai, mentre chiudevo
gli occhi, dopo aver
scacciato ogni obiezione che la mia mente aveva formulato.
“In
tutti i
sensi” sussurrò veloce, prima di impossessarsi
delle mie labbra.
Scivolai
all’indietro,
contro al cuscino. Le sue dita si fecero spazio sotto la maglietta del
mio
pigiama e la mia gamba, quella sana, s’intrufolò
tra le sue, mentre le mie mani
finivano tra i suoi capelli tirandolo sempre più vicino a me.
Non
mi era
mai capitato niente del genere e seguivo l’istinto.
Sicuramente stavo mostrando
il lato più impacciato di tutta la mia inesperienza, ma
Damon non parve
curarsene. Lui era il mago, lui conduceva i giochi. Io ero solo una
piccola
allieva.
Un’allieva
curiosa e disposta a imparare ogni cosa.
Ogni
sensazione.
Ogni
tocco.
Ogni
sospiro.
Il
mio spazio:
Oggi
non mi
dilungo nei commenti perché ho poco tempo, ma dovevo
assolutamente aggiornare.
Direi
che in
questo capitolo abbiamo fatto dei passi da gigante. È tutto
incentrato sul
punto di vista di Bonnie perché volevo darvi
un’idea sulla confusione che le
gira in testa.
Confusione
che
tutt’ora persiste e che si farà sentire ancora nel
prossimo capitolo. Come vedete,
questi due a gesti sono dei fenomeni, a parole un po’ meno e
devono ancora
spiegarsi per bene.
Vi
ringrazio
tantissimo per il seguito che ottiene questa storia capitolo dopo
capitolo.
Vi
adoro alla
follia!
Stasera
risponderò
alle vostre recensioni!
Buon
pomeriggio!
Fran;)
|
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Capitolo 24 *** La belle et la bête ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventiquattro: La belle et la bête
“This thing called love, I just can't
handle
it
This thing called love, I must get round to it
I ain't ready
Crazy little thing called love
This thing called love
It cries like a baby
In a cradle all night
It swings, it jives
It shakes all over like a jelly fish
I kinda like it
Crazy little thing called love”
(Crazy Little Thing Called Love- The Queen).
Lo
avevo definito con gli epiteti peggiori che mi
fossero mai venuti in mente. Qualunque mio accenno di cattiveria si era
sempre
palesato quando c’era lui di mezzo.
I
suoi genitori lo avevano chiamato Damon. Nome
azzeccatissimo.
Eppure
addormentato sembrava semplicemente bello.
Tutto
era bello, non solo lui.
Era
bello stare appoggiata al suo petto, aggrappata
alla sua spalla come un koala. Era bello avere il suo braccio attorno
ai
fianchi e già m’immaginavo quanto fosse
intorpidito per il mio peso. Era bello
guardare il suo viso così da vicino.
Si
mosse leggermente nel sonno e io sgusciai via
dal suo abbraccio, scivolando sul materasso per mettere un
po’ di spazio.
Quel
ragazzo mi stava facendo diventare matta.
Era
nato per quel compito, ma una volta si trattava
di un altro tipo di pazzia. Una volta era solo la voglia di zittirlo,
di
prenderlo per il collo.
I
suoi sbalzi di umore, le sue cattiverie, le
battute e le risatine mi avevano tormentato per anni. Non lo capivo e
non
m’importava.
Ora
la situazione si era completamente ribaltata:
stavo impazzendo, sì, ma nella maniera più dolce
che si potesse intendere.
Arrossivo
per le sue parole, il cuore mi andava a
mille per la sua compagnia, mi mancava il fiato per la sua insistenza.
Un’insistenza che non mi infastidiva affatto.
Quando
ero insieme a Damon staccavo completamente
la spina. Era una sensazione che mi spaventava e animava nel contempo.
La
sera prima mi ero ripromessa di stargli alla
larga e mi ero avviluppata a lui come una piovra. Non era stata proprio
una
prova di ferma volontà.
Non
potevo fare altro: Damon mi attirava come una
calamita. Era irrazionale, era istintivo, era nuovo per me. Ne ero
semplicemente ipnotizzata.
Ancora
più sorprendente: non si trattava solamente
di attrazione fisica. La notte prima avevamo fatto le ore piccole, a
parlare.
Parlare
di stupidate, niente di importante. Mi ero
sentita a mio agio come non mai.
Non
era successo nulla, eccetto qualche bacio e
qualche carezza che si era mantenuta al limite del casto, cosa che non
mi sarei
mai aspettata da Damon.
E
poi un sacco di racconti e di battute, di risate,
tanto da dimenticare il male alla gamba.
Alle
fine ci eravamo addormentati praticamente uno
sopra l’altro, dopo una breve battaglia a colpi di solletico.
Non era stato un
sonno tranquillo e rilassante: Damon si muoveva di continuo, un paio di
volte
mi aveva tirato un calcio e si era spalmato su di me, non in senso
piacevole o
malizioso.
Mi
aveva scambiato forse per il suo cuscino e mi
aveva pressato contro al materasso in una morsa troppo calda e
opprimente.
Nonostante
la notte agitata, mi sentivo riposata e
felice. Stavo bene.
Stavo
bene con Damon. Stavo bene con Damon. Stavo
bene con Damon.
Continuavo
a ripetermelo un po’ per convincermi che
fosse vero, un po’ perché mi piaceva il suono che
quelle parole mi evocavano.
Mi
sentivo come una bambina a Natale e non capivo
proprio come avessi potuto resistere così tanto. Da dove
arrivava la mia
reticenza?
Da
anni di prese in giro, magari?
La
mia vocina interiore aveva segnato un bel punto,
ma non mi aveva scalfito per nulla.
Ricordavo
perfettamente tutta l’antipatia che avevo
provato verso di lui, semplicemente adesso non m’infastidiva
così tanto.
Le
persone potevano cambiare, giusto? Io per prima.
Era
ancora mattina e io ero ancora un po’
intontita. Non avevo proprio la forza di mettermi a pensare al futuro.
Mi
volevo solo godere il momento.
Riappoggiai
la testa sul cuscino, accanto alla
spalla di Damon.
Ero
lì per ricadere nel sonno quando le sue
palpebre si alzarono e i suoi occhi neri si puntarono dritti nei miei.
“Credevi
che stessi dormendo?” mi schernì
“Nessuno
mi guarda senza il mio permesso”.
“Non
ti stavo guardando” replicai “Pensavo”.
“A
me? È la stessa cosa” gongolò.
“Sei
il solito egocentrico” m’imbronciai.
“Una
delle mie tante qualità” sogghignò,
girandosi
del tutto verso di me.
“Direi
anche umile”.
Si
sporse verso di me prendendo gentilmente il mio
braccio e massaggiò il polso scendendo fino alla mano
“Se cerchi qualcuno di
umile o altruista, hai scelto il ragazzo sbagliato”.
“Alle
brave ragazze piacciono i cattivi
ragazzi…così mi hanno detto” dissi
molto lentamente, non perché volessi
ottenere chissà che effetto, ma non riuscivo a parlare,
troppo concentrata
sulle carezze delle sue dita.
“Allora
l’hai accettato alla fine” si compiacque.
“Non
ho più l’istinto di ucciderti nel sonno se
è
questo che intendi” lo stuzzicai.
“E
io non ho più il mal di orecchie a sentire la
tua voce. Stiamo facendo passi avanti” ironizzò.
“Che
cos’ha la mia voce che non va?” berciai.
“Niente,
a parte il fatto che raggiunge note
impensabili quando ti arrabbi. Cosa che accade spesso se sono nei
dintorni”.
“La
tua colpa è tua. Normalmente sono melodiosa
come un usignolo. Anzi, scommetto che è proprio per questo
che mi chiami
uccellino”.
“Pensavo
più a una cornacchia quando ho inventato
quel soprannome”.
Sfilai
la mano dalla sua presa e picchiettai con le
dita sul suo torace “Ammettilo, Salvatore, inconsciamente ti
sono sempre
piaciuta”.
“Sì,
a cinque anni quando eri ancora una bambina
dolce e gentile, poi sei cresciuta”.
“Tu
invece eri insopportabile già da piccolo” lo
ribeccai.
“Come
se mi avessi mai considerato. Sempre insieme
a Stefan, il tuo migliore amico”
sottolineò con una vocina derisoria.
“E
questo che cosa significa?” chiesi.
“C’è
stato un periodo in cui ti ritenevo carina”
ammise con molta fatica. Pronunciò quel
‘carina’ con un’espressione costipata.
Non seppi definire se il problema ero io o il complimento in
sé. Probabilmente
entrambi.
Corrugai
la fronte “Non ricordo che tu sia stato
mai carino con me” usai la sua stessa
parola apposta “Mi hai fatto tanti
di quegli scherzi che ho perso il conto”.
“Forza
Bon Bon, non dirmi che la mamma non ti ha
mai raccontato che se un maschietto fa gli scherzi a una bambina,
significa che
gli piace”.
Si
rese subito conto della battuta di pessimo
gusto.
“Sono
arrogante, egocentrico e anche stupido.
Scusami Bonnie, ho parlato senza pensare”.
Che
Damon chiedesse scusa era già di per sé un
fatto straordinario, ma che si dispiacesse così naturalmente
senza temere di
mostrarlo non era mai accaduto prima.
Rimasi
attonita e poco ci mancò che mi scusassi io
stessa. Era un vero mago a rigirare la frittata, anche quando non ne
aveva
l’intenzione.
Non
era un argomento su cui desideravo soffermarmi
più di tanto e decisi di insistere su un altro punto che
m’interessava
particolarmente.
“E
così…aveva una cotta per me?” lo
stuzzicai.
“Assolutamente
no” smentì “Non travisare le mie
parole”.
“Allora
spiegamele”.
“Mi
stavi solo più simpatica” minimizzò
visibilmente a disagio “Ero un bambino. Cosa vuoi che ne
capissi!”.
“E
adesso? Che ne capisci?” lo pressai.
Mise
una mano sulla mia guancia e l’accarezzò
“Stai
diventando sleale, uccellino”.
“Chissà
da chi ho imparato” mormorai e ritornai
giù, ad appoggiare la testa sulla sua spalla.
Ero
pronta a riaddormentarmi, pronta a perdermi nel
torpore che il suo corpo emanava. Ero talmente intontita che non udii
il rumore
di passi salire le scale, men che meno avvicinarsi alla porta.
Nel
momento in cui la porta si aprì e il mio nome
venne pronunciato era già troppo tardi.
Mi
ero completamente dimenticata di averlo chiamato
la sera prima, ma trovando la segreteria, gli avevo lasciato un
messaggio.
Stefan
rimase sulla soglia pietrificato. Guardava
verso di noi come se al nostro posto ci fossero due alieni.
In
effetti la situazione era abbastanza assurda
considerando i soggetti. Doveva essere un bel colpo rientrare in casa e
trovare
la tua migliore abbracciata a tuo fratello, stesi sul letto in una
posizione
tutt’altro che difensiva.
Amica
e fratello che si erano più volte giurati
odio eterno.
Non
avevo raccontato nulla a Stefan, niente di
niente. Neanche una parola su come i rapporti tra me e Damon fossero
cambiati, neppure
in tempi non sospetti, quando le circostanze era ben meno
compromettenti e gli
unici gesti che avevamo scambiato erano di pura e semplice
cordialità.
Damon
si tirò a sedere sul materasso e io lo seguii
a ruota.
“Fratellino,
che ci fai qui così presto?”.
Forse
non era proprio la domanda adatta per
dissimulare una situazione scomoda.
E
chiaramente Stefan lesse tra le righe quello che
Damon gli aveva suggerito.
“Ti
ho rovinato la festa?” lo ribeccò, alzando un
sopracciglio.
Percepivo
i toni scaldarsi. Non sarebbe finita
bene.
“Che
cosa diamine sta succedendo qui?” chiese
Stefan scandendo con cura ogni parola.
“Niente
d’interessante” rispose Damon con tono
deluso, quasi volesse aggiungere un ‘purtroppo’.
Gli
lanciai un’occhiataccia.
“Allontanati
da lei” ordinò Stefan con una fermezza
che colpì anche me.
Damon
corrugò la fronte “Perché? Non stiamo
facendo
niente di male”.
La
voce che usò era del tutto inappropriata.
Sembrava più: abbiamo perfino i vestiti addosso,
non farne una tragedia.
“Non
so che cosa tu abbia in mente, ma Bonnie è
fuori dalla tua portata” affermò Stefan convinto.
Proibire
a Damon qualcosa era un invito a fare
quella determinata cosa e anche di più.
“Io
invece non so
che cosa tu sia insinuando, ma onestamente non me ne frega molto della
tua
opinione”.
Gli
occhi di Stefan mandarono fulmini “Bonnie” mi
chiamò “Vieni qui”.
“Sa
parlare anche da sola” gli fece notare Damon.
“Ragazzi…”
cercai di calmarli, invano.
“Vattene
da qualcun’altra, fratellone”
ribadì Stefan con l’aria di uno che lo avrebbe
preso volentieri per il collo.
“Perché
non te ne vai tu, fratellino”.
Vidi
Damon spostarsi sul letto, pronto a scendere.
Sapevo che da lì a poco sarebbe scoppiato un putiferio. Fui
più veloce e balzai
giù sulla gamba sana, frapponendomi tra i due.
Misi
una mano sul petto di Stefan per catturare la
sua attenzione “Non è successo niente”
dissi con decisione “Ci siamo solo
addormentati sul letto dopo aver visto un film” mentii.
“Sul
tuo letto?”.
“Avevo
male alla caviglia, era più comoda qui”
chiarii.
“Abbracciati?”.
“Nel
sonno ci si muove”.
Ero
diventata brava a inventare scuse. Non sapevo
se preoccuparmene o compiacermene.
Stefan
mi osservò scettico. Forse nemmeno aveva
ascoltato bene le mie giustificazioni, pensava solo a come staccare la
testa a
Damon.
Ci
voleva qualcosa di più convincente.
“Andiamo
Stef” commentai con uno sbuffo “Io e tuo
fratello? Pensi davvero che possa succedere qualcosa tra
noi?”.
Guardò
oltre le mie spalle. Fece un paio di respiri
profondi e annuì. Sembrava che il problema si fosse risolto
un po’ troppo
velocemente rispetto a come era iniziato.
Possibile
che tutto il sospetto e la rabbia fossero
spariti con delle scuse così banali? Mi ero impegnata molto
per apparire
credibile, ma adesso Stefan stava cedendo troppo facilmente.
“Ti
aspetto giù in salotto, preparo la colazione”
mormorò e lasciò la stanza.
Mi
sciolsi dal sollievo “C’è mancato
poco” e mi
voltai verso Damon.
Ciò
che vidi fu peggio dello sguardo omicida di
Stefan: i suoi occhi erano freddi, severi, quasi mortificati, delusi.
Ed erano
rivolti a me.
Ne
fui colpita, confusa. Un momento prima mi
stringeva delicatamente e un secondo dopo mi fissava come se fossi la
peggiore
delle criminali.
In
quel momento capii che per me i guai non erano
ancora finiti.
“Sei
diventata un’ottima bugiarda, uccellino”
constatò.
Il mio nomignolo risuonò come un insulto tremendo.
“Beh,
non ho proprio mentito: in fondo è vero, non
è successo niente” ripetei.
“Sbagliato.
Non è vero che non è successo niente.
Non è successo quello, ma qualcosa
è successo” precisò, seccato e
innervosito.
“Stava
per saltarti alla gola. Se non avessi negato,
a quest’ora vi stareste prendendo a pugni” mi
irritai a mia volta.
“Sicura
che sia solo per questo?” cantilenò “O
forse non avevi il coraggio di dire la verità!”.
“Sei
paranoico, Damon”.
“Ho
passato anni della mia vita a inseguire una
ragazza che non mi voleva. Poi sono stato con un’altra
ragazza che non mi
voleva. Non ho interesse a ripetere la storia per una terza
volta”.
“Dove
vuoi arrivare?”.
“Per
cominciare sarebbe carino se riuscissi a dire
al tuo amichetto come stanno effettivamente le cose”.
“L’ho
fatto per dividervi!” proruppi “L’ho
fatto
per evitare una lite inutile!”.
“Tu
ti vergogni di me” mi accusò “E ti
vergogni di
te stessa, tanto da non riuscire nemmeno a dirlo ad alta
voce”.
“Ho
raccontato tutto alle altre” protestai “Sanno
tutto”.
“Che
cosa hai raccontato? Hai detto di provare
qualcosa per me? Hai detto che nonostante il nostro passato adesso vuoi
stare
con me? Che puoi mettere da parte le tue idee per me?”.
Restai
zitta. La conversazione non era andata
proprio così. Damon pretendeva troppo: dovevo ancora fare
chiarezza nella mia
mente, avevo bisogno di più tempo.
“Ti
va bene finché siamo soli, ma appena
c’è la
possibilità che qualcuno ci veda, scappi più
lontano che puoi”.
“Non
è proprio così” lo corressi
“Mi sto ancora
abituando”.
“Abituando
a cosa? Hai già avuto altri ragazzi”.
“Ho
avuto Matt e ci siamo solo frequentati”.
“Sì,
alla luce del giorno. Avevi gli occhi a cuore,
non vedevi l’ora di urlarlo a tutti”.
“Non
è andata a finire bene tra noi” gli ricordai,
un po’ per rincuorarlo, un po’ per fargli capire
l’assurdità del suo discorso
“Tu e io siamo ancora all’inizio: fino a ieri sera
non ero neanche sicura di
aver preso la decisione giusta”.
“Ora
lo sei invece!” replicò sarcastico “Qual
è la
decisione giusta, Bonnie?”.
“Sei
nervoso, Damon. Sei nervoso per come ti ha
trattato Stefan. Ne parleremo quando ti sarai calmato, ma ora
è meglio se
scendiamo per colazione o tuo fratello
s’insospettirà ancor di più”.
“Sarebbe
una vera tragedia” commentò lui scettico
“Adesso o più tardi non fa la differenza per me:
non ho intenzione di essere il
tuo segretuccio. E onestamente non capisco se vuoi solamente toglierti
uno
sfizio o sei hai paura di ammettere che ti piaccio sul serio”.
“Non
è uno sfizio. Non sono il tipo da sfizio”
obiettai, indignata che potesse pensare una cosa del genere di me.
“Allora
non cambierà niente. Tra due giorni o tra
due mesi, la verità è che non mi accetterai mai
del tutto” sussurrò
scoraggiato.
“Mi
serve un po’ di tempo” mi giustificai,
mortificata che si sentisse rifiutato per colpa mia “Mi sto
abituando”.
“A
cosa, Bonnie, a cosa?” pressò, esasperato.
“A
te!” sbottai spazientita “Mi sto abituando a te,
all’idea di essere attratta da te, all’idea di
volerti. Non sei un santo,
Damon. Me ne hai fatte di tutti i colori, ho pianto per colpa tua, mi
sono
sentita uno zerbino per colpa tua, ho dubitato di me stessa per colpa
tua. Ora
sono cresciuta, sono più forte e non voglio gettare i miei
sforzi al vento. Quindi
scusami se preferisco prendermi del tempo per riflettere, prima di
buttarmi a
occhi chiusi nelle braccia di chi mi ha fatta stare male!”.
Era
ufficiale: con quelle parole avevo aperto il
vaso di Pandora.
Avevo
provato a tenermi tutto dentro, a non pensare
ai miei sospetti. Avevo provato a evitare quel confronto. Speravo di
risolvere
le mie incertezze da sola, senza renderlo partecipe delle
perplessità che avevo
su di lui.
Damon
incassò il colpo: la mia resa era stata da
una parte una liberazione per lui, dall’altra una conferma
delle sue paure.
“Non
ti fidi di me” concluse amareggiato
“C’è poco
da stupirsi: mi sono comportato da vero stronzo con te. Il problema
è che non
posso tornare indietro e sistemare i miei errori. Ho cercato di
rimediare in
questi ultimi mesi, mi sono davvero impegnato per mostrarti la parte
migliore.
Hai visto tutto di me, il mio lato buono, quello cattivo, quello molto
cattivo.
Ti ho permesso di conoscermi. Evidentemente non è
abbastanza. Sono sincero, ma
non posso costringerti a credermi. Se mai ti deciderai, sai dove
trovarmi. Ti
chiedo solo di non tornare finché non sarai davvero
convinta. Anche io ho
costruito qualcosa e non posso rovinarlo per l’ennesima
delusione”.
Mi
superò uscendo dalla stanza.
Impiegai
due secondi per girarmi verso la porta con
l’intenzione di seguirlo, di fermarlo. Eppure non mossi un
solo passo.
Non
sarebbe cambiato niente. Io restavo della mia
idea e Damon su quel punto era stato molto chiaro: torna solo
se sarai
convinta.
Non
avevo niente di nuovo da aggiungere a ciò che
gli avevo praticamente urlato.
Raccolsi
la mia roba e zoppicai giù dalle scale
attaccandomi alla ringhiera, senza prendere le stampelle, appoggiate in
un
angolo. Le dimenticai lì e me ne accorsi solo quando
raggiunsi l’ingresso.
Avrei
potuto chiedere a Stefan di portarmele,
invece lo salutai frettolosamente, inventando che mio padre mi aveva
appena
chiamato per avvisarmi che il suo turno era finito.
Non
potevo stare in quella casa un minuto di più.
Arrabbiato.
Incazzato. Furioso.
Ero
anche deluso, umiliato e tremendamente
irritabile.
Mi
ero morso la lingua per trattenermi, per non
peggiorare la situazione. Ma la tentazione era stata forte.
Lei
si vergognava di me. Lei!
Avevo
trascorso anni della mia vita a considerarla
una bambina, nemmeno così carina da tentarmi.
L’avevo denigrata e ignorata.
Davanti ai miei amici non aveva detto una singola parola gentile nei
suoi
confronti, mi ero sempre mostrato superiore e indifferente.
Avevo
una reputazione da difendere!
Ma
alla fine me n’ero fregato, alla fine mi ero
arreso. Ero pronto ad ammettere i miei sbagli, a prendere a pugni Tyler
se mai
avesse avanzato altri commenti sporchi su di lei. Ero pronto a portarla
fuori
per un vero appuntamento, davanti agli occhi di tutti, a costo di
passare per
un incoerente, un ipocrita.
E
lei si tirava indietro! Lei mi rifiutava perché
non poteva mettere da parte i suoi stupidi principii da moralista.
Davvero
ti stupisci? La ritieni inferiore a te e ti stupisci che sia fuggita a
gambe
levate?
C’erano
momenti in cui avrei staccato il mio stesso
cervello pur di sbarazzarmi della mia coscienza. Una volta neanche
avevo una
coscienza e adesso mi torturava un giorno sì e
l’altro pure.
Bonnie
aveva ragione: non ero uno stinco di santo.
I miei stessi pensieri lo dimostravano.
Ero
stato cattivo con lei, spesso senza un vero
motivo, solo con la scusa di divertirmi. Scoppiava a piangere per
niente e si
arrabbiava per tutto. Provocarla era sempre stato il mio sport
preferito.
Era
il mio opposto. Incarnava quelle qualità che
avevo sempre ritenuto difetti, quelle che non potevo sopportare. Quelle
di cui
ero miseramente privo.
Forse
avevo invidiato la sua spontaneità e la sua
innocenza. Forse avevo cercato di punirla per avermi schifato come un
insetto.
Chi
era lei per non degnarmi di uno sguardo? Perché
Stefan sì e io no?
Bonnie
era stata la prima a preferire mio fratello,
era stata la prima a farmi sentire piccolo e insignificante.
Il
mio orgoglio e il rancore mi avevano impedito di
vederla per la splendida persona qual era. Avevo scelto di guardarla
dall’alto
al basso, di porla su un gradino inferiore al mio.
Mi
era costata fatica e una buona dose di umiltà
per cambiare opinione, per levarmi quei pregiudizi dagli occhi. Ma
dopotutto
niente era mutato da parte sua.
Nel
momento di esporsi, si era ritirata impaurita:
Stefan non doveva sapere.
E
le sue amiche? Loro conoscevano parzialmente la
storia, ma Bonnie si era ben premurata di non smascherare troppo le sue
emozioni.
Della
serie sì,
con Damon sento il brivido del proibito, niente di
più.
La
ragione di questa sua reticenza era ciò che mi
feriva maggiormente: Bonnie non si fidava di me. Non riusciva a
percepire la
mia sincerità.
Non
che le mie azioni fossero scaturite da un
nobile intento. Se ripensavo alla scommessa, mi venivano i brividi
dalla
vergogna.
Alla
fine, però, mi ero fregato con le mie mani.
Caduto in una trappola degna della più banale commedia
romantica.
Nonostante
le mie colpe, nonostante riconoscessi
che la sua diffidenza fosse giustificata, non mi pentivo dell’aut
aut che
le avevo dato.
Io
non ero l’eroe, non ero il principe azzurro.
Probabilmente in una fiaba mi avrebbero messo a fare il cattivo. Ma non
eravamo
in La bella addormentata nel bosco e lei non era
la principessa da
salvare.
Nel
mondo reale i personaggi non erano tagliati con
l’accetta.
Bonnie
doveva imparare a seguire il suo lato più
selvaggio, più istintivo. Se cercava un cavaliere senza
macchia e senza paura,
aveva sbagliato soggetto.
Lei
stessa mi aveva confidato di non volere un
bravo ragazzo. Con Matt era finita malissimo.
Io
non ero del tutto cattivo. Avevo del buono in me
e mi ero stufato di nasconderlo.
Esattamente
nello stesso modo in cui Bonnie non era
solo una ragazzina educata, ingenua e di cuore. Aveva avuto anche lei
sprazzi
di irruenza e combattività.
Nei
miei confronti specialmente non si era
risparmiata in battutine e affondi. La sua rettitudine iniziava a
vacillare.
Ne
era ben conscia e per questo tentava di mettere
paletti tra di noi perché cedere a me significava accettare
lati del suo
carattere che la spaventavano.
Dichiarava
di essere cresciuta, ma rimaneva troppo
imbrigliata nel ruolo che per anni aveva interpretato. Non era
più una
matricola del liceo, si preparava a diventare una donna.
Io
nel bene e nel male avevo messo sul tavolo da
gioco tutto me stesso.
Adesso
era il suo turno. Dentro
o fuori.
Non
potevo sopportare una storia a metà, ma se era
ciò che riusciva a offrirmi, allora mi sarei tirato indietro.
Perché
avevo bisogno di Bonnie, sentivo e sapevo di
aver bisogno di lei, di quella vera, senza freni e senza incertezze.
Non
avevo mai provato niente del genere in vita
mia. Ne ero terrorizzato.
E
più di tutto temevo che lei non avesse bisogno di
me allo stesso modo.
Cosa
molto probabile visto la velocità con cui mi
aveva accantonato per non turbare la quiete di Stefan.
“Damon,
sei in camera?”.
O
no. Ci mancava solo lui. Non volevo parlargli,
non volevo vederlo. In realtà volevo solo essere lasciato in
pace.
Me
ne rimasi zitto, ma quel rompiscatole aprì la
porta.
“Sto
studiando” risposi a denti stretti.
“Senza
libro?” replicò mio fratello scettico.
“Ripeto
mentalmente” provai a scrollarmelo di dosso
in tutti i modi, senza risultato.
“Sei
diventato un pessimo bugiardo” sottolineò per
poi sedersi sul mio letto.
Io
continuai a dargli le spalle, appoggiato alla
mia scrivania con i gomiti.
“Hanno
chiamato dall’ospedale: tra poco possiamo
andare a prendere papà”.
“Bene”
asserii “Vado io. Non ti scomodare”.
Speravo
che non avesse altro da aggiungere, ma non
se ne andò. Non parlava e io potevo sentire comunque la sua
presenza e i suoi
occhi puntati sulla mia schiena.
“Damon
mi dispiace per come ho reagito stamattina”
sussurrò con un filo di voce.
Questo
mi costrinse a voltarmi: non mi aspettavo le
sue scuse, non dopo la scena di qualche ora prima. Non credevo nemmeno
mi
avrebbe più rivolto parola. Aveva messo in chiaro di non
volermi vicino alla
sua migliore amica, perché mi riteneva un poco di buono.
“Non
preoccuparti, Stef” lo liquidai.
“Ti
ho attaccato senza lasciarti spiegare. Ti ho
visto lì con Bonnie e mi è salito il sangue al
cervello, non sono riuscito a
trattenermi”.
“C’era
poco da spiegare. Come ti ha ribadito Bonnie
non è successo niente”.
“Pessimo
bugiardo” ripeté.
“Che
cosa pretendi dalla mia vita Stefan?
Stamattina quasi mi stacchi la testa perché mi sono
addormentato accanto a
Bonnie e adesso mi chiedi di perdonarti. O stai diventando bipolare o
ti
diverti a prendermi in giro”.
“Stavo
solo difendendo la mia amica, non mi sono
fermato a pensare. Tu sei mio fratello e abbiamo appena incominciato a
ricostruire il nostro rapporto. Se abbiamo un problema dobbiamo
risolverlo
subito, quindi inizio io: mi spiace di averti accusato in quel
modo”.
Liberai
uno sbuffo esasperato “Come diavolo ci
riesci?!” esclamai “Com’è
possibile che qualunque cosa tu faccia, alla fine ne
esci sempre da eroe? Sei…sei perfetto. Dici sempre la cosa
giusta, fai sempre
la cosa giusta, pensi sempre la cosa giusta. Come cazzo ci
riesci?”.
“Ho
come l’impressione che non stiamo parlando più
di me” ipotizzò fissandomi.
“No,
sono io il problema! Sono io quello
sbagliato”.
“Sbagliato
per chi?” indagò.
“Nessuno”
troncai “Come mai sei tornato così presto
questa mattina? Elena ti ha cacciato dal letto?” sviai il
discorso.
“Ieri
sera Bonnie mi ha lasciato un messaggio
chiedendomi di venire qui. Avevo il cellulare scarico e non me ne sono
accorto.
Quando l’ho ascoltato, sono corso qua. Avevo paura fosse
successo qualcosa a
papà”.
Fantastico,
non sopportava nemmeno di rimanere da sola con me.
Pensai amaramente.
“C’è
un motivo se ti ho chiesto scusa, se ho
cambiato idea: è stata l’espressione che hai fatto
quando Bonnie ha detto che
non era successo niente tra voi” mi raccontò
“Damon, credo che tu tenga a lei
più di quello che vorresti ammettere e credo ci sia molto
altro da sapere”.
“Che
cosa te lo fa credere?”.
“Per
esempio quella volta in cui siete arrivati
all’ospedale mano nella mano. Ammetto che trovarvi nel letto
assieme è stato un
po’ più sconvolgente”.
“Stavamo
dormento, vestiti. Ho visto cartoni
animati più spinti”.
“Per
te forse, mi sembra che per Bonnie sia stato
sconvolgente quanto lo è stato per me”.
“Calmati,
Santo Stefan, non assisterai più a una
scena simile. Sospetto che la tua amica mi abbia dato il ben
servito”.
“Bonnie
si sta proteggendo; è ancora una bambina”
mi disse, teneramente “È una bambina che crede
nelle favole. Sogna il grande
amore, sogna l’avventura, ma la spaventa il salto nel vuoto.
Non ha la minima
idea di come gestirti. Tu sei…”.
“Il
buco nero” ironizzai “Sei stranamente
tranquillo rispetto a questa mattina”.
“Aspetto
di ascoltare tutta la storia prima di
minacciarti di morte, un’altra volta”
sogghignò “Andiamo a prendere
papà, mi racconti in macchina” proprose.
“Non
mi basta il tempo”.
“Facciamo
il giro lungo”.
Elena
mi aveva proprio incastrato.
Adoravo
i bambini, normalmente avevo un ottimo
feeling con loro, ma quel giorno non ero dell’umore adatto
per avere compagnia.
Avrei
tanto desiderato starmene sola; invece la mia
migliore amica si era presentata da me con sua sorella Margaret
chiedendomi di
farle da babysitter.
I
genitori erano usciti a cena, Katherine come al
solito si era defilata più veloce della luce. Elena
inizialmente si era offerta
di badare alla sua sorellina, poi Caroline l’aveva
praticamente supplicata di
aiutarla con un evento di beneficienza.
Avevo
accettato di tenerla con me, ma non ero
assolutamente dell’umore adatto per giocare o intrattenerla.
Allora l’avevo
piazzata sul divano a guardare un cartone animato.
Aveva
scelto la “Bella e la bestia”. Avevo ancora
tutti i film di quando ero piccola e quello era uno dei miei preferiti.
Rimasi con
lei sul divano, anche se avevo la testa da tutt’altra parte.
Restai attenta
solo per i primi due minuti, durante il racconto iniziale con quella
musichetta
che mi metteva sempre angoscia e meraviglia nel contempo, poi staccai.
Mi
ero cacciata in una spiacevole situazione. Per quanto
ne fossi combattuta, non mi ero mai resa conta di quanto mi mettesse a
disagio fino
a questa mattina.
Non
mi ero mai esposta per Damon, almeno non
pubblicamente. Alle mie amiche avevo confessato tutto, ma non mi ero
mostrata
affatto convinta, anzi ero apparsa più propensa a un no che
a un sì. Stefan ne
era addirittura all’oscuro.
A
questo punto fosse sospettava qualcosa, dato che
le mie scuse non erano state di grande inventiva.
L’intento
era di non mettere Damon ulteriormente
nei guai, ma ne avevo anche approfittato per rimandare una scomoda
chiacchierata.
Mi
vergognavo a rivelarlo a Stefan, perché per anni
non avevo fatto altro che denigrare suo fratello. Mi ero vantata di non
essere
come le altre ragazze, di non avere alcun interesse per Damon, di non
considerarlo nemmeno così fascinoso. E poi finivo
addormentata e abbracciata a
lui nel letto? Gran prova di coerenza!
Ci
avevo provato, sul serio. Avevo tentato di
accettare i sentimenti che provavo, di dimenticarmi del passato.
Eppure, nel
momento in cui Stefan mi aveva colta sul fatto, i miei sforzi erano
stati
spazzati via.
Damon
suscitava in me emozioni che non avevo mai
sentito in vita mia, questo sì. Ma non mi fidavo.
Non
credevo alle sue buone intenzioni. Temevo che
si trattasse solo di un gioco o di un capriccio, che mi avrebbe
piantato in
asso non appena gli fosse passata l’infatuazione.
Io
non ero la ragazza che cercava. Non ero pronta a
una relazione come quella che poteva offrirmi: passionale, intensa,
inebriante,
quasi infiammata.
Con
lui tutto andava a cento all’ora, tutto era
spinto all’eccesso. Non sapevo come stargli dietro. Ero
completamente
destabilizzata e un po’ frenata dalle mie stesse remore.
La
questione si risolveva in una semplice domanda:
ero cambiata a tal punto da imbarcarmi in una relazione con Damon? I
suoi
sbalzi d’umore potevano conciliarsi con le mie insicurezze,
la sua impulsività
con la mia sensibilità?
Osservai
distrattamente lo schermo: eravamo già
arrivati al punto in cui la bestia salvava Belle dai lupi.
Margaret
aveva scelto un film provvidenziale: la
bestia assomigliava un po’ a Damon.
Arrogante,
cinico, totalmente privo di tatto o di
una qualsivoglia educazione; ma anche sofferente, buono nel profondo,
appassionato e autentico.
New and a bit alarming
Who'd have ever thought that this could be?
True that he's no Prince Charming
But there's something in him that I simply didn't see*
Illuminazione,
epifania, non sapevo come chiamarla.
Improvvisamente tutto era diventato chiaro nella mia mente, dopo
l’ascolto di
quella semplice canzone e dopo l’intesa nata tra i due
protagonisti in seguito
all’episodio nella foresta.
Udii
un’auto fermarsi nel vialetto di Villa
Salvatore. Gettai un’occhiata oltre la finestra e scorsi
Stefan, Damon e
Giuseppe scendere dalla vettura.
Mollai
lì Margaret che nemmeno si accorse di niente
tanto era presa dalla visione.
Uscii
in strada: Giuseppe e Stefan erano appena
entrati in casa, Damon stava scaricando un borsone dal bagagliaio.
Mi
avvicinai in fretta, lo chiamai e senza dargli
il tempo di aprire bocca, cominciai “Non dire una parola.
È importante, quindi
ascoltami in silenzio”.
Corrugò
la fronte incuriosito e mi fece segno di
continuare.
“Hai
presente che le bambine da piccole sognano il
Principe Azzurro? Quello sul cavallo bianco, senza macchia e senza
paura? Ecco,
lo sognavo anche io ovviamente. Poi si cresce, i sogni cambiano ma le
basi
rimango quelle: cercare il principe delle favole. Tu eri il sogno di
tutte le
mie compagne, per me eri un incubo. Anzi, sei il
mio incubo peggiore:
presuntuoso, egocentrico, irresponsabile, zero senso della famiglia o
dell’affetto,
egoista…”.
“Se
sei venuta per insultarmi puoi anche andartene.
Lo hai già fatto per anni”.
“Io
ho sempre preferito la bestia” confessai di
getto “La bestia era divertente e complicata, era da
scoprire. Da un po’ di
tempo il mio cuore è freddo e non riesco a sentire niente.
Un incubo mi
tormentava: tu. L’idea di arrendermi a te era una paura che
si stava avverando
e ho fatto di tutto per impedirlo. Solo adesso ho realizzato che non me
ne
frega niente del sogno, mi basta l’incubo perché
è l’unico che riesce a
scaldarmi il cuore. Tu sei quella dannata bestia e mi va benissimo
così”.
Damon
rimase di stucco a fissarmi. Io divenni
bordeaux. Era stata la mia voce a parlare? Mi ero davvero messa a nudo
in quel
modo?
E
Damon non mi rispondeva, il che mi imbarazzava
ulteriormente.
“Io…devo
andare. Margaret…beh, abito qui di fronte
se…” farfugliai qualche scusa sconclusionata e
corsi a cercare riparo in casa.
Posai
una mano sul cuore che batteva all’impazzata.
Ora che l’adrenalina stava sparendo, le mie gambe iniziavano
a tremolare.
Non
avevo chiuso la porta d’ingresso a chiave per
la fretta. Questa si aprì alle mie spalle e io mi voltai
spaesata, in un
tumulto di emozioni confuse.
“Mi
serviva qualche secondo per elaborare l’offesa”
disse Damon affannato “Non posso credere che tu mi abbia
paragonato a quella
bestia pelosa”.
Un
attimo dopo mi sollevò da terra, i miei fianchi
stretti tra le sue dita, e mi baciò, cancellando finalmente
ogni mio dubbio.
Il
mio spazio:
Scusatemi
per l’immenso ritardo, ma avevo un
compito per l’università e ho dovuto accantonare
un po’ la scrittura.
In
più è stato un capitolo disastroso da completare
e non sono nemmeno sicura che sia uscito così bene.
No,
niente notte di fuoco tra Damon e Bonnie. La
storia non è ancora finita, quindi potrebbe accadere, ma ora
era troppo presto.
In
questo capitolo viene affrontato un grosso
problema: Bonnie non cede perché non si fida di Damon, delle
sue intenzioni e
delle emozioni che le fa provare.
Non
si fida neanche di se stessa, della sua
capacità di gestire una situazione del genere. Sta entrando
nel mondo degli
adulti e come ogni adolescente né attratta e intimorita.
Spero
davvero che la sua “illuminazione” finale non
vi sembri troppo affrettata. A volte capita che le cose più
banali ci facciano
capire ciò che vogliamo in pochissimo tempo. Poi sono anche
del parere che a
diciott’anni certi momenti vadano vissuti e basta,
d’istinto, accantonando le
pare mentali.
Che
ne dite del confronto tra fratelli? Stefan alla
fine a mente lucida e più tranquilla è andato a
scusarsi con Damon e a chiedere
la sua versione. Non è proprio al settimo cielo per questa
relazione, ma
imparerà anche lui ad abituarsi.
Vi
avviso che mancano ancora pochi capitoli al
termine, quattro o cinque!
Ora
vi lascio perché comincia a farsi tardi. Ho
corretto il capitolo adesso, quindi mi scuso per eventuali errori, sono
un po’
stanca.
Buona
notte (se c’è ancora qualche pazza sveglia
che ha letto ora), e buona giornata per tutte voi che leggerete domani!!
Grazie
mille per il continuo supporto. Un bacione,
Fran;)
*Questi
sono alcuni versi tratti dalla canzone Something
there. La scena in particolare è quella in cui
Belle e la bestia sono in
giardino e danno da mangiare agli uccellini. È il momento in
cui si accorgono
che qualcosa tra loro sta cambiando. Ho scelto la versione in inglese
perché le
parole erano più adatte. La traduzione è questa:
Nuovo
e un po’ allarmante
Chi
avrebbe mai pensato che potesse accadere?
Certo,
non è il Principe Azzurro
Ma
c’è qualcosa in lui che semplicemente non avevo
visto.
|
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Capitolo 25 *** It's too cliché, I won't say I'm in love ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
venticinque: It’s too cliché, I won’t
say I’m in love
“I can see it in your eyes
That you despise the same old lies you heard the night before
And though it's just a line to you, for me it's true
And never seemed so right before
I practice every day to find some clever lines to say
To make the meaning come through
But then I think I'll wait until the evening gets late and I'm alone
with you
The time is right, your perfume fills my head, the stars get red and the night's so blue
And then I go and spoil it all by saying something stupid like I
love you”
(Something stupid- Frank e Nancy Sinatra).
Chissà
perché compiere diciott’anni era una cosa
che spaventava e eccitava nel contempo?
Si
trattava solo di un numero. Un giorno avevi
diciassette, il giorno dopo uno in più.
Che
cosa c’era di tanto diverso? Non si cambiava in
una notte.
A
diciotto anni si poteva votare, questo mi doveva
far sentire più matura? Probabilmente avrei impiegato minimo
altri due anni per
formarmi un’opinione sulla politica.
Avevo
preso la patente a sedici anni e non avrei
potuto bere alcolici legalmente fino ai ventuno. Che cosa
c’era di speciale nel
diciottesimo compleanno?
Semplice:
non si diventava adulti da un giorno con
l’altro, ma si entrava di diritto nel mondo degli adulti e
quello era un
passaggio troppo importante nella vita di un’adolescente.
Dovevo
cominciare a fare i conti con la fine della
scuola superiore e l’inizio di una nuova esperienza:
l’università, il distacco
con la famiglia, la responsabilità crescente.
Ma
era ancora troppo presto per preoccuparmi di
tutto quello e avevo impegni decisamente più imminenti, come
la festa per il
mio compleanno.
Avevo
delegato il compito a Caroline che era stata
felicissima di potersene occupare. Me n’ero pentita nemmeno
due ore dopo.
Da
sola non ero capace di organizzare un evento
simile e onestamente, sebbene avessi voglia di festeggiare, non avevo
di certo
le capacità e la pazienza di trafficare tra inviti, musica,
catering e altro.
Erano
i miei diciott’anni, desideravo dare una
festa con i fiocchi, ma senza un’esperta non avrei combinato
niente. Per questo
avevo pensato a Caroline e alla sua innata dote organizzativa.
Peccato
che non avessi messo in conto anche la sua
tendenza a esagerare tutto. Se non fossi stata attenta, mi sarei
trovata in
mezzo a un circo.
Avevamo
trovato un locale molto carino, appena
fuori da Fell’s Church, abbastanza grande senza essere troppo
dispersivo. I
proprietari mi avevano dato praticamente carta bianca. Fatta eccezione
per il
bar che rimaneva sotto la loro gestione, potevo gestirmela come
preferivo. Mio il
DJ, mio l’allestimento, mia
l’atmosfera.
O
meglio, di Caroline perché era lei il capo per
quella sera.
Le
avevo dato istruzioni precise: festa chiusa e su
invito, alcol limitato per evitare eccessi e danni, nessun tema
ridicolo che
implicasse un dress code. Un po’ di
eleganza era richiesta, ma non mi
andava di vedere tutti in bianco e nero, o in rosso, o conciati come
manichini
dell’Ottocento.
Ci
tenevo a organizzare qualcosa di carino e adatto
a me, quindi semplice, non troppo sfarzoso.
Sapevo
che Caroline avrebbe sforato da qualche
parte, non si sarebbe mai contenuta così tanto, ma potevo
sopportare qualche
stravaganza.
Ero
assolutamente elettrizzata all’idea di passare
una serata dedicata a me (un po’ di sano egoismo a volte
faceva bene) circondata
da tutti i miei amici.
E
da Damon.
Pensai con un
mezzo sorriso imbarazzato.
Era
passato un mese o giù di lì, ma era ancora
quello l’effetto che sentivo quando fantasticavo su di lui:
rossore,
palpitazioni, sorriso da ebete, morsa allo stomaco.
Non
riuscivo a parlarne senza balbettare o
arrossire come una ragazzina alla sua prima cotta.
Lo
sapevano più o meno tutti, sebbene né io
né
Damon avessimo confermato nulla. Uscivamo insieme, ma non ci tenevamo
per mano,
men che meno ci baciavamo in pubblico. Eravamo riservati, gelosi della
nostra
privacy. Ma suppongo che fossero stati i piccoli gesti a far intuire
ciò che
stava succedendo tra noi: come uno sguardo, un buffetto sulla guancia,
una
carezza sui capelli. E ovviamente i pettegolezzi a Fell’s
Church volavamo più
veloci della luce.
Uno
degli ultimi a scoprilo era stato proprio mio
padre, per assurdo, il capo del fan club di Damon. Una scena ridicola e
d’impatto, cui un’adolescente non vorrebbe mai
assistere.
Eravamo
seduti sui gradini del portico di casa mia,
dopo un appuntamento serale. Il bacio della buona notte si era
prolungato più
del previsto e mio padre aveva aperto la porta, pronto a trucidare la
nuova
fiamma della sua bambina.
La
sorpresa di trovarsi davanti nient’altri che il
suo pupillo lo aveva quasi commosso.
Io
mi sarei sotterrata, Damon non poteva apparire
più compiaciuto di così.
Avevo
chiacchierato a lungo con Stefan riguardo a
quel rapporto sgangherato nato da chissà dove. Mi era
servito parecchio per
rimettere in asse alcuni momenti e emozioni.
Stefan era la mia roccia, era il mio punto di riferimento
e non avrei
mai mosso un passo senza chiedere un suo parere.
Alla
fine eravamo giunti alla conclusione che
entrambi avevamo mal giudicato Damon. Non che lui si fosse mai
impegnato troppo
per cambiare l’immagine che si era creato. Ma quella era
un’occasione per tutti
e tre di ripartire da zero.
Avevo
comunque apprezzato lo scatto protettivo che
Stefan aveva avuto nei miei confronti. Fratello o meno, se Damon mi
avesse
fatto soffrire anche per sbaglio, Stefan non avrebbe esitato a
rimetterlo in
riga.
Le
altre aveva accettato la nostra relazione senza
tanti problemi. Non contando Elena che accompagnava mio padre nella
gestione
del Damon-Bonnie fan club, Meredith e Caroline avevano accolto di buon
grado la
novità, specialmente la seconda che non smetteva
più di fare battutine piccanti
su di noi.
La
cosa mi avrebbe messo a disagio in qualunque
situazione, ma in quel contesto ancora di più
perché tra me e Damon non era
ancora successo niente, in quel senso.
I
nostri incontri erano decisamente al di là di
baci innocenti, eppure non eravamo arrivati fino in fondo.
Motivo
semplicissimo: non ero ancora pronta.
Damon
mi piaceva alla follia, stavo bene con lui
come con nessun altro, ma ci frequentavamo da poco e quel passo era
troppo
importante, almeno per me.
Lui
era già stato con centinai di ragazze. Io no.
Con nessuno.
Non
sapevo neanche da dove cominciare, non sapevo
muovermi, avrei rovinato tutto.
Il
pericolo di fare una figuraccia era dietro l’angolo.
Mi
mancava ancora un po’ di sicurezza e qualche
conferma. Cercavo di rimanere con i piedi per terra e di non saltare
nel vuoto
a occhi chiusi.
La
mia prima esperienza non doveva essere presa
alla leggera, non ero quel genere di ragazza. Se non fossi stata certa
al cento
per cento, me ne sarei pentita per sempre.
D’altra
parte Damon aveva risvegliato tutti gli
ormoni che non credevo di possedere e mi risultava
sempre più difficile
resistere.
Più
di una volta avevo pensato di buttarmi e basta,
senza badare troppo alle conseguenze. Alla fine mi ero sempre fermata.
Era
inutile dopotutto crucciarsi in quel modo per
un problema che non trovava soluzione logica. Se doveva accadere,
sarebbe stato
spontaneo.
E
poi c’era anche quella dannato domanda a martellarmi:
quanto mi avrebbe aspettato?
Un
tipo come Damon, fisico e passionale, si sarebbe
stufato presto o tardi.
Ero
tremendamente combattuta, ma non volevo per
nulla al mondo farmi condizionare. La decisione era mia soltanto e se
non gli
stava bene, allora non aveva senso continuare.
In
realtà, Damon non mi aveva mai pressato o
scaricato su di me il peso dell’attesa. Si era dimostrato
sorprendentemente
comprensivo. Ogni tanto scappava qualche battuta, ma capivo che non
c’era
insofferenza nella sua voce.
Alla
fine dei conti, si trattava solamente di mie
paranoie.
Di
certo potevo solo affermare di essere pazza di
quel ragazzo. Tutto ciò che prima non sopportavo di lui,
adesso mi sembrava
essenziale per la mia vita.
Non
vedevo l’ora di passare il mio compleanno con
Damon, di farmi viziare e coccolare, di creare quel ricordo e
portarmelo via
per sempre.
Per
questo restai totalmente di sasso quando mi
disse:
“Scusami,
Bonnie, ma non credo che verrò”.
“Che
cosa significa che non credi che verrai?”
berciai minacciosa.
“Ho
già passato troppe feste di liceali quest’anno
e poi gli esami si avvicinano e mi sveglio presto al mattino per
studiare”.
“Ma
è il mio compleanno!” replicai stupidamente
“Sono i miei diciott’anni”.
“Festeggiamo
un altro giorno. Io e te, da soli” ghignò.
“No”
obiettai “NO!” ribadii “Io voglio
festeggiare
domani sera con i miei amici e con te”.
“Parole
magiche: tuoi amici, non miei. Che
differenza fa se stiamo insieme domani sera o un’altra
volta?”.
“Te
l’ho già detto che è il mio compleanno,
vero?”
m’indignai.
“Sono
un po’ grande per circondarmi di ragazzini.
Farei ridere in mezzo a voi, sembrerei il vostro babysitter. Preferisco
evitare”.
“Per
Katherine eri disposto a sopportarlo però!”.
“Bonnie,
non prenderla sul personale…”.
“E
come potrei? Per lei sei venuto alla festa di
inizio anno, poi a quella di Stefan. Hai persino accompagnato Caroline
al
concorso di bellezza. È chiaro che sono io ad avere qualcosa
di sbagliato!”.
“Lo
sapevo che ne sarebbe uscito un dramma” sbuffò
“Katherine non c’entra niente e poi guarda
com’è finita. Non cambia nulla tra
noi”.
“Cambia,
invece” precisai “Tutte le tue belle
parole non valgono se alla prima occasione scappi per un motivo
così stupido”.
I
suoi occhi s’incupirono e mi prese per le spalle
“Credimi, uccellino, quando ti dico che è nel tuo
interesse. Terrei il muso, ti
rovinerei la serata e mi odieresti più quanto tu non stia
facendo ora”.
“Ne
sei sicuro? Mi sembra difficile” lo freddai
scrollandomelo di dosso. Gli girai le spalle.
“E
adesso dove vai?”.
“Lontano
da te. Sono arrabbiata”.
Ero
ancora arrabbiata la sera successiva, quando
arrivai al locale con Stefan e Elena. Entrambi sembravano non curarsi
del mio
problema, come se fosse una cosa normalissima per Damon. Beh, non lo
era per
me!
Erano
i miei migliori amici, avrebbero dovuto
spalleggiarmi e non dare corda a lui.
Non
appena vidi Caroline, fuori dall’entrata, mi
rallegrai. Sapevo che sarebbe stata dalla mia parte e al momento avevo
bisogno
solo di qualcuno che mi ascoltasse e mi desse ragione.
Mi
prese il braccio, tutta agitata, e prima che
potessi aprire bocca, mi trascinò dentro. Non ero preparata
a ciò che mi
accolse, o meglio a chi: una moltitudine di persone che urlarono
all’unisono
buon compleanno.
Feci
brevemente un calcolo e constati di conoscere,
forse, la metà della gente presente.
Sorrisi
forzatamente e lanciai di traverso
un’occhiataccia alla mia amica.
“Non
avevo detto una cosa tranquilla?” digrignai
tra i denti.
“Ho
fatto di testa mia” ridacchiò “Tesoro
mio,
diciott’anni si compiono solo una volta nella vita.
Perché non approfittarne?”
saltellò tutta contenta.
“C’è
tutta la scuola o sbaglio?” azzardò Elena,
scioccata quanto me.
“Tutti
tranne tua sorella” confermò Caroline “E
mi
sono premurata che sapesse di essere l’unica non
invitata”.
“Ottimo,
aggiungiamo un altro motivo alla sua
vendetta contro di me” borbottai a bassa voce. Caroline non
mi udì.
“Dov’è
Damon?” domandò invece guardandosi attorno.
“A
giocare alla playstation, presumo” risposi con
sarcasmo.
“Damon
non se la sentiva di passare la serata con
noi adolescenti” spiegò Stefan, molto
più diplomaticamente.
“Che
stronzo!” commentò.
“Grazie”
esultai “Finalmente qualcuno che mi
capisce”.
“Fanculo
Damon Salvatore” proruppe Caroline
“Troviamo Meredith e Matt e apriamo una bottiglia per
brindare. Stasera si
festeggia, non si piange!”.
E
così fu.
Per
quanto sentissi l’assenza di Damon e mi
dispiacesse, cercai di non rimuginarci troppo sopra e di godermi il
party per
il mio compleanno.
Nonostante
la gran folla, trascorsi la maggior
parte del tempo con i miei amici e presto cominciai a divertirmi
veramente.
Non
mancava molto alla fine della scuola e
all’inizio dell’università. Nessuno di
noi aveva scelto college vicini e forse
momenti come quelli non sarebbero tornati più.
Io
stesso aspettavo la risposta da un’università in
particolare che non si trovava proprio nelle vicinanze di
Fell’s Church.
Il
che poneva una discreta quantità di problemi, ma
non era il caso di pensarci in quel frangente. Potevo sempre rifiutare.
Magari
neanche mi avevano accettata.
“Bonnie!!”
mi chiamò Meredith sventolando la mano
“La torta!” mi avvisò.
Quella
sì che era una bella notizia.
Per
la seconda volta mi trovai ad avere a che fare
con una Bonnie elettrizzata dall’alcol.
Cominciavo
a capire perché le brave ragazze non
bevevano: tendevano a ubriacarsi.
Rispetto
all’ultima volta era molto meno marcia.
Non l’avrei definita sbronza, ma molto allegra, euforica.
Talmente tanto da
saltellare su quei tacchi come se fossero ballerine.
Ero
andato alla sua festa, ma non avevo nessuna
intenzione di condividerla con i suoi amici. Il suo tempo era mio, la
volevo
tutta per me senza interferenze esterne.
Non
era stato divertente interpretare la parte
dell’insensibile ancora. Non con Bonnie.
M’importava poco degli altri, ma
lei…lei non mi doveva più odiare.
L’aveva
già fatto abbastanza in passato. Eppure mi
ero impegnato tanto per deluderla, di proposito. Era tutto parte di un
piano.
Mi
era rifiutato di partecipare alla sua festa,
perché ne avevo organizzata un’altra, solo per noi
due. L’avevo lasciata
divertirsi con i suoi amici per le prime ore della serata. Adesso
pretendevo il
mio turno.
Era
mia intenzione prenderla da sola, sottrarla
alla folla e convincerla a venire via con me. C’era davvero
troppo gente in
giro, la maggior parte a me sconosciuta. Sospettavo che fosse opera di
Caroline.
Anche
la festa in generale era troppo chiassosa per
i gusti di Bonnie. Il mio uccellino non era certo il tipo da grandi
party o
serate in discoteca.
Sembrava
divertirsi, dopotutto. Circondata dai suoi
amici, indifferente del casino che le girava intorno.
Guardai
l’ora: cominciava a farsi tardi. Non potevo
aspettate oltre. Avrei preferito evitare qualsiasi interazione con gli
altri,
ma non avevo molto tempo.
Scivolai
tra la massa, silenzioso e invisibile.
Erano tutti troppo presi dalla musica e nessuno fortunatamente mi
notò.
Almeno
finché non mi avvicinai abbastanza al
gruppetto in questione e Elena mi riconobbe. Provò a non
ridacchiare come una
ragazzina che la sapeva lunga; provò anche a non incrociare
lo sguardo di
Bonnie e lasciarle scoprire tutto, ma non servì a nulla.
La
rossa, insospettita dall’occhiata che le aveva
tirato l’amica, si voltò e la mia sorpresa venne
totalmente rovinata.
Non
posso dire che restai deluso dall’accoglienza. Credevo
mi avrebbe preso a schiaffi dopo la discussione del giorno prima,
invece i suoi
occhi s’illuminarono e mi venne incontro con un sorriso che
brillava nonostante
le luci soffuse.
“Alla
fine ti sei deciso a mischiarti con
noi adolescenti?” mi beccò.
Era
brilla, non ubriaca. Aveva ancora la lucidità
per freddarmi quando era necessario.
“Non
mi merito nemmeno un bacio di benvenuto?” la
stuzzicai.
“Pensi
di cavartela così facilmente?”.
“Ho
in mente qualcosa che rimedierà”.
Mi
fissò scettica “Di che si tratta?”.
“Vieni
via con me” le proposi.
“Sei
impazzito?!” esclamò “È la
mia festa. Ci sono
i miei amici, non posso andarmene via così. Non è
educato e mi stavo
divertendo”.
“Io
sono più divertente” la spronai “Su, Bon
Bon,
non conosci nemmeno la metà della gente che
c’è qui. Non mi scambieresti mai
per loro”.
“Ma
ti credi più bello degli altri?” mi
bacchettò.
“Temo
che tu sappia già la mia risposta”.
Sbuffò
e mi gettò un’occhiata di avvertimento. Mi
stava avvisando di non tirare troppo la corda perché
altrimenti me ne sarei
pentito.
Sapevo
di non averla convinta completamente. Non
aveva motivo per abbandonare la sua festa di compleanno e seguirmi. Non
capiva
perché non potessimo stare tutti insieme.
Mi
piegai su di lei e le nostre fronti si
sfiorarono “Vieni via con me” le mormorai
“Ho voglia di passare del tempo con
te, da soli. I tuoi amici capiranno. Fidati” la pregai.
Ricambiò
il mio sguardo, poi sospirò e mi fece
segno di aspettare.
Tornò
da mio fratello e dai suoi amici, bisbigliò
qualcosa indicandomi. Sparì alla mia vista per un paio di
minuti. Alla fine
ricomparve con la sua borsetta in mano e una giacca.
Uscimmo
dal locale per dirigerci verso la mia
macchina.
“Spero
che tu abbia una buona ragione” disse “Prima
ti rifiuti di venire al mio compleanno, poi mi trascini via. Che
cos’hai in
mente adesso?”.
“Sei
rimasta abbastanza lì dentro. Avevi anche già
tagliato la torta e fatto il brindisi. Ho aspettato parecchio prima di
venirti
a chiamare”.
“Come
lo sai?”.
“Ti
ho visto”.
“Da
quando eri alla festa? Perché ti sei nascosto
invece di stare con me?”.
“Te
l’ho già detto: non mi andava di stare con dei
ragazzini del liceo. Ma volevo stare con te. Senti, non
t’impedirò di urlarmi
addosso più tardi, per adesso fidati di me. Magari ne sarai
pure contenta”.
Guidai
fino a Dalcrest, al mio college. Bonnie era
chiaramente confusa e un po’ sconcertata. Aveva parlato lungo
il tragitto, del
più e del meno, ma quando l’auto aveva imboccato
la strada per il campus, lei
si era zittita di colpo.
Parcheggiai
nel cortile principale, accanto alla
macchine degli altri studenti. Scendemmo e le feci cenno di seguirmi.
Le
presi la mano, la condussi lungo i corridoi bui
della mia università. Non c’era in giro nessuno
data l’ora tarda e l’atmosfera
era un po’ cupa.
Bonnie
si strinse al mio braccio, intimorita dal
rumore dei nostri stessi passi.
Ci
fermammo di fronte a una porta chiusa, quella
della biblioteca. Un cartello era affisso a indicare gli orari. Noi
eravamo
decisamente fuori tempo massimo.
Estrassi
una chiave dalla mia tasca e la girai
nella toppa.
Bonnie
strabuzzò gli occhi “A chi l’hai
rubata?”.
“Grazie
per la fiducia” ironizzai “Si dà il caso
che la bibliotecaria abbia una vera passione per me. Mi adora e mi ha
fatto
questo favore”.
“Damon,
non so che cosa tu abbia in mente, ma non è
una buona idea. È vietato stare qui di notte e se ci
dovessero beccare,
sarebbero guai”.
“Non
ci beccheranno. Come hai detto tu: è vietato
entrare qui di notte, quindi non c’è nessuno. O
meglio, di solito c’è un
guardiano che fa la ronda ma non farà storie”.
“Come
puoi esserne certo?”.
“Perché
sa tutto”.
“Tutto
cosa?” si spazientì “Mi spieghi che cosa
sta
succedendo?!”.
“Varca
quella porta e scoprilo” la tentai.
Titubante,
mise il capo oltre la soglia e lo girò a
destra e a sinistra.
“È
troppo buio” sentenziò “Va’
avanti tu”.
“Fifona”
la presi in giro.
Illuminai
la via con il cellulare e mi inoltrai tra
gli scaffali. Avevo appena dato della ‘paurosa’ a
Bonnie, ma ne ero molto
grato, almeno potevo avere il piacere di sentirla aggrappata alla mia
schiena
come un piccolo koala.
Quanto
adoravo quella ragazzina.
Arrivai
fino al punto prestabilito. Impiegai un po’
per convincere Bonnie a lasciarmi andare e fui costretto a girarmi con
uno
scatto e spingerla contro una libreria alla sue spalle. La baciai con
foga,
assaporando quel momento che aspettavo da due giorni.
Mi
staccai altrettanto velocemente e mi piegai a
terra cercando con la luce del mio telefono l’accendino che
avevo posto sul
pavimento.
Lo
trovai e accesi una candela.
Bonnie
se ne stava ancora in piedi, con una mano
sul petto “Tu…” annaspò
“Tu non puoi fare certe cose, non puoi baciarmi
così”.
Io
ghignai “E chi me lo impedisce?”.
“Il
mio cuore. Prima o poi scoppierà per colpa tua”
ammise sinceramente. Alzò gli occhi su di me e si accorse
della scena che le si
presentava davanti “Damon, che…è opera
tua?”.
“Ti
ho portato via dalla tua festa di compleanno.
Dovevo organizzare qualcosa per cui ne valesse la pena”.
Odiavo
quelle smancerie, le odiavo davvero. Mi
veniva l’orticaria solo a pensarci. Se qualcuno avesse
scoperto che cosa avevo
fatto, mi sarei sotterrato.
Ma
con Bonnie potevo concedermi qualche strappo
alla regola.
Era
il suo compleanno e si meritava un regalo
speciale, uno che potesse ricordare per tutta la vita.
Sulla
moquette era stesa una coperta su cui avevo
appoggiato due bicchieri e una borsa-frigo, al cui interno avevo messo
una
bottiglia di vino bianco e una piccola torta.
La
due candele mandavano una luce soffusa, molto
intima.
“Tu
sei fuori
di testa!” esclamò “Rischi grosso, lo
sai? Se ci beccano, potrebbero cacciarti
dall’università”.
“Beh,
non era
la reazione che mi aspettavo” ammisi ironico.
“Sono
seria”.
“Anche
io”
sostenni “La bibliotecaria ha davvero una passione per me. Mi
adora. E quando
le ho raccontato che volevo organizzare una sorpresa per il tuo
compleanno, mi
ha proposto di farla qui. Il custode di questo piano è suo
marito ed è al
corrente di tutto. Perciò rilassati, nessuno ci
disturberà e nessuno ci
denuncerà al rettore”.
“Lo
sapevi
già ieri?” mi chiese.
“Secondo
te
perché ho rifiutato il tuo invito?” alzai un
sopracciglio “Ammetto che non ero
entusiasta all’idea di passare con i tuoi amici, ma non
è per questo che non ho
partecipato alla festa. Hai ragione, è un giorno importante
e volevo stare con
te. L’hai detto anche tu che non sono il principe azzurro. Io
sono egoista e
onestamente non mi pento di averti portata via da loro”.
“Te
ne
pentirai quando capiterai tra le grinfie di Caroline. Ha faticato tanto
per
niente”.
“Per
niente
non mi pare. La festa è durata quasi cinque ore, avete
mangiato e bevuto. E tu
sei una visione con questo vestito” confessai, cercando di
attirare il suo
favore “Non parliamo delle grinfie di Caroline, parliamo
delle tue che
m’ispirano molto di più”.
Lei
guardò
ancora la coperta a terra e le candele. Si mordicchiò il
labbro e si torturò
una ciocca di capelli con le dita. Era agitata.
“Non
ti
credevo un tipo romantico”.
“Non
lo sono”
confermai.
“Per
me sì”.
Annuii
convinto “Solo per te”.
“Scusami
davvero se adesso ti apparirò stucchevole e
piagnona, probabilmente è l’effetto
dell’alcol, ma…so quanto sia
difficile per te mostrare le tue emozioni e lasciarti andare
così e…il fatto
che tutto questo sia per me, non credo che riceverò mai
regalo più bello”.
Le
presi una
mano e la strinsi. Ci fissami negli occhi, senza muovere un dito o
proferir parola.
Tutto quello che ci passava per la testa, sembrava banale e stupido.
Quel
silenzio
e quegli sguardi significavano molto di più.
Io
in
particolare dovetti mordermi la lingua per non mandare tutto
all’aria. Avevo
pianificato quella sorpresa nei minimi dettagli e non avevo intenzione
di
spaventarla e rovinare la serata pronunciando due paroline parecchio
importanti.
Per
stemperare la tensione e per distrarmi, le offrii un bicchiere di vino
e poi un
altro. Senza rendercene conto, presto consumammo quasi
l’intera bottiglia e
toccammo a stento la torta.
Bonnie
aveva
appena smaltito il vino bevuto in precedenza e tornò brilla
nel giro di poco.
Io ero più che abituato e quei bicchieri non mi fecero quasi
effetto.
Sciolsero
i
nervi, nient’altro.
E
sciolse
decisamente anche la sua parlantina.
Mi
raccontò
dell’adorazione che suo padre aveva per me e della sua
segreta speranza che
finissimo insieme un giorno e io evitai di farle notare che non era
proprio un
mistero.
Raccontò
di
come si era trattenuta più di una volta dal riferirgli molti
dei miei scherzi e
la ringraziai perché avrei rischiato di trovarmi con un
occhio nero.
Mi
domandò
come avessi vissuto i miei diciott’anni, come fosse andata la
mia festa.
Allora
mi
lanciai in una dettagliata descrizione del casino che avevo combinato,
invitando tutti a casa mia per fare un dispetto a mio padre.
La
verità era
che non mi ero affatto goduto la mia maggiore età: in rotta
con Giuseppe,
incastrato in un futuro che non desideravo con un fratello minore che
sembrava
sceso da cielo per rendermi la vita un inferno.
Ricordavo
la
sensazione di vuoto che avevo provato quel giorno, privo di ogni
aspettativa.
Nessuna
speranza per il college, nessuna voglia di iniziarlo, consolato solo
dall’idea
di trasferirmi al campus.
Avevo
scelto
la facoltà sulla scia delle pressioni di mio padre (lui si
era laureato in
economia e si aspettava lo stesso da me)
e neanche mi ero sprecato di cercare un ateneo valido,
sebbene avessi le
capacità per ambirvi.
Nella
mia
pigrizia, Dalcrest era stata l’alternativa più
adatta.
Ma
non volevo
annoiare Bonnie con chiacchiere tristi sul mio passato e proseguii con
gli
aneddoti su quell’assurdo diciottesimo.
“Ok,
adesso
basta” le imposi togliendole dalla mani la bottiglia
“Non esagerare”.
“Che
c’è? Sto
bene, sono solo un po’ allegra”
s’imbronciò.
“Appunto”.
“È
il mio
compleanno” obiettò “Ogni mio desiderio
è un ordine”.
“Allora
desidera qualcos’altro, perché con questo hai
chiuso per stasera”.
“Posso
desiderare tutto quello che voglio?”.
“È
il tuo
compleanno” le feci il verso.
Quella
provocazione fu accolta più che calorosamente e mi ritrovai
Bonnie in braccio
nel giro di pochi secondi.
Non
mi
lamentai del suo slancio e mi godetti quell’impetuosa
affettuosità che era
sempre mancata a Bonnie da sobria.
Era
dolce e
si scioglieva per le mie carezze, ma raramente prendeva
l’iniziativa e mai si
era mostra così disinibita.
Non
mi feci
scappare l’occasione e la spinsi sulla coperta, senza
staccare le mie labbra
dalle sue. La situazione s’infiammò in un momento,
quando sentii le sue mani
togliermi la giacca e le mie scattarono sulle sue gambe fino
all’orlo del suo
vestito.
Lei
sospirò,
incitandomi a continuare.
Da
più di un
mese ormai non facevamo che stuzzicarci e basta e iniziavo a diventare
matto. Non
glielo avevo mai rivelato per non metterle troppe pressione addosso,
troppe
aspettative, ma sinceramente ero sull’orlo della pazzia.
Volevo
quella
ragazzina, volevo sentirla gemere il mio nome, volevo vederla sudare e
contorcersi per me.
Io
non
l’avrei mai sporcata, le avrei lasciato comunque la sua
purezza, perché non si
trattava di una mera questione fisica, c’era qualcosa di gran
lunga più
profondo: sentimenti sinceri.
Niente
sotterfugi, niente dietrologie o piani ossessivi.
La
scommessa
era lontana dalla mia mente, nemmeno la consideravo più. Era
stato
semplicemente un modo per avvicinarmi a lei, una mossa meschina che mi
aveva
segnato e cambiato in meglio.
Senza
quel
progetto diabolico, quella meravigliosa creatura non sarebbe mai finita
tra le
mie braccia.
Mi
staccai
dal suo corpo e lei protestò.
“Letto”
boccheggiai.
“Cosa?”.
“Letto,
ci
serve un letto. Andiamo in camera mia. Sage è dai suoi
genitori”.
Arruffai
la
coperta e il resto in un sacco, afferrai la mano di Bonnie e corremmo
per il
corridoio verso i dormitori.
Appena
chiusi
la porta della mia stanza alle nostre spalle, riprendemmo dove ci
eravamo
interrotti, solo che questa a volta, sul pavimento, finì il
suo vestito.
Le
baciai il
mento, il collo, le spalle, mentre le sue mani mi slacciavano con foga
i
bottoni della mia camicia.
Fu
in quel
momento che capii che qualcosa non andava: Bonnie, da sobria, avrebbe
faticato
molto per sfilarli dalle asole, si sarebbe attorcigliata con le sue
stesse
dita.
Tutta
quella
intraprendenza e confidenza non erano da lei, ma erano dovute
all’alcol. E la
mia coscienza irruppe prepotentemente (e non richiesta) sulla scena,
obbligandomi a fermarmi.
“Continua,
Damon” mi pregò Bonnie con una voce
così impaziente da farmi tremare le gambe e
qualcos’altro.
“Uccellino”
la chiamai “Sei ubriaca”.
“No”
mugugnò
“Sono euforica”.
“E
io sono un
coglione” sentenziai “E uno sfigato e
rimpiangerò questa decisione per il resto
della mia vita ma…è meglio se ti
rivesti”.
Lei
si tirò
sui gomiti “Che cosa c’è che non
va?”.
“Non
sei in
te” le spiegai con calma “Tu non sei davvero pronta
per questo passo”.
“So
che cosa
sto facendo e mi va…ti giuro che mi va. Dai, torna
qui”.
“Non
m’incanti, ragazzina” la stroncai “Adesso
sei tutta una fuoco, ma domani
mattina ti sveglierai e mi prenderai a calci con i tuoi tacchi per
essermi
approfittato di te”.
Questa
sarebbe entrate negli annali di storia: Damon Salvatore che cercava di
convincere una ragazza a tenersi gli abiti addosso.
“C’è
un
motivo se siamo qui, ora” mi disse alzandosi in piedi dal
letto. Mi venne
incontro e posò le mani sul mio viso
“C’è un motivo se sono in biancherai
intima davanti a te, se sta succedendo proprio con te. Capiscimi quando
ti dico
che c’è un motivo” insistette, calcando
sulle ultime parole come a far
trasparire un messaggio.
Messaggio
che
recepii benissimo, dato che provavo esattamente lo stesso “E
c’è un motivo se
io mi sto trattenendo” le assicurai “Se sei davvero
convinta, non cambierà
niente oggi o domani. Non ho nessun problema a rotolarmi nudo con te
tra le
lenzuola, uccellino, ma cerchiamo di essere entrambi lucidi quando
accadrà”.
Non
sembrava
molto d’accordo. Alla fine mi diede retta e raccolse il suo
vestito da terra.
Le bloccai il polso. Mi guardò stranita.
Andai
verso
il mio armadio e tirai fuori una mia vecchia maglietta.
“Rimani
con
te stasera. Dormi con me” le proposi.
Bonnie
annuì
sorridendo e indossò il magliettone.
Una
volta
cambiatomi, la raggiunsi nel letto. Potei constatare che era
già addormentata.
“E
tu volevi
fare la trasgressiva stanotte, eh?” commentai sarcastico,
stendendomi accanto a
lei.
Ripensai
alle
sue parole, a quel suo c’è un motivo.
Non
potevo
dire con certezza quale fosse la sua ragione, ma conoscevo
perfettamente la
mia: mi stavo innamorando.
Il
mio spazio:
Sono
in super
ritardo e in super fretta.
In
definitiva
sono un disastro!
Beh,
spero
che questo capitolo compensi un po’ la lunga attesa.
Ho
voluto
inserire il compleanno perché nella serie tv abbiamo visto
quello di Elena e di
Caroline, ma non il suo…stranamente messo
da parte.
A
proposito
di serie tv, avete visto l’ultimo episodio? La fine? Io sono
ancora al settimo
cielo. Spero che a ottobre non deludano tutte le mie aspettative.
Passando
al
capitolo, troppo sdolcinato? Ho pensato di sbottonarmi un po’
in questa
circostanza, perché mancano solo tre capitoli alla fine e i
guai attendono
dietro l’angolo.
Ho
letto
tutte le vostre recensioni e vi ringrazio tantissimo! Come al solito
sono in
ritardo con le risposte, ma domani provvederò a sistemare.
Grazie
infinite!
Buona
serata,
Fran;)
|
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Capitolo 26 *** The farewell waltz ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventisei: The farewell waltz
“But you're just a boy
You don't understand
How it feels to love a girl
Someday you wish you were a better man
You don't listen to her
You don't care how it hurts
Until you lose the one you wanted
'Cause you're taking her for granted
And everything you had got destroyed
But you're just a boy!”
(If I were a boy- Beyonce
Knowles).
Il
ballo di fine
anno era nella vita di un’adolescente americana un evento
tanto importante
quanto il giorno del matrimonio.
Forse
di più,
perché di nozze ce ne potevano essere più di una.
Il Prom* arrivava solo una
volta nella vita.
E
questo non
era un ballo come gli altri: era l’ultimo ballo
dell’ultimo anno del liceo.
Il
vero
traguardo di quei quattro anni passati a diventare adulti tra quelle
quattro
mura tanto amate e tanto odiate.
Avevano
prodotto centinaia di film sull’argomento. Uno
all’anno non bastava per rendergli
giustizia. Perché poteva sembrare una sciocchezza, ma
segnava il vero punto di
svolta nella nostra crescita.
Era
un rito
di passaggio e chiunque l’avesse perso o non gli avesse dato
credito, aveva
sentito con rammarico un gran vuoto.
E
c’era solo
una cosa nella mente di ogni ragazza prima del ballo: il vestito.
Caroline
fece
scivolare il vestito color lavanda lungo il corpo e con un calcio lo
gettò in
un angolo del camerino.
Sconsolata
gliene passai un altro indaco sperando con tutto il cuore che fosse
quello
giusto; Caroline nel giro di mezz’ora si era provata
più di dieci abiti e non
aveva ancora trovato quello adatto o per
citare le sue parole “un vestito che si
conformasse con il suo stato
d’animo”.
Non
avevo
avuto il coraggio di chiederle quale fosse di preciso il suo
stato d’animo,
volevo solo uscire il più in fretta possibile da quel
negozio.
La
festa di
fine anno era ormai alle porte e tutte le ragazze della scuola stavano
cercando
disperate un abito per l’occasione.
Caroline
era
la prima tra tutte. Voleva un vestito che rispecchiasse in pieno la sua
personalità e che non si confondesse con quella massa di
stupide ochette,
sempre sue parole, che starnazzavano per la pista da ballo.
La
boutique
di Lady Ulma era in assoluto la sua preferita e quel pomeriggio ci
aveva
coinvolto tutte in uno shopping all’ultimo sangue con la
scusa di trovare
appunto un abito per ognuna di noi.
Avevamo
accettato senza pensare alle ripercussioni morali e fisiche, senza
contare il
fattore Forbes, ossia la regina dello spendere!
Quattro
ore
che giravamo per negozi, quattro ore che Caroline era l’unica
ad essersi
provata un vestito.
In
preda ad
una vera crisi esistenziale, agitò la mano istericamente
facendo segno a Meredith
di passarle l’abito purpureo a fianco.
“Ci
potresti
dare almeno un indizio sul tipo d’abito che vuoi?”
domandò Elena.
“Qualcosa
che
dica che sono Caroline Forbes” rispose
mentre si allacciava la zip.
“Un
bel
cartello?” propose Meredith.
Care
la
guardò malissimo – Non essere sciocca, voglio
qualcosa che faccia capire agli
altri come mi sento-
“E
come ti
senti, di grazia?”.
“Non
lo so …
dammi un po’ di opzioni!”
“Sei
triste
per qualcosa?-
“No
….”
“Allora
sei
felice per qualcosa?”.
“Non
particolarmente
…”.
“Ti
senti
irascibile?”.
“Non
so
nemmeno cosa vuol dire!”.
“Allora
come
diavolo ti senti?”.
“Non
lo so …
vorrei … vorrei …. QUELLO!”.
Saltò
giù
dallo sgabello su cui era salita per vedere meglio le amiche dato che
erano più
alte di lei, e indicò un vestito giallo che io avevo tirato
fuori per caso da
una pila di abiti.
Si
avventò
letteralmente su di me e mi strappò il vestito di mano,
dopodiché corse nel
camerino a provarselo.
Uscì
poco
dopo cambiata: lo scollo era a barchetta, molto lungo dietro con uno
strascico
che toccava terra, le scendeva morbido sui fianchi e le accarezzava
perfettamente le sue forme e il suo fisico atletico.
Era
il
vestito perfetto.
Le
altre si
sentirono sollevate da un peso: ora che Caroline avevo trovato quello
che
cercava; loro potevano fare altrettanto e la boutique di Lady Ulma era
il posto
ideale per iniziare.
Mentre
le
altre si buttavano a capofitto tra scaffali e appendini, mi sedette su un divanetto;
accavallai le gambe
e presi a fissar il pavimento di moquette violetto.
Avevo
riflettuto a lungo sulla sua situazione ed ero arrivata alla
conclusione che,
per quanto Damon fosse un vero disastro su parecchi i fronti, era
comunque il
ragazzo giusto.
Ormai
aveva
capito di essersi affezionata un po’ troppo a Damon e avevo
accettato anche
l’idea che forse il mio era qualcosa di più di
semplice affetto; perderlo
sarebbe stato insopportabile. E nonostante il suo stile di vite fosse
un po’
sopra le righe per il mio animo tranquillo e sobrio, desideravo davvero
che
funzionasse.
Elena
si
avvicinò e mi suggerì di provare un bel vestito
che aveva visto in fondo al
negozio.
Rifiutai
scuotendo la testa: ne avevo già uno perfetto
nell’armadio; me l’aveva prestato
mia sorella Mary.
Elena
allora mi
prese da sotto le ascelle e mi alzò di forza spingendomi con
decisione verso
l’abito.
In
effetti
era molto bello: bianco, corto fino al ginocchio; si allacciava dietro
il collo
e la schiena rimaneva nuda, aderente su tutto il corpo.
All’altezza del
ginocchio c’era un ricamo in pizzo che allungava di qualche
centimetro l’abito.
Era
vero: mi
sarebbe stato d’incanto addosso. Si adattava al mio fisico, i
miei capelli sul
bianco brillavamo come una fiamma.
“Dai!
Solo
per vedere come ti sta!” cercò di convincermi
Elena.
Sospirando
rumorosamente lo afferrai ed entrai nel camerino.
Mi ammirai allo specchio: sì, mi stava
davvero bene.
Forse
potevo
farmi un regalo. Non credo che Mary si sarebbe offesa, anzi si era pure
lamentata quando le avevo chiesto di prestarmi quell’abito.
Lo
sfilai e
rimisi i miei indumenti. Tirai la tenda del camerino, portandomi dietro
quel capo. Elena
aveva un sorriso che
andava da una parte all’altra, contenta di aver azzeccato.
Appena
fuori
dal negozio, c’era un’altra sorpresa ad aspettarmi.
“Mi
stai
spiando?” gli domandai, fingendomi arrabbiata.
“E
poi sarei
l’egocentrico?” replicò Damon prima di
darmi un bacio veloce “Sto andando da
Alaric e ti ho visto nel negozio. Hai comprato il vestito?”
chiese, indicando
il sacchetto.
“Lontano,
non
puoi guardare” lo avvisai.
“Non
ho il
diritto di voto? Sono il tuo cavaliere!” protestò.
“Ah,
questa
volta ti va di mischiarti con noi ragazzini del liceo” lo
stuzzicai.
“Più
che
altro credo di non poter scappare. Immagino che se rifiutassi, tu mi
pianteresti in asso all’istante”.
“Immagini
bene” sghignazzai.
“Il
tuo principe
scintillante, o meglio la tua bestia, non ti lascerà sola la
sera del gran
ballo, uccellino. Facciamo morire d’invidia le tue
compagne”.
“Sei
il
solito egocentrico…sì proprio tu”
sbuffai.
Mi
schioccò
un bacio sulle labbra “Alle sette, cerca di essere puntuale.
Ti aspetterò davanti
a casa: sarò quello bellissimo nel suo smoking, appoggiato
alla sua bellissima
Ferrari”.
Quando
aprii
la porta con le mie chiavi di scorta, tutto mi aspettavo
fuorché un pugno in
faccia.
Oltrepassai
la soglia, chiusi la porta alle mie spalle e SBAM, dritto sulla mia
guancia
destra.
Toccai
la
pelle pulsante con le dita e guardai stralunato il mio aggressore.
Solo
che non
si trattava di un ladro, ma del proprietario di casa.
“Sei
impazzito, Alaric? Sono io!” urlai.
“Lo
so che
sei tu, brutto coglione” mi rispose, altrettanto arrabbiato
“E ti conviene
toglierti dalla mia vista se non ne vuoi un altro”.
“Che
ti salta
in mente, ti è venuto il ciclo?!”.
“Ancora
una
parola e ti faccio cadere tutti i denti. Ti credevo migliore di
così Damon. Non
sei mai stato il tipo tranquillo e sensibile, ma questa è
una carognata anche
per te”.
“Mi
spieghi
per piacere che cosa sta succedendo così almeno posso
difendermi?”.
“Oggi
ho
minacciato Tyler di metterlo in punizione, di fargli saltare il ballo
di fine
anno e sai che cosa mi ha risposto? Che non poteva perderselo, che
doveva
controllare se tu avresti portato o no a termine la scommessa.
È talmente
stupido che non si è nemmeno preoccupato di accertarsi se lo
sapessi o no. Mi
ha raccontato tutto”.
Ora
si
spiegava la reazione violenta. E l’incazzatura. E gli insulti.
“Giuro
che
non è come sembra” mi giustificai, scandendo bene
le parole “E c’è una
spiegazione logica”.
“Osa
rifilarmi la storiella dell’amore nato per caso per una
scommessa e ti butto
fuori a calci” m’intimò.
“Allora
esco
da solo” mi arresi “E comunque tu dovresti essere
mio amico e stare dalla mia
parte” gli rinfacciai.
“Sono
tuoi
amico e per questo ti rimetto in riga quando oltrepassi il
limite”.
“Ti
racconto
tutto se hai voglia di ascoltarmi, ma aspetta di arrivare alla fine
prima di
tirarmi qualcos’altro in testa”.
“Questo
pugno
non è solo per la scommessa. Copre anche gli
arretrati”.
“Hai
del
ghiaccio?” ignorai il suo commento.
Rimase
in
silenzio e con le mani a posto per tutta la mia spiegazione. Dalla sua
espressione
potevo capire che il suo stato d’animo non fosse dei
più lieti, ma almeno
sembrava meno arrabbiato di prima e più propenso a
comprendere le mie ragioni.
“Sul
serio,
hai dato retta a Katherine? Già l’idea era partita
da quella testa vuota di
Tyler, ma che Katherine l’abbia appoggiata. Non so se tu sia
stato più stupido
o più immaturo. Hai ventun anni, Damon, non ti pare
l’ora di smetterla con
questi giochetti?”.
La
predica
doveva arrivare prima o poi e me la meritavo.
“Non
so
neanche se l’avrei portato a termine comunque. Era per ridere
e nemmeno ci
credevo. Katherine mi spingeva e alla fine si è rovinata con
le sue mani”.
“E
tu?”.
“Io
cosa?”.
“Pensi
di
cavartela così facilmente? È uno scherzo pesante
e ti si ritorcerà contro”.
“Mi
sono
chiamato fuori tempo fa. Anche se Katherine non avesse provato a
sedurre mio
fratello, probabilmente l’avrei lo stesso lasciata,
perché grazie al suo piano
diabolico mi ero avvicinato a Bonnie…quella ragazzina dai
capelli rossi è
capace di farti diventare matto, sai? Ti s’infila nella testa
e non ne vuole
sapere di uscire. Un attimo prima la odi, un secondo dopo
l’adori. Sei contento
di non averla in torno e nel frattempo ti manca. Non ti dico che cosa
avrei
voluto fare a Klaus quando li ho visti insieme a Capodanno.
Quell’inglesuccio
di mer-”.
Mi
bloccai
non appena notai il sorrisino compiaciuto che segnava il volto del mio
amico.
Era più lunatico di me: prima mi prendeva a pugni e poi mi
fissava con gli
occhi inteneriti. Intuii che cosa avrebbe detto da lì a
poco. Non serviva un
genio per capirlo, io stesso ero arrivato alla stessa conclusione
sebbene non
fossi un mostro di sensibilità.
Ma
dirlo e
sentirlo dire ad alta voce era tutt’altra storia.
“Non
ti
azzardare” gli intimai.
“Damon,
non
ti ho mai visto così” mi confidò,
fingendo eccessiva commozione.
“Non
commentare” gli ordinai “Sì, hai
ragione: questa forse è la volta buona, ma
nessuno qui pronuncerà quelle parole, va bene? Ho intenzione
di dirle una sola
volta e sarà a lei” precisai,
mettendo un punto alla questione.
“Come
preferisci, amico” mi accontentò “Resta
il fatto che hai in mano un’arma a
doppio taglio. Tyler è del gruppo e starà zitto,
ma Katherine?”.
“Katherine
terrà la bocca chiusa se sa che cosa è meglio per
lei”.
“E
se
parlasse, che succederebbe?” mi chiese scettico, alzando un
sopracciglio.
Non
aveva
tutti i torti. Katherine non aveva alcun motivo di temermi.
L’unico suo punto
debole erano la sua presunzione e il suo ego. Entrambi facile da minare
qui a
Fell’s Church dove tutti la conoscevano, dove una mia parola
poteva umiliarla e
farla cadere nel ridicolo. In meno di due settimane il liceo sarebbe
finito per
sempre e lei sarebbe partita per chissà quale luogo. Era
rimasta tranquilla per
tutto questo tempo per non minare la sua reputazione da reginetta della
scuola,
ma la sua permanenza qui stava per termine e perché non
uscire di scena con il
botto, mettendo in atto la sua piccola vendetta?
Non
potevo
mica rinchiuderla in una scatola e spedirla dall’altra parte
dell’oceano.
“La
tua
storia con Bonnie è nata sulla base di una bugia,
Damon” mi fece notare Alaric
“Non importa se ti sei ricreduto, se hai mollato tutto. Nel
momento in cui
scoprirà la verità, si sentirà
tradita. Meglio che sia tu a confessare,
piuttosto che qualcun altro. Magari sarà meno propensa ad
ammazzarti” mi
suggerì.
“Ne
dovrò
discutere anche con Stefan” valutai “Era pronto a
picchiarmi quando ci ha
trovati insieme nella stessa camera, figuriamoci
se…”.
“Io
non mi
preoccuperei di Stefan” azzardò Alaric
“Hai altre gatte da pelare: Elena, Caroline
e Meredith. Hai finito di vivere, lo sai questo?”.
Appariva
piuttosto divertito dal mio destino funesto. Ero contento che almeno
qualcuno
ne vedesse il lato ironico.
Gettai
una
veloce occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio: sembravo un
bambino
di sei anni cui avevano tolto il giocattolo di mano.
Nero
in
volto, con il broncio. Quasi offeso.
Lungi
da me
passare per la vittima innocente, ma – dannazione –
mi sarei mai scrollato di
dosso quell’aura da cattivo che mi etichettava da tutta la
vita.
Avevo
commesso un errore, mi ero lasciato trascinare in uno scherzo stupido,
egoista
e meschino e avevo permesso a Katherine di manipolarmi, le avevo
concesso il
potere di controllare me e ferire Bonnie.
Mi
odiavo per
tutto ciò, per essermi rivelato così ingenuo. Ero
io il responsabile, potevo
prendermela solo con me stesso; eppure trovavo ingiusto venire
tormentato in
quel modo da quello sbaglio oramai passato.
Perché
non
potevo lasciarmi tutto alle spalle e non parlane più? Alla
fine mi ero pentito
e avevo cambiato totalmente i miei piani.
Era
davvero
necessario mettere nel dito nella piaga?
Il
ragionamento di Alaric era sensato: battere Katherine sul tempo prima
che mi
facesse fare la figura del doppiogiochista, falso. D’altro
canto non mi
vergognavo di ammettere che se non ci fosse stato quel rischio, mi
sarei
portato il segreto nella tomba.
Di
sicuro non
l’avrei svelato per molto tempo ancora.
Quella
piccola stronzetta che voleva sempre scombussolare i miei progetti. Non
le
bastava essersi finta la sua gemella per baciare mio fratello.
No,
lei era
Katherine Gilbert e in un modo o nell’altro doveva per forza
intromettersi,
condurre le danze. Insopportabile egocentrica, sempre al centro di
tutto.
Era
impossibile prevedere la sua prossima mossa. Un tempo amavo quella sua
scaltrezza, ora non esisteva caratteristica che detestassi maggiormente.
E
se poi si
fossero rivelate solo paranoie mie e di Alaric, allora sarebbe stata la
beffa
peggiore di tutte. In entrambi i casi, era lei a vincere.
Potevo
sperare – pregare – con tutte le mie forze che
Bonnie non saltasse subito alle
conclusioni, che si mostrasse almeno disposta ad ascoltare la mia
versione,
capendo infine che per quanto fossi stato un cretino, tenevo moltissimo
a lei.
Ma
non ero un
illuso e già mi preparavo ad affrontare le conseguenze.
Le
possibilità che Bonnie mi perdonasse su due piedi erano meno
che inesistenti.
“Domani
c’è
il ballo di fine anno” mormorai, rendendomene conto solo in
quell’istante “Non
posso rovinarle la serata, non posso dirglielo adesso”.
“Stai
cercando delle scuse per rimandare” mi stuzzicò
Alaric.
“Sono
serio”
affermai “È la notte che ogni ragazza del liceo
sogna. Ha già comprato un
vestito, io non ho fatto storie per accompagnarla. È
già convinta che sarà una
festa perfetta. Probabilmente passerò comunque per lo
stronzo di turno, almeno
non vorrei diventare lo stronzo che mi ha fatto piangere la
notte del ballo”.
“Sei
sempre
così altruista, Damon” mi prese in giro.
“Sta’
zitto”.
Non
potevo
credere che quella lettera fosse arrivata proprio il giorno del ballo.
Non mi
aspettavo più una risposta, non dopo così tanto
tempo.
Me
n’ero
scordata e adesso la busta se ne stava appoggiata alla mia scrivania in
attesa
di venire aperta.
Avrebbe
aspettato ancora un giorno. Non sapevo che cosa ci fosse scritto e non
desideravo scoprirlo prima della mia grande serata né farmi
condizionare.
Senza
contare
che ne dovevo ancora parlare con Damon.
Il
suono di
un clacson richiamò la mia attenzione. Finalmente era
arrivato il momento. Mi
guardai velocemente allo specchio, sistemando qualche piega del vestito
e
scesi.
Mio
padre era
già pronto con la macchina fotografica. Provai a dribblarlo
ma fu tutto
inutile. Mi obbligò perfino a fare una foto con Damon che si
dimostrò un
perfetto accompagnatore e lo accontentò.
Salutato
mio
padre e la sua mania di immortalare tutto con il suo obiettivo,
entrammo in
macchina. Normalmente era tradizione affittare un limousine, ma Damon
aveva una
Ferrari tutta sua. Non c’era storia.
Stefan
e gli
altri non erano ancora arrivati, così li aspettammo nel
parcheggio. Mi guardai
un po’ in giro per assicurarmi che nessuno avesse comprato il
mio stesso
vestito.
Per
il
momento, l’imbarazzo sembrava evitato: non vedevo neanche
nessuna con il mio
stesso colore. Si erano buttate su tonalità più
audaci.
Poco
più in
là Katherine stava parlando con il suo cavaliere (un membro
della squadra di
football). In realtà fingeva di ascoltarlo perché
– e potevo vederlo
distintamente – ogni due secondi spostava gli occhi su di
noi, squadrandoci con
superiorità.
“Se
penso che
a Homecoming hai accompagnato lei”
commentai con una smorfia.
Damon
intuì a
chi mi stavo riferendo e ghignò “Beh, tu sei
venuta con Mutt”.
Corrugai
le
sopracciglia. E quel nomignolo da dove saltava fuori?
“Matt”
lo
corressi.
“È
lo stesso,
un nome non lo renderà certo più virile. O
più stupido di quello che è”.
“Se
è una
competizione per l’ex peggiore, tu vinci a mani
basse” replicai piccata.
“Un
errore in
buona fede” commentò “Non potevo
immaginare fosse una tale stronza. Non potevo
nemmeno immaginare che sarei finito insieme a te
quindi…”.
“Oh
mi
ricordo bene. Mi dissi che Matt mi aveva invitato perché gli
facevo pena”.
“E
tu che
Katherine preferiva comunque mio fratello”, si accorse di
quanto fossero vere
quelle parole e si girò dall’altra parte,
contrariato.
Mi
morsi la
lingua per non pronunciare quell’avevo ragione che
mi si era bloccato in
gola.
“Ci
avevi
visto giusto, piccola strega” considerò con voce
triste.
Gli
posai una
mano sulla spalla e una sulla sua guancia. Damon continuava a evitare
di
guardarmi. Probabilmente cercava di nascondere la sconfitta stampata
sul suo
volto, l’orgoglio ferito.
“Siamo
la
coppia peggio assortita” ridacchiai “Ma ci siamo
scelti. Io non sono la copia
della tua passata ossessione e tu non sei il principe azzurro che ho
sempre
sognato. Non ci stavamo simpatici, no scusami, non ci sopportavamo
proprio.
Siamo cresciuti, abbiamo imparato a conoscerci ed è capitato
per caso. Nessuno
di noi due l’aveva programmato” gli dissi
“Sai che cosa significa? Che io e te
siamo qui, siamo reali. Chi se ne frega degli idioti che abbiamo
incontrato
prima. Quale ragazza sana di mente guarderebbe altro, quando
può avere te?”.
“Tu
mi hai
snobbato per mesi!” esclamò.
“Sei
serio?
Dopo tutto il mio discorso, è la prima cosa che hai da
dirmi?” mi finsi offesa.
“Bonnie
McCullough” mormorò prendendomi le mani
“Non ti ho cercato e non ti ho
considerata, ma non importa come siamo finiti insieme o perché,
quello
che provo per te è più vero e più
forte di qualsiasi altra cosa abbia mai
sentito. Fanculo il resto”.
“Adoro
il tuo
romanticismo” gli sorrisi ironica.
“O
mio Dio,
non ci credo che questo sarà il nostro ultimo
ballo!” urlò una voce dietro di
me e un secondo dopo una figura mi stritolò in un abbraccio.
Damon
alzò
gli occhi al cielo e si spostò. La sua tolleranza a Caroline
cominciava già a
vacillare. Me l’avrebbe rinfacciato tutta la vita.
Mi
stupii
dalla facilità con cui la mia amica saltellava su quei
tacchi vertiginosi.
Tyler
la
seguiva un po’ meno entusiasta, probabilmente spossato dai
modi di fare
esigenti e maniacali della sua ragazza. Se c’era una donna
che poteva metterlo
al guinzaglio, quella era Caroline Forbes.
Damon
fece un
passo avanti e lo prese malamente per un braccio “Dobbiamo
fare quattro
chiacchiere io e te, piccolo idiota” ringhiò,
trascinandolo via.
Caroline
mi
guardò confusa e io scrollai le spalle.
L’ultimo
dei
miei pensieri era immischiarmi nelle faccende di quei due.
Stefan
e
Elena arrivarono subito dopo. Sembravano due divi del cinema,
splendidi,
camminavano sopra tutti.
Infine
giunse
Meredith, sola perché il suo cavaliere non si poteva
mostrare, perché lei era
ancora una studentessa e lui un insegnante. Nonostante tutto era
contenta: dopo
il ballo, mancavano solo due settimana al diploma e poi c’era
Harvard ad
aspettarla.
E
Alaric.
“Questo
sarà
il migliore Prom di sempre” esultò Caroline
“Me lo sento”.
“Questo
sarà
l’ultimo Prom” precisò Elena, un velo di
tristezza sul volto.
“No,
non ci
provare” l’avvisò Stefan
“Niente musi lunghi, Caroline ha ragione: è la
nostra
serata e ce la dobbiamo godere”.
“Io
sono al
ballo di fine anno da sola, va bene? Da sola!”
ribadì Meredith “Sono l’unica
che ha il diritto di lamentarsi e non lo farò. Voi fate il
vostro dovere di
amici e rendetela la notte più bella della mia
vita” ci incitò.
“Più
bella
delle notti spese con il tuo professore?” la
stuzzicò Caroline.
“Se
proprio
ti interessa, abbiamo passato pochissime notti insieme e a
parlare”.
“A
me non
interessa” le fermò Stefan mettendosi le mani
sulle orecchie “Non voglio sapere
come trascorri il tempo con il mio professore/barra migliore amico di
mio
fratello. A proposito, dov’è Damon?”.
“Proprio
qui,
fratellino” rispose quello, ricomparendo con Tyler e non
solo. Dietro loro due,
seguivano Matt e Sue Carson, una nostra compagna di scuola.
“Ehi,
Matt
pensavo non arrivassi più” lo salutò
Stefan con una pacca sulla spalla.
“Io
e Sue
abbiamo trovato traffico” spiegò “Appena
parcheggiato, abbiamo incontrato Damon
e ci ha invitato a unirci a voi”.
Io
sbarrai
gli occhi, considerate le parole poco gentili che il mio ragazzo gli
aveva
rivolto poco prima.
“Certo,
Mattie, non sarebbe lo stesso senza di te” lo
abbracciò Elena.
Strinsi
la
mano a Damon per ringraziarlo. Dopo la nostra
“rottura”, i rapporti tra me e
Matt si erano raffreddati parecchio. Ogni volta che
c’incrociavamo, imbarazzo e
tensione si avvertivano nell’aria. Allora Matt si era
allontanato dal gruppo di
noi ragazze per non creare ulteriore disagio.
“Alla
prima
occhiata ambigua che ti lancia, lo stendo” mi
sussurrò Damon all’orecchio.
Io
gli tirai
una leggera gomitata. Si trattava sempre di Damon Salvatore.
Superammo
lo
stand delle foto. O meglio, Caroline ci obbligò tutti a
posare per l’album del
ballo, ma non fu così tragico.
Quindi
oltrepassato il primo ostacolo, finalmente la vera atmosfera del Prom
ci
avvolse. Le decorazioni e l’organizzazione in generale erano
ovviamente
impeccabili, dato che se n’era occupata Caroline.
Tema:
com’eravamo. Tutta la palestra era tappezzato di foto di
tutti gli alunni
dell’ultimo anno, durante il tempo trascorso al Robert E. Lee
High. Immagini di
partite di football, altri balli e feste, riunioni studentesche e
aggregazioni
di club.
Passammo
un’ora a commentarle tutte, a prenderci in giro per
improbabili look o pose, a
valutare quanto quattro ci avevano cambiati.
Damon
compreso che s’inseriva nel discorso con simpatici aneddoti
sulla nostra
infanzia. Dove nostra stava per noi poveri piccoli pivelli e
lui ragazzo
già maturo costretto a subire la nostra presenza.
Ebbi
un po’
di tempo anche per parlare con Matt e qualunque incomprensione venne
spazzata
via da risate e affetto.
L’euforia
esplose poi nel momento in cui Caroline venne proclamata reginetta,
battendo
così Katherine che furiosa lasciò il palco.
Il
re fu
senza tante sorprese Stefan, ma entrambi aprirono le danze con i
rispettivi
partner, rompendo così la tradizione del ballo tra re e
reginetta.
Nessuno
ci
fece caso e lentamente le varie coppie scesero in pista, compresi Damon
e io.
“Ho
un segreto da confidarti” sussurrai
all’improvviso.
Mi
ero decisa a lasciar passare almeno un giorno o
due prima di parlargliene. Nemmeno sapevo che cosa c’era
scritto in quella
lettera
Chiunque
altro non avrebbe avuto problemi a tenere la bocca chiusa, ma io no, io
dovevo
complicarmi la vita.
Non
riuscivo a
trascorrere una serata tranquilla con quel peso sullo stomaco. In ogni
caso
avevo preso la mia decisione e il contenuto della busta non poteva
farmi
cambiare idea.
“Sei
stufa
del ballo e vuoi scappare da qualche parte con me?” mi chiese
speranzoso e ironico.
“Che
cosa?
Sei pazzo?! Mi sto divertendo e anche tu. Ammettilo”.
“Pensavo
peggio”.
“Ma
dopo
possiamo scappare dove ti pare” lo accontentai.
“Musica
per
le mie orecchie” si compiacque “Allora, svelami il
tuo segreto. Onestamente mi
auguro che sia qualcosa di perverso e sporco”.
“Perverso
e
sporco, io? Sei certo di essere con la ragazza giusta?”.
“Al
cento per
cento” mi assicurò prima di baciarmi senza fretta,
prendendosi tutto il tempo
per strapparmi qualche sospiro e un mezzo sorriso.
“Non
distrarmi” lo ammonii.
“Va
bene,
uccellino, ti ascolto”.
“Beh,
qualche
mese fa ho mandato le richieste d’iscrizione alle
università. E tra le mie
alternative c’era anche un campus a Londra”.
Mi
strinse
istintivamente i fianchi e la sua espressione tradì una
certa apprensione, ma
cercò di mantenere la sua compostezza.
“Non
ne ho
mai fatto parola perché me n’ero perfino
dimenticata. Non credevo di passare la
selezione, era solo uno sfizio”.
“Invece
ci
sei riuscita” concluse per me.
“No…cioè
non
lo so” chiarii “Oggi mi è arrivata una
lettera dall’università, ma non l’ho
ancora aperta”.
Damon
annuì
“Prima vediamo che c’è scritto e
poi…sono sicuro che tu sia entrata. Potrei
trattare un contratto con l’American Airlines o
magari…Londra è piena di ottime
scuole. Niente mi vieta di tentare un master là”.
Mi
scaldò il
cuore il fatto che stessa già cercando delle soluzioni.
Gli
misi
delicatamente un dito sulla bocca per zittirlo “ Non voglio
andare a Londra.
Quando ho mandato la domanda ero in un periodo un po’
confuso, non sapevo come
sarebbe stato il mio futuro. Londra era un’opzione per
spronarmi”.
“Bonnie
non…va bene, non ti mentirò: è chiaro
che sarei molto più contento se tu
rimanessi da questa parte dell’oceano. Se ci tieni,
però, me ne farò una
ragione e…”.
“Non
c’è
niente a Londra che io non possa trovare qui” affermai
“Tranne te. Mi hanno
accettata all’università di Atlanta, sai. Voleva
essere una sorpresa, ma a
questo punto…”.
“Atlanta
non
è lontana da qui” calcolò Damon.
“Infatti.
Le
cose tra noi devono funzionare. Non c’è motivo di
volare in Europa quando qui,
vicino a te, con te, ci sono dei college altrettanto validi. Posso
avere
tutto”.
Appoggiò
la
fronte contro la mia e ondeggiò guidandomi nei movimenti
“Adesso avrei davvero
voglia di scappare via con te”.
Ero
tentata
di rispondergli di sì, ma la voce di Meredith mi precedette
“Scusate ragazzi,
avete visto Elena?”.
Sapevo
che
non ci avrebbe mai disturbati se non per qualcosa
d’importante.
“Stava
ballando con Stefan” replicò Damon guardandosi in
giro.
“Stava”
ripeté Meredith “Si è allontanata per
andare a parlare con Katherine. Penso
volesse accertarsi che non facesse scenate o robe simili. Non
è ancora tornata.
Considerando i due soggetti, forse stanno provando a uccidersi a
vicenda”.
“Ti
aiuto a
cercarla” mi proposi.
“No
vado io”
si offrì Damon velocemente “Se si stanno
azzuffando, ci vuole un maschio per
dividerle. Voi godetevi la festa”.
Sparì
un
secondo dopo. Ne restai perplessa.
Anche
Meredith continuò la sua ricerca e io mi ritrovai sola in
mezzo alla pista da
ballo. Mi decise a fare un giro di ricognizione. Il mio cavaliere se
n’era
andato e i miei amici non si vedevano, tanto valeva rendermi utile.
M’inoltrai
per i corridoi della scuola e controllai nelle classi vicine alla
palestra.
“Sei
solamente una bambina viziata. Accetta la sconfitta e vivi la tua
vita”.
Questa
era la
voce di Elena che urlava.
Trovate.
La
mia intuizione era giusta. Mi diressi verso l’aula da cui
proveniva il vociare.
“Adesso
sei
tu che ti stai impicciando degli affari miei”.
Questa
era
Katherine.
“Ti
conosco
da troppo tempo. Ho visto come guardavi Damon e Bonnie. Ti ho visto
camminare
verso di loro. Cosa credevi? Che ti avrei lasciato rovinare la loro
serata?”.
Quella
sgualdrina. Già me la immaginavo a infastidirci con le sue
parole velenose.
“Hai
mente di
rinchiudermi in uno sgabuzzino? Sorvegliarmi a vista?”.
Avevo
rallentato il passo perché ero davvero curiosa di sentire
dove sarebbe andata a
parare quella conversazione.
“Scendi
dal
piedistallo. Hai perso la corona, la scuola è finita. Devi
per forza mettere
zizzania?”.
“Non
è
zizzania, è la verità”.
“Tu
non
sopporti che Bonnie e Damon stiano insieme. Sei gelosa marcia e sei
un’egocentrica…”.
“Bonnie
e
Damon insieme non esistono” rivelò Katherine
“Possibile che nessuno l’abbia
capito? Era solo uno scherzo! Stanno insieme per una mia
idea”.
Mi
arrestai
appena prima della soglia, confusa.
“Che
cosa
stai blaterando?” chiese Elena esasperata.
“Si
tratta di
una scommessa. Quando ci frequentavamo, ho convinto Damon a prestarsi
per
questo giochino. Una scommessa, hai presente? Falla innamorare di te e
spezzale
il cuore. Una cosina banale, in effetti, tanto per
divertirsi”.
Fu
talmente
scioccante che non registrai nemmeno le sue parole. Non mi venne da
piangere e
non mi mancò il respiro. Semplicemente non poteva essere.
“Non
dire
sciocchezze, Damon ti ha lasciato” obiettò la sua
gemella.
“Perché
ho
baciato Stefan – qui probabilmente Elena si trattenne dal
prenderla a sberle –
allora è ripiegato su Bonnie. Non so se stia ancora fingendo
o cosa. So per certo
che lei è comunque una sostituta e se non ci fossimo
lasciati, adesso non la
vedrebbe neppure con il binocolo”.
Ricordai
il
primo bacio che mi aveva dato Damon in macchina, di ritorno da Atlanta.
Gli
avevo tirato uno schiaffo, lo avevo allontanato perché lui
stava con Katherine
e io non volevo entrare nei loro giochini di ripicca.
Ricordai
l’improvviso interesse di Damon nei miei confronti, la sua
determinazione e la
sua insistenza. Ricordai di esserne rimasta sorpresa, dato che ero
l’esatto
contrario di tutte le sue precedenti ragazzi.
E
ricordai
anche i dubbi e i sospetti, la fatica nel dargli fiducia.
Dubbi,
sospetti e fatica che iniziavo a sentire di nuovo.
Ritornai
in
palestra e lasciai le due gemelle Gilbert sole a urlarsi addosso. Non
mi fermai
un attimo finché non raggiunsi il cortile e mi nascosi in un
angolino
appartato.
L’intento
era
di staccarmi dal resto del gruppo per riflettere, per pensare
razionalmente a
quello che avevo appena ascoltato, ma non riuscivo nemmeno a cominciare.
Il
mio
momento di pace non diede i suoi frutti anche per un altro motivo:
scorsi Damon
poco lontano da me che controllava in giro. Fu stupido di scorgere me e
non
Katherine o Elena.
Era
per
quello che si era offerto di cercarle? Non voleva che io mi trovassi a
faccia a
faccia con la sua ex ragazza?
La
serata
aveva preso una piega particolarmente deludente. E
l’espressione agitata di
Damon non mi calmò.
Gli
avevo
promesso che sarei rimasta a Fell’s Church. Adesso, forse, mi
preparavo a
dirgli addio.
Il
mio spazio:
È
stato un
capitolo difficile da scrivere; per questo il confronto tra Damon e
Bonnie è
stato rimandato al prossimo.
Non
volevo
troppa tristezza in un solo pezzo.
La
bomba è
stata sganciata. Bonnie ci crederà? O meglio Damon
sarà abbastanza convincente
da ottenere in fretta perdono e comprensione?
Mancano
solo
due capitoli alla fine, vedremo se riusciranno a risolvere prima che
sia troppo
tardi.
Vi
ringrazio
immensamente per il vostro supporto e affetto!
A
prestissimo,
Fran;)
*Prom
è il
ballo di fine anno. Homecoming è il ballo d’inizio
anno.
Farewell waltz è
il titolo di un libro di Milan Kundera
|
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Capitolo 27 *** Goodbye to Sandra Dee ***
Capitolo
ventisette: Goodbye to Sandra
Dee
“Look at me,
There has to be something more than what they see
Wholesome and pure,
Also scared and unsure, a poor man’s Sandra Dee,
You must start anew,
Don't you know what you must do?
Hold your head high,
Take a deep breath and sigh
Goodbye to Sandra Dee”
(Look at me, I’m Sandre Dee reprise-
da
“Grease”).
Guardare
il soffitto.
Era
l’unica cosa che riuscivo a fare da cinque giorni.
Mi
alzavo, mangiavo qualcosa, mi stendevo di nuovo
sul letto e iniziavo a guardare il soffitto. Così per tutto
il giorno e
smettevo solo per cena o per il bagno.
Io,
solo nella mia camera, immerso
nell’autocommiserazione, tagliato fuori dal mondo a
contemplare la stupidità
umana, la mia stupidità. Troppo pigro per muovere un
muscolo, troppo rassegnato
per sistemare le cose, troppo avvilito per aprire le tende e affrontare
ciò che
mi aspettava dall’altro lato della strada.
In
realtà, dopo la festa avevo passato ore seduto
sul suo portico, in attesa e nella speranza che scendesse, mi parlasse,
mi
picchiasse. Qualsiasi reazione mi sarebbe andata bene.
Ma
Bonnie non mi aveva degnato della minima
attenzione.
Uscii
in cortile nella speranza di braccare Katherine prima che scoppiasse un
casino.
Avevo
un presentimento che quell’amabile
ragazza non se ne sarebbe stata calma, soprattutto dopo aver
perso la sua ambita corona.
Lei
e sua sorella sembravano sparite nel nulla. Avevo cercato perfino nel
bagno
delle ragazze e avevo dovuto scansare l’attacco di seduzione
di una matricola
troppo spavalda.
Il
cortile della scuola era quasi deserto, solo pochi studenti usciti a
prendere
una boccata d’aria. Mi fu subito chiaro che le gemello
Gilbert non erano
nemmeno qui, ma una folta chioma di capelli rossi attirò il
mio sguardo.
Che
ci faceva Bonnie fuori dalla palestra?
Mi
avvicinai sorridendole. Forse, finalmente, si era stufata di quella
festa ed
era pronta a venire via con me. Probabilmente era uscita proprio per
aspettarmi.
Ma
non ricambiò il mio sorriso com’era solita fare e
ne rimasi sorpreso.
Non
mi lasciò parlare. Mi gelò non appena mi trovai
di fronte a lei.
“Damon,
so tutto”.
Lì
per lì non pensai subito alla scommessa. Ero talmente certo
di avere tutto
sotto controllo che non immaginavo nemmeno di essere stato battuto sul
tempo,
sotto al mio naso per giunta.
“Ho
visto sentito Elena e Katherine parlare in un’aula”
continuò “C’era di mezzo
una scommessa su di me”.
Non
avevo mai compreso a fondo il significato dell’espressione ‘non
sentire la terra sotto i
piedi’. L’avevo sempre trovata
un’esagerazione.
Mi
ero ripromesso di non farmi mai cogliere impreparato dalla vita e non
credevo
che una cosa del genere potesse capitare a me.
“Katherine
è una bugiarda” disse Bonnie “E si
diverte a rendere le persone infelici. Sta
mentendo, vero? È solo una ripicca per separarci?”.
Ammirai
la sua forza d’animo, ammirai la sua fierezza. Non aveva gli
occhi lucidi, la
voce non tremava e non distolse lo sguardo un secondo.
Era
cresciuto così tanto il mio uccellino.
Scossi
la testa “Non so neanche perché ho accettato. Era
uno scherzo stupido”.
Ancora
una volta non tremò e non si scompose come avrebbe fatto un
tempo, ma vidi
chiaramente un’ombra di tristezza e delusione cadere sul suo
viso.
“Sentivo
che qualcosa non andava” mormorò.
“Bonnie…”.
“C’era
un motivo se non riuscivo a fidarmi di te” affermò
con freddezza.
Benché
me le meritassi tutte, quelle parole mi ferirono.
Ed
eccomi là: relegato di nuovo al ruolo del cattivo.
Eravamo
tornati indietro di mesi, bloccati ancora a quel punto, a quando io non
potevo
scrollarmi di dosso la pessima reputazione che mi ero creato e lei mi
teneva a
distanza.
Quel
dannato muro di diffidenza era comparsi di nuovo.
“Katherine
ha avuto l’idea e ho accettato. Giravano già delle
battutine su di me e mi sono
sentito colpito nell’orgoglio,
nell’immagine…”.
“Immagine?”
ripeté sconvolta “Temevi che gli altri ti
sminuissero perché Bonnie la
sfigatella non era caduta ai tuoi piedi?”.
Tentativo
di formulare una scusa decente: fallito. Mi stavo scavando la fossa da
solo.
“Ero
un cretino e Katherine…”.
“Il
fatto di essere succube di non ragazza non ti discolpa. Avevo un
cervello da
usare”.
“L’ho
usato” sbottai. Tanto valeva aggrapparsi a un po’
di sincerità. Forse ne sarei
uscito meglio, meno codardo “Era un gioco per me, immaginavo
sarebbe stato
divertente”.
“Ottimo
lavoro, Damon: mi hai completamente umiliata e distrutta”.
Aveva
appena messo i suoi sentimenti sul tavolo, aveva ammesso la sconfitta,
eppure non
era lei quella debole, non era lei ad aver perso la dignità.
“Tutto
quello che abbiamo condiviso è finto. Mi hai usata come
passatempo, mi hai
usato per distrarti da Katherine. Almeno vi siete davvero lasciati o vi
siete
fatti delle grosse risate alle mie spalle fino a stasera?”.
“È
iniziata così” ammisi “Sono venuto a
salvarti nel bosco per avvicinarmi a te,
ti ho chiesto di aiutarmi con il regalo di Stefan per farti una buona
impressione, ti ho baciata subito dopo perché ero convinto
di averti già conquistata…”.
“Non
sono sicura di voler ascoltare il resto” mi avvisò.
“Più
passava il tempo, più mi tormentavi. Eri sempre
lì, anche quando stavo con
Katherine, tu eri nella mia testa. Non sai quanto sono stato contento
di
mettere mio cugino su un aereo e spedirlo lontano da te. Poi Katherine
si è
finta Elena e ha baciato Stefan. Abbiamo rotto sul serio e onestamente
non ci
sono stato così male come avevo pensato. Avrei potuto
chiuderla con la
scommessa, avrei potuto lasciarti stare. Non l’ho fatto
perché semplicemente
non ne ero capace, non volevo staccarmi da te”.
Bonnie
liberò una risata amara “Non ti aspetterai che
creda alla storiella del playboy
redento, caduto nella sua stessa trappola?”.
“Patetico
e banale, eh? Sto cadendo sempre più in basso”
osservai “Non saprei neppure
dirti quando è finito il gioco. È confuso.
Inconsciamente mi piacevi anche
quando ti ritenevo una bambinetta. Perfino Katherine mi detto di
essersi
interessata a Stefan perché mi vedeva troppo coinvolto da
te”.
“Devi
aver recitato bene la tua parte” commentò Bonnie.
“Non
è una recita, te lo giuro.
“Come
posso esserne sicura? Magari eri solo annoiato e io sono stata la prima
così
stupida da darti retta!”.
“Ce
ne sono centinaia di ochette che non vedono l’ora di buttarsi
su di me. Se avessi
voluto uno scalda letto, non ti sarei stato addosso per mesi e
mesi”.
“Allora
perché non ne scegli una e mi lasci in pace!” mi
rinfacciò.
“Perché
sono pazzo di te” esplosi “Ho fatto cose da matti
per te. Sono entrato nel
bosco di notte per cercarti. Ti ho portato via dalla polizia quando eri
ubriaca. Ho corrotto una bibliotecaria e un guardiano per organizzare
il tuo
regalo di compleanno. Ho risolto i miei problemi con mio padre e mio
fratello
grazie a te. Non ho abbandonato gli studi grazie a te. Se ripenso a
ogni
momento importante della mia vita, tu eri lì con
me”.
“Hai
un modo curioso di dimostrare gratitudine” sbuffò.
Per un attimo scorsi il
fantasma di un sorriso, ma venne cancellato immediatamente
“Una parte di te è
ancora attaccata a quella scommessa. Se l’avessi del tutto
superata, mi avresti
raccontato la verità”.
“Volevo
evitare sofferenze inutili. Me ne vergognavo. Non c’era
motivo di parlartene e
rovinare tutto. So bene qual è l’opinione che hai
di me” conclusi, mortificato.
“Non
avevo tutti i torti” considerò “Ti sei
preso gioco dei miei sentimenti fino
adesso”.
“Ho
smesso molto tempo fa” obiettai.
Lei
non mi ascoltò “Qual era il piano? Fare una
scenata davanti a tutti, magari
proprio al ballo. Dov’è Katherine, non si sta
gustando la sua vittoria? Santo
Cielo, se penso che ero pronta a …”.
“A
cosa? A venire a letto con me? Ti ricordo che ti ho fermata
perché eri
completamente sbronza. Ti ricordo che ho fatto un passo indietro e ti
ho
rispettata”.
“Magari
ti disgustava solo l’idea. Magari detesti l’idea di
toccarmi e ti sei nascosto
dietro la prima scusa che hai trovato”.
“Ecco
perché non te l’ho voluto dire: adesso ti stai
facendo mille paranoie, metti in
dubbio tutto”.
“E
di chi è la colpa?”. Questa volta aveva urlato.
Sospirai
“C’è stato un momento in cui ero davvero
convinto a portare a termine la
scommessa, a ferirti come se fossi un giocattolo inutile: quando
Katherine me
l’ha proposto. Dopo quel giorno, l’idea mi
stuzzicava sempre meno. Mi è
capitato perfino di evitarti, perché non ero più
interessato. Katherine mi ha
spinto a proseguire e si è fregata con le sue stesse mani.
Era uno scherzo
crudele e io mi sono comportato da idiota, ma non me ne pento. Senza la
scommessa mi sarei avvicinato a te? Senza Katherine avrei perseverato?
Forse
no, ma me ne frego perché ti ho conosciuto, ti ho scoperto.
L’inizio non è
stato dei più nobili, lo ammetto, ma quello che è
venuto dopo…Bonnie, tu sei
ciò che ho sempre cercato. Bonnie…”.
“Ti
prego non continuare”.
“Mi
sono innamorato”.
Se
avessi visto la scena dall’esterno, probabilmente di sarei
messo una mano
davanti alla bocca per non vomitare. Era l’apoteosi del
cliché e del
romanticismo. Tutte cose che avevo sempre evitato come la peste.
Non
c’era, però, altro modo per esprimerlo. Nel mondo
andava naturalmente così: un
ragazzo innamorato di una ragazza contro ogni aspettativa.
Comune
perché semplice, puro e vero.
Bonnie
si passò una mano tra i capelli, a disagio “Se me
l’avessi detto mezz’ora fa,
sarei stata la persona più felice del mondo”.
“Non
cambia niente: è pur sempre quello che sento”.
“Mi
hai mentito per tutto questo tempo. Non so più dove finisce
la finzione”.
“Non
esiste finzione” replicai “Per piacere, non buttare
tutto al vento per uno
sbaglio. È solo colpa mia. Insultami, picchiami, arrabbiati,
ma non
arrenderti”.
“Non
sono arrabbiata” mi disse, con calma “Non quanto
avrei immaginato, almeno.
Sento, però, che qualcosa si è spezzato. Mi hai
appena confermato che c’era un
motivo se non riuscivo a fidarmi di te”.
E
tutt’ora non mi fido.
Non
me l’aveva detto in faccia, ma era abbastanza
intuibile.
Se
n’era andata dopo l’ultima frecciata e io non
l’avevo seguita. Non ne avevo avuto il coraggio.
Bonnie
si era sempre mostrata molto restia a cedere
alle mie pressioni. Mi ci erano voluti mesi prima di conquistarla per
davvero,
per convincerla che non ero più il ragazzo crudele e
immaturo di un tempo. Le
avevo perfino rimproverato di aggrapparsi troppo ai pregiudizi che
aveva su di
me, di dar troppo peso alle opinioni altrui.
Scegli,
Bonnie, o tutto o niente. Le avevo
intimato.
Alla
fine, il mio segreto era scoppiato come una
bolla di sapone. Avevo fatto la figura del cretino e del bugiardo. Non
era
proprio le migliori credenziali per sperare in una soluzione veloce e
indolore.
Inoltre
le avevo praticamente servito su un piatto
d’argento una più che valida ragione per dubitare
di me e tenermi alla larga.
Avevo
provato a chiamarla, a farle la posta sotto
casa, ma non era servito a niente. Neppure suo padre era riuscito a
persuaderla
a parlarmi, pur giurandomi di averci tentato con tutte le sue forze.
Non
gli aveva raccontato il vero motivo della
nostra litigata e questo mi lasciava un po’ di sollievo: se
cercava ancora di
proteggermi, significava che non tutto era perduto.
Mi
ero nascosto nella mia camera e le avevo
permesso di prendersi del tempo per riflettere, per sbollire. Non
sapevo quanto
quella decisione avrebbe effettivamente giocato a mio favore, ma per il
momento
non avevo altra scelta.
Le
avevo mandato un messaggio, semplice e conciso: abito
dall’altra parte della strada, sono qui con te. Una tua
parole e corro.
Non
ero sparito. Le stavo ancora vicino. Doveva
sapere che quel silenzio non significava la mia resa. Io non mi ero
ancora dato
per vinto.
Avevo
ripercorso decine di volte quei mesi passati
a darle letteralmente la caccia. Mesi in cui quella maledetta scommessa
era
solamente un pretesto, un alibi che mi ero costruito perché
non volevo
ammettere neanche a me stesso di essere cotto di lei.
Avevo
valutato più volte l’idea di raccontarle la
verità, cancellare quella macchia dalla coscienza.
Spaventato da ciò che
sarebbe potuto accadere, avevo taciuto.
Mossa
da codardo? Forse, ma in buona fede.
Avevo
abbandonato da talmente tanto tempo il
proposito di portare a termine quello scherzo che mi era sembrata
un’inutile
seccatura confessarlo.
Che
necessità avevo di far soffrire Bonnie per
niente?
Tutto
ciò che le avevo detto, che avevo fatto.
Gesti eclatanti, frasi a effetto, risate strappate e baci rubati. E poi
i
litigi e gli insulti, gli errori. Tutto vero, anche quando credevo di
comportarmi così per via della scommessa, sotto sotto
c’era un fondo di verità
che non avevo ancora consapevolmente afferrato.
Bonnie
questo non lo potevo sapere, Bonnie non si
poteva fidare ciecamente: le avevo dato ogni motivo per non farlo.
Non
la biasimavo per avermi piantato in asso alle
festa, per non aver risposto alle mie chiamate. Non ero proprio un
soggetto su
cui scommettere, il bravo ragazzo affidabile.
Evidentemente
in me c’era qualcosa di sbagliato:
avevo il potere di allontanare ogni donna di cui m’importasse
qualcosa. E
quando arrivava finalmente l’unica, quella giusta, quando
finalmente ero
diventato una persona decente, rovinavo tutto.
Il
vecchio Damon era sempre in agguato per
riportarmi indietro, anche contro la mia volontà. Non
serviva un’azione vera e
propria, bastava un ricordo, uno sbaglio passato e in un attimo la
nomea di
cattivo ragazza tornava a perseguitarmi.
Bonnie
non era l’unico mio problema: avevo
parecchie spiegazioni da dare anche a Stefan.
Normalmente
me ne sarei fregato, ma avevamo fatto
progressi ed era la sua migliore amica. Era un discorso che dovevo
affrontare,
sebbene non ne avessi assolutamente voglia.
Mi
stupivo che non fosse ancora venuto a stanarmi
per ridurmi in piccoli pezzettini. Aveva reagito veramente male quando
ci aveva
sorpreso stesi sullo stesso letto. Questo era molto peggio. Strano che
non
fosse ancora venuto a difendere l’onore della sua fanciulla
prediletta.
E
proprio quando pensavo che tutti si fossero
completamente dimenticati di me, qualcuno bussò alla mia
porta. Guarda caso
l’oggetto delle mie preoccupazioni.
No,
non la ragazza dai capelli rossi, ma l’impavido
eroe dagli occhi verdi.
Da
qualcuno dovevo pur cominciare, no?
“Allora
sei vivo” commentò.
Fantastico,
adesso nemmeno il sarcasmo era mia
prerogativa esclusiva.
“Sei
qui dentro da tre giorni. Mi aspettavo di
trovarti mummificato”.
“Mummificato?
Davvero? È la migliore ipotesi che
hai scovato?”.
“No,
dato che ti sentivo vagare per i corridoi di
notte, ho anche creduto che fossi diventato un vampiro, ma in quel caso
probabilmente sarei stato la tua prima vittima”.
“Spiacente
deluderti, fratellino, sono ancora tutto
umano. Ma ammetto che se ci fosse un vampiro con il mio nome, sarebbe
sicuramente un gran figo”.
“Va
bene, sarò breve e conciso: voglio una
spiegazione” tagliò corto.
Avevo
appena deciso che anche Stefan si meritava
come minimo una giustificazione, ma più metteva pressione,
più mi passava la
voglia.
Primo
passo per levarmelo di torno: fare il finto
tonto.
“Non
so di cosa tu stia parlando”.
“Sono
giorni che tu e Bonnie vi evitate. Lei si
rifiuta di venire qui e tu non ti rifiuti di lasciare la tua camera. Ti
ho
lasciato in pace fin troppo tempo”.
Secondo
passo: temporeggiare.
“Hai
ragione, fratellino, come sempre. Ne possiamo
discutere più tardi? Ora devo studiare”. Falso ma
efficace.
“No,
ne discutiamo ora” s’impuntò.
Terzo
passo: negare.
“Non
è andata come credi”.
Santo
Cielo, mi sembrava di essere appena stato
beccato nel letto con la mia amante.
“Vorrei
credere qualcosa…davvero vorrei, ma nessuno
di voi due si decide a parlare” osservò esasperata
e sempre più determinato.
Corrugai
la fronte “Nel senso che Bonnie non ti ha
detto niente?”.
“No”
mi confermò “Solo che avete litigato, che
è
finita e che vuole stare da sola”.
Mi
sorprese quella risposta, mi sorprese di non
essere stato additato come il colpevole della situazione, sebbene lo
fossi.
Mi
rincuorò sapere che Bonnie non avesse divulgato
il vero motivo della nostra rottura. Mi stava in qualche modo
proteggendo,
stava cercando di salvaguardare il mio rapporto con Stefan.
Magari
non era tutto perduto, magari una parte di
lei continuava a credere in noi e preferiva non farmi terra bruciata
intorno.
Almeno non con Stefan che mi avrebbe ammazzato se avesse scoperto della
scommessa.
Mi
resi conto che era infine giunto anche per me il
momento di prendermi le mie responsabilità, di comportarmi
da persona matura.
E ritornai
al mio piano originario: confrontarmi con Stefan, essere onesto.
Raccontare i
fatti dal mio punto di vista e provare almeno a convincerlo di non
avere per
fratello il diavolo in persona.
Accade
esattamente come con Alaric. Stefan divenne
prima paonazzo, poi sbiancò e fu sull’orlo di
scoppiare. Avvicinandoci alla
fine la sua espressione mutò: sempre più
empatica, sorpresa e comprensiva.
“Le
hai confessato di amarla?”.
In
tutto il discorso, almeno era rimasto colpito
dalla parte più positiva.
“Sì
e sono stato mollato un secondo dopo”.
Rifiutai
l’ennesima chiamata di Elena. Lei e Stefan
erano diventati un vero tormento.
Cominciavo
a pentirmi di essermi rivolta proprio a
loro per cercare un po’ di conforto.
In
realtà non era stata una cosa voluta: dopo la
litigata con Damon, ero di corsa tornata in palestra (per assurdo
sentivo che
tra la folla avrei potuto trovare un po’ di
tranquillità) e mi ero imbattuta
subito in quei due.
Avevo
il viso stravolto e subito si erano resi
conto che qualcosa non andava.
Li
avevo pregati di accompagnarmi a casa, dato che
non avevo la mia macchina. Mentre Stefan era andato a prendere
l’auto, Elena
aveva indagato.
Avevo
intenzione di tenere per me la storia della
scommessa, ma Elena sapeva già tutto per via di Katherine,
perciò decisi di
confidarmi con lei.
All’inizio
non volle credere che Damon avesse
davvero preso parte a quello scherzo crudele. Lo aveva sempre difeso,
ci aveva
spinti uno tra le braccia dell’altra e adesso ne era rimasta
delusa almeno
quanto me.
L’avevo
pregata di non dirlo a Stefan né a nessun
altro.
Damon
aveva superato ogni limite, ma non avevo
alcun interesse a gettargli altro fango addosso, o ad accrescere la sua
brutta
reputazione, soprattutto agli occhi di Stefan.
Per
quanto riguardava Meredith e Caroline, non
avevo voglia di sentire nessuno “Te l’avevo
detto”, men che meno insulti
rivolti al mio ormai ex ragazzo.
Così,
nonostante la notizia della nostra rottura si
fosse diffusa, nessuna sapeva il vero motivo a parte Elena.
Continuava
a pressarmi perché risolvessi la
situazione. Stefan, invece, pretendeva spiegazioni, che io non gli
avrei dato
di certo.
Non
volevo mettermi in mezza tra i due fratelli,
non volevo creare contrasti. Era compito di Damon dirlo a Stefan. Se la
dovevano sbrigare da soli.
Fatta
eccezione per la sera della festa, appena
dopo il misfatto, non ne avevo parlato con nessuno.
Seppur
fosse difficile tenersi tutto dentro, era la
decisione migliore per me.
Temevo
che, altrimenti, sarei stata influenzata dai
pareri esterni, sia in positivo sia in negativo. Ma era una cosa
importante ed
era mia.
Faceva
male ripensare a quei momenti. Alle parole
di Katherine che tutta soddisfatta sbatteva in faccia a Elena la sua
vittoria.
Alle conferme di Damon che costretto a confessare tutto mi aveva ferito
più di
altri mille tradimenti.
Mi
sentivo davvero una stupida, perché non avevo
ascoltato il mio istinto quando mi aveva suggerito di scappare lontano
da lui.
Mi
sentivo debole, perché avevo permesso a Damon di
farmi, ancora una volta anche se in maniera diversa.
E
mi sentivo incompleta, perché mi sembrava che
Damon si fosse portato via quella parte di me per cui tanto avevo
lottato.
Quella forte, sicura, cresciuta.
Avevo
messo a tacere la mia diffidenza per niente,
per essere smentita, per ritornare al punto di partenza.
Damon
non si meritava la mia fiducia, non se l’era mai
meritata.
Non
m’importava che si fosse pentito, che avesse
lasciato perdere tempo addietro la scommessa. Non m’importava
che si fosse
innamorato di me.
Aveva
tenuto nascosta la verità, permettendo a
Katherine di mortificarmi.
La
nostra storia era costruita sostanzialmente su
una bugia. Forse i sentimenti di Damon erano veri, forse era accaduto
sul serio
come nei film e alla fine era rimasto intrappolato nella tela che lui
stesso
aveva intrecciato e da un lato capivo anche la sua paura di rovinare ciò che avevamo
creato con fatica. Ma a conti
fatti, pianificare di conquistarmi e spezzarmi il cuore era un gioco
pericoloso, un segreto pesante e grave. Aveva minato per sempre la mia
fiducia
“Mi
sono innamorato di te”.
Ma
chi voleva prendere in giro?
M’importa
di quella dichiarazione, mi rimbombava
nella testa giorno e notte.
Lo
odiavo: mi aveva portato sul punto più in alto e
mi aveva lasciato cadere. Perché alla fine il suo piano
aveva ottenuto
l’effetto sperato: anche io mi ero innamorata.
Dirlo
ad alta voce mi faceva paura, ma almeno a me
stessa lo potevo ammettere.
E
se non era ancora amore vero, ci mancava poco.
Non m’immaginavo un sentimento diverso da quello che nutrivo
nei suoi
confronti.
Avevo
passato giorni interi a riflettere su come
comportarmi. Non era una circostanza semplice e faticavo a capire se
fosse il
caso di continuare oppure no.
Avevo
l’impressione di stare lentamente perdendo me
stessa, il mio centro, il mio obiettivo: mi ero trasformata di nuovo
una
ragazzina piagnona che si nascondeva nella propria camera.
Volevo
essere quel tipo di persona? No.
Bonnie
McCullough non era una bambina. Bonnie stava
diventando un’adulta, si stava scrollando di dosso
l’immagine della ragazza
della porta accanto.
E
per quanto mi costasse, sapevo di avere un unico
modo per dimostrarlo.
Il
giorno del diploma in casa mia era esplosa una
vera e propria euforia. Tra mia sorella e mio padre non sapevo dire chi
fosse
più agitato.
Mary
insistette per truccarmi almeno un po’ e papà
cucinò per colazione tanta di quella roba che saremmo andati
avanti altri tre
giorni a mangiare.
Tra
i miei amici, Caroline era certamente la più
entusiasta. Un’altra cerimonia nel giro di poco. Il suo ego
non poteva stare
meglio.
Mi
sentivo un po’ goffa in quella tunica larga e
con quel tocco in testa. Eravamo tutti vestiti allo stesso modo e tutti
ci
guardavamo straniti.
“Ci
pensate che questa è l’ultima volta che siamo
tutti insieme qui a scuola, come studenti” si commosse
Caroline.
“Non
incominciare già a piangere” la riprese
Meredith.
“La
fai facile tu! Sei contenta di uscire da questo
posto, così potrai sbandierare la tua relazione con il
prof!” la ribeccò.
“Questo
è un segreto che non mi mancherà”
commentai.
“A
proposito di segreti. Tu ci devi ancora qualche
spiegazione, Bon” mi disse, alludendo alla rottura con Damon.
Elena
sapeva quanto fossi restia a parlarne e venne
in mio aiuto “Non roviniamoci questo giorno. Ci
racconterà un’altra volta.
Adesso voglio un abbraccio”.
“Oh
sì, un abbraccio” batté le mani
Caroline
“Aspetta! Stefan, Matt!! Venite qua!”
urlò per chiamarli “Qualcuno prende una
macchina fotografica”.
Ma
non ci fu tempo per nessuna foto, perché il
preside ci incitò a sederci per l’inizio della
cerimonia.
Quando
venne annunciato il mio nome, sentii il
cuore battere più forte. Temevo d’inciampare nella
tunica o mettermi in
imbarazzo in qualche modo. Fortunatamente passai indenne la consegna
del
diploma e nel momento in cui lo presi in mano, avvertii un moto di
orgoglio per
me stessa. Una scarica come non ne avevo mai percepite.
Voltandomi
verso il pubblico per accettare
l’applauso, incrociai lo sguardo di Damon, accanto a suo
padre per sostenere
Stefan.
Gli
rivolsi un mezzo sorriso perché una parte di me
era contenta di vederlo. Mi piaceva pensare che fosse venuto un
po’ anche per
me.
Abbracci
e foto piovvero non appena fu terminato
tutto.
Una
dolce malinconia aleggiava tra noi: eravamo
alla fine di un ciclo. Per me forse più che per tutti gli
altri.
Abbracciai
forte Stefan e mi aggrappai alla sua
tunica. Era la persona che avrei lasciato con più fatica.
Non eravamo amici,
non eravamo fratelli.
Eravamo
qualcosa di più. Anime gemelle destinate a
condividere per sempre un legame unico.
“Rimarrai
con me?” gli chiesi.
“Per
tutta la vita, e di più” sussurrò tra i
miei
capelli “Bonnie, devi dirglielo”.
“Lo
so” dissi atona.
“Lo
distruggerà”.
“Una
piccola vendetta personale” ironizzai con la
voce fievole.
“Ha
incasinato tutto come al suo solito. Mi ha
raccontato della scommessa…ma io gli credo. Sicura di non
potere dargli
un’altra possibilità?”.
“È
questo il problema, Stefan, concedere a lui
un’altra occasione sarebbe come toglierla a me”
osservai tristemente.
Stefan
annuì, poco convinto “Lo terrò
d’occhio per
te”.
L’incontro
con Damon fu inevitabile. Io dovevo
parlargli e lui sembrava non attendere altro. Mentre tutti
festeggiavano, noi
ci trovammo seduti uno accanto all’altra sulle sedie occupate
prima dagli
invitati alla cerimonia.
C’erano
fiumi di parole da dire, pensieri da
esplicare eppure entrambi rimanemmo zitto per un bel po’. Non
so che cosa
passasse nella sua mente.
Io
semplicemente non trovavo il coraggio di
annunciargli la cattiva notizia.
“Mi
ritengo fortunato” saltò su
all’improvviso.
“Per
cosa?”.
“Non
mi hai ancora tirato una sedia in testa”.
“C’è
ancora tempo”.
“Ricordati
che potresti rovinare il mio bel visino.
E tu ami il mio bel visino”.
La
sua faccia da schiaffi piuttosto.
Al
mio silenzio replicò in fretta, come se non
volesse permettermi di rimuginare troppo “Mi spiace di essere
sparito così,
Bonnie. La verità è che non sapevo che cosa dire.
Non so ancora cosa dire.
Tutto quello che mi viene in mente è stupido o banale o
peggio patetico. Ci ho
riflettuto molto e sono arrivato alla conclusione che qualunque cosa
dicesse
non servirebbe a niente se tu non fossi disposta ad ascoltarmi. Quindi
te lo
chiedi per piacere: vorresti ascoltarmi?”.
Corrugai
la fronte. Sarei stata ad ascoltare per
ore, ma il problema era un altro.
Il
problema era che pure io avevo qualcosa
d’importante da dirgli.
“Aspetta”
lo fermai “Prima devi sapere una cosa. Ti
avevo accennato di quell’università di Londra.
Ecco, mi hanno accettata e ho
deciso di trasferirmi là”.
Damon
s’irrigidì. La sua espressione cambiò
totalmente. Scorsi un’ombra di delusione, ma poi ci fu solo panico e
sorpresa.
Si
alzò di scatto, nervoso “Certo, è
logico. Te lo
meriti, non c’era motivo perché non ti
prendessero. Hai fatto bene ad accettare.
Non c’è nulla che ti trattiene qui”.
Quell’ultima
frase fu un colpo al cuore per me, non
osai immaginare per lui.
Mi
alzai e feci per parlare ma Damon m’interruppe
di nuovo. Adesso appariva arrabbiato.
“Ti
auguro buon viaggio e…
Non
mi aveva lasciata spiegare, era scappato via.
Capivo
la sua amarezza, capivo la sua confusione.
Aveva passato mesi e mesi a ripetermi quanto fossi matura, cambiata. Ma
non si
era mai reso conto di quanto in effetti fossi cresciuta.
Era
davvero la fine di un ciclo.
Se
un anno fa mi avessero detto che mi sarei
trovato solo, piantato da Bonnie McCullough, gli avrei riso in faccia.
Se
un anno fa mi avessero detto che avrei sofferto
come un cane perché Bonnie McCullough si toglieva finalmente
dalla
circolazione, mi sarei proprio sbellicato dalla risate.
Adesso
non ridevo, però.
Continuavo
a guardare fuori dalla finestra in
attesa di vederla uscire con le valigia per andarsene a
Londra.
Chissà
se aveva avvertito Klaus, chissà se aveva
intenzione di vederlo.
Quel
pensiero mi fece ribollire il sangue.
Mi
ero preparato tutto un bel discorso per il
giorno del suo diploma e me l’ero tenuto per me. La notizia
della sua partenza
mi aveva completamente colto alla sprovvista.
Sentivo
che mi stava sfuggendo dalle mani, sentivo
di non avere tempo per rimediare al casino che avevo combinato, allora
avevo
lasciato perdere.
Santo
Cielo, ero Damon Salvatore.
Io
non aspettavo
che le cos venissero da sé, non guardavo il
destino compiersi. Prendevo
ciò che volevo, combattevo fino alla fine.
Sebben
avessi sbagliato, anche Bonnie stava
commettendo i suoi errori e non c’era motivo per cui dovessi
tacere e non
tentare il tutto per tutto almeno un’ultima volta.
Così
mi diressi a casa sua e bussai ripetutamente
alla porta.
Suo
padre mi aprì e non si fece alcun tipo di
problema a lasciarmi entrare. La mia espressione valeva più
di molte altre
parole.
Piombai
in camera di Bonnie e la sopresi mentre
stava finendo di riporre alcuni vestiti nel suo borsone.
“Tu
stai scappando!” l’accusai.
Improvvisamente
da imputato ero diventato giudice.
“Tu
sei scappato” mi rispose, inquieta.
“No,
io ero venuto per provare a sistemare le cose
e tu mi hai informato che ti saresti trasferita dall’altra
parte
dell’atlantico”.
“Sto
pensando a me stessa, al mio futuro” replicò.
“L’università
di Atlanta non ti dispiaceva fino a
poco tempo fa” le ricordai amaramente.
“Fino
a poco tempo fa non sapevo nemmeno che ti
fossi alleato con la mia peggior nemica per ingannarmi”.
“Non
significa niente!” le urlai “Sono stato uno
stronzo, è vero. E mi dispiace, ho sbagliato. Credi che
andartene ti servirà a
qualcosa? Che imparerò la lezione? Tu non ti traferisci
perché non ti fidi di
me, te ne vai perché hai paura!”.
“Certo
che ho paura!” affermò lei “Ho una
dannata
paura perché per la prima volta mi sono completamente
dedicata a qualcuno, ho
lasciato che le mie difese cadessero, ci ho creduto davvero e tu mi hai
colpito
al cuore”.
“Allora
resta qui! Lotta per me. Dimostrami che tra
i due sei tu quella forte, insegnami, non arrenderti con me”
la pregai.
“Damon,
questo va oltre te e me” disse “Mi ha
totalmente distrutta scoprire della scommessa. Mi sono sentita di nuovo
una ragazzina
piagnucolona e ingenua e non voglio più tornare a essere
quella persona. Questa
esperienza mi serve per trovare un equilibrio, per avere il potere di
decidere
se stare male o no. Ed è una cosa che devo fare da
sola”.
Era
seria e tremendamente decisa.
Capivo
la sue ragione, ma – diamine – era difficile
lasciarla andare.
La
guardai e mi resi conto che sarebbe passato
molto tempo prima di averla di nuovo così vicino.
Le
presi il volto con uno scatto repentino e la
baciai e la tenni stretta, come se fossimo in mezzo alla burrasca e il
vento me
la volesse portare via.
“Sbrigati
a laurearti e torna in fretta da me”.
Io
l’avrei aspettata. Senza riserve, senza
tentennamenti.
E
forse, prima o poi, ci saremmo dimenticati dei
tempi in cui ci odiavamo e saremmo tornati a essere solo Bonnie e
Damon, ai
confini del mondo.
Il
mio spazio:
Ecco
qui il penultimo capitolo della storia.
Beh
sì…le cose non si mettono affatto bene. Bonnie
è decisa a partire e Damon non riesce a trattenerla.
Riusciranno a risolvere la
situazione prima della fine?
Non
sono riuscita a correggere il capitolo, sarà
pieno di errori di battitura. Mi spiace molto, al mio ritorno
provvederò subito
a editare.
Oggi
partirò per il mare per una decina di giorni
quindi l’ultimo capitolo arriverà nella prima
settimana di agosto.
Ho
letto tutte le vostre recensione, purtroppo
causa partenza non faccio in tempo a rispondervi e non avrò
internet per tutta
la settimana, ma risponderò non appena ritornerò
a casa. Scusatemi tantissimo
per questo “inconveniente”.
Se
ci siete ancora, non si siete partite e avete
voglia, lasciatemi il vostro parere e le vostre congetture.
Vi
ringrazio tantissimo!!
A
presto,
Fran;)
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Capitolo 28 *** Eventually ***
Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
ventotto: Eventually
“Mamma mia, here I go again
My my, how can I resist you?
Mamma mia, does it show again
My my, just how much I've missed you?
Yes, I've been brokenhearted
Blue since the day we parted
Why, why did I ever let you go?
Mamma mia, now I really know
My my, I could never let you go”
(Mamma
mia- ABBA).
Londra
era molto più incasinata di Fell’s Church. E
molto più fredda.
I
primi giorni non erano stati affatto facili. Ci
avevo messo un po’ ad ambientarmi.
Avevo
richiesto una camera singola al campus e
questo non mi aveva facilitato a stringere amicizia. Erano tutti
talmente presi
dal trasloco e dall’inizio delle lezioni che ogni contatto si
limitava a
qualche chiacchiera di cortesia.
Avevo
scoperto un delizioso caffè italiano in un
vicolo vicino al college. Ogni mattina prendevo il mio cappuccino e mi
dirigevo
verso la fermata della metropolitana.
Dopo
una settimana a girare nei parchi e nei musei,
mi ero finalmente decisa a immergermi nella vita universitaria.
Lentamente
avevo cominciato a conoscere gente, a
integrarmi: mi orientavo per la città, avevo capito come
funzionavano tutti i
servizi della mia università e i miei compagni mi salutavano
e riconoscevano
quando entravo in classe.
Avevamo
formato un piccolo gruppetto. Gli inizi
erano stati molto formali, ma avevamo iniziato a entrare in fretta in
coincidenza.
Eravamo
tutti ragazzi lontani da casa, pronti a
cominciare una nuova fase della nostra vita. Ci sentivamo accomunati da
quel
senso di novità e smarrimento.
Oltre
a quella strana combriccola, avevo legato
particolarmente con un’altra ragazza. Londinese doc, bionda,
alta, con gli
occhi azzurri. Tosta e impertinente, molto altezzosa. Non ero riuscita
a capire
chi mi ricordasse fino a che non avevo scoperto il suo cognome.
Rebekah
Mikealson era la degna sorella di Klaus.
Emanava
un incredibile fascino alimentato dalla sua
ambizione. Una persona così si sarebbe mangiata Katherine in
un boccone se
l’avesse incontrata.
Rebekah
era l’unica che riusciva un po’ a colmare
il vuoto lasciato dalla mie amiche. Sapevo che prima o poi sarebbe
passato ma
non potevo fare a meno di sentire la mancanza di Elena, Caroline e
Meredith. E
naturalmente di Stefan.
Ci
tenevamo in contatto praticamente ogni giorno
tramite Skype. Ora condivideva con Elena un appartamento vicino
all’università,
quindi riuscivo a parlare spesso con entrambi.
I
contatti con Meredith e Caroline erano un po’
meno frequenti, ma quando ci chiamavamo rimanevamo al computer per ore.
Tutto
sommato me la stavo cavando più che bene ed
ero molto fiera di me stessa. Superato lo spaesamento iniziale, ero
gradualmente
diventata parte di Londra.
Oltre
al mio bar preferito, avevo anche un parco
preferito e una libreria e un delizioso negozio vintage.
Rebekah
mi aveva portato in giro per la città,
mostrando le meraviglie lontane dagli occhi dei turisti. Ormai potevo
dire di
muovermi tra quelle vie come una vera londinese.
Avevo
ancora qualche problema con l’accento, ma
fortunatamente nessun inglese mi aveva ancora additata come una stupida
americana.
Dopo
quasi tre mesi non provavo nemmeno più tanto
nostalgia di casa. Papà e Mary erano già venuti a
trovarmi una volta e li avevo
portati in giro come un perfetto cicerone.
Erano
rimasti parecchio sorpresi dal vedermi
totalmente integrata nel mio nuovo ambiente e io ero altrettanto
orgogliosa e
contenta: mi ero finalmente lasciata alle spalle la ragazzina impaurita
e
piagnucolona.
Dopo
tutto quello che avevo passato lungo l’anno
trascorso, quel distacco non aveva fatto altro che fortificarmi ancor
di più.
Capitava
spesso che io, Rebekah e Klaus uscissimo
assieme e durante uno dei nostri pranzi era saltato fuori
l’argomento Damon.
Klaus
si era finto dispiaciuto per averlo nominato,
ma era più che evidente che l’avesse fatto di
proposito per sapere che cosa era
successo tra noi.
Rebekah
era caduta dalle nuvole, chiedendo se il
Damon in questione fosse suo cugino. Mi era toccato raccontare
brevemente la
nostra storia e il motivo che vi aveva poso fine. Mi sentivo libera di
parlare
con loro perché sapevo che non mi avrebbero giudicata o
compatita.
“Che
razza di stronzo. Proprio come me lo ricordavo. Hai fatto bene, Bonnie:
lascia
che ti rimpianga per il resto della sua vita. E poi chi si crede di
essere
questa Katherine?”.
“Sempre
melodrammatica, Rebekah” la rimproverò Klaus.
“Hai
il coraggio di difenderlo?” s’indignò.
“È
un uomo. Noi uomini facciamo cazzate, ma non siamo così
cattivi come pensate.
Damon piace proprio perché è una mina
vagante”.
Ed
erano andati avanti a litigare su chi avesse
ragione, senza interpellarmi minimamente.
Rebekah
era davvero un osso duro e si lanciò in un
discorso in difesa delle donne, sostenuto da parecchie delusioni
personali.
Klaus
cercava di smorzare la sua carica. Un po’
perché era stato il nostro primo vero sostenitore, un
po’ perché aveva capito
che l’argomento mi metteva a disagio.
Non
avevo più avuto notizie di Damon da quando ero
partita. Stefan mi aveva solo detto che si era laureato, ma non avevo
chiesto
altro.
La
cerimonia coincideva con l’inizio delle mie
lezioni, perciò ero rimasta a Londra. Avevo pensato di
scrivergli qualcosa. Alla
fine tutto mi sembrava inappropriato.
Avevo
lasciato passare in silenzio anche
quell’evento, rassegnata ad accettare la fine della nostra
storia: ero andata a
Londra per staccarmi da tutto e trovare veramente la mia strada.
Tagliare
qualunque contatto era stata la soluzione migliore.
Rebekah
aveva imparato la lezione e non aveva più
fiatato su suo cugino.
Avevo
scelto la facoltà di scienze della formazione
e giorno dopo giorno mi accorgevo di quanto fosse giusta quella materia
per me.
I
miei insegnanti non erano stati molto d’aiuto
durante la mia crescita. Certo, avevo tutti fatto il proprio dovere,
comportandosi da perfetti educatori ma non si erano mai una volta
fermati a
chiedersi che cosa io avessi da dare al mondo.
Mi
sarebbe piaciuto essere un giorno per dei
ragazzini ciò che era mancato davvero a me: una guida.
Tanti
chilometri solo per diventare un’insegnante?
Chiamatemi pazza, ma ne valeva la pena.
Giorno
dopo giorno mi sentivo sempre più viva. Era
merito di Londra, dei suoi quartieri eleganti e di quelli underground,
era
l’aria che si respirava.
Aria
di innovazione, aria di ambizione, aria di
professionalità e bravura.
Non
avevo alcun problema con il tempo. Potevo
accettare la pioggia e la nebbia se in cambio ricevevo tali stimoli.
Ero
lì da poco, eppure cominciavo già a valutare
l’idea di traferirmi definitivamente. L’idea di
lasciare, una volta ottenuta la laurea, quella magnifica
città mi
stringeva il cuore.
La
mia avventura che era partita, com’era
prevedibile, con titubanza e malinconia, stava continuando con
trepidazione e entusiasmo.
Era
impressionante guardarsi indietro e vedere
tutto quello che era successo in un solo anno: la mia vita si era
completamente
ribaltata, così come le mie convinzioni e relazioni.
Ci
stavamo avvicinando a Halloween e non potevo non
pensare alla festa passata, al momento in cui tutto aveva iniziato
radicalmente
a cambiare, a quell’incontro (meglio lo scontro) con Damon,
nella mia vasca da
bagno, dopo essermi persa nel bosco per colpa di Katherine.
Avevamo
litigato e per la prima volta avevo sentito
una scossa nel profondo, per la prima volta avevo deciso di reagire e
non
crogiolarmi nella mortificazione.
A
così tanto tempo di distanza, mi accorgevo che
quell’istante aveva segnato l’inizio della nostra
connessione, volenti o meno.
Avevo
chiarito le mie posizioni, lo avevo rimesso
al suo posto e lui era rimasto in silenzio, impressionato e basito. E
aveva
iniziato a trattarmi alla pari.
Mi
piaceva credere che fosse merito mio, che
l’avessi finalmente convinto, o almeno incuriosito, ma non
potevo mettere la
mano sul fuoco. In quel periodo la bellissima
scommessa era già in atto.
Una
parte di me mi spingeva, mi pregava di credere
alle giustificazioni di Damon, alla sua sfacciataggine quando mi aveva
detto di
non esserne pentito, dato che altrimenti non si sarebbe mai avvicinato
a me
come poi era in effetti avvenuto.
Quindi
sì, forse mi aveva cercato per via della
scommessa incitato da Katherine e forse sì quello che ne era
scaturito non
era soltanto una bugia.
Inutile
tormentarsi. Damon al momento era fuori
dalla mia vita e dopotutto non stavo così male,
perché nonostante la mancanza,
la mia indipendenza ne stava di sicuro traendo beneficio.
Osservai
il mio quaderno: la pagina era
praticamente vuota. Rebekah mi avrebbe ammazzato. Era via per impegni
di
famiglia e le avevo promesso di prendere appunti anche per lei.
La
lezione era finita e non c’era speranza di
rimediare. Dovevo assolutamente cercare qualcuno e recuperarli.
Uscii
dalla classe e trovai lì ad attendermi, sulle
panche del corridoio, la più inaspettata delle sorprese.
“O
mio Dio!!” urlai e per poco non feci cadere la
borsa.
Tre
voci ripeterono in coro le mie parole, poi tre
paia di braccia mi strinsero fino a togliermi il respiro.
Elena,
Meredith e Caroline mi liberarono
dall’abbraccio e finalmente riuscii a guardarle in volto.
Nonostante le avessi
toccate con le mie stesse mani, faticavo a credere che fossero davvero
lì.
“Ok,
ti risparmio qualche domanda e ti racconto
subito come siamo arrivate qua” tagliò corto
Caroline “Due giorni fa ci siamo
trovate tutte a Fell’s Church e abbiamo iniziato a ricordare
l’ultimo anno del
liceo e ci siamo accorte che qualcosa mancava. A fine serata avevamo
prenotato
i biglietti per Londra”.
“Voi
siete pazze!” commentai “Vi sarà costato
una
fortuna”.
“Abbastanza,
quindi per Natale per favore torna tu”
disse Meredith.
“Ma
ne è valsa la pena” affermò Elena
abbracciandomi di nuovo “Stefan non è potuto
venire, aveva delle cose da
sbrigare all’università ma si è
raccomandato di baciarti tutta per lui” sorrisi
e mi stampò un sonoro bacio sulla guancia.
“Ecco
perché ieri sera sembrava così strano. Mi ha
detto che non potevi venire al telefono per un’intossicazione
alimentare”
spiegai.
“Il
solito melodrammatico” scherzò.
“Dove
alloggiate?” chiese.
Le
tre si guardarono colpevoli.
“Domandalo
alla tour operetor qui accanto” borbottò
Meredith, indicando Caroline.
“Ho
letto male, va bene?!” si spazientì questa
“Smettetela di darmi la colpa, la prossima volta potete
occuparvene voi”.
“Che
cosa è successo?” indagai.
“Care
non ha prenotato l’albergo o meglio l’ha
prenotato a Manchester. Ha preso il numero dalla riga
sbagliata” spiegò Mere.
“Dannate
catene di hotel! Hanno i siti peggiori del
mondo”.
“Forse
l’accento diverso ti poteva dare un indizio”
le suggerì Elena.
“Sono
tutti uguali per me. Come pretendi che
distingua l’accento di Manchester da quello di
Londra?” replicò.
“Ragazze
non scaldatevi” intervenni nel battibecco
“Vicino al mio campus c’è una
pensioncina carina. Possiamo sentire se c’è posto.
Ho finito adesso le lezioni, andiamoci subito” proposi.
Fortunatamente
c’era ancora qualche camera libera.
Presero una tripla e salirono subito a mettere le valigie e a darsi una
rinfrescata.
Le
portai nel mio baretto preferito: una graziosa
teeria, vicino a Regent’s Park, anni ’20 e
tremendamente inglese.
“Giuro,
ancora non ci posso credere che siate
venute fino qua a trovarmi” mi emozionai.
“Ci
mancavi troppo, Bon” confessò Caroline
“Noi
abbiamo scelto college diversi, ma almeno siamo tutte negli States e
durante le
vacanze torniamo a Fell’s Church”.
“Sarei
tornate anche io, ma ho solo tre giorni di
pausa e il fuso orario è troppo stancante. Poi i voli
costavano una follia”.
“Dovremo
abituarci a non vederci più così
spesso”
osservò Elena.
“Mi
rifiuto di accettare che la nostra sorellanza
velociraptor finisca così. Dobbiamo stabilire un giorno a
settimana e
organizzare delle riunioni su Skype tutte e quattro”.
“Abbiamo
tre fusi diversi, Care” le fece notare
Meredith.
“Poco
importa. Per voi posso stare sveglia per
tutta la notte”.
“Non
sei cambiata per niente” le assicurai, mentre
aggiungevo il latto al mio tè.
“Sai
Bonnie” incominciò Meredith “Onestamente
mi
hai sorpresa”.
“Per
cosa?”.
“Credevo…beh,
tutte lo credevamo, che saresti
tornata per la laurea di Dam-” Mere si zittì di
colpo e lanciò un’occhiata
furante a Caroline che le aveva tirato un calcio sotto il tavolo.
Aveva
provato a mascherarlo, ma io me n’ero accorta
e anche Meredith sembrava decisa a non tacere.
“Che
c’è? Mica è Voldemort. Posso ancora
pronunciare
il suo nome”.
Adesso
anche Elena la stava guardando male.
“Va
bene, allora la prenderò larga” si
spazientì
Mere “Credevamo di vederti alla laurea di Tu Sai Chi.
Così va meglio?
Precauzione inutile dato che abbiamo capito di chi sto parlando. E
smettetela
di guardarmi con quelle facce: lo volete sapere quanto me”.
“È tutto ok,
ragazze” le tranquillizzai “Non ho problema a
parlare di Damon”.
“Oh,
quando è così” si lasciò
convincere
immediatamente Caroline “Ora sei pronta a sputare il rospo:
non ci hai ancora
detto perché vi siete lasciati”.
“Non
offenderti, Care, ma questo preferisco tenerlo
per me” obiettai.
“Ma
Elena lo sa!” si lamentò.
“Non
l’ho detto io a Elena” mi difesi “Non
arrabbiatevi. È una cosa tra me e lui e non mi va di
alimentare pettegolezzi.
So che non lo direste mai a nessuno, ma sento di fargli un torto a
raccontare
la nostra vita privata. Inoltre, solo lui sa una parte della
storia”.
“Chissà
perché sospetto che sia colpa sua”
ipotizzò
Meredith.
Non
avevo tenuto per me la vera ragione solo per
non buttare odio su Damon, ma anche perché non avevo voglia
di sorbirmi i vari
“Te l’avevo detto”.
“Diciamo
che non ero pronta a mollare tutto per lui”
mi giustificai “Non riuscivo a fidarmi totalmente”.
“E
adesso qualcosa è cambiato?” domandò
speranzosa
Elena, la nostra fangirl numero uno.
“Io”
risposi “E al momento non so se me la sento di
ritentare. Non solo con Damon, con chiunque. Mi piace la persona che
sono
diventata”.
“Ben
detto, Bonnie, tu meriti molto di più. Se
penso che Damon ti ha costretto a lasciare il party che avevo
organizzato per
te, solo per godersi la sua festicciola privata”.
“Devi
ammettere che è stato un bel regalo”
s’intromise Elena.
“Certo”
concordò Caroline “Di tutti i modi che si
è
inventato per portarsi a letto le ragazze, questo è stato di
sicuro il più
carino”.
Le
mie guance si tinsero di rosso “In realtà no.
Non abbiamo fatto nulla quella sera”.
Le
tre spalancarono la bocca.
“Davvero?”
si sorprese Meredith “Noi non ti abbiamo
mai chiesto niente perché sappiamo quanto tu sia riservata,
ma pensavamo…sì,
insomma, pensavamo che non ci avessi detto nulla perché non
ti andava di
parlare di cose così intime ma…”.
“Abbiamo
dato per scontato che voi foste andati a
letto assieme” concluse Caroline.
“No”
negai “Mai fatto”.
“Sei
ancora vergine?” si indignò Caroline.
“Non
dirlo come se fosse una brutta parola” la
ribeccai.
“Intendevo…”
si corresse “Sei stata con Damon per
tutto quel tempo e non avete mai…come cavolo hai
fatto?”.
“Sai,
Care, a qualcuno piace tenere le gambe chiuse
ogni tanto” la stuzzicò Elena.
“Santo
Cielo, Bonnie, quel ragazzo è pazzo di te”
commentò Meredith “È un malato del
sesso e se è riuscito a trattenersi per
tutti quei mesi solo per aspettarti…penso che sia uno dei
gesti più altruisti e
sinceri di Damon”.
Grazie
amiche, non fatemi sentire ancora più in colpa, mi
raccomando.
Partirono
dopo qualche giorno e ci furono fiumi di
lacrime. Vennero a salutarmi in dormitorio di mattina e ci misero quasi
mezz’ora a trovare la forza di andarsene.
Poco
dopo qualcuno bussò alla porta della mia
stanza: era sicuramente Caroline che si era dimenticata qualcosa, come
al
solito.
“Entra,
Care, è aperto” dissi ad alta voce.
La
porta si aprì e si richiuse. Io continuai a fare
il letto senza preoccuparmi di voltarmi.
“Per
una che deve avere sempre il controllo su
tutto, sei abbastanza sbadata” considerai.
“Se
è per questo, mi sto chiedendo come tu abbia
fatto a sopravvivere tre mesi da sola senza di me, uccellino”.
Mollai
di colpo il cuscino e gelai sul posto. Avevo
le allucinazioni?
“Da
quanto mi hanno raccontato non ti sei ancora
persa in nessun bosco e non ti sei ubriacata fino a svenire”
rincarò.
Mi
voltai per accertarmi di non star sognando. Non
potevo toccarlo, ma potevo vederlo e sembrava tremendamente reale.
“Damon”
dissi con un filo di voce “Che cosa ci fai
qui?”. Domanda intelligentissima.
Lui
alzò le sopracciglia “Secondo te?” mi
canzonò
“Ti ho dato tre mesi di libertà, Bon Bon. Adesso
basta, non potevi pretendere
che me ne stessi lontano ancora a lungo”.
“Guarda
che non mi sono trasferita qui per gioco!”
lo avvertii “Hai sprecato soldi se sei venuto per riportarmi
indietro”.
“Mi
sono iscritto a un master qui a Londra” mi
rivelò e io sgranai gli occhi.
“Perché?”.
I miei interventi erano al limite del
banale, ma non riuscivo a formulare altro.
“Per
stare vicino a te” rispose semplicemente.
“Sei
venuto a Londra per me?”.
“Non
è un gran sacrificio: è una delle
città più
belle d’Europa, ci sono ottime università
riconosciute a livello internazionale
e poi c’è una certa rossa da cui proprio non
riesco a staccarmi” mi confidò con
il suo ghigno sbruffone.
“E
se lei non fosse d’accordo?” lo sfidai,
sollevando il mento.
“Sono
un tipo persuasivo, saprò convincerla. Ci
sono già riuscito una volta”.
“Ti
avverto che sono diventata molto più testarda”.
“Anche
io. E pensa un po’: il mio appartamento è
proprio di fronte al tuo campus”.
“Sei
uno stalker” lo apostrofai.
“Mi
hai chiamato in modi peggiori”.
Il
tempo delle battutine, per quanto mi riguardava,
era finito.
Era
stato divertente, per un attimo, stuzzicarsi
come una volta, mi aveva portata indietro. Damon aveva sempre avuto la
capacità
di risucchiarmi nel suo vortice.
Ritrovarlo
non solo a Londra, ma proprio in camera
mia aveva suscitato in me una tale confusione che faticavo a seguire un
senso
logico nelle parole e nei pensieri.
Centinaia
di volte mi ero giurata di averla
superata, di non sentire più il bisogno di averlo accanto,
di poter
tranquillamente andare avanti senza di lui.
La
sua presenza mi aveva, invece, destabilizzato
completamente e apprendere che si era iscritto a un master a Londra per
starmi
vicino mi aveva sciolto il cuore.
Non
negavo che mi avesse fatto molto piacere e
naturalmente avevo subito pensato che forse c’era ancora una
speranza: mi aveva
seguito fin lì, aveva lasciato tutto per venirmi a
riprendere.
Stava
cercando di dimostrarmi qualcosa. Cercava di
riguadagnarsi la mia fiducia, il mio rispetto. E io avrei dovuto
apprezzare.
Apprezzavo, giuro.
Eppure
c’era qualcosa che mi martellava in testa e
che mi teneva con i piedi ben piantati a terra: ero così
orgogliosa di me
stessa per essermela cavata anche senza di lui. Ero disposta a
rinunciare a
tutto e ripartire da zero?
“Perché
devi essere sempre così impulsivo e
complicato?!” sbottai “Ti ho detto che mi serviva
spazio, che mi serviva un
cambiamento. E tu prendi un aereo e vieni qui?”.
“Ho
resistito tre mesi” disse “Sei partita e volevo
seguirti il giorno dopo ma ho resistito…tre mesi. Speravo di
vederti alla mia
laurea”.
“Non
mi hai invitato” gli ricordai.
“Non
mi hai nemmeno scritto un messaggio” mi
accusò.
“Congratulazioni
per la tua laurea? Quanto
sarebbe stato patetico?”.
“Avevo
capito che volevi trovare la tua strada. Non
credevo che mi avresti cancellato completamente dalla tua
vita” s’infervorò.
“Io
non ti ho cancellato dalla mia vita. Tu mi hai
mentito!” gli rinfacciai.
“Mi
dispiace!” si sfogò “Mi dispiace. Non so
più
come ripeterti che mi dispiace, ma non posso…io non voglio
perderti per uno
sbaglio, non lo sopporterei”.
“Ci
potevi pensare prima”.
“Avrei
dovuto dirtelo prima” mi concesse “Chiamami
pure pazzo ma lo rifarei, perché quello è stato
l’inizio di tutto. Avrei
lasciato comunque Katherine. Anche se non avesse baciato mio fratello,
l’avrei
lasciata. Mi sono innamorato di te, non di lei”.
“Non
continuare a ripeterlo per piacere” lo pregai.
“È
vero. Non posso spegnere i miei sentimenti. Tu
ci sei riuscita?”.
“Certo
che no” risposi di getto “Quello che provo
per te non è cambiato”.
“Allora?”.
“Non
sono convita, però. Me ne sono andata da
Fell’s Church per una ragione. È troppo presto,
è semplicemente troppo. Tu sei
troppo! Ogni volta che sei nei dintorno mi sento sopraffare”.
“Questa
la considero una buona cosa”.
Lo
fulminai con uno sguardo.
“Bonnie,
io non ti voglio mettere in gabbia,
ostacolarti. Non voglio prenderti in giro, farti stare male, divertirmi
e
basta. Sono qui perché voglio affidarmi completamente a te,
voglio darti
affetto, sostegno, passione, desiderio. Voglio darti i brividi,
l’amore. Me
stesso. È un tipo di legame che posso condividere solo con
te. E voglio darti
tutto questo perché è ciò che
inconsapevolmente mi restituisci tu”.
Gli
occhi mi pizzicavano. Non avevo pianto fino a
quell’istante, ma il mio autocontrollo cominciava seriamente
a vacillare.
“E
se non fossi in grado di darti ciò che desideri?”
mormorai.
“Non
è mia intenzione costringerti, uccellino. A
Fell’s Church stavo impazzendo, dovevo tentare fino alla mia
ultima
possibilità. Non m’importa quanto dovrò
aspettare. Sei la parte migliore della
mia vita. Sarei matto a non lottare fino alla fine”.
Mi
mossi senza neanche accorgermene. Realizzai che
cosa stavo veramente facendo quando avvertii tra le mie dita la stoffa
del suo
maglione e la strinsi possessivamente mentre nascondevo il viso
nell’incavo del
suo collo.
Ero
così concentrata sulla famigliare sensazione di
tranquillità che il suo corpo, tra le mie braccia, mi dava
che quasi non
percepii le sue mani circondare la mia schiena.
Mi
era mancato come l’aria.
Non
mi ero arresa a lui, alle sue parole. Non mi
sarei subito gettata ai suoi piedi. Avevo ancora bisogno del mio tempo
e del
mio spazio, ma nel contempo avevo bisogno di riassaporare quel contatto.
Un
piccolo momento di debolezza che mi ero concessa
per svuotare la mente e abbandonarmi totalmente.
Perché
per quanto fossi cresciuta, per quanto fossi
divenuta sicura, indipendente e forte, comunque restavo in parte una
semplice
ragazza in cerca del suo amore.
Sciolsi
quell’abbraccio e mi asciugai in fretta una
lacrima che era scappata dal mio occhio. Mi allontanai da Damon e
ridacchiai imbarazzata.
“Perdonami
per questo slancio”.
“Accetto
volentieri questo e altri slanci”
ridacchiò. All’ennesima occhiataccia, corresse il
tiro e sollevò le spalle in
segno di resa “Per oggi ho tirato fin troppo la
corda”.
“Sei
sul filo del rasoio” confermai.
“Dato
che dobbiamo ricominciare con calma, che ne
dici di vederci domani per un caffè?”.
“Dato
che dobbiamo ricominciare con calma, che ne
dici se rimandiamo il caffè a settimana prossima e ti prendi
il tuo tempo per
ambientarmi”.
Damon
sospirò rassegnato “Me la renderai difficile,
vero?”.
“Non
ho ancora deciso se ti concederò una seconda
possibilità o no”.
“Fai
pure la dura, uccellino, ma ricordati che
abito qui di fronte e ti osservo” mi avvertì con
un mezzo sorriso prima di
lasciare la mia stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Era
difficile prevedere come sarebbe andata a
finire: eravamo come trottole traballanti sull’orlo di un
precipizio. Una
leggera inclinazione e saremmo rotolati giù.
Eppure,
in un luogo lontano da Fell’s Church, dove
non eravamo la sfigata o l’amica di qualcuno, il playboy o il
teppista, dove
eravamo solamente Bonnie e Damon, in un tempo lontano da quello del
liceo,
delle ripicche e delle scommesse, quel noi appariva
più reale che mai e
così giusto come non era stato prima.
Liberai
una risatina isterica e scossi la testa
ripensando a quanto fosse stata poco credibile la mia ultima frase,
perché dopotutto
una seconda possibilità gliel’avevo
appena data.
Il
mio spazio:
Posso
mettere la parola fine anche a questa storia.
Avrei
preferito aggiornare ieri sera, ma alla fine
sono venute a trovarmi delle mie amiche tornate dalla vacanze e non ho
avuto
tempo.
Non
so se a tutte voi soddisferà questo finale. È
una di quelle conclusioni un po’ a metà, ma
sinceramente mi sembrava la maniera
più giusta di terminarla. Ci sono ancora delle questioni
irrisolte tra Damon e
Bonnie e un capitolo non poteva esaurirle in modo appropriato.
È
sempre stata mia intenzione lasciare il finale un
po’ in sospeso, aperto alle vostre teorie. Onestamente io
sono per il lieto
fine e confido che questi due troveranno la strada uno verso
l’altra fuori dal
tempo della mia storia.
A
questo punto non so davvero come ringraziarvi per
avermi seguito fino a qui, per la vostra pazienza e il vostro supporto.
Se
penso soprattutto ai primi capitoli e a come
avete accolto calorosamente questa storia…spero solo di aver
fatto un buon
lavoro e avervi restituito almeno in parte il vostro tempo e affetto.
Avviso
per coloro che seguono anche Would you
hold it against me?: purtroppo per il prossimo capitolo
dovrete aspettare
fino a settembre, perché settimana prossima parto e
starò via fino a fine agosto.
Comunque una volta ripresa, la finirò in fretta, promesso!
Non
mi resta che ringraziarvi ancora una volta e
augurarvi delle buone vacanze.
Divertitevi
e riposatevi. Io vi aspetterò a
settembre.
Un
abbraccio grande,
Fran;)
|
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