10 giorni per innamorarmi di te

di jas_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Giorno 1 ***
Capitolo 3: *** Giorno 2 ***
Capitolo 4: *** Giorno 3 ***
Capitolo 5: *** Giorno 4 ***
Capitolo 6: *** Giorno 5 ***
Capitolo 7: *** Giorno 6 ***
Capitolo 8: *** Giorno 7 ***
Capitolo 9: *** Giorno 8 ***
Capitolo 10: *** Giorno 9 ***
Capitolo 11: *** Giorno 10 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 13: *** Seguito ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Prologo

 

21 Dicembre

Harry

 
Odiavo mio padre per abitare a Parigi.
Odiavo mia madre per avermi spedito lì.
Odiavo mia sorella per aver fatto la lagna e aver convinto i miei ad mandarmici nonostante avessi già diciotto anni, continuando a dire “non vale lui è nato a Febbraio”.
La nota positiva era che quello sarebbe stato l’ultimo Natale e l’ultimo Capodanno che avrei passato con lui. O meglio, che avrei passato con Carmela, la sua domestica, visto che lui era sempre occupato con il lavoro.
Mi alzai pigramente dal letto sul quale ero sdraiato da ore e mi stiracchiai leggermente: ero tutto indolenzito. Mi misi i pantaloni della tuta e andai in cucina dalla quale proveniva un odore invitante, probabilmente Carmela stava preparando la cena nonostante fossero soltanto le cinque di pomeriggio.
Mi sedetti su uno sgabello e appoggiai i gomiti all’isolotto guardandola muoversi con destrezza tra i fornelli. Era un bel personaggio, Carmela, e la conoscevo da quando ero nato. Quando i miei stavano ancora insieme faceva anche da babysitter a me e mia sorella, poi quando divorziarono mia madre non poté permettersi una domestica così lei seguì mio padre a Parigi.
«Che fai?» le domandai, facendola sussultare. Non si era accorta della mia presenza.
«Sto preparando la cena, pollo arrosto.»
Annuii guardandomi le mani.
«Ti stai annoiando?» continuò lei.
«Perché?»
Carmela alzò le spalle, «non so, nel caso volessi andare a fare in giro potevi passare anche a prendere il pane...»
Scoppiai a ridere, era ridicolo come mi imponesse gentilmente di fare le cose.
«Così esci anche un po’ di casa che sei sempre chiuso in camera tua» continuò.
Nonostante non fosse mia madre, mi comandava sempre a bacchetta, ma aveva un qualcosa per cui non riuscivo a non obbedirle.
Annuii alzandomi dallo sgabello, nonostante mi allettasse poco l’idea di uscire al freddo pungente di dicembre.
«Non c’è niente di bello da fare qua, è per quello che sto sempre in camera» mi lamentai, mentre mi mettevo la giacca.
«Non ti sforzi nemmeno di trovare qualcosa di bello da fare, è quella la differenza. Se andassi un po’ in giro conosceresti di sicuro qualcuno con questo bel faccino angelico» proclamò Carmela, avvicinandosi a me e dandomi un buffetto sulle guance, «solo che non ti impegni nemmeno a farlo. O meglio, sei talmente impegnato ad odiare tuo padre per vivere qua, per essere così poco presente nella tua vita, che non ti viene nemmeno in mente di farlo. Vero o no?»
La guardai stralunato, come faceva a sapere tutte quelle cose nel giro di in minuto quando il mio psicologo non ne era in grado con una seduta di un’ora a settimana?
Sospirai rassegnato, «esci e trovati una ragazza» continuò lei, spupazzandomi di nuovo le guance come un peluche e facendomi l’occhiolino.
Alzai gli occhi al cielo, «le francesi hanno tutte la puzza sotto il naso.»
Lei scoppiò a ridere, «caro il mio ragazzino, qua i francesi non esistono più, sono tutti immigrati da altri paesi. Se non loro i loro genitori, o nonni, o bisnonni, o…»
«Si okay ho capito» la interruppi.
Lei mi sorrise apprensiva spostandomi indietro riccio ribelle che mi cadeva sulla fronte, «smettila di piangerti sempre addosso e muovi un po’ il culo per cambiare le cose» concluse, prima di tornare velocemente in cucina e togliere una pentola dal fuoco.
Sorrisi uscendo di casa, sempre più convinto che lo stretto contatto con mio papà l’avesse fatta diventare così schizzata. O forse era sempre stata così.
Il freddo polare di Parigi quel giorno mi colpì in pieno viso non appena aprii il portone che dava sulla strada. Subito mi pentii di essermi fatto abbindolare così facilmente da Carmela nell’uscire di casa. Mi strinsi nella giacca e affondai il viso nella sciarpa che avevo avuto la diligenza di indossare mentre mi dirigevo verso la panetteria che ricordavo essere all’angolo della strada. Il sole era già tramontato, il cielo era completamente nero, probabilmente a causa delle fitte nubi che coprivano la luna, ma si poteva vedere chiaramente quasi tutto per i numerosi lampioni ai lati della strada, le vetrine dei negozi ancora aperti ma soprattutto le numerose luci natalizie che addobbavano qualunque cosa.
Dopo alcuni minuti di cammino per le affollate strade parigine aprii la porta del locale rilassandomi leggermente nel sentire il caldo che c’era all’interno. Mi misi in fila cominciando a guardarmi in giro, sentii subito salirmi l’acquolina in bocca. Da un lato c’erano dei contenitori con tutti i tipi di caramelle possibili e immaginabili mentre dall’altra, dietro il bancone, c’erano esposti diversi pasticcini, tipi di torte e pizzette che mi fecero subito venire fame.
«Une baguette s’il vous plait» dissi non appena fu il mio turno.
«Tu dois attendre cinq minutes, comment tu t'appelles?»
Smisi di fissarla quando sentii che mi aveva detto qualcosa, «eh?» domandai confuso.
«Comment tu t’appelles?» ripeté.
Rimasi in silenzio un attimo, perché voleva sapere il mio nome quando io avevo soltanto bisogno di una baguette?
«Harry» risposi comunque, per essere cortese.
Magari era stata incantata dai miei splendidi occhi verdi, o dal mio sorriso perfetto, o dalle mie fossette che le ragazze adoravano tanto – io un po’ meno – e voleva sapere a chi appartenesse cotanta bellezza.
«Ah ma sei inglese!» esclamò lei entusiasta, con un perfetto accento americano, mentre scriveva il mio nome su un foglio.
Annuii senza riuscire a trattenere un sorriso, mi sentivo un po’ meno perso nel sapere che c’era qualcuno che parlava la mia lingua.
«Tu? Stati Uniti?» Avevo riconosciuto l’accento.
La ragazza annuì, «South Carolina, ma i miei si sono trasferiti qua per lavoro quando ero piccola.»
«Capisco...» dissi, cominciando a dondolarmi da un piede all’altro in attesa della mia baguette.
«Le baguette saranno pronte tra cinque minuti, comunque.»
«Ah...» non me lo aspettavo, mi spostai di lato per lasciare passare gli altri clienti.
Mi misi le mani in tasca e osservai con discrezione la ragazza continuare nel suo lavoro, spostando immediatamente lo sguardo altrove quando vedevo i suoi occhi posarsi su di me. Era quasi assurdo come fosse allegra e contenta nell’approcciarsi con le persone e quei suoi “bonsoir” e “au revoir” in un certo senso richiamavano un po’ l’atmosfera natalizia.
Quando vidi un enorme cesto contenente il pane appena sfornato entrare nel negozio feci per avvicinarmi al bancone ma la ragazza chiamò un nome che non era il mio e un signore anziano andò da lei a prendere il pane. Dopo un paio di altri clienti la sentii chiamarmi. Ecco perché voleva sapere il mio nome, pensai.
Presi la baguette e le porsi i soldi.
«Ciao, Harry» mi sorrise, prima che io mi voltassi e uscissi dal negozio.
 
Rientrai in casa che la tavola era già apparecchiata ordinatamente per due persone, ai lati opposti del tavolo, mi liberai della giacca e della sciarpa e andai in cucina a vedere cosa stesse combinando Carmela.
«Era ora!» mi riprese, non appena mi vide appoggiato allo stipite della porta.
La guardai confuso, «ma se sono andato e tornato!» esclamai sulla difensiva. Sarò stato fuori sì e no un’ora, forse. Non di più di sicuro.
Lei guardò l’orologio, «sono quasi le sette, sai com’è tuo padre» spiegò calma.
Annuii cupo, purtroppo conoscevo tutte le sue stranezze tra cui la sua fissa per la puntualità, il problema era che la pretendeva dagli altri ma lui non era mai in orario. Una delle sue tante regole, però, era la cena alle sette in punto. Non un minuto in più né uno in meno, forse quello era e l’unico orario che rispettava dato che per il resto era una vera e propria frana.
Era sempre mancato sia ai miei compleanni che a quelli di mia sorella, a Natale c’era una volta sì e tre no, anche quando eravamo ancora una famiglia unita, l’anniversario di matrimonio non sapeva che cosa fosse e le ferie nemmeno. Non credo avesse un’amante, anche se ero troppo piccolo per capirlo quando i miei si lasciarono, il problema era che per lui c’era solo il lavoro, lavoro e ancora lavoro. Era ricco sfondato, il lavoro dava i suoi frutti, e dovevo ammettere che anch’io approfittavo di ciò ma metteva sempre la famiglia al secondo posto e ad un certo punto mia mamma cedette.
Non la biasimo per questo, papà riesce a fare innervosire anche me nei pochi giorni all’anno che ci vediamo, soprattutto quando mi dice che dobbiamo uscire a pranzo insieme e poi non si presenta al ristorante per un “imprevisto”, o altri episodi simili.
Forse quell’anno però, essendo probabilmente l’ultimo Natale che avremmo passato insieme, sarebbe cambiato. O almeno speravo.
«Porta questo in tavola per piacere.»
La voce di Carmela mi riscosse dai miei pensieri, alzai la testa e la vidi davanti a me che mi porgeva una ciotola d’insalata, la presi in silenzio e andai in sala da pranzo. Lei mi raggiunse quasi subito con in mano un piatto da portata e un pollo arrosto su di esso, ancora fumante.
Mi sedetti a tavola in attesa di mio padre.
«Allora, mi vuoi dire o no come mai ci hai messo così tanto a prendere una baguette?» mi domandò Carmela, appoggiando le mani sui fianchi.
«Erano finite ed ho dovuto aspettare che sfornassero le altre» spiegai, stringendomi nelle spalle.
Era peggio di un poliziotto quando voleva.
«Nessuna conoscenza?» insistette lei.
Alzai gli occhi al cielo, «no» brontolai.
Rimanemmo in silenzio alcuni secondi, «anzi, adesso che ci penso sì» mi corressi.
Lei mi guardò con gli occhi che le brillavano, si vedeva lontano un miglio che stava morendo dalla curiosità.
«Non è che sia una conoscenza, diciamo che ho scoperto che la ragazza che lavora lì è del South Carolina.»
Carmela batté le mani entusiasta, risi lievemente chiedendomi se avesse davvero cinquant’anni quella donna perché a volte ne mostrava venti per come si comportava.
Si sedette nel posto accanto al mio scrutandomi seria, «e dimmi, è carina?»
Scoppiai a ridere piegandomi leggermente in avanti, «ma che c’entra! Non la conosco e non sono interessato!» esclamai, «però sì» ammisi.
«E cos’aspetti ad approfondire la conoscenza? Parla pure la tua stessa lingua, cosa puoi pretendere di più?»
La guardai sottecchi aspettando che scoppiasse a ridere da un momento all’altro o che mi dicesse “Harry sto scherzando!”, invece era estremamente seria.
«Tra dieci giorni me ne vado» constatai.
«E quindi? Dieci giorni sono più che sufficienti per innamorarsi!»
Strabuzzai gli occhi, ma cosa stava blaterando? Feci per risponderle ma in quel momento entrò mio padre in casa, le sette in punto.

-

Mi sto tipo suicidando, me lo sento HAHAHA
Ho iniziato a scrivere questa fan fiction non so quanto tempo fa, ma l'idea mi frullava in testa già da un po'. Sono un po' avanti coi capitoli, inoltre non durerà molto, è per questo che ho deciso di postarla nonostante abbia già due storie in corso. Molto probabilmente mi pentirò di averlo fatto, perché tra un po' inizia la scuola - sono in quinta - e magari questo è l'anno buono per iniziare a studiare seriamente :D
Cercherò comunque di fare del mio meglio, devo ammettere che mi sta piacendo quello che ho scritto fino ad ora e spero davvero che possa piacere anche a voi perché ci tengo davvero a questa storia, non so perché.
Sono un po' fuori tema col Natale, lo devo ammettere, ma mi ispirava come cosa :D
Per la cronaca, durerà dieci capitoli, e forse anche l'epilogo, non so. In totale quindi saranno o undici o dodici :)
Dovevo dire qualcos'altro ma non mi ricordo... Ah sì, la tipa che c'è nel banner non ho idea di chi sia, l'ho rubata da un'icon di una ragazza su Twitter e a quanto pare è una delle tante ragazze senza nome le cui foto vagano su Tumblr HAHAHA
La smetto di rompervi le scatole, fatemi sapere che ne pensate :)
Ah no, un'altra cosa! Le frasi in francese pero che le abbiate capite, sono "una baguette per piacere" e "devi aspettare cinque minuti, come ti chiami?". Dato che io sono una capra nello scrivere, ringrazio
 @grownintoamyth per la traduzione.
Adesso ho finito sul serio :D
Jas

 

*fate finta che qua ci sia una gif figherrima di Styles, ho internet lento e non mi si carica Tumblr e io devo andare*

Lei dov'era?
Continuai a guardare a destra e a manca nel caso apparisse da un momento all’altro ma di quella chioma bionda, di quel naso leggermente all’insù e di quegli occhi dal colore insolito neanche l’ombra.


 

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Capitolo 2
*** Giorno 1 ***




 

Giorno 1

 

22 Dicembre

Harry

 
Nonostante avessi passato la serata ad ascoltare i discorsi di mio padre sulla mia istruzione, il lavoro che avrei dovuto fare una volta laureato e tante altre cose che mi erano entrate da un orecchio e uscite dall’altro, non riuscivo a fare a meno di pensare alle parole di Carmela e ai suoi occhi.
Mi sentivo uno sfigato, uno di quelli che passava l’esistenza a guardare le ragazze da lontano senza avere il coraggio di rivolgere loro la parola. Almeno io la parola a lei l’avevo rivolta, pensai, nonostante non sapessi nemmeno come si chiamava. Mi misi a sedere 
di scatto sul letto – solo allora mi accorsi della luce che filtrava dalle tende, probabilmente il sole era già alto nel cielo – e decisi che forse valeva la pena andare ancora in quella panetteria e chiederle il nome, giusto per essere pari.
Mi alzai e mi vestii velocemente, mi lavai e scesi di sotto notando Carmela che stava pulendo il salotto.
«Come mai sei già uscito dal letargo a quest’ora?» mi domandò, senza nemmeno distogliere lo sguardo dallo strano soprammobile che stava lucidando.

Mi arrestai di colpo, non le avrei certamente detto che le stavo dando retta altrimenti mi avrebbe rinfacciato la cosa per l’eternità.
«Manca la carta igienica» buttai lì.
Era una cazzata, lo so, ma era la prima cosa che mi era venuta in mente e dato che mi ero appena svegliato era già tanto che il mio cervello avesse concepito quella frase.

Lei ci pensò su un attimo, «e non fai colazione?»
«Mi scappa» brontolai, «prima quello, e poi la colazione.»
Non le diedi il tempo di rispondere che presi la giacca ed uscii di corsa di casa.
Fortunatamente quella mattina faceva meno freddo del giorno precedente, il cielo era coperto di nuvole grigiastre ma ogni tanto un qualche coraggioso raggio di sole riusciva a filtrare tra le nubi. La strada era già gremita di gente – soprattutto turisti – che si guardava in giro voltandosi a destra e a sinistra e scattando foto a qualunque cosa gli capitasse sottotiro. Accelerai il passo, il supermercato era sottocasa, la panetteria un po’ meno, e Carmela era peggio di un poliziotto, dovevo fare in fretta se non volevo essere scoperto.
Finii quasi per correre, mi arrestai davanti all’entrata del negozio leggermente affannato per lo sforzo. Presi un respiro profondo prima di entrare e mettermi in fila. Cominciai a guardarmi in giro, il locale era deserto e dietro al registratore di cassa c’era una ragazza di colore che non avevo visto il giorno precedente. Lei dov’era?
Quando fu il mio turno ordinai un croissant continuando a guardare a destra e a manca nel caso apparisse da un momento all’altro ma di quella chioma bionda, di quel naso leggermente all’insù e di quegli occhi dal colore insolito neanche l’ombra. Mi rassegnai, probabilmente non era il suo turno.
Mentre porgevo alla ragazza i soldi, fui tentato di chiederle qualche informazione, del tipo quando lei sarebbe stata lì, ma cominciai a sentirmi uno stalker. Non potevo farmi condizionare così tanto da una ragazza che avevo visto per due minuti, la sera prima, in una panetteria. Fosse stata una modella, ma manco quello. Era carina, su quello non c’erano dubbi, ma non era la ragazza più bella che avessi mai visto. Aveva un qualcosa di affascinante, forse la sua voce, così cristallina ma allo stesso tempo melodica, forse il suo sorriso amichevole. Oppure ero io che stavo semplicemente delirando a causa delle strane idee che Carmela mi aveva messo in testa.
Scrollai le spalle cercando di dimenticarmi quei strani pensieri che mi facevo dal giorno prima, era una semplice cassiera che si era dimostrata disponibile perché probabilmente aveva capito che io a Parigi ero come un pesce fuor d’acqua che non vedeva l’ora di tornare a sguazzare nell’oceano, e cioè la mia Inghilterra. Presi il croissant e cominciai a divorarlo sulla via del ritorno, guardai l’ora: erano passati venti minuti e dovevo ancora andare al supermercato. Non potevo tornare a casa a mani vuote o Carmela avrebbe sospettavo qualcosa, anzi, secondo me già lo stava facendo. Però non erano passate neanche ventiquattro ore che io già ne avevo abbastanza di quella storia. Tanto dieci giorni e sarei tornato a casa.
 

Lennon

 
Se c’era una cosa che non ero ancora riuscita a farmi piacere in quindici anni che abitavo a Parigi, quella era il freddo polare che ti accompagnava per tutto l’inverno facendoti starnutire, prendere il raffreddore e la febbre. Soprattutto durante le vacanze natalizie. Fortunatamente fino ad allora io ero ancora sana come un pesce, ad eccezione di un qualche starnuto occasionale causato probabilmente dal drastico cambio di temperatura che c’era tra dentro e fuori casa.
Mi imbacuccai per bene prima di andare al lavoro mettendo oltre al maglione di lana il mio adorato giaccone che mi arrivava quasi a metà coscia, sciarpa, cappello e guanti. L‘unica cosa che stonava con quell’abbigliamento, erano le vecchie e ormai da buttare via Vans blu elettrico che mi facevano sempre congelare i piedi. Ignorando le ennesime proteste di mia madre riguardo a quelle scarpe poco adatte all’inverno uscii di casa dirigendomi con uno strano entusiasmo al lavoro. Quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di quell’anno, pensai, scendendo velocemente le scale mobili che mi portavano verso la metropolitana. In realtà non mi dispiaceva vendere baguettes, croissant e pasticcini quando questo ti permetteva di stuzzicare qualcosa ogni tanto. Inoltre ero sempre stata una tipa piuttosto espansiva e amichevole, adoravo avere a che fare con la gente e per quello mi mettevano quasi sempre alla cassa. Salii sulla metro e andai a sedermi velocemente al primo posto che adocchiai mettendomi le cuffie nelle orecchie e guardando distrattamente il mio riflesso nella finestra di fronte a me nonostante ci fossero solo due fermate prima della mia. Avevo i capelli arruffati, fortunatamente nascosti in parte dal berretto di lana rosa shocking che indossavo, e la mia pelle bianca sembrava quasi quella di un cadavere. L’unica cosa che odiavo davvero di me era il colore smunto che mi accompagnava 365 giorni l’anno. Dato che appena prendevo un po’ di sole diventavo rossa come un gamberetto, piuttosto che abbronzarmi mi mettevo barattoli interi di crema protezione cinquanta prima di andare a fare il bagno o quant’altro.
Mi alzai dalla sedia notando che alla prossima fermata sarei dovuta scendere, non appena le porte si aprirono mi diressi a passo svelto verso l’uscita: avrei iniziato il turno in cinque minuti e se c’era una cosa che odiavo quella era essere in ritardo, figuriamoci il mio ultimo giorno di lavoro dell’anno. In realtà avrei ripreso dopo due settimane ma poco mi importava, dire “ultimo giorno di lavoro dell’anno” faceva figo.
Aprii la porta della panetteria con quasi il fiatone, feci un sorriso a David che mi stava aspettando e mi diressi nel retro per liberarmi della giacca e mettere il grembiule della divisa. Decisi anche di legarmi i capelli che quel giorno erano più che osceni del solito e tornai in negozio.
«Com’è andata la mattinata?» mi domandò David non appena mi vide.
«Uhm bene» sospirai, «ho dormito fino alle undici e poi ho guardato “Il Re Leone” con Joseph. A te?»
Lui mise a posto una torta esposta in vetrina prima di prestarmi attenzione, «ho finito di fare i regali di Natale.»
Lo guardai sorpresa, «di già?»
David rise, «ti ricordo che mancano tre giorni a Natale, cosa dovrei aspettare?»
«Io non ne ho fatto neanche uno» borbottai corrucciata, aprendo un pacco di monete da 10 centesimi che misi in cassa, «andrò domani visto che ho la giornata libera» annunciai, mostrando un sorriso a trentadue denti a David, che avrebbe lavorato anche durante tutte le vacanze.
«Vaffanculo» rispose lui, battendomi sul sorriso dato che aveva la bocca grande come una caverna.
Scoppiai a ridere proprio mentre entravano alcuni clienti, mi morsi il labbro inferiore cercando di trattenermi e li servii.
Tra una risata e l’altra nei pochi minuti liberi che avevamo, il pomeriggio passò in fretta. Adoravo lavorare con David, era simpatico, divertente, quello che ti serviva per trascorrere bene una giornata di lavoro.
Mi appoggiai al bancone esausta guardando fuori dalla vetrina la luce che ormai stava scomparendo, una cosa che odiavo dell’inverno erano le giornate troppo corte. Il locale era semi-deserto, l’ora di punta in cui tutti venivano a comprare il pane era passata così David aveva approfittato della calma per uscire sul retro a fumarsi una sigaretta ed io ero rimasta lì da sola a osservare le persone che camminavano frenetiche per i marciapiedi con sacchetti di tutti i colori e le dimensioni in mano.
Proprio in quel momento la porta si aprì, lasciando entrare una vecchietta arzilla con due bambini e dietro di lei... Harry.
Come non dimenticarselo quel ragazzo, l’inglese smarrito per Parigi che non capiva niente di francese.
Servii con calma l’anziana con quelli che probabilmente erano i suoi nipoti e poi mi dedicai a lui.
«Ciao Harry» gli dissi sorridente.
Lui ricambiò, mettendo in mostra quelle due adorabili fossette che avevo notato anche la sera prima.
«Ciao... Com’è ti chiami?» mi domandò poi.
Risi leggermente prima di rispondere, «Lennon.»
Lui mi guardò confuso ma aspettò un attimo prima di parlare, come se si aspettasse altro da me. «E di nome?»
Scoppiai a ridere all’istante, solo alcuni secondi dopo riuscii a riprendermi. «Mi chiamo Lennon» spiegai calma.
«Ma non è un cognome? Insomma, John Lennon.»
«A quanto pare è anche un nome» osservai divertita, «in realtà non l’ho mai chiesto ai miei genitori.»
Harry aprì la bocca poi la richiuse senza dire niente. «Che figura di merda» lo sentii poi borbottare tra sé e sé.
Ridacchiai, «probabilmente erano dei fan dei Beatles» gli sorrisi.
«Già», ed eccole lì di nuovo, quelle due adorabili fossette.
«Allora, cosa prendi?» gli domandai, riassumendo quel tono formale che avevo avuto con i clienti per tutto il turno di lavoro.
Harry cominciò ad osservare attentamente tutti i dolci esposti in vetrina, «tu cosa mi consigli?» mi chiese poi, puntando i suoi occhi chiari su di me.
Sussultai leggermente, sorpresa da quella domanda.
Mi schiarii leggermente la voce spostandomi davanti ai dolci che stava guardando, «non so, dipende dai tuoi gusti» borbottai. «Se ti piace il cioccolato ti consiglio questo» dissi, indicando un pasticcino, «però a me per esempio fanno venire la nausea, troppo dolci. Preferisco le cose alla frutta tipo questa» indicai un’altra pasta.
Harry annuì pensieroso, «nel dubbio ne prendo una per tipo» dichiarò.
«Okay» dissi, prendendo un piccolo vassoio di cartoncino su cui misi i pasticcini. Chiusi il pacchetto con della carta e l’adesivo del negozio poi mi spostai alla cassa per lo scontrino.
Harry mi porse la carta di credito, la passai nel lettore in silenzio cominciando a sentirmi a disagio nell’essere così osservata. Odiavo essere al centro dell’attenzione e quel suo sguardo era così insistente e intenso...
Gli porsi lo scontrino e lo salutai, tirando un leggero sospiro di sollievo quando si voltò per uscire dal negozio.
Lo osservai attentamente: era alto, molto alto, forse più di un metro e ottanta, e i suoi capelli erano così... Ricci. Non avevo mai visto dei ricci così perfetti ad eccezione che nelle pubblicità degli shampoo. I suoi occhi invece erano di un colore strano che non ero ancora riuscita a definire, non capivo se fossero azzurri o verdi e non avevo avuto la possibilità di osservarli da vicino.
«Che combini?»
La voce di David mi fece sussultare, «ho venduto due pasticcini» dissi.
Lui annuì guardando poi l’orologio, «tra cinque minuti puoi andare.»
Strabuzzai gli occhi, «di già?»
«Sì, tra cinque minuti finisci il tuo ultimo turno dell’anno.»
«E’ volato il tempo oggi» dissi, andando nello sgabuzzino a cambiarmi. Quando uscii David aveva preso uno sgabello e ci si era seduto sopra con l’iPhone in mano. Conoscendolo stava giocando a Fruit Ninja, Angry Birds o qualche altra applicazione che aveva scaricato.
Lo salutai ed uscii dal negozio sentendomi “libera”.
Finalmente iniziavano le vacanze, pensai, prendendo un respiro profondo di quell’aria gelida che mi fece pizzicare subito il naso.
«Avevi ragione te» sentii dire.
Sussultai chiedendomi chi fosse che mi aspettava fuori dal negozio in cui lavoravo ma infondo la risposta la sapevo già. Una voce così calda e profonda non la si dimenticava facilmente.
«Harry?» domandai, voltandomi verso di lui.
Lui annuì sorridendo, «sono un ingordo e mi sono divorato i due pasticcini all’istante. Avevi ragione te, quello al cioccolato è troppo pesante, l’altro alla frutta è sublime.»
Alzai leggermente la testa non sapendo cosa rispondergli.
“Lo so”? Troppo sfacciato. “Sei un maiale”? Troppo maleducato, anche se infondo era la verità perché ce ne voleva per mangiare quei due pasticcini nel giro di cinque minuti.
«Grazie» mi ritrovai a farfugliare, imbarazzata.
Harry si mise le mani nelle tasche del cappotto guardandomi per niente a disagio mentre io avrei voluto scavarmi una fossa.
Odiavo non sapere cosa dire, perché io parlavo sempre, il silenzio mi metteva a disagio.
«Stai andando a casa?» mi domandò a un certo punto Harry.
Ebbi l’istinto di tirare un sospiro di sollievo ma mi trattenni limitandomi ad annuire.
«E’ pericoloso per una ragazza andare in giro tutta sola per la città a quest’ora» esordì, facendo un passo verso di me. Arretrai istintivamente e lo vidi ridere.
«Non ti mangio» proclamò, «voglio solo accompagnarti, se ti va bene. E poi anch’io abito da quella» disse indicando con un cenno della testa la direzione verso cui stavo andando.
Rimasi in silenzio un attimo, «okay» concessi infine.
Lui annuì sorridendomi grato così io ripresi a camminare.
Era stato carino da parte sua offrirsi di accompagnarmi, e non seppi nemmeno io perché accettai. Insomma, era uno sconosciuto per me, l’unica cosa che sapevo su di lui era che si chiamava Harry e che era inglese. Sarebbe potuto essere un serial killer o qualunque altra cosa. Mi voltai a guardarlo, poteva un criminale avere una faccia angelica come quella? Probabilmente no, ed era per quello che non avevo dato ascolto a mia madre che non faceva altro che ripetermi di non dare confidenza agli sconosciuti e avevo accettato che mi accompagnasse.
«Allora» esordii, sistemandomi meglio il cappello di lana in testa, «sei qua in vacanza?»
«Io direi più in esilio» scherzò Harry, voltandosi a guardarmi.
Rimasi ad osservarlo un attimo, era la prima volta che lo vedevo così da vicino e nonostante la luce fioca dei numerosi addobbi natalizi si poteva chiaramente vedere che i suoi occhi erano verdi. Di un verde strano, così puro e cristallino. Limpido. Non come i miei occhi che sembravano uno sputo di un animale strano dato il colore indefinibile verdognolo.
«Perché in esilio?» risi.
Harry si strinse nelle spalle, «non sono in vacanza, i miei sono divorziati e mi hanno obbligato a passare ancora il Natale da mio padre nonostante abbia già diciotto anni. Però questa è l’ultima volta, giuro» borbottò, quasi infastidito.
«Disprezzi così tanto Parigi?»
«Non è che la disprezzo. Odio stare con mio papà, qua non conosco nessuno e più che stare a casa o uscire a prendere il caffè c’è ben poco da fare se si è soli.»
«Ora hai trovato qualcuno che ti fa compagnia» gli sorrisi rassicurante rendendomi davvero conto solo dopo di ciò che avevo detto.
Insomma, erano dieci minuti che parlavamo e su di lui sapevo solo che si chiamava Harry, era inglese, i suoi erano divorziati e suo padre abitava a Parigi. E che aveva diciotto anni, quindi la mia età.
Un serial killer non poteva avere un viso angelico come il suo e solo diciotto anni – a meno che non fosse stato cresciuto come un bambino soldato – ma quella frase era alquanto patetica. E un po’ da gatta morta, forse. Okay che ero una tipa espansiva, logorroica, chiacchierona ma quello forse era fin troppo anche per me.
Vidi Harry ridere, probabilmente si era accorto del mio conflitto interiore. «Beh, grazie.»
Altro sorriso, di nuovo quelle incantevoli fossette avevano fatto capolino ai lati della sua bocca. Ci avrei scommesso la mia paga mensile che con quelle cuccava di brutto in Inghilterra.
«Ah, dobbiamo prendere la metro» dissi, accorgendomi di essere arrivata alla fermata.
Harry annuì e mi seguì giù per le scale, proprio quando raggiungemmo il binario giusto, la metropolitana arrivò.
«Abiti molto distante da qua?» mi domandò Harry, osservando la pianta della linea gialla.
Scossi la testa, «due fermate. Ma tu mica abitavi dalle mie stesse parti?» lo presi in giro.
«In realtà era una bugia, io abito dalla parte opposta» ammise l’inglese, sorridendomi sornione.
Scoppiai a ridere, «l’avevo capito. Figurati se un inglesotto altolocato come te abita dove vivo io!»
«Non potevo di certo lasciare che una donzella indifesa prendesse da sola la metropolitana quando fuori è già buio» spiegò lui, con l’aria di chi sa il fatto suo.
«E’ da anni che lo faccio, e sono ancora viva» ribattei.
«Ma chi ti dice che proprio stasera non sarebbe arrivato un malintenzionato a rapinarti?» insistette, «anzi, guarda quello di fronte a te, sembra un bandito.»
«Abbassa la voce o ti sente!» lo ripresi, dando un’occhiata veloce all’uomo di cui stava parlando che in realtà non aveva nulla di losco.
Harry scoppiò a ridere, «stiamo parlando inglese, cosa vuoi che capiscano?»
«Magari lo parla, che ne sai tu?»
Il riccio alzò gli occhi al cielo, sentii la voce registrata chiamare la mia fermata così mi alzai e trascinai anche lui fuori dalla metro.
«Anche in Inghilterra fai fare figure del genere alla gente?» gli domandai, mettendomi a braccia conserte.
Harry rise, «sei tu che ti preoccupi troppo, cosa vuoi che capiscano se parliamo veloce?»
Non gli diedi retta e cominciai a salire le scale che portavano verso l’uscita, «tutti studiano l’inglese a scuola qua, e poi quel tizio non aveva niente di pauroso. Sembrava un tipo per bene.»
Harry mi raggiunse con soli due passi lunghi quasi il doppio dei miei, «se lo dici tu.»
Cominciò a guardarsi in giro leggermente spaesato, «non sono mai stato qua.»
«Siamo vicino alla Bastiglia» spiegai, «e al cimitero dov’è sepolto Jim Morrison. Sei sicuro di sapere tornare a casa?»
Lui annuì convinto, «basta prendere la metro al contrario, non è difficile.»
Secondo me si sarebbe perso, anzi, ne ero quasi certa.
«A Londra c’è la metropolitana?» gli domandai.
«Sì, ma io non abito a Londra.»
«E dove abiti?»
«A Holmes Chapel, un paesino un po’ in mezzo al nulla.»
«E sei sicuro di riuscire a cavartela in una metropoli come Parigi?» scherzai.
Harry annuì convinto e io mi arrestai: ero arrivata a casa.
«Okay, io abito qui» dissi indicando la palazzina alle mie spalle, «nel caso non dovessi trovare la strada di casa» cominciai a frugare nella borsa alla ricerca di una penna, «questo è il mio numero.»
Gli presi il braccio e glielo scrissi velocemente, «non esitare a chiamarmi.»
«Va bene capo», Harry mi sorrise per l’ennesima volta, e nonostante ci fossero sì e no zero gradi lì fuori, io ero certa che mi sarei sciolta da un momento all’altro.

-

Ecco qua il primo capitolo, dove Harry si fa coraggio e si ripresenta da Lennon :D
Il nome è un po' insolito, lo so, ma si chiama così la figlia di Pierre Bouvier e appena l'ho scoperto mi sono innamorata di sto nome HAHAHA
So che forse il capitolo è un po' lungo, ma io avevo in mente di strutturare la storia in dieci capitoli, ognuno dei quali racconta un giorno. Ne ho già scritti cinque e sono lunghi tipo il doppio dei miei soliti delle altre storie. La mia paura è quella di annoiarvi quindi se li trovate un po' pesanti basta che me lo dite e vedrò di dividerli in due :)
Ah, altra cosa, essendo poi così lunghi i capitoli - e così pochi - pensavo di aggiornare sta storia tipo una volta a settimana, anche perché tra un po' inizia la scuola e non so quanto tempo avrò per andare avanti e odio non avere capitoli già pronti çç
Credo di aver detto tutto, vi ringrazio per le recensioni e per aver aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Spero di non deludervi! :D
Jas


 



«Ma non potevamo prendere l’ascensore?» brontolai, mentre salivamo verso il secondo piano.
«Che sfaticato che sei» mi riprese Lennon accelerando ulteriormente il passo.
Facevo fatica a starle dietro, nonostante avesse le gambe di dieci centimetri più corte delle mie quell’essere era un uragano di energia.




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Capitolo 3
*** Giorno 2 ***




Giorno 2
 

23 Dicembre

Lennon

 
Nonostante quello fosse il mio primo giorno di vacanza, alle nove di mattina avevo già fatto colazione, la doccia, contato i miei risparmi ed ero pronta per spendere – a malincuore – ciò che avevo messo via nell’ultimo anno per i regali di Natale.
Mancavano solo due giorni al 25 Dicembre e non avevo la minima idea di cosa comprare né a mio fratello, né ai miei, né a mia nonna che viveva con noi e nemmeno a Jacqueline, la mia migliore amica.
Avevo a disposizione 150 euro, e mi sarebbero dovuti bastare, e possibilmente anche avanzare.
Misi un paio di leggings pesanti, una canottiera e un maglione bianco un po’ consumato per tutte le volte che lo avevo indossato ma che continuavo ad amare.
«Mamma dove sono le mie scarpe?» quasi gridai, infuriata, non trovandole all’entrata dove le lasciavo sempre.
«Tesoro le ho buttate, erano tutte rotte!»
Andai in cucina a passo spedito con i nervi a fior di pelle, «tu cosa?!» domandai con la voce più alta di un’ottava. «Chi ti ha detto di buttarle! Erano le mie preferite e non erano rotte, erano caldissime e comodissime!»
Aprii l’anta dell’armadio in cui c’era il sacchetto della spazzatura e cominciai a frugarci dentro trepidamente come si vede fare da alcuni barboni per strada.
«Non sono lì, stamattina è passato il camion dei rifiuti» spiegò tranquilla mia madre, «esci a fare compere oggi, no? Prenditene un altro paio, magari qualcosa che ti tenga caldo anche d’inverno.»
«Mamma ce le ho le scarpe pesanti!» strillai in preda quasi all’isteria, «quelle babbucce da eschimese che papà mi ha preso in una svendita l’anno scorso ma io le o-d-i-o» scandii per bene l’ultima parola.
Mia madre sembrava la calma fatta a persona, continuava a sorseggiare tranquilla il suo caffè bollente mentre sfogliava lentamente il giornale. E più lei era tranquilla più la mia rabbia saliva, perché non capiva di aver fatto lo sbaglio più grosso della sua vita buttando via quelle scarpe che dovevo ammettere erano devastate ma che allo stesso tempo erano le più comode che avessi.
«Metti quelle per oggi, poi ti compri quello che vuoi» spiegò mia madre, prendendo il portafoglio dalla borsa e dandomi cinquanta euro. «Tieni, e voglio lo scontrino con il resto.»
Alzai gli occhi al cielo prendendo i soldi, il resto non l’avrebbe più visto come al solito.
Mi misi il cappello di lana e presi la borsa, andando poi ad aprire la scarpiera alla ricerca di quegli Ugg orrendi color diarrea che mio padre aveva avuto la fantasia di comprarmi. Non erano male, erano comodi e caldi ma mi sentivo un’eschimese con addosso quelle specie di racchette da neve ai piedi, per non parlare del colore a dir poco raccapricciante.
Uscii di casa ancora più depressa di prima, non solo dovevo andare a spendere soldi – cosa che odiavo, quando non lo facevo per me stessa – ma in più dovevo andare in giro vestita come un pagliaccio.
Non appena aprii il portone di casa mi trovai davanti una chioma riccia a me famigliare.
«Harry?» domandai incredula.
Il ragazzo alzò la testa e mi sorrise, «ciao» mi salutò.
«Non dirmi che non sei riuscito a tornare a casa e sei rimasto qua tutta la notte» scherzai.
Lui rise, «la strada l’ho trovata senza difficoltà, stamattina mi stavo annoiando e sono passato da queste parti...»
Scossi la testa divertita, «potevi anche farti vivo, il mio numero ce l’hai.»
Harry alzò le spalle cominciando a camminare al mio fianco, «non volevo disturbare, e poi sono appena arrivato. Se non fossi uscita ti avrei chiamata, prima o poi.»
«E se ero al lavoro?»
«Beh...»
Socchiusi leggermente gli occhi, «mi stai stalkerando per caso?»
Harry scoppiò a ridere, «non mi sembri infastidita dall’avermi intorno quindi direi di no.»
Sospirai, stavo per dire qualcosa ma poi rimasi zitta, non sapevo che rispondere perché aveva dannatamente ragione.
Harry era così insistente, sfacciato e non si faceva problemi per nulla, e a me piaceva. Insomma, non che mi piacesse lui, mi piaceva averlo intorno perché era anche divertente e... Sì, anche carino, ma quello era solo un bonus. Lo conoscevo da meno di ventiquattr’ore ma sentivo che era una persona buona, di quelle con cui non puoi fare a meno di divertirti. Inoltre nel tragitto dalla panetteria a casa di ieri sera si era dimostrato un buon ascoltatore, non mi parlava sopra ma non si limitava nemmeno ad annuire disinteressato durante i miei monologhi. Stava a sentire ciò che avevo da dire e sembrava non dargli nemmeno fastidio avere a fianco una logorroica del mio calibro. Anzi, ero certa che non gli recasse disturbo, altrimenti perché presentarsi di nuovo alla porta di casa mia?
«Comunque quello di ieri era il mio ultimo giorno di lavoro, ora sono ufficialmente in vacanza» annunciai.
«Allora ho avuto un sesto senso nel venire qui» scherzò Harry.
Risi, «cos’hai intenzione di fare oggi?» gli domandai poi.
Lui si strinse nelle spalle, «non so, quello che fai tu.»
«Io devo fare i regali di Natale, gironzolerò tutto il giorno per i negozi, non so quanto ti possa piacere.»
Harry si aprì in un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, «adoro fare compere!» esclamò.
Lo guardai corrucciata, «sei gay per caso?»
Lui scoppiò a ridere, «certo che no! Però non mi dispiace girare per i negozi, meglio che rimanermene a casa.»
Alzai le spalle, «okay, ho proprio bisogno di qualcuno che mi regga le borse.»
 

Harry

 
Erano ore che gironzolavamo per tutte le vie più strette e meno conosciute di Parigi, ed ero piacevolmente sorpreso da quanti negozi anche interessanti ci fossero in giro.
Lennon aveva quasi finito di fare i regali, mancavano soltanto suo padre e la sua migliore amica. E le scarpe per lei, dato che era tutta la mattina che si lamentava di quegli Ugg che portava i piedi che secondo me non erano poi così tanto male. Il colore non era dei migliori, dovevo ammetterlo, ma alla fine non mi dispiacevamo, anzi, le donavano in un certo senso ma non mi ero azzardato a dirle niente perché sapevo che mi avrebbe attaccato un cappio al collo se avessi aperto bocca.
«Tu li hai già fatti i regali di Natale?» mi domandò ad un certo punto Lennon, mentre osservava attentamente i capi esposti nella vetrina di un negozio.
Scossi la testa, «volevo prendere qualcosa a Carmela, la domestica, e poi per mia mamma e mia sorella pensavo di comperare qualcosa in aeroporto, o direttamente a Londra quando torno. Non so.»
Lei rimase in silenzio un attimo, come se stesse cercando di dosare le parole.
«E tuo papà?»
«Ha già tutto quello che gli serve» borbottai.
Mio padre a Natale si limitava a caricarmi più del solito la carta di credito, e non c’era cosa che potesse andarmi meglio. L’ultima volta che gli avevo fatto un regalo io, ricordo che avevo otto o nove anni, e avevo messo da parte i miei risparmi appositamente per prendergli un modellino di una Vespa di cui sapevo che faceva la collezione. La mattina di Natale quando mi svegliai lui non c’era, aveva avuto un imprevisto al lavoro ed era dovuto correre perché rischiava di perdere un cliente grosso delle Hawaii. Lì non era ancora Natale. Purtroppo lavorare per un’agenzia di investimenti che ha contatti con ogni parte del mondo significava essere recapitabile ventiquattro ore su ventiquattro. Sette giorni su sette.
Ricordo che passai tutto il giorno sul divano a guardare la tv, lui arrivò a casa la sera tardi e quando feci per dargli il mio regalo non mi calcolò quasi dicendo che era stanco e si chiuse in camera. Da allora non gli comprai più niente, più per la rabbia che per altro, ma credo che mio padre non ci fece mai caso. Aveva ragione mia madre, per lui c’era soltanto il lavoro, lavoro, lavoro e ancora lavoro.
Lennon sospirò, riprendendo a camminare, «secondo me dovresti prendergli qualcosa, anche solo un pensierino.»
«Non so, prima è meglio prendere gli altri di regali» cercai di sviare.
Lei annuì arrestandosi di colpo davanti ad un negozio di scarpe, «oddio la Terra Promessa» disse con aria quasi sognante prendendomi per un braccio e trascinandomi dentro.
Comprò lo stesso modello che sua madre le aveva buttato via quella mattina, soltanto rosso.
«Un colore normale te no, eh?» la presi in giro, mentre trotterellava allegra con le nuove scarpe ai piedi e gli Ugg nel sacchetto.
Lennon abbassò lo sguardo, «ma hai visto le scarpe che hai su te, almeno?» mi prese in giro.
«Ehi! Sono Clarks!» la ripresi.
«Fanno schifo lo stesso, quasi peggio dei miei Ugg.»
Alzai gli occhi al cielo lasciando perdere il discorso, se c’era una cosa che avevo capito di Lennon in quella mattinata trascorsa insieme era che doveva sempre avere l’ultima parola. Sempre.
«Allora, cosa mi consigli di prendere a Carmela?» domandai.
Lennon ci pensò su un attimo, «non so, dimmi qualcosa su di lei. Che tipo è?»
Rimasi in silenzio alcuni secondi prima di rispondere, «non ne ho idea. E’ la domestica di mio papà, viene dal Messico e quando i miei stavano ancora insieme mi faceva da babysitter.»
In effetti quelle erano le uniche cose che sapevo su Carmela, oltre al fatto che fosse sposata. Non sapevo se avesse figli, o addirittura se fosse nonna, se i suoi genitori erano lì con lei, oppure in Messico, oppure se erano morti. Niente. La conoscevo da sempre, e non sapevo niente della sua vita.
Lennon scosse la testa, «sei un danno Harry. Potresti prenderle un gioiello, alle donne piacciono sempre.»
Proprio in quel momento si arrestò davanti ad un negozietto di bigiotteria un po’ etnica, «se è del Messico queste cose dovrebbero piacerle» continuò, indicando la vetrina.
«Mi sa un po’ di… Sciatto, questo negozio» osservai.
Lennon strabuzzò gli occhi, «senti signorino, qua non tutti hanno i soldi che escono da non ti dico dove, e per fare un bel regalo non c’è bisogno di spendere per forza un patrimonio. Secondo me le piaceranno, anzi, qua potresti trovare qualcosa di carino anche per tua mamma e tua sorella.»
Storsi la bocca, per Carmela sì, anche mia mamma forse, ma mia sorella... Gemma aveva dei gusti strani, diciamo fin troppo raffinati, e l’unico modo per farle apprezzare quelle cose sarebbe stato dirle che era la nuova collezione di Dolce&Gabbana o qualcosa del genere, dato che era sempre aggiornata sulle tendenze e le novità del campo della moda, però, sarebbe stato difficile dargliela a bere.
Passammo una buona mezz’ora in quel negozio che nonostante le sue dimensioni ridotte avevamo scoperto contenere più roba di un centro commerciale. Alla fine trovai un paio di orecchini pendenti per Carmela e una collana un po’ insolita per mia madre. Ero poco convinto riguardo all’ultimo acquisto ma Lennon aveva insistito così tanto che alla fine mi ero fatto convincere. Se a mia madre non fosse piaciuto, avrei saputo a chi dare la colpa.
«Okay» sospirò Lennon, non appena tornammo in strada, «mancano tua sorella e tuo padre.»
«Secondo me questo è il posto sbagliato per prendere loro qualcosa» osai dire, «Gemma è una tipa un po’ difficile, e molto viziata» conclusi.
«Quasi come te?» scherzò Lennon.
Scossi la testa, «peggio.»
«Che ne dici se andiamo a La Fayette? Là troveremo qualcosa di costoso di sicuro.»
Non avevo idea di che cosa fosse quel posto, ma per quel che conoscevo Parigi non potevo che fidarmi ciecamente di Lennon, e quando mi ritrovai davanti ad un edificio pieno dei negozi delle marche più conosciute, capii di aver fatto bene ad affidarmi a lei.
Mi aveva portato in una sottospecie di Harrods francese a quattro piani se non di più, al primo piano c’erano i profumi, al secondo gli accessori, al terzo i vestiti e così via. All’interno dell’edificio sorgeva un albero di Natale gigante la cui punta arrivava al soffitto, parecchi metri sopra di noi.
«A tuo padre cosa prenderesti?» mi domandò, cominciando a girovagare.
«Non ne ho idea, che ne dici di cominciare da mia sorella? So che voleva un ciondolo di una marca strana, Tiffany mi pare.»
Gli occhi di Lennon si illuminarono, «so io dov’è» disse prendendomi per un braccio e trascinandomi verso le scale.
«Ma non potevamo prendere l’ascensore?» brontolai, mentre salivamo verso il secondo piano.
«Che sfaticato che sei» mi riprese Lennon accelerando ulteriormente il passo.
Facevo fatica a starle dietro, nonostante avesse le gambe di dieci centimetri più corte delle mie quell’essere era un uragano di energia.
Però sapeva il fatto suo, perché un minuto dopo riconobbi la marca di cui mi aveva parlato mia sorella, scritta in nero sullo sfondo verde acqua.
Lennon cominciò ad osservare i gioielli esposti, «Harry» mi chiamò ad un certo punto, mi avvicinai a lei che aveva gli occhi puntati verso un paio di orecchini a forma di cuore.
«Prendile questi, sono stupendi.»
«Ti piacciono?» le domandai.
Lei annuì, «anche se non conosco tua sorella secondo me sarà felice di trovare questi sotto l’albero.»
Guardai il prezzo, 120 euro, relativamente poco agli standard del negozio, e Lennon se li stava praticamente mangiando con gli occhi.
«Non so, lei voleva un braccialetto o un ciondolo, mi pare.»
«Ah» disse Lennon, leggermente delusa, «ma quelli costeranno 200 euro se non di più.»
Annuii, «lo so, però...»
«Certo, certo» mi interruppe lei, riprendendo a guardarsi in giro.
Scossi la testa riguardando di nuovo quegli orecchini, «senti Lennon» la chiamai, «che ne dici se io prendo qua il regalo per mia sorella e intanto tu ti dai un’occhiata in giro per mio papà? E’ lui quello difficile.»
Lei sembrò pensarci un po’ prima di rispondere, «okay» concesse poi, «allora vado al piano di sopra che è quello da uomo, ci vediamo su.»
Annuii aspettando che se ne andasse per chiamare la commessa e chiederle un pacchetto regalo per quegli orecchini.

-

Eccomi qua :D
Nelle scorse recensioni molte di voi mi hanno detto che trovano che la storia si stia svolgendo un po'... Velocemente, ecco. Non potrei che essere più d'accordo con voi, poi io sono una che fa andare le cose moooooolto per le lunghe ma questa storia durerà sì e no 12 capitoli, non posso perdere tempo, diciamo. Spero di essermi spiegata HAHAHAHA
Ah, un'altra cosa: in tutta la fan fiction ci saranno molti riferimenti a Parigi, i suoi monumenti, le sue strade eccetera. Le cose sono abbastanza vere, cioè, non mi invento nulla però magari non sono proprio esatte. Tipo che la linea gialla della metro ti porta all'Arco del Trionfo (?) - anche se questo è vero, mi sa HAHAHAH
A Parigi ci vado spesso ma non è che tutte le volte la visito come farebbe un turista quindi le cose non me le ricordo alla perfezione e non ho voglia di stare lì a verificare tutto su internet ogni volta. Prendetela con filosofia uù
Credo di avere concluso :)
Jas


 



«Che fai?» le chiesi confuso.
«E’ da quando mi hai sorriso in caffetteria che volevo farlo» si giustificò, stringendosi nelle spalle.


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Capitolo 4
*** Giorno 3 ***





 

Giorno 3

 

24 Dicembre

Harry

 
«Cos’hai fatto ieri?» mi domandò Carmela, non appena feci il mio ingresso in cucina.
Mi stropicciai gli occhi che ancora non si erano abituati alla luce del sole e mugugnai qualcosa sedendomi su uno sgabello. Era relativamente presto per me, non mi svegliavo alle nove durante le vacanze da... Praticamente sempre.
«C’è del caffè?» chiesi, ignorando le sue parole.
Carmela non rispose, in compenso mi si piazzò davanti mettendo le braccia sui fianchi, «non ignorarmi, rispondi!»
Sussultai da tutta quell’insistenza, «che c’è?» dissi, sulla difensiva alzandomi a prendere la caffettiera che avevo visto sul ripiano della cucina.
Carmela mi seguì, «nel giro di due giorni sei passato dall’essere sempre chiuso in camera all’andare sempre in giro. Cos’è successo?»
Mi strinsi nelle spalle tornando al mio posto, «niente di interessante» farfugliai.
«Harry...» Carmela si sedette accanto a me, quando si metteva in testa qualcosa non c’era modo di poterla distogliere da quello.
«Okay» sospirai, «hai presente la ragazza della caffetteria?»
Lei annuì sorridendo tutta contenta, «ecco... Ci siamo conosciuti» conclusi in poche parole.
«Ed è la tua ragazza?»
Per poco non sputai il caffè che stavo bevendo, «no!» esclamai, con voce strozzata, «siamo amici.»
«E non ti piace?» insistette lei.
Scossi la testa, «però è simpatica.»
«Non avevi detto che era anche carina?»
Altra caratteristica di Carmela: aveva una memoria di ferro e dovevi stare attento a qualunque cosa le dicessi perché lei se la teneva bene a mente come un computer e la tirava in ballo quando le faceva comodo, tipo come aveva appena fatto.
«E’ carina e simpatica allora» conclusi, «però non è il mio tipo.»
«Come fa a non essere il tuo tipo se è sia carina e simpatica?»
Alzai gli occhi al cielo, «non so, sesto senso» dissi risoluto, portando la tazza vuota nel lavandino per poi dirigermi in camera a cambiarmi.
«E ora dove vai?» mi domandò Carmela.
«A cambiarmi, non vorrai che rimanga in mutande tutto il giorno!»
Per una volta l’avevo zittita, perché lei tornò in cucina in silenzio e io potei andare a prepararmi con calma per uscire con Lennon.
Carmela mi aveva messo una pulce nell’orecchio, per tutta la durata della doccia che feci, non pensai ad altro che “mi piace Lennon?” e il problema era che con me stesso la risposta non era così secca come quella che avevo dato alcuni minuti prima.
Il fatto era che non mi ero mai posto il quesito, non si poteva dire che Lennon fosse una brutta ragazza, ed era così allegra, divertente e diversa da tutte le ragazze della scuola privata che frequentavo in Inghilterra, il tempo con lei passava che era una meraviglia ma nonostante ciò, non sentivo niente di più quando ero con lei.
Lasciai perdere quegli strani pensieri, mi asciugai i capelli, mi vestii ed uscii di casa ignorando le frecciatine di Carmela su dove stessi andando e con chi.
Era la vigilia di Natale e non si era ancora visto un fiocco di neve lì a Parigi, in compenso però si moriva dal freddo. Affondai il viso nella sciarpa che indossavo e accelerai leggermente il passo dirigendomi verso il luogo dell’incontro con Lennon. Per poco non era svenuta quando, il giorno precedente, le avevo detto che non avevo mai visto Notre Dame, né la Tour Eiffel da vicino, né l’Arco del Trionfo né tutti quegli altri monumenti che occupavano la capitale francese, allora si era offerta di farmi da “guida turistica” fino alla fine delle vacanze. Almeno avrei avuto una scusa per vederla, mi ero ritrovato a pensare io, ma solo in quel momento percepii il vero significato di quelle parole. Forse.
Non appena arrivai da Starbucks, riconobbi il suo cappellino rosa tra la folla che attraversava i marciapiedi. Lennon se ne stava lì, a guardarsi a destra e a manca mentre muoveva le gambe probabilmente per non morire dal freddo. Si accorse della mia presenza solo quando fui a pochi metri da lei.
«Ciao» la salutai sorridente, in compenso lei mi indicò l’orologio che indossava al polso sinistro, «la puntualità!» mi riprese, «siamo in ritardo rispetto al programma.»
Non potei fare a meno di ridere, «che programma?» chiesi, mentre Lennon mi trascinava per un braccio probabilmente verso la fermata della metro.
«Quello che inventerò io ora» mi disse, fermandosi invece davanti ad una pianta della città che non avevo mai visto.
«Allora» esordì, indicando un punto della mappa, «noi siamo qui, in Rue de Rivoli, che una delle vie più importanti di Parigi dopo l’Avenue des Champs-Elysées. E’ piena zeppa di negozi, parte da Place de la Concorde» spiegò, indicando un’altra parte, «e prosegue quasi fino a dove vivo io» concluse, trascinando il dito per tutta la via. «Questo è il Louvre» e me lo indicò, «qui c’è Champs-Elysées e qui Notre-Dame. Siamo abbastanza in mezzo a tutto, ad eccezione della Tour Eiffel che è un po’ più lontana ed è qui» spostò il dito più a sinistra.
Annuii serio, «interessante» conclusi, sorridendole. «E noi da dove partiamo?» domandai.
Lennon alzò le spalle, «cosa preferisci vedere per primo?»
«La Tour Eiffel, poi direi di tornare indietro pian piano e vedere ciò che ci capita sottomano.»
«Okay, allora dobbiamo prendere la metro. Ricorda: linea gialla, fermata “Champ de Mars”» spiegò, prima di prendermi per un braccio e trascinarmi dietro di sé come ormai aveva preso l’abitudine di fare.
Sembrava sempre di fretta, Lennon, camminava sempre veloce, sembrava che fosse in una perenne corsa contro il tempo.
«Vuoi anche salirci sulla Tour Eiffel, per caso?» mi domandò, mentre aspettavamo la metropolitana.
Alzai le spalle, «tu che dici?»
«Dobbiamo fare la fila per ore, se me l’avessi detto prima ci saremmo incontrati alle sette di mattina così da non trovare gente.»
Strabuzzai gli occhi, «okay preferisco non salirci allora.»
Lennon rise, in quel momento arrivò la metro piena zeppa di gente e ci ritrovammo a stare in piedi, schiacciati come sardine.
Avevo il capelli di Lennon praticamente in bocca, e i pelucchi del suo cappello che sparavano ovunque mi facevano pizzicare le labbra. Sputacchiai leggermente cercando di liberarmene.
«Ehi, che fai?!» mi domandò Lennon, guardandomi con le sopracciglia aggrottate.
«Mi stai facendo mangiare il tuo cappello» borbottai.
«Non è colpa mia se è pieno di gente» proclamò lei sulla difensiva.
In quel momento la metro si fermò, e un’altra orda di persone salì, qualcuno spinse Lennon che perse l’equilibrio e mi finì praticamente addosso.
«Se volevi che ti abbracciassi bastava dirlo» la presi in giro stringendola a me.
Lei alzò lo sguardo scioccata ma allo stesso tempo imbarazzata, era rossa come un peperone.
«Io...» iniziò a farfugliare, «mi hanno spinta.»
Scoppiai a ridere lasciando la presa, «stavo scherzando, tranquilla!» cercai di calmarla, e lei sembrò rilassarsi leggermente.
Rimanemmo in silenzio fino a quando Lennon non mi disse che dovevamo scendere, alla fermata la metro si svuotò quasi completamente ma la stazione brulicava comunque di gente.
«Attento a non perderti» mi avvertì Lennon prima di avanzare con destrezza in mezzo alla folla, io mi limitai a seguire quel cappellino rosa che vedevo muoversi velocemente davanti a me.
Quando uscimmo dalla stazione il vento freddo m’investì facendomi rabbrividire.
«Si congela» si lamentò Lennon, rallentando leggermente il passo e mettendosi a braccia conserte. «Odio il freddo.»
«Non sei l’unica» le sorrisi, mentre prendevo il telefono dalla tasca per scattare una foto alla Tourr Eiffel che s’innalzava imponente davanti a noi.
«Aspetta» mi fermò Lennon, «se vuoi fare delle belle foto ti conviene andare là» disse, indicando un edificio dall’altra parte della Senna.
Non feci in tempo a replicare che lei iniziò ad attraversare la strada dirigendosi verso il ponte che dovevamo superare. Corsi leggermente per raggiungerla, «vuoi le crêpes?» domandai, notando un piccolo chiosco che le faceva.
«Se proprio me lo chiedi...»
Scoppiai a ridere prendendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e andai verso quella bancarella per ordinarle.
«E’ la prima volta che mangio delle vere crêpes francesi» ammisi, dando un morso a una.
Lennon mi guardò incredula, «sei proprio un danno» mi riprese, cominciando a camminare.
Dieci minuti dopo eravamo su quell’edificio opposto alla Tour Eiffel e dovevo ammettere che da lì la torre si vedeva alla perfezione. Mi pulii le mani sporche di Nutella prima di prendere il telefono e scattare alcune foto, poi, mentre Lennon si guardava in giro con la testa tra le nuvole, ne feci un paio anche a lei.
«Ehi!» mi riprese lei, accorgendosi di essere il soggetto delle mie foto e avvicinandosi con aria minacciosa. Alzai il braccio con in mano il telefono in aria, Lennon iniziò a saltare per cercare di prenderlo ma ovviamente era troppo in alto per lei.
«Cancellale!» mi ordinò.
Scossi la testa mentre ridevo, «certo che no, sono un ricordo.»
Lei si mise a braccia conserte, corrucciata. «Odio fare le foto da sola» si lamentò.
«Allora facciamone una insieme» le proposi, avvicinandomi a lei.
Lennon annuì con sufficienza, le cinsi le spalle con un braccio e sorrisi all’obiettivo, sentii le dita di Lennon sfiorarmi le fossette.
«Che fai?» le chiesi confuso.
«E’ da quando mi hai sorriso in caffetteria che volevo farlo» si giustificò, stringendosi nelle spalle.
 

Lennon

 
Erano appena le nove di sera ed io ero già esausta. Mi buttai sul letto osservando il soffitto sperando che una manna dal cielo facesse sì che Jacqueline mi chiamasse e mi dicesse che aveva cambiato idea e che quella sera non voleva più uscire. Dovevo darle il regalo di Natale, certo, e volevo salutarla prima che partisse per Roma con i suoi però passare tutto il giorno in giro per Parigi con Harry mi aveva sfiancata più di quanto potessero fare otto ore di lavoro.
Mi feci forza e mi alzai dal letto per prepararmi. Avevano previsto neve quella sera, così decisi di mettere al posto delle mie meravigliose Vans, gli Ugg. Storsi la bocca osservando quella specie di babbucce ai miei piedi ma almeno si abbinavano al colore del maglione di lana che avevo deciso di indossare. Presi il regalo per Jackie ed uscii di casa di corsa dato che ero in ritardo. Avevo mandato un messaggio ad Harry chiedendogli se gli andava di uscire ma non mi aveva ancora risposto e non avevo il tempo di aspettarlo così mi diressi velocemente verso la fermata della metro. Odiavo andare in giro da sola alla sera, dovevo ammetterlo, soprattutto a quell’ora che era decisamente più tardi rispetto a quando finivo io di lavorare.
Ero giunta in prossimità del binario esatto quando sentii il telefono vibrarmi nella tasca della giacca. Mi guardai in giro con aria circospetta prima di prendere il cellulare per controllare il messaggio che avevo ricevuto. Quel BlackBerry era il frutto di tutte le mie fatiche in panetteria durante l’estate, a Settembre mi ero concessa un premio e non avrei mai e poi mai permesso a un malintenzionato qualunque di rubarmelo. Piuttosto gli avrei regalato gli Ugg che indossavo e sarei andata in giro per la città a piedi nudi.
Sorrisi inconsciamente nel leggere il nome di Harry lampeggiare sulla schermata, aprii il messaggio con quasi l’ansia per quello che ci poteva essere scritto dentro.
“Dimmi dove e quando ci dobbiamo incontrare che io ci sono :)”
“Riesci ad arrivare da solo a Notre-Dame o devo venire a prenderti?”
La risposta arrivò subito, “Certo, non sai che da piccolo mi chiamavano Tom Tom? :D”
Non potei fare a meno di scoppiare a ridere davanti a quella battuta scadente copiata sicuramente da Facebook, ma fortunatamente il rumore della metropolitana che era appena arrivata mi coprì.
“Vedremo”.
 
Mezz’ora dopo – a mia sorpresa – vidi la chioma riccia di Harry spuntare dalla folla che stava uscendo in quel momento dalla stazione della metropolitana. Alzai un braccio in aria per farmi notare mentre gli andavo incontro, lui sorrise nel vedermi.
«Hai avuto difficoltà, Tom Tom?» lo presi in giro.
Lui rise alzando leggermente il viso con fare arrogante, «ti sembra che abbia avuto difficoltà?»
Scossi la testa prendendolo per un braccio e lo trascinai dall’altro lato della strada approfittando del semaforo che era appena diventato rosso per le auto.
«Siamo in ritardo» gli spiegai mentre mi dirigevo verso St. Michel, un quartiere di Parigi pieno di pub e altri locali.
«Dove stiamo andando?» mi domandò Harry.
«In un pub, devo incontrare Jacqueline prima che parta per darle il regalo.»
«Lo sai che figura fa un uomo con due dame?»
Rallentai leggermente il passo voltandomi a guardarlo, quello sguardo malandrino mi fissava divertito e io sentii un brivido percorrermi tutta la spina dorsale.
«Stai tranquillo, c’è anche altra gente» lo rassicurai.
Lui annuì, abbassando poi gli occhi sui miei piedi, «belle le scarpe» osservò ridendo.
Gli tirai un colpo sulla pancia facendolo gemere guardando poi cosa indossava lui, «stasera probabilmente nevica, voglio vedere come farai tu con quei cosi» ribattei indicando i suoi piedi.
Harry si strinse nelle spalle senza sapere cosa dire, sorrisi aumentando di nuovo il passo vedendo in lontananza l’insegna del locale in cui mi ero data appuntamento con gli altri.
Non appena entrammo la musica che da fuori si sentiva a malapena ci investì e io dovetti socchiudere gli occhi per il buio che c’era e il fumo che probabilmente avevano appena spruzzato. Presi istintivamente Harry per mano conducendolo attraverso la folla verso il tavolo a cui eravamo soliti sederci: era già pieno di gente.
Salutai tutti e presentai loro Harry andando poi a sedermi vicino a Jacqueline che mi aveva tenuto appositamente il posto. Harry invece si accomodò vicino a... Chanel.
Già solo nel vedere per un istante lo sguardo da gatta morta che gli stava facendo sentii il nervoso pervadermi tutta. Jacqueline appoggiò la sua mano sulla mia, «smettila di fissarla o da un momento all’altro si carbonizzerà.»
«E’ proprio quello che voglio» dissi a denti stretti senza distogliere lo sguardo da lei, «che ci fa qua?» domandai poi, voltandomi verso la mia migliore amica.
Jackie sospirò, «l’ho invitata io» ammise.
Strabuzzai gli occhi, «ma come...?»
«Eddai Lennon, se la conosci non è poi così male. Ci siamo frequentate ogni tanto durante le vacanze ed è più simpatica di quello che sembra.»
Guardai Jacqueline incredula prima di voltarmi a guardare di nuovo Chanel che aveva intavolato una conversazione con Harry che sembrava mangiarsela con gli occhi mentre lei si atteggiava da ochetta sbattendo ripetutamente le sue lunghe ciglia e rigirandosi una ciocca di capelli biondi – tinti – tra le dita.
Feci una smorfia di disgusto osservando la scena, «come fa a starti simpatica quella?» dissi tra me e me.
«Guardala!» esclamai a bassa voce poi, rivolgendomi a Jackie, «quella lì ha anche il nome da troia. Dai, chi chiamerebbe una figlia Chanel? E’ una marca da fighetti, non che il mio nome sia molto più comune però... John Lennon era un grande – sempre che il mio nome arrivasse da lì – Chanel che cos’è?»
Vidi Jacqueline alzare gli occhi al cielo, «allora ignorala, non sei obbligata a frequentarla.»
«Sì ma se tu la inviti sempre!» la ripresi.
«E dai, Len saremo qua in una decina, puoi tranquillamente evitarla.»
Lanciai di nuovo uno sguardo di fuoco a Chanel proprio quando anche lei ebbe la stessa idea, non sarei certamente stata io a cedere per prima infatti lei si voltò quasi subito alla sua destra perché... Harry le stava raccontando qualcosa gesticolando animatamente.
Li osservai per alcuni istanti, cosa avevano di così interessante da dirsi?
Ah sì, erano entrambi ricchi sfondati e probabilmente stavano discutendo dell’ultima collezione di Burberry o Gucci o Louis Vuitton o Versace o qualunque altra cosa.
«Carino il tuo amichetto comunque.»
La voce di Jacqueline mi riscosse dai miei pensieri, la guardai smarrita per alcuni istanti. «Tu dici?»
Jackie rise, «e dai, non dirmi che non te ne sei accorta!»
Mi strinsi nelle spalle, «non è male» ammisi con sufficienza.
Sentivo lo sguardo di Jacqueline addosso così mi limitai a osservarmi lo smalto delle unghie leggermente mangiucchiate.
«Vedo come lo guardi e  lo conosco quello sguardo.»
«Quale sguardo?» sussultai.
«Lo stesso che avevi quando guardavi Oliver.»
«Non credo proprio» borbottai.
Perché Jacqueline si era messa in testa di rovinarmi la vigilia di Natale? Prima Chanel – che sa ovviamente che odio a morte – e poi se ne usciva menzionando Oliver, il mio Oliver.
«Va bene ho capito, lasciamo perdere» sospirò Jackie, bevendo un sorso del martini che aveva sul tavolo.
«Era ora» borbottai, improvvisamente incupita.
Già ero partita con la voglia sotto i piedi di uscire quella sera e gli argomenti su cui eravamo finiti a discutere non avevano fatto altro che peggiorare la situazione.
Presi dalla borsa il regalo che avevo comprato a Jacqueline e glielo porsi sforzando un sorriso, l’unica cosa che volevo davvero in quel momento era andare a casa.
I suoi occhi s’illuminarono, adorava le sorprese. Come me.
«Ti ho preso un pensierino» dissi.
Jacqueline osservò prima il pacchetto e poi alzò lo sguardo su di me abbracciandomi come un pupazzo, «grazie!» esclamò felice.
Si staccò e frugò anche lei nella propria borsa, «pure io ti ho preso qualcosa» disse, mentre cercava di trovare il mio regalo in mezzo a tutte le cose che si portava appresso.
Dopo alcuni secondi mi porse una minuscola scatola incartata con minuziosità, tipico di Jackie pensai.
«Tieni.»
Le sorrisi e l’abbracciai molto più delicatamente di quanto lei avesse fatto con me, «grazie.»
«E di che? Allora, cosa prendi da bere?» mi domandò Jackie.
La guardai incerta per un attimo, non volevo offenderla ma in quel momento volevo solo andarmene da lì e schizzare dritta a casa.
«Ecco non so...» borbottai abbassando lo sguardo, «domani è Natale e mio fratello verrà a svegliarmi alle sette di mattina e poi dovrò passare il resto della giornata ad aiutare mia nonna e mia mamma a cucinare» mi giustificai. Il che era la verità, forse solo leggermente ingigantita.
Jackie sospirò, «okay ho capito, allora ci vediamo quando torno.»
Annuii sorridendole incerta aprendo le braccia per abbracciarla, «non fare innamorare troppi italiani.»
La sentii ridere, «tranquilla, non c’è pericolo.»
Le sorrisi di nuovo prima di alzarmi e voltarmi verso Harry, «io vado, vieni?» gli domandai, lanciando un’occhiata fugace a Chanel che sapevo in quel momento avrebbe voluto strozzarmi più del solito.
«Di già?» domandò Harry, leggermente dispiaciuto.
Annuii sistemandomi meglio la borsa sulla spalla, «se vuoi puoi rimanere, insomma, non sei obbligato a...»
«No no va bene!» m’interruppe lui alzandosi e mettendosi il cappotto.
Salutò velocemente Chanel e gli altri – gongolai interiormente perché lei non riuscì a saltargli addosso come una piovra e baciarlo sulle guance ed abbracciarlo come faceva con tutti – e mi raggiunse.
«Hai fatto amicizia con Chanel, ho notato» esordii non appena uscimmo dal locale.
Sentii Harry ridere così mi voltai a guardarlo, incontrando i suoi occhi verde smeraldo.
«Tu mi hai abbandonato, cosa dovevo fare?»
Sussultai a quelle parole, «non è vero» borbottai guardandomi i piedi, improvvisamente in imbarazzo, «i posti rimasti liberi erano solo quelli.»
La risata di Harry si fece più forte e sentii il suo braccio cingermi le spalle fino a quando la mia testa non si appoggiò al suo petto.
Sentii una strana sensazione pervadermi il corpo e le guance andarmi a fuoco.
«Stavo scherzando!» esclamò poi, lasciando la presa. «Comunque non è niente di che, ci provava spudoratamente con me ma non è il mio tipo, troppo viziata.»
Mi trattenni dallo scoppiare a ridergli in faccia e dirgli “perché tu cosa sei?” perché non sarebbe stato carino. Per quanto Harry potesse essere pieno di soldi e viziato, era altrettanto simpatico e gentile, a differenza di quella gallina parlante.
«E anche troia» borbottai.
«Sai, avevo capito che non ti andava a genio, ci hai guardati di storto per tutta la serata» ammise divertito.
Avvampai e mi affrettai a scendere le scale che portavano alla stazione della metro in silenzio.
Mi diressi verso il binario in cui dovevo andare ma mi arrestai quando mi ricordai che Harry non sarebbe dovuto venire con me.
«Tu devi andare da quella» lo avvertii, indicandogli un’altra direzione,
«Ti accompagno a casa» disse lui tranquillo, superandomi e inserendo il biglietto nell’obliteratore. Lo seguii in silenzio, quella sera non ero in vena di parlare.
«Che ti ha fatto Chanel per starti così antipatica?» mi domandò Harry ad un certo punto.
Ci pensai su un attimo ed in quel momento arrivò la metropolitana, gli risposi solo quando fummo seduti.
«Non c’è un episodio preciso che me l’ha fatta odiare, diciamo che mi stanno antipatiche in generale le persone viziate e che se la tirano come lei» ammisi sincera, «ha sempre avuto quell’atteggiamento di superiorità sin dalle elementari e da lì mi è sempre stata antipatica. Poi il fatto che mezza scuola se la sia portata a letto non ha fatto altro che confermare i miei pensieri.»
Harry non rispose, si limitò a sorridermi. Che c’era di divertente in quella storia? Pensai, quasi infastidita.
«Allora non ti piacciono le persone viziate» osservò pensieroso, guardando davanti a sé.
Annuii.
«E che ne dici di me?» domandò, piantando i suoi occhi chiari nei miei.
Avvampai, ci avrei scommesso la mia paga di dicembre che in quel momento ero più rossa del naso di Babbo Natale e mi pentii di aver dimenticato la sciarpa a casa così da non potere neanche nascondere parte del mio viso dietro di essa.
«Tu non sei una troia» borbottai, senza sapere cos’altro dire, «e non sei arrogante quanto lei. O meglio, anche tu sei arrogante ma in una maniera diversa.»
«In che senso?»
Mi strinsi nelle spalle, «non saprei, però non sei odioso come lei anche se, fossi in te, cambierei un po’ lo stile nel vestire.»
Harry mi squadrò da capo a piedi, «disse quella con gli Ugg color caghetta.»
Lo fulminai con lo sguardo gonfiando le guance dalla rabbia, «sei odioso» borbottai alzandomi dalla sedia dato che alla fermata successiva saremmo dovuti scendere.
Harry mi imitò, «sei tu che hai iniziato. E poi io mi vesto bene, che c’è che non va nel mio abbigliamento?»
«Niente, solo che è troppo “inglese”.»
Lui rise, «ma io sono inglese!» esclamò allargando le braccia.
Alzai le spalle senza rispondergli e scesi dalla metro cominciando a camminare velocemente verso l’uscita.
«Poi qualche giorno devi anche spiegarmi perché sei sempre così di fretta!» mi gridò Harry, rimasto qualche passo dietro di me.
Mi voltai continuando a camminare all’indietro, «siete voi inglesi che siete delle lumache.»
«Perché voi francesi invece siete dei fulmini?»
«Io non sono francese, sono americana» lo corressi, riprendendo a camminare normalmente.
Harry mi raggiunse, «hai ragione.»
Sorrisi tra me e me  e mi sistemai meglio il berretto in testa. Rivolsi lo sguardo verso il cielo nero notando con piacere che stava iniziando a nevischiare.
«Era ora» sospirai, cambiando completamente umore.
La neve era l’unica cosa che fosse in grado di farmi percepire veramente il Natale, più dei regali, delle canzoncine, delle luci e degli addobbi che si vedevano per le strade.
«Che c’è?» mi domandò Harry confuso.
«Nevica» dissi semplicemente, con un sorriso che mi andava da un orecchio all’altro.
«E come mai così felice?»
Strabuzzai gli occhi, «come? La neve è la cosa più bella che ci sia!»
«I regali sono la cosa più bella che ci sia!»
«Vedi? Sei proprio inglese!» lo presi in giro.
Harry rise e io mi arrestai accorgendomi di essere arrivata a casa.
«Spero di svegliarmi domani e vedere tutto bianco» ammisi, guardando alcuni fiocchi di neve cadere lentamente davanti a me e posarsi per terra.
«Sarà sicuramente così» mi rassicurò Harry, prendendo il telefono dalla tasca.
«Sono le 11:59 » disse poi, «posso farti gli auguri prima di andarmene?»
Annuii mordendomi il labbro inferiore e cercando di trattenere il sorriso che pretendeva di affiorarmi sulle labbra.
Osservai lo schermo del cellulare di Harry in silenzio fino a quando l’ora non cambiò in “12:00 a.m.”.
Scoppiai a ridere e Harry mi seguì a ruota coprendosi la bocca con una mano. Io gliela presi e l’abbassai, mi nascondeva le fossette così.
«Buon Natale» mi disse poi, quando ci fummo calmati.
Allargò le braccia e io non esitai a buttarmi tra di esse, «buon Natale anche a te, Harold» gli sussurrai, con la testa appoggiata al suo petto.
Lo sentii darmi un dolce e leggero bacio sulla testa e per una volta maledii quel cappellino rosa per avermi impedito di percepire le sue labbra.

-

Pensavate ci sarebbe stato il bacio, eeeehh?
Beh, nonostante la storia sarà lunga solo dodici capitoli vi avverto che vi farò soffrire fino all'ultimo come sono solita fare muahahahaha! *risata alla Rico di Hannah Montana*
Questo è uno dei miei capitoli preferiti ed è tipo lunghissimissimo quindi spero di non avervi annoiate :)
Che altro dire? Non dimenticatevi di Oliver perché ne sentirete riparlare e più in là scoprirete anche chi è, cosa significa per Lennon e perché odia sentirne parlare. Per ora però vi lascio con taaaanti dubbi e con un Harry così adorabile che credo qualunque ragazza sana di mente vorrebbe avere al proprio fianco **
Vi ringrazio come al solito per le recensioni ma anche solo per apprezzare questa storia. Ci terrei tantissimo sapere che ne pensate :)
Jas


 



«Potresti avermi tra i piedi più spesso di quanto vorresti.»

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Capitolo 5
*** Giorno 4 ***


 


 

Giorno 4
 

25 Dicembre

Harry

 
Quando aprii gli occhi quella mattina, dalla finestra entrava una strana luce più chiara del solito. Stropicciai gli occhi per abituarmi a tutta quella luminosità e spostai le tende guardando fuori: era tutto bianco. I tetti delle case, i marciapiedi, le macchine parcheggiate ai lati della strada. Tutto. Era tutto ricoperto di un soffice manto bianco di neve.
Sorrisi rendendomi conto solo allora che era Natale, mi svegliai improvvisamente e indossando il primo paio di pantaloni che trovai appoggiato alla sedia della scrivania scesi al piano di sotto sentendo già un profumo provenire dalla cucina. Trovai Carmela già attiva ai fornelli, con una marea di cose appoggiate ovunque.
«Buon Natale» le dissi, mentre aprivo il frigo alla ricerca del latte.
Lei sussultò portandosi una mano sul cuore, «sono vecchia io, devi smetterla di farmi prendere questi colpi!»
Risi aprendo la credenza prendendo una tazza che riempii di cereali, «non ho fatto apposta» mi giustificai, stringendomi nelle spalle.
L’espressione di Carmela si addolcì aprendosi in un sorriso, «buon Natale anche a te, comunque.»
«C’è il tuo regalo che ti aspetta sotto l’albero» continuai, con la bocca piena.
«Mi hai preso un regalo?» domandò lei sorpresa.
Annuii, «un pensierino.»
«Anch’io ho qualcosa per te» mi disse lei, prendendo a mescolare energicamente qualcosa all’interno di una scodella. «E a tuo padre hai preso qualcosa?» continuò.
Sospirai, l’unica cosa che poteva rovinarmi quella giornata di festa era lui, pensai.
«Sì» borbottai, «una cravatta di Hugo Boss visto che gli piacciono.»
Carmela mi sorrise apprensiva versando l’impasto in una teglia, «vedrai che quest’anno sarà diverso» mi rassicurò, «a quanto pare niente lavoro. Anzi, è ancora a letto.»
Per poco non mi strozzai con i cereali che stavo mangiando, cominciai a tossire energicamente coprendomi la bocca con una mano.
«Davvero?» domandai, con la voce incrinata.
Carmela annuì sorridente, «certo, il che è strano, non trovi?»
Annuii pensieroso e ancora leggermente scosso.
Papà ancora a letto alle nove di mattina, il 25 dicembre, quando nelle aziende con cui collaborava non era ancora Natale. Incredibile.
«Stai cucinando anche per la tua famiglia?» domandai cambiando argomento.
Carmela mi guardò confusa, «no, questo è per voi.»
«Stai scherzando spero, hai preparato da mangiare per un esercito e noi siamo solo in due» osservai, passando in rassegna tutte le delizie che occupavano il ripiano della cucina.
Carmela si strinse nelle spalle senza sapere cosa dire, scossi la testa divertito alzandomi dallo sgabello e andando a cambiarmi.
Era Natale, ed ero di buon umore, così mi vestii per bene con un paio di pantaloni marroni, una camicia bianca e il maglioncino di cachemire che mi aveva regalato Gemma per il compleanno. Mi ammirai davanti allo specchio soddisfatto del risultato, per quanto i miei non andassero d’accordo da tempo, quando mi avevano concepito dovevano essersi messi d’impegno per far nascere un bel giovanotto come me, mi ritrovai a pensare. Mi passai una mano tra i capelli e spostai leggermente la testa verso destra cercando di dare una forma a quella massa disordinata che mi trovavo sul capo, decidendomi finalmente a scendere di nuovo. Aiutai Carmela ad apparecchiare la tavola ed accesi due candele al centro di essa, misi una spolverata di zucchero a velo sulla torta al cioccolato che aveva preparato e tornai a sedermi osservandola mettere il ripieno nel tacchino.
«Allora, come va con la ragazza del pane?» mi domandò di punto in bianco.
Sussultai a quella domanda e mi misi composto schiarendomi la voce, non l’avevo ancora sentita Lennon quella mattina nonostante le avessi già fatto gli auguri la sera precedente.
«E’ molto gentile, mi trovo bene con lei» mi limitai a dire, nonostante fossi tentato di aggiungere qualcos’altro, come per esempio mi era sembrata leggermente gelosa il giorno prima quando avevo chiacchierato tranquillamente con Chanel. Forse era solo perché non sopportava quella ragazza a prescindere, ma il mio sesto senso mi diceva che c’era sotto qualcos’altro. E il mio sesto senso non mentiva mai.
«Le hai preso il regalo di Natale almeno?» mi domandò, alzando per un attimo lo sguardo da ciò che stava facendo.
Non riuscii a fare a meno di trattenere un sorriso, «sì.»
Carmela lasciò il coltello che aveva in mano per battere le mani una volta e scoppiare a ridere quasi istericamente, la osservai allarmato.
«Ma ti vedi? Sei cotto!» esclamò poi, allegra.
Io la guardavo confuso, quasi irritato. Era invadente quella donna, ogni volta che le parlavo mi sembrava di essere ad una seduta dallo psicologo, anzi, peggio, dato che il mio psicologo si limitava a portarsi la mano sinistra al mento, annuire e scribacchiare qualcosa su un taccuino. Lei invece continuava a fare domande, osservazioni e insinuazioni e ad esultare come un’adolescente.
«Sono educato, è diverso» borbottai, prendendo una manciata di arachidi e cominciando a sbucciarle.
Carmela scosse la testa, «sei cocciuto, il che è diverso. Allora, quand’è che me la presenti?»
Stavo per risponderle ma la voce di mio padre mi bloccò, mi voltai verso di lui e lo vidi fare il suo ingresso in cucina già perfettamente vestito in un completo gessato e con il cellulare in mano.
«Buongiorno» disse, rivolgendosi a me e Carmela, «e buon Natale.»
«Buon Natale anche a te, papà» dissi io, lui mi sorrise e porse una busta bianca prima a me e poi a Carmela.
Stavo per aggiungere qualcosa ma lui mi anticipò, «mi hanno chiamato per un imprevisto al lavoro, tornerò subito in tempo per pranzo ma ora devo andare. Ho in ballo un affare importante per un investimento con un cliente grosso.»
Aprii la bocca per ribattere ma come al solito non mi uscì niente, mi limitai ad osservare la figura di mio padre sparire dietro la porta prima di voltarmi verso Carmela che si limitò a stringersi nelle spalle.
Sospirai ed andai a sedermi sul divano.
 
 
Mi alzai infuriato, Carmela – che stava guardando una delle sue telenovele – sussultò.
«Puoi anche andare a casa a festeggiare con la tua famiglia» borbottai, andando in cucina per bere un po’ d’acqua.
Lei mi seguì, guardandomi dispiaciuta, «magari tra poco arriva, insomma...»
«No!» esclamai alzando la voce, «non arriverà, non vale la pena stare qua quando puoi andare con i tuoi cari» continuai, cercando di calmarmi.
«Puoi venire con me, se vuoi» tentò.
Scossi la testa sorridendo amaramente, «credo che rimarrò qua. Portati dietro qualcosa di quello che hai cucinato, anzi, tutto se  vuoi. Il tacchino ha un aspetto squisito.»
Carmela si mise a braccia conserte squadrandomi con espressione dura dalla testa ai piedi, «smettila di fare il bamboccio e di piangerti addosso. O vieni con me o vai dall’americana che ti ha fatto perdere la testa e ti porti il tacchino con te perché io non ho passato la mattinata a cucinare per buttare via tutto e a casa mia, senza offesa, c’è il cibo messicano che mi aspetta. E poi, sbaglio o le hai preso un regalo?»
Carmela mi fece l’occhiolino e io non potei fare a meno di sorridere, quella donna era una forza della natura.
 

Lennon

 
Andai in cucina a vedere come se la stava cavando mia madre e con l’intento di smettere di ridere almeno un minuto dato che sentivo la testa che stava iniziando a farmi male. Era sempre così, ogni anno a Natale, Charles, l’amico di mio padre iniziava a raccontare storie assurde che assomigliavano più a delle barzellette che a degli aneddoti e io finivo per stare male da quanto ridevo.
«Come procede qui?» domandai a mia madre, alzandomi in punta di piedi per vedere cosa stesse combinando oltre alle sue spalle.
«La portata principale è pronta, è meglio che iniziamo a mangiare e non solo a bere» osservò lei.
Annuii appoggiandomi al muro e osservando il maglioncino con le renne che avevo addosso e che mi aveva preparato mia nonna per quel Natale. Era piuttosto infantile – tenendo conto che avevo diciott’anni – ma era stato un gesto carino, inoltre quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che l’avrei indossato, pensai, nonostante dovessi ammettere che era un capo caldo e comodo.
Il campanello di casa suonò, alzai la testa di scatto ritrovandomi a chiedermi chi potesse essere ad andare a casa della gente il giorno di Natale dato che noi non aspettavamo nessuno.
«Lemon, è per te!» sentii mio fratello gridare.
Scambiai uno sguardo confuso con mia madre ed andai di là a vedere chi fosse.
«Ti ho detto di smetterla di chiamarmi così!» ripresi mio fratello per l’ennesima volta prima di alzare lo sguardo e... «oh» dissi semplicemente.
«Ciao.»
Harry mi sorrise, il suo sguardo era divertito, vidi che si morse un labbro quando notò il ridicolo maglione che indossavo. Mi misi a braccia conserte cercando di nasconderlo, improvvisamente a disagio.
«Che ci fai qua?» domandai istintivamente. Non volevo essere maleducata o scortese, ero semplicemente in imbarazzo.
Harry sospirò passandosi una mano tra i capelli mentre con l’altra reggeva un sacchetto di plastica che conteneva qualcosa di abbastanza ingombrante. Che fosse il mio regalo di Natale? Scossi leggermente la testa, figuriamoci se mi aveva comprato un regalo, quando mai era stato in giro da solo da quando ci eravamo conosciuti? Lo vidi lanciare uno sguardo alle mie spalle, restio nel rispondermi. Mi voltai, notando tutte le persone che occupavano il tavolo più mia madre dalla cucina osservarci come se fossimo degli alieni.
Risi un po’ nervosamente, «vuoi un po’ di privacy?»
«Magari» mi sorrise lui.
Annuii guardando di nuovo il sacchetto che teneva in mano, lui sembrò ricordarsi improvvisamente qualcosa.
«Ah, ho portato un po’ di mangiare. Carmela ha cucinato per un esercito.»
Gli sorrisi riconoscente e presi ciò che mi stava porgendo, passando poi il tutto ad Joseph che era rimasto immobile accanto a me.
«Perché non porti questo alla mamma?» gli chiesi gentilmente.
Aspettai che lui se ne andasse per uscire sul pianerottolo e chiudermi la porta alle spalle, sedendomi poi sulle scale. Harry si mise di fianco a me.
«Allora?» chiesi, curiosa e allo stesso tempo preoccupata.
Lui si strinse nelle spalle, «cosa vuoi che sia successo? E’ così tutti gli anni, sono rimasto a casa da solo» disse lui, con una rabbia nella voce che aveva preso il posto del solito dispiacere che invece sembrava provare quando parlava di suo padre.
Annuii senza sapere cosa dire.
«Sei l’unica che conosco qua» continuò poi, alzando gli occhi e guardandomi.
Deglutii sentendomi improvvisamente a disagio, quegli occhi color verde smeraldo così cristallini ma allo stesso tempo profondi, quell’espressione leggermente corrucciata, le sopracciglia un po’ aggrottate e le labbra rosee socchiuse.
«Sai che sei sempre il benvenuto qua» squittii con la voce strozzata.
Harry rise, voltando lievemente la testa dall’altra, «ma se è la prima volta che ci vengo!»
«Beh, d’ora in poi diciamo, allora.»
«Lennon il tuo amico si ferma qua a mangiare?» domandò mia madre spalancando la porta di casa.
Sia io che Harry ci voltammo di scatto a guardarla.
«Ops, ho interrotto qualcosa?» si portò la mano sulla bocca mortificata.
Scossi la testa, «probabilmente avete già finito, insomma, sono quasi le tre» intervenne Harry guardando l’orologio che portava al polso.
«In realtà abbiamo appena finito con l’antipasto» ammise mia madre divertita, «con tutto il ben di Dio che ci hai portato, aggiungere un posto a tavola non potrebbe farci altro che piacere.»
Harry esitò un attimo, ma alla fine accettò la proposta.
Era incredibile come si fosse fatto subito dentro nel gruppo ma, più di tutto, come mio padre ci ridesse e scherzasse insieme quando era sempre stato molto risoluto riguardo all’argomento “ragazzi”. Non che Harry fosse il mio ragazzo ma per quello che ne sapevano loro poteva anche esserlo e dallo sguardo ammirevole che aveva mia mamma nei suoi confronti sapevo che lei sperava fosse così.
Insomma, era inglese, studiava in una scuola privata, era educato, divertente e non si faceva problemi ad auto ironizzarsi – cosa che apprezzava mio padre in particolare – si vedeva lontano un miglio che già stravedevano per lui. Non osavo immaginare il terzo grado che mi aspettava una volta che se ne sarebbe andato.
Io mi limitavo a mangiare in silenzio ciò con cui avevo riempito il piatto, assistendo allo scambio di battute tra Harry e gli altri e le varie discussioni di politica e sport con mio padre, gossip con mia madre e cartoni animati con mio fratello.
«Dove vi siete conosciuti tu e Lennon?» domandò mia nonna, rimasta in silenzio fino ad allora.
Harry mi guardò di sfuggita, prima di risponderle.
«Nella panetteria in cui lavorava, io parlo ben poco il francese, quando sono arrivato le baguettes erano finite e lei mi ha chiesto il nome per tenermele da parte quando sarebbero state pronte. Io pensavo che volesse sapere come mi chiamavo perché era interessata a me» ammise divertito, posando di nuovo gli occhi su di me.
Mi sentii avvampare contro la mia volontà, Harry non mi aveva mai detto quelle cose e sinceramente preferivo che non l’avesse fatto davanti alla mia famiglia nonostante non ci fosse niente di male e tutti ci stessero ridendo sopra. L’unica cosa che volevo in quel momento era nascondermi sotto il tavolo o sparire, mi strinsi nelle spalle nella speranza di diventare invisibile senza osare alzare lo sguardo dal mio piatto ormai vuoto. Sentii qualcuno darmi un colpo al piede, incrociai lo sguardo di Harry che mi fece l’occhiolino, prima che mia madre mi chiamasse per aiutarla a sparecchiare.
«Cos’aspettavi per dirmi che avevi conosciuto un così bel giovanotto?» mi domandò lei, non appena fummo sole in cucina.
Alzai gli occhi al cielo mentre mettevo i piatti sporchi nella lavastoviglie, «non me l’hai mai chiesto» cercai di giustificarmi stringendomi nelle spalle.
La sentii sospirare, «sembra molto meglio di quell’Oliver.»
Trasalii e rizzai la schiena di scatto, «non parlare di gente che non conosci» ribattei stizzita.
Mia madre si voltò a guardarmi sorpresa dalla mia reazione ma allo stesso tempo dispiaciuta per ciò che aveva detto. Lo sapeva che non doveva nominare Oliver in mia presenza, soprattutto in quei termini. Finii di mettere tutto nella lavastoviglie e tornai di là, leggermente di malumore. Sentivo lo sguardo preoccupato di Harry addosso ma cercavo di evitare di incrociare i suoi occhi nonostante fosse dannatamente difficile dato che si trovava esattamente davanti a me.
Lo vidi appoggiare il tovagliolo sul tavolo e spostare leggermente la sedia indietro, «forse è meglio che vada» disse poi.
L’espressione di tutte le persone che occupavano il tavolo divenne dispiaciuta, «di già?» domandò mio padre. Harry annuì serio, «grazie per tutto, siete stati davvero gentili.»
«Grazie a te per la compagnia, qualunque volta tu voglia venire qua non farti problemi» lo rassicurò mio padre, sorridendogli come mai gli avevo visto fare con un ragazzo. Con Oliver. «Lennon, accompagna gli ospiti» aggiunse poi rivolgendosi a me, con un lieve tono di rimprovero.
Sussultai e trascinai la sedia indietro facendo molto più rumore rispetto ad Harry, più pacato di me, e lo seguii verso l’uscita.
«Grazie per tutto» mormorai, mantenendo lo sguardo basso.
Harry porto la sua mano sotto il mio mento costringendomi ad alzare il viso e a guardarlo negli occhi. Brillavano come tizzoni ardenti e per un attimo mi persi in quell’oceano incantevole racchiuso nelle sue iridi.
«Che c’è che non va?» domandò.
Scossi la testa trattenendo a stento le lacrime, non potevo piangere. Non dovevo piangere, non davanti a lui. Mi morsi il labbro inferiore e trattenni per alcuni secondi il respiro per evitare di singhiozzare.
«Niente» mormorai poi.
«Lennon...»
«Devo darti il regalo di Natale» dissi cambiando argomento e sparendo in camera con la scusa di prenderlo.
Mi scostai leggermente i capelli dal viso e osservai il mio volto evidentemente stravolto. Rimasi immobile davanti allo specchio per alcuni secondi prima di allungare il braccio verso il comò li accanto e prendere il regalo di Harry che avevo incartato meglio che potessi quella mattina. In realtà la carta era leggermente spiegazzata e molle in alcuni angoli ma ero impedita nei lavori manuali, soprattutto nel fare pacchetti, e quello era il meglio che potessi fare. Tornai di là attraversando a grandi passi il salotto, Harry era ancora lì davanti alla porta che mi aspettava.
«Che ne dici di andare a fare un giro?» mi domandò.
Annuii esitante, presi la giacca e il mio berretto, misi velocemente le scarpe e lo seguii fuori di casa.
Sentii il freddo pizzicarmi il naso non appena misi piedi sul marciapiede, affondai il viso nella giacca e mi limitai a camminare in silenzio nonostante il freddo mi stesse facendo calmare un po’.
«E’ simpatica la tua famiglia» esordì Harry, «sono dei tipi a posto.»
«Ti amano» scherzai io, nonostante ci fosse ben poco da ridere dato che era davvero così.
«Sono gentili» si limitò a dire lui, «come te» mi sorrise, e nonostante ci fossero zero gradi circa, io mi sentii le guance andare a fuoco.
«Dove stiamo andando?» domandò poi.
Mi guardai in giro, «ti porto io in un bel posto» dissi, dirigendomi verso la Senna.
«Non vorrei sembrarti sfacciato» m’interruppe lui alcuni minuti dopo, mentre camminavamo sul bordo del fiume parigino, «ma vorrei scartare il mio regalo» si aprì in un sorriso tanto da leccaculo quanto meraviglioso e non potei fare a meno di prendere dalla tasca della giacca il pacchetto che avevo portato con me e porgerglielo, lui fece lo stesso.
Avvampai riconoscendo quel pacchetto, la carta color verde acqua e la scritta in stampatello: “Tiffany & Co.”.
«Harry non posso» borbottai, cercando di ridargli il regalo.
«Lennon non fare storie, apri.»
«Ma non posso! Il mio regalo costerà un ventesimo rispetto a quello che c’è qua dentro.»
Lo vidi alzare gli occhi al cielo, «non mi interessa. L’importante è il pensiero, giusto? Non preoccuparti del prezzo» mi disse, concentrato ad aprire il suo regalo.
Rimasi in silenzio e lo guardai levare la carta stracciandola con foga come i bambini, prima di scoprire un paio di boxer neri con l’elastico bianco di Calvin Klein.
Vidi Harry sorridere, «sono della mia taglia?» domandò poi.
Mi strinsi nelle spalle guardandolo di sottecchi, «non so, ho preso una media. Il fatto è che non sapevo cosa prenderti. Tu sei così alla moda e vestito abiti che io mi sogno e non mi andava di prenderti una cosina così. Se devo essere sincera, l’intimo di marca è quello che costa meno» mi giustificai.
Harry guardò ancora una volta il suo regalo sorridendo, poi alzò lo sguardo e con una mossa veloce mi strinse a sé. Ricambiai l’abbraccio riluttante e sorpresa, battendo alcune volte la mano sulla sua schiena. Mi sentii avvampare.
«Non importa Lennon, qualunque cosa mi avresti preso mi sarebbe piaciuta, di marca o no» mi rassicurò, «ora però tocca a te.»
«Io non credo che...»
«Non farmi arrabbiare» mi interruppe.
Sbuffai e osservai la scatoletta incartata da mani abili alla perfezione, a differenza della mia. Cercai l’adesivo e staccai quello, scartando il tutto con molta calma, stando attenta a non rompere nemmeno un po’ la carta regalo. Mi si presentò davanti agli occhi una scatoletta color verde acqua, come mi aspettavo.
Esitai un attimo prima di aprirla.
«Oh mio Dio» fu l’unica cosa che riuscii a dire non appena vidi quegli orecchini a forma di cuore luccicare.
«Ti piacciono?» Harry sorrideva.
«Io...» cominciai a borbottare. «Sono meravigliosi, grazie.»
«E’ un piacere.»
Lo guardai piena di gratitudine prima di avvicinarmi a lui e abbracciarlo un po’ goffamente dandogli un leggero bacio sulla sua guancia gelida.
«Grazie» ripetei.
Harry annuì, «sono felice che ti piacciano.»
«Non dovevi» mormorai, ammirandoli di nuovo, nonostante dovessi ammettere che li amavo già.
«Almeno c’è qualcuno che apprezza i miei regali» borbottò lui, buttando la carta in un cestino lì vicino.
«Cosa intendi?» domandai, riprendendo a camminare al suo fianco senza una meta ben precisa.
Harry scosse la testa, «niente.»
Gli appoggiai una mano sulla spalla, «sai, ogni tanto fa bene parlarne» cercai di persuaderlo.
Lui rise, «parli proprio tu che eri sconvolta fino a venti minuti fa e non so ancora per che cosa?»
Mi strinsi nelle spalle, «non cambiare argomento, stavamo parlando di te.»
Harry sospirò, «di chi vuoi che  stia parlando? Mio padre, non si è nemmeno preso la briga di aprire il mio regalo. Mi ha augurato buon Natale con lo stesso tono che avrà usato con i suoi colleghi di lavoro e mi ha dato questa busta» disse, prendendola da una tasca interna del cappotto.
«E non lo apri il regalo?» domandai.
«So già che cos’è, saranno un po’ di soldi coi quali spera di riempire tutte le sue mancanze quando non è così.»
Rimasi in silenzio senza sapere cosa dire e lui sbuffò. «Non chiedo tanto, insomma, mi basterebbe una giornata, una, con la mia famiglia unita come la tua. Niente di speciale, un tavolo con seduti attorno ad esso i parenti più stretti e qualche amico. Un pranzo che non sia continuamente interrotto da chiamate di lavoro o imprevisti ma in cui si possa chiacchierare in tranquillità, come dovrebbe essere.»
«Ehi» mormorai, prendendo Harry a braccetto, «quando un paio di giorni fa ti ho detto che avevi trovato compagnia, non scherzavo.»
«Ma se mi conoscevi a malapena!»
«Ho un sesto senso» gli sorrisi e mi arrestai in mezzo al ponte che stavamo attraversando, «sai dove abito, la mia famiglia ti adora e ogni qualvolta ti senti solo o vuoi semplicemente un po’ di compagnia ti basta venire a bussare alla mia porta. Dopo cinque minuti che sentirai mio fratello piangere e mia nonna brontolare stanne certo che rimpiangerai la tranquillità che c’è da te» cercai di sdrammatizzare, ed Harry rise. Non resistetti alla tentazione di sfiorargli le fossette con un dito.
«Potresti avermi tra i piedi più spesso di quanto vorresti.»
«Sono quattro giorni che ti conosco e credo di averti visto più di quanto vedo i miei cugini e zii che conosco da quando sono nata. Non credo che potrebbe andare peggio di così» scherzai.
Harry mi diede una leggera spinta ed io rischiai di perdere l’equilibrio, mi aggrappai istintivamente al suo braccio.
Rimanemmo per alcuni secondi in silenzio e in quella posizione, ammirando gli strani giochi di luce che facevano i lampioni riflessi nella Senna al calar del sole.
Non erano nemmeno le cinque e già si stava facendo buio.
Il braccio di Harry che passò a cingermi le spalle mi fece distrarre dai miei pensieri. Sentii una scossa attraversarmi tutto il corpo e non era per il freddo, mi accoccolai istintivamente addosso a lui, appoggiando la testa sul suo petto e respirando a pieni polmoni il suo profumo.
«Sai, ora come ora vorrei non dovere mai abbandonare questa città» lo sentii mormorare.
Alzai leggermente il viso verso di lui, osservandolo così da vicino come non avevo mai fatto. Poi, mi alzai leggermente sulle punte  dei piedi e lo baciai istintivamente sulla guancia.
Vidi le sue labbra incurvarsi all’insù.

-  

Eccomii!
Scusate per il lieve ritardo nel postare ma nonostante avessi il capitolo già pronto non avevo nemmeno voglia di aprire Word per postare HAHAHA Del tipo che sarà da una settimana che non scrivo, devo mettermi sotto ma la scuola mi fa passare tutta la voglia -.-
Comuuunque, spero che questo capitolo lunghissimo vi sia piaciuto e non vi abbia annoiate :) Si sapeva già quale sarebbe stato il regalo per Lennon, quello di Harry mi è venuto un mente un giorno mentre vagando per Tumblr m'è saltata fuori una sua foto dove gli si vedeva tipo l'elastico delle mutande HAHAHA 
Non credo v'interessi molto ciò da cui traggo ispirazione per ste robe ma volevo dirvelo uù Qua doveva esserci il bacio secondo i piani ma come al solito amo farvi aspettare più del dovuto, sono malvagia lo so :D
Vi prometto però che non arriverà all'epilogo, quindi dovete aspettare meno di sette capitoli dai AHAHAHAHA
Fatemi sapere che ne pensate! Perché sinceramente a me sto capitolo piace abbastanza :)
Grazie mille per le recensioni che mi lasciate, per seguire la storia, avermi tra gli autori preferiti e tutto il resto!
Jas



 



«Quando partite?» continuai.
«Dopodomani.»
Mi sentivo preso in giro, com’era possibile che Lennon mi avesse mentito per tutto quel tempo?


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Vi ricordo che ho altre due Fan Fiction in corso se volete passare :)





 

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Capitolo 6
*** Giorno 5 ***


 




 

Giorno 5
 

26 Dicembre

Harry

 
Sgattaiolai di nascosto fuori di casa approfittando del chiasso che Carmela stava facendo, un po’ con l’aspirapolvere, e un po’ con le sue canzoni sudamericane che rimbombavano al massimo dalle casse dello stereo della sala. Mi misi la giacca e feci fare un giro alla sciarpa attorno al collo mentre scendevo di fretta le scale per dirigermi in panetteria.
Erano solo le nove eppure ero così attivo che non mi sentivo nemmeno me stesso. Il motivo di tutta quell’iperattività così, appena sveglio, in realtà era solo uno: mio padre.
Il giorno precedente ero tornato a casa prima di lui e avevo approfittato della cosa per mangiare velocemente due toast, prendere una bottiglia di coca-cola, un pacchetto di patatine e rinchiudermi in camera. Avevo passato la serata a messaggiare con Lennon, ingozzarmi di cibi malsani e guardare film scadenti sulle vacanze natalizie. Probabilmente mi ero addormentato prima che lui arrivasse dato che non l’avevo sentito rincasare. Mancavano cinque giorni al mio ritorno a casa e non mi sarebbe stato difficile evitarlo per il resto della vacanza dato che era sempre impegnato.
Entrai nella panetteria notando con piacere che era vuota, così mi avvicinai velocemente al bancone e ordinai dieci croissant. Forse erano troppi, ma non volevo fare la figura del taccagno e portarli contati a casa di Lennon. Inoltre suo padre era un uomo abbastanza in forma, e il fratello ero certo ne avrebbe mangiati due se non di più. E poi, come diceva il proverbio? Meglio abbondare che decifere.
Mezz’ora dopo, circa, ero davanti alla porta di casa loro, guardai l’ora prima di bussare. Erano le dieci, impossibile che dormissero ancora tutti. O almeno credevo. E speravo.
Alcuni secondi dopo venne Joseph ad aprirmi, mi sorrise mettendo in mostra la sua bocca un po’ sdentata. Gli arruffai leggermente i capelli salutandolo, «c’è Lennon?» gli domandai poi.
Lui annuì spostandosi dalla porta per farmi entrare, «sta ancora dormendo» spiegò, trotterellando verso il divano dal quale probabilmente si era alzato per venire ad aprirmi.
«Joseph chi è?» sentii sua madre domandare dalla cucina.
La raggiunsi, «buongiorno signora» le dissi, mostrandole uno dei miei migliori sorrisi, «vi ho portato dei croissant per sdebitarmi per il gustoso pranzo di ieri» spiegai, appoggiando il sacchetto sul tavolo che lei stava apparecchiando.
La donna si sventolò la mano davanti al viso, «figurati Harry, è stato un piacere averti con noi. E chiamami pure Carla.»
Annuii mettendomi le mani nelle tasche dei jeans che indossavo e cominciando a guardarmi in giro un po’ distratto.
«Ah, Lennon dorme ancora. Puoi andare a svegliarla per piacere? Tra poco è pronta la colazione» aggiunse Carla, tornando ai fornelli. «Mangi qua, vero?»
«Ehm... Sì» dissi poco convinto, prima di dirigermi verso la camera di Lennon.
Bussai piano alcune volte ma non sentendo risposta aprii lentamente la porta e mi avvicinai al letto.
Lennon dormiva beata, il piumino che la copriva fino a sotto il mento, i capelli arruffati, sparsi su tutto il cuscino e un’espressione tranquilla dipinta sul volto.
Sorrisi nel vederla così pacata e beata, chissà cosa stava sognando, pensai. Per quanto mi dispiacesse doverla svegliare, avvicinai la mano alla sua spalla per strattonarla leggermente ma prima che la sfiorassi lei mugugnò qualcosa di incomprensibile. Mi arrestai.
«Harry...»
Strabuzzai gli occhi abbassandomi all’altezza del suo viso, mi stava chiamando?
«Harry ti prego non andare» farfugliò.
Non sapevo cosa fare, avevo sentito dire che non bisognava svegliare i sonnambuli, ma Lennon era sonnambula? Insomma, stava soltanto parlando nel sonno. Stava chiamando me...
O forse era in uno stato di dormiveglia e mi aveva visto entrare. Però non aveva aperto gli occhi, pensai. E io non stavo andando da nessuna parte. Perché doveva pregarmi di non andarmene?
Prima che potessi raggiungere qualunque conclusione sensata, Lennon cominciò ad agitarsi sotto le coperte e vidi i suoi occhi aprirsi lentamente.
Aggrottò leggermente la fronte mentre mi metteva a fuoco, «Harry?!» domandò poi, sorpresa e confusa allo stesso tempo.
Mi strinsi nelle spalle e le sorrisi, «sono venuto a trovarti» mi giustificai, alzandomi.
Lennon si tirò leggermente su, stropicciandosi gli occhi ancora leggermente assopiti.
«Alle otto di mattina?» domandò, confusa.
Risi, «guarda che sono le dieci passate.»
Lennon strabuzzò gli occhi, scostando con un gesto secco le coperte di dosso e alzandosi di scatto. Feci un passo indietro sorpreso da tutte quella fretta e mi accorsi solo dopo del fatto che era soltanto in maglietta e slip. Anche lei sembrò rendersene conto soltanto dopo, quando cercò invano di allungare la maglietta almeno fino a metà coscia arrossendo visibilmente.
«Stai calma, non sei la prima ragazza che vedo in mutande» la tranquillizzai, voltandomi per uscire dalla stanza, «e comunque, belle le mutande!» dissi, prima chiudermi la porta alle spalle.
Tornai in cucina che il tavolo era imbandito di ogni ben di Dio, «ci sono ospiti oltre a me?» domandai divertito a Carla.
Lei mi sorrise, mi accorsi solo in quel momento di quanto assomigliasse alla figlia. O meglio, di quanto la figlia assomigliasse a lei. Stessi lineamenti fini, naso alla francese e labbra sottili. Il colore e la forma degli occhi, invece, Lennon li aveva presi dal padre.
«Joseph, vieni qua che la colazione è pronta» lo chiamò la madre.
Il bambino arrivò alcuni secondi dopo trascinando svogliatamente i piedi prima di lasciarsi andare su una sedia e lasciarsi versare il latte nella tazza.
«Harry, siediti pure» mi invitò Carla, «vuoi caffè?» annuii.
In quel momento arrivò anche Lennon, che nel frattempo si era vestita.
«Buongiorno» farfugliò, ancora un po’ nel mondo dei sogni, sedendosi esattamente di fronte a me.
La osservai in silenzio, nonostante fosse mezza addormentata, coi capelli un po’ spettinati e struccata, mi ritrovai quasi a contemplarla, e dovetti rassettarmi immediatamente quando lei mi sventolò la mano davanti agli occhi.
«Scusa, mi ero incantato» mi giustificai, sentendomi avvampare.
Lennon rise, «a quanto pare non sono l’unica mezza addormentata» mi prese in giro.
«Harry è stato così gentile da portarci i croissant» spiegò Carla, con un accenno di rimproverò nella voce.
La figlia alzò gli occhi al cielo, prendendone uno dal centro del tavolo.
«Grazie Harry» mi disse poi, scandendo bene le parole, prima di dargli un morso.
Le sorrisi distratto e bevvi un sorso di caffè.
«Dove sono papà e la nonna?» domandò Lennon con la bocca piena.
«Sono andati all’ospedale, la nonna deve fare degli esami prima che partiamo» le rispose la madre.
Assistetti in silenzio al loro discorso, prima di partire per dove? Quando? Andavano via per Capodanno? Lennon non mi aveva detto niente. O forse se ne sarebbero andati dopo il mio ritorno a Londra quindi la cosa non m’interessava. Oppure se n’era dimenticata.
«Dove andate di bello?» domandai a Lennon.
La vidi irrigidirsi alle mie parole e la cosa non mi tranquillizzò per niente, anzi.
«Andiamo a Saint Nazaire» l’anticipò la madre, «mia sorella vive là e ci ha invitati a trascorrere il Capodanno da lei.»
Sforzai un sorriso nonostante stessi ribollendo dalla rabbia. Perché nascondermi una cosa del genere che avrei comunque scoperto prima o poi?
«Lennon non ti ha detto niente?» continuò la donna, notando probabilmente il mio sgomento.
Scossi la testa lanciando uno sguardo di fuoco alla figlia che si limitò a guardare altrove.
«No, niente» dissi deciso, scandendo bene le parole, e senza scollarle gli occhi di dosso.
Carla sussultò, «oh...» disse, sorpresa anche lei.
«Quando partite?» continuai.
«Dopodomani.»
Questa volta fu Lennon a parlare, probabilmente la lingua non gliel’aveva tagliata nessuno ed era ancora in grado di comunicare.
«Interessante» mi limitai a dire, con tono neutro, finendo il caffè che avevo nella tazza.
Mi alzai con calma e mi misi il cappotto fingendo di guardare l’ora, «è meglio che ora vada. Grazie per la colazione, il caffè era squisito» dissi, prima di dirigermi velocemente verso la porta.
Mi sentivo preso in giro, com’era possibile che Lennon mi avesse mentito per tutto quel tempo? Okay, forse ero un po’ esagerato, ci conoscevamo da soli cinque giorni ma in quel poco tempo mi ero legato a lei più di quanto avessi mai fatto con altre persone con cui ero rimasto a contatto molto di più. Mi sembrava di conoscerla da una vita, adoravo passare le giornate con lei. Era così divertente, allegra, simpatica e alla mano. Era diversa da tutte quelle ragazze con la puzza sotto il naso che frequentavo in Inghilterra. Sospirai facendo uscire una nuvola di condensa dalla mia bocca mentre iniziavo a incamminarmi per il marciapiede.
«Harry!» mi sentii chiamare.
Era inconfondibile quella voce, tuttavia non mi voltai.
«Harry dannazione sono senza scarpe! Vieni qua se non vuoi che muoia di broncopolmonite. Potresti avermi sulla coscienza a vita.»
Sorrisi a mio malgrado e mi voltai, vedendo il corpo esile di Lennon avvolto soltanto da un maglione di lana decisamente troppo grande per lei e dei pantaloni della tuta piuttosto leggeri.
Ai piedi indossava soltanto un paio di calze verdi, ed era sulla neve.
Mi avvicinai velocemente a lei, «torna dentro, non voglio sensi di colpa» la ripresi, col tono più duro che riuscii a fare. Lei obbedì e si appoggiò al portone mentre io rimasi sul marciapiede.
«Ora riesci a parlare?» le domandai, rude. «Non mi sembra che tu abbia problemi di comunicazione, anzi» la ripresi.
Lennon abbassò la testa evidentemente dispiaciuta, la leggerezza con cui mi aveva parlato alcuni secondi minuti prima era sparita. Mi sentii in colpa nonostante sapessi che non ero io ad essere dalla parte del torto.
«Perché non me l’hai detto?» domandai, addolcendo il tono della voce.
La sentii sospirare prima che alzasse la testa incrociando il mio sguardo. I suoi occhi azzurri erano cupi, l’allegria che si portavano sempre appresso era scomparsa.
«Non volevo che ti arrabbiassi» mormorò.
«E secondo te sono felice ora? Pensavi che non l’avrei mai scoperto? Avevi intenzione di sparire da un momento all’altro?» domandai, alzando a mio malgrado il tono della voce.
Lennon si mise a braccia conserte, probabilmente più per il freddo che entrava dalla porta aperta che per un atteggiamento di sfida.
«No» sussurrò, così piano che feci fatica a sentirla.
«E allora perché?» Cercai di essere il più apprensivo possibile.
«Avevo paura della tua reazione, che reagissi come... Ora.»
Sospirai passandomi una mano tra i capelli, «non è colpa tua se avete organizzato questo viaggio, come avrei potuto arrabbiarmi con te? Ora lo sono perché hai fatto finta di niente e mi hai nascosto tutto!»
«Cosa cambia? Che io parta dopodomani o no tu tra poco te ne vai!»
Alzai gli occhi al cielo, quanto poteva essere testarda quella ragazza?
«Okay, allora lasciamo perdere. Tanto ormai è così, trovo inutile stare qua a discuterne» dissi, cercando di tranquillizzarmi.
Lennon annuì. «Quindi?» domandò, dopo alcuni attimi di silenzio.
«Quindi, cosa?»
«Che facciamo ora?»
Mi strinsi nelle spalle, «non so, io ho detto che dovevo andare perché mi hai fatto arrabbiare. In realtà non ho niente da fare.»
Lennon sembrò pensarci su un attimo, «allora vado di sopra a vestirmi e torno tra cinque minuti.»
Annuii e la guardai correre su per le scale, con quelle calze verdi un po’ buffe.
Sorrisi voltandomi a guardare il cielo grigio parigino dal quale cadevano soffici e leggeri fiocchi di neve. Era incredibile come con Lennon l’arrabbiatura mi fosse passata così velocemente. Forse perché avevo capito la sua reazione e infondo, lei non poteva farci niente. Mi aveva mentito, o meglio, non mi aveva messo al corrente di alcuni fatti, con la convinzione di farlo per il mio bene e quello l’avevo apprezzato. Che senso avrebbe avuto, poi, perdere il poco tempo che avevamo a disposizione per stare insieme, litigando?
In quel momento sentii una porta sbattere e alcuni secondi dopo vidi Lennon scendere velocemente le scale, il solito berretto rosa in testa.
«Allora, dove vuoi andare?» mi domandò.
«Presumo che i negozi siano tutti chiusi» osservai, guardandomi un po’ in giro.
«Quand’è l’ultima volta che hai fatto un pupazzo di neve?» chiesi poi, senza riuscire a trattenere un sorriso.
 
Non avevo idea di dove Lennon mi avesse portato, sapevo solo che in quel momento mi trovavo in un parco più o meno nel centro di Parigi.
«Dove siamo?» domandai, leggermente smarrito.
Lennon scoppiò a ridermi in faccia, «hai il senso dell’orientamento di un bradipo» mi prese in giro.
La guardai confuso, «i bradipi hanno un pessimo senso dell’orientamento?»
Lei alzò le spalle, «non so. Tu però sì» rise. «Siamo vicini a dove abiti, più o meno.»
Aggrottai la fronte, di parchi vicino a casa mia non ce n’erano. O almeno credevo.
«Là c’è il Louvre» mi spiegò poi Lennon, indicando alla sua destra, «di là l’Arco del Trionfo» si voltò dalla parte opposta, «e tu dovresti abitare da quella parte» disse infine, puntando il dito alle mie spalle.
Annuii confuso, non avevo idea di che cosa stesse blaterando ma mi fidavo di lei.
La neve stava leggermente aumentando, quelli che prima erano esili fiocchi bianchi che cadevano dal cielo in quel momento erano diventati davvero fitti.
«Sai come si fa un pupazzo di neve?» domandai a Lennon, mettendomi in ginocchio e facendo una piccola palla.
«Me lo chiedi anche?» ribatté lei, mettendosi di fianco a me e mettendo altra neve sulla mia palla.
«Allora dovresti anche sapere che per fare il corpo bisogna spingere la palla su altra neve e questa automaticamente s’ingrossa» risi.
Lei si arrestò di scatto, appoggiando le mani sulle cosce, «ops.»
Risi e cominciai a spingerla lentamente, cercando di non romperla, Lennon si limitava a seguirmi in silenzio.
«Non credi che sia troppo grande?» domandò a un certo punto.
La guardai confuso e poi spostai lo sguardo sul frutto del mio lavoro. «Perché dici così?»
«Beh, la testa deve essere proporzionata al corpo, questo pupazzo di neve deve avere un testone. Come fai a metterglielo sopra senza romperlo?»
Inclinai leggermente la testa a destra osservando l’enorme palla di neve davanti a me, «no, così va bene» dissi poi deciso, mettendomi a fare la testa.
Lennon alzò le spalle, «come vuoi. Io vado a vedere se ci sono alcuni bastoni per le braccia» disse poi, avvicinandosi ad un albero poco distante da lì.
Io continuai con la mia opera, e quando la testa fu abbastanza grande per il corpo mi alzai con la schiena leggermente dolorante.
«Che ne dici?» domandai a Lennon, che in quel momento stava tornando con in mano una quantità decisamente esagerata di ramoscelli.
Lei guardò attentamente la testa che giaceva per terra, «non è male, ma come fai a metterla sul corpo?»
Le sorrisi sicuro di me stesso, «devi aiutarmi tu, ovviamente.»
Lennon sembrò stare per ribattere ma poi appoggiò i rami per terra ed annuì avvicinandosi. «Okay» disse semplicemente.
«Bene, vai da quella e alza la testa piano» le intimai, facendo io lo stesso dalla mia parte.
Lei obbedì, «ma pesa» si lamentò, «e poi secondo me si sta spaccando.»
«Non fare l’uccello del malaugurio!» la ripresi, ma non feci in tempo a finire la frase che la testa del nostro pupazzo di neve si ruppe tra le nostre braccia, cadendo disastrosamente per terra.
«Visto?» la incolpai, allargando le braccia.
«Ah, adesso è colpa mia?» si difese lei, «te l’avevo detto io che era troppo grande!» mi riprese, indicando il corpo ancora intatto.
Feci per ribattere ma effettivamente aveva ragione, il corpo era decisamente troppo grande. Senza proferire parola presi un po’ di neve dalla testa ormai distrutta e gliela tirai addosso, ridendo.
Lennon strabuzzò gli occhi sorpresa, era ovvio che non se lo aspettava. Chi poteva mettersi a tirare neve addosso alla gente nel bel mezzo di una discussione su un pupazzo di neve?
«Questa me la paghi» borbottò lei, inchinandosi a fare una palla da lanciarmi, ma non fece in tempo a finire perché un’altra quantità decisamente maggiore di neve, le finì addosso.
«Non vale!» esclamò lei alzandosi da terra e cominciando a correre lontano da me.
Probabilmente aveva capito che la ritirata era la scelta migliore per sopravvivere.
Mi misi ad inseguirla per tutto il parco mentre tenevo tra le mani un’altra palla di neve che avevo preparato velocemente. Lennon gridava mentre se la dava a gambe, i passanti e i turisti ci guardavano chi confuso e chi divertito, ma sinceramente mi importava ben poco dell’impressione che potevamo dare loro.
Accelerai il passo accorciando ulteriormente le distanze, ma per essere una ragazza dovevo ammettere che Lennon correva bene. A un certo punto svoltò a destra, in una strada meno affollata e si voltò velocemente per guardare dove fossi. Vedendomi non molto distante da me lanciò un altro grido che era un misto tra il divertito e il terrorizzato prima di inciampare in un cumulo di neve e finire per terra come un sacco di patate.
La raggiunsi un attimo dopo e le tirai la palla di neve in pieno volto, ridendo a crepapelle.
«Non hai neanche un po’ di compassione per una povera ragazza indifesa?» mi riprese lei, pulendosi malamente la faccia.
Mi inginocchiai accanto a lei e scossi la testa divertito, «allora, chi ha vinto?» domandai, contento.
«Non tu!» esclamò Lennon, tirandomi in faccia della neve che era riuscita a prendere in mano e cercando di rialzarsi per scappare.
Fui colto di sorpresa ma riuscii comunque a prendere Lennon per la giacca e tirarla verso di me, facendomela cadere addosso. Non mollai la presa nonostante mi stesse schiacciando, era capace di fare qualunque cosa quella ragazza.
«Adesso non scappi da nessuna parte» la presi in giro, sorridendole strafottente.
Lennon si voltò verso di me, e solo allora mi accorsi di quanto fossimo vicini.
Aveva il respiro accelerato, come me, e le nuvolette di condensa che uscivano dalle nostre bocche sembravano fondersi. Le sue guance erano leggermente arrossate e il berretto era pieno di neve, proprio come i suoi capelli.
«Smettila di ridere, hai una faccia da schiaffi» mi riprese lei, irritata e divertita allo stesso tempo.
«Non c’è niente che tu possa fare per farmi cambiare espressione» canticchiai quasi, prendendola in giro.
Non ci fu nessuna risposta a tono da parte di Lennon, l’unica cosa che sentii furono le sue labbra fredde sulle mie.
 
-

Non sono morta! HAHAHAHA
Sono in ritardissimo nel postare ma nonostante il capitolo fosse già pronto non avevo voglia di aprire l'editor di efp çç
Comuuunque, adesso sono qua e spero di essermi fatta perdonare con questo bacio un po' inaspettato :) Ve l'avevo detto io che non c'era ancora molto da aspettare, sono stata buona.
Pooooi, ci terrei davvero tanto a ringraziare la Federica che mi ha aiutata sia mentre scrivevo il capitolo, supportandomi moralmente visto che l'ispirazione era sottoterra, che per aver avuto la pazienza e la voglia di leggerlo prima e darmi un suo parere quindi, grazie Fede :)
Che altro? Niente, fatemi sapere che ne pensate, ci tengo davvero molto! Soprattutto perché le visualizzazioni dei capitoli sono davvero alte, le recensioni un po' meno, quindi vi chiedo di superare la pigrizia e scrivermi un vostro parere :)
Ho finito di rompere, anche perché ho addosso un abiocco allucinante, adesso vado a fare un pisolo uù
Alla prossima <3
Jas



 



«Ciao, Harry» sussurrò, e prima che potessi dire qualunque cosa lei sparì in casa senza voltarsi.

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TATATATA PUBBLICITA'
Passate da questa flash-fic che è scritta meravigliosamente e io la amo e si merita più recensioni di quelle che in effetti riceve.
Fidatevi che non ve ne pentirete uù

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Capitolo 7
*** Giorno 6 ***



 





Giorno 6
 

27 Dicembre

Lennon

 
«Lennon svegliati!» fu l’unica cosa che sentii prima che mio fratello mi saltasse addosso facendomi gridare di dolore.
«Joseph levati!» esclamai, cercando di levarmelo di dosso con uno strattone, ma lui aveva la presa maggiore di una piovra e nonostante i miei sforzi era impossibile smuoverlo.
«Perché non mi mostri un po’ di affetto?» domandò, corrucciato.
Risi, arruffandogli i capelli. Quando ci si metteva riusciva ad essere insopportabile, insistente e divertente allo stesso tempo. «Ecco la mia dimostrazione di affetto» dissi.
Joseph sbuffò prima di alzarsi dal letto e lasciarmi respirare, nonostante avesse solo dieci anni era davvero pesante, pensai.
«Cosa fai oggi?» mi domandò poi, cominciando a osservare ogni singolo oggetto presente nella mia camera, «esci col tuo ragazzo?»
Avvampai.
«Non è il mio ragazzo» dissi poi, irritata.
«Ma vi siete baciati?»
Quanto poteva essere rompiscatole mio fratello da 1 a 10?
«Non sono affari tuoi» borbottai stizzita.
Joseph si voltò verso di me e mi osservò per alcuni istanti, «vi siete baciati!» esclamò poi, puntandomi il dito contro.
Feci per ribattere ma ero troppo scioccata dall’intelligenza acuta di mio fratello – che ovviamente aveva preso da me – per pensare a qualcosa da dirgli.
Okay, ci eravamo baciati, ma Harry non era il mio ragazzo. Avrei desiderato che lo fosse, quale persona sana di mente non lo avrebbe voluto come ragazzo? Ma per cause di forza maggiore era praticamente impossibile.
Stentavo ancora a crederci che ci eravamo davvero baciati, o meglio, che io lo avevo baciato, cosa che rendeva il tutto ancora più surreale. Il fatto era che quella situazione era perfetta, e quando Harry se n’era uscito con il suo “non c’è niente che tu possa fare per farmi cambiare espressione” mi era venuto d’istinto baciarlo.
Non mi sarei mai aspettata che lui avrebbe ricambiato con così tanto trasporto, in realtà ero più preparata ad uno spintone da parte sua per levarmi di dosso, invece era stato così... Dolce.
Sorrisi al pensiero, nonostante fossi consapevole che Joseph mi stesse guardando come se fossi un alieno, ma la dura realtà mi colpì come un macigno: quello era l’ultimo giorno che l’avrei visto.
Sbuffai cambiando repentinamente umore e mi alzai dal letto, guardando Joseph di sottecchi.
«Che c’è?» domandò lui sulla difensiva.
«Ci tieni così tanto a vedere tua sorella nuda o hai intenzione di uscire?» chiesi, rude.
Lui fece una smorfia disgustata prima di affrettarsi ad andarsene.
Mi vestii, e con uno strano senso di malinconia trascinai i piedi fino in cucina, dove mio papà leggeva attentamente il giornale e mia mamma beveva la sua solita tazza di caffè.
«Buongiorno» mi salutò, esageratamente allegra.
«Buongiorno» bofonchiai, versando i cereali nella tazza.
«Tesoro, tutto bene?» domandò mio padre apprensivo come al solito, sospendendo la sua lettura.
Alzai le spalle mischiando i cereali nel latte, «insomma...»
«Hai preparato le valigie?» s’intromise mamma.
Mi arrestai stringendo il cucchiaio con così tanta forza che le nocche mi diventarono bianche, «no» dissi poi, a denti stretti.
«Qualcuno non è di buon umore!» Nonna fece il suo ingresso in cucina e sforzai un sorriso.
In quel momento il cellulare che avevo appoggiato sul tavolo vibrò e mi affrettai a prenderlo prima che qualcuno cominciasse a non farsi gli affari suoi.
«E’ Harry?» domandò subito Joseph, allungandosi verso il telefono per curiosare. Appunto.
Io mi avvicinai lo schermo al petto in modo da impedirgli di vedere ma papà seduto a capotavola aveva la vista di un falco.
«Sì» disse, contento.
Lo fulminai con lo sguardo e bloccai il cellulare mettendomelo in tasca, «avete finito?» brontolai.
«Lennon...» mi richiamò mia madre, con un tono di rimprovero.
«Lennon un bel niente!» alzai la voce, esasperata. «Non vi basta rovinarmi le vacanze? Dovete pure starmi così addosso?»
Mio padre mi guardava confuso, «cosa stai dicendo?»
«Ieri è arrivato qua Harry e non sapeva che domani saremmo partiti e ha litigato con Lennon poi però alla fine si sono baciati» s’intromise mio fratello.
«Joseph!» gridai, rossa fino alla punta dei capelli.
«Vi siete baciati?» domandò mia madre, sorpresa e allo stesso tempo divertita.
Alzai gli occhi al cielo, ovviamente aveva sentito solo la parte meno importante della frase. O meglio, non che fosse una cosa da niente l’aver baciato Harry ma a lei non doveva interessare quello, piuttosto doveva pensare al fatto che domani saremmo partiti e che io non l’avrei più rivisto.
«E quindi? Tanto adesso non lo vedrò mai più» brontolai, mettendomi a braccia conserte.
«Oh, tesoro...» disse mia nonna, dispiaciuta.
«Quindi è per questo che sei così suscettibile stamattina?» chiese mia madre.
Non le risposi, mi limitai a mangiare i cereali prima di perdere l’appetito. Perché doveva essere così irritante, schietta e dura? Non potevamo semplicemente sorvolare l’argomento?
«Io credo che qualcuno non voglia venire con noi a Saint Nazaire...» cantilenò allegra mia nonna.
Le avrei ficcato una mela in bocca, se fosse servito a farle chiudere quella boccaccia.
«Non credo sia possibile» ribatté mia madre decisa.
«Non essere così dura, Carla.»
Ecco perché amavo mio papà.
«Tecnicamente ho diciott’anni» farfugliai, continuando a guardare la mia tazza ormai vuota.
Sentii mia madre fulminarmi con lo sguardo, «si da il caso che finché vivi in questa casa devi attenerti alle regole.»
«Dai mamma sono solo un paio di giorni, cosa vuoi che possa fare? E poi vi ho sempre seguiti ovunque senza replicare, ti sto chiedendo un favore» tentai, «solo uno.»
Lei sembrò pensarci su per un attimo, forse Harry le piaceva abbastanza da mettere da parte le sue fisse e lasciarmi rimanere a casa.
«Non credo sia una buona idea» disse infine, «lasciarti a casa da sola con un ragazzo.»
Alzai gli occhi al cielo, «mamma stai tranquilla che se voglio fare certe cose ci sono infiniti posti e infiniti momenti adatti. Non bisogna avere per forza la casa libera» borbottai.
Lei strabuzzò gli occhi e sentii mia nonna ridacchiare, «se non ti fidi posso rimanere qua io a tenerla d’occhio» si offrì lei.
«Mamma non credo sia il caso...» intervenne mio padre.
Lei si strinse nelle spalle lanciandomi uno sguardo da “ho fatto quello che ho potuto”.
Sentivo gli occhi pizzicarmi dalle lacrime che minacciavano di uscire, non ero infuriata, di più.
Odiavo la mia famiglia, odiavo tutto in quel momento. Come potevano essere così insensibili e inamovibili? Non stavo mica chiedendo loro la luna, solo di non seguirli per una volta nella vita. Sapevo già che non mi sarei persa niente. Zia Hylda non mi stava poi così simpatica, le figlie nemmeno, avrei passato le giornate a passeggiare sulla spiaggia innevata con mio fratello. Come tutti gli anni.
Piuttosto che divertirmi a Parigi. Con Harry.
«Sembra che per voi farmi un piacere costi troppo» borbottai infuriata prima di alzarmi e chiudermi in camera accendendo lo stereo.
Mi buttai a peso morto sul letto con la faccia sul cuscino e smisi di trattenere le lacrime.
 

Harry

 
«Non è la fine del mondo» cercai di sdrammatizzare, osservando la Senna che scorreva indisturbata sotto i nostri piedi.
Lennon si voltò verso di me col naso leggermente rosso un po’ per il freddo e un po’ per tutte le volte che se l’era soffiato, «tu dici?»
Annuii convinto, nonostante non avessi idea di che cosa dire, «insomma, ci terremo in contatto» azzardai.
«Mi scriverai delle lettere?» rise lei.
Mi strinsi nelle spalle, «se è quello che vuoi, però ti avverto che la mia calligrafia fa un po’ schifo.»
«Allora direi di optare per le e-mail.»
«Già.»
Lennon sospirò, e si staccò dalla ringhiera del ponte su cui eravamo appoggiati stiracchiandosi leggermente. «Prima di andarmene voglio portarti in un posto in cui non sei ancora stato» mi disse, ritrovando il sorriso.
Acconsentii seguendola verso la strada, «dove?» domandai.
Lei non mi rispose, si limitò a prendermi per mano e sorridermi.
Sentii un brivido percorrermi tutto il corpo, era incredibile come quella ragazza fosse entrata nella mia vita e me l’avesse stravolta nel giro di sei giorni. Obiettivamente sapevo poco e niente su di lei, ma stavo talmente bene quando era al mio fianco che mi sembrava di conoscerla da una vita. E quando mi aveva baciato il pomeriggio precedente era stato come... Non avevo parole. Ero stato colto alla sprovvista ma allo stesso tempo avevo immediatamente capito che quello era ciò che volevo. Però, sapere che ad ogni minuto che passava si avvicinava sempre di più il momento in cui l’avrei dovuta salutare mi distruggeva il cuore. Soprattutto quando il tempo che avevamo a disposizione per stare insieme era improvvisamente diventato da cinque giorni a uno.
«Harry.»
La voce di Lennon mi distolse dai miei pensieri, «che c’è?» domandai.
Lei rise, «serve il biglietto.»
Mi ricomposi e lo presi dalla tasca del cappotto facendolo passare nell’obliteratore.
«A cosa stavi pensando?» mi chiese poi, mentre ci avvicinavamo al binario esatto.
A te.
«Niente» dissi, stringendomi nelle spalle.
Lennon mi guardò poco convinta per alcuni secondi poi si voltò in avanti e continuò a camminare. Avevo prestato poca attenzione alla linea della metro che avevamo preso e non avevo la minima idea di dove stessimo andando. Il posto in cui sbucammo non mi era per niente famigliare, le strade parigine erano tutte uguali.
Cominciammo a camminare sul marciapiede e notai che più avanzavamo più le vetrine dei negozi che superavamo erano... Spinte.
«Perché mi stai portando in una via piena di sexy shop?» chiesi divertito.
Lennon alzò gli occhi al cielo, «non lo riconosci proprio, quello?» mi indicò un mulino rosso che sorgeva imponente sopra un edificio.
«Ah» dissi, un po’ spiazzato.
Ero così concentrato ad osservare i negozi che non avevo prestato attenzione a ciò che mi si parava davanti: il Moulin Rouge.
Presi il telefono dalla tasca e scattai una foto.
«Forza vieni, non è qua che volevo portarti» disse Lennon, riprendendo a camminare.
Allungai il passo per raggiungerla, «e dove?»
«Dobbiamo andare da questa» spiegò, svoltando a sinistra.
Mi arrestai di scatto. Una ripida salita mi aspettava, cominciai ad essere stanco al solo pensiero.
«Dai non fare la femminuccia, vedrai che ne sarà valsa la pena» mi rassicurò lei, cominciando a camminare.
La osservai poco convinto ma quando capii che Lennon non mi avrebbe aspettato mi affrettai a seguirla per quella via stretta e ripida.
Camminammo in silenzio, io col fiato troppo corto per dire qualunque cosa e Lennon troppo distratta a guardarsi in giro. Quando alzai gli occhi dai miei piedi notai una piazza affollata di gente che si estendeva ai piedi di una chiesa bianca.
«Benvenuto a Montmartre!» esclamò Lennon voltandosi verso di me e allargando le braccia con fare teatrale.
Girai su me stesso notando che quel posto era pieno di pittori, mimi e altra gente che metteva in mostra le proprie abilità.
«Dove mi hai portato?» domandai confuso.
Lennon strabuzzò gli occhi, «stai scherzando spero.»
Scossi la testa sorridendo per la faccia che aveva fatto. Cosa c’era di così importante in quel posto oltre che una chiesa – di cui non avevo mai sentito parlare – e un po’ di artisti sparsi per strada?
«Qui ci ha vissuto gente del calibro di Picasso e Vincent Van Gogh!» esclamò lei, quasi inorridita.
Mi strinsi nelle spalle, non che non li conoscessi ma sinceramente poco mi importava del fatto che ci avessero vissuto lì. Il posto era carino, molto pittoresco con tutte quelle persone che vendevano quadri, si offrivano di farti dei ritratti, s’improvvisavano giocolieri eccetera.
«Interessante» ammisi, annuendo convinto.
Lennon sospirò sconsolata, «cosa devo fare con te, Styles?»
Sorrisi divertito, «che ne dici di farci fare un ritratto?»
Lei strabuzzò gli occhi, «sono quindici anni che vengo in sto posto e non mi sono mai fatta fare un ritratto.»
«E quindi? C’è sempre una prima volta» dissi, prendendola per mano e dirigendomi verso il tizio i cui ritratti erano più cari, e probabilmente – speravo – più belli.
Questo non appena mi vide cominciò la sua solita scenetta che probabilmente improvvisava con chiunque gli si avvicinasse. Risi.
«Vorremmo farci fare un ritratto» dissi, ignorando ciò che blaterava in francese e di cui capivo soltanto alcune parole ogni tanto.
Lui si rivelò parlare anche inglese – insieme a un’altra dozzina di lingue probabilmente – «certamente!» esclamò, indicandomi una sedia di fronte a dove si sedette lui.
Mi accomodai e osservai Lennon dondolarsi da un piede all’altro leggermente a disagio. Battei le mani sulle mie gambe facendole segno di sedersi, lei si avvicinò un po’ riluttante.
«Un po’ timida la tua ragazza» commentò il “pittore”, con un forte accento francese.
Lennon aprì bocca per ribattere ma io l’anticipai, «già» affermai divertito, guardandola di sottecchi.
«Ecco!» esclamò il tizio, «rimanete così, siete perfetti!»
Rimasi interdetto da quelle parole, dovevo rimanere immobile a guardare Lennon – non che mi desse fastidio – ma con un sorriso da ebete dipinto in faccia?
Dall’espressione di lei capii che la pensava allo stesso modo ma non obiettammo. Le feci una linguaccia che la fece ridere, il tizio che ci stava ritraendo ci lanciò un’occhiata truce. Probabilmente prendeva molto seriamente il suo lavoro, pensai.
Alcuni minuti dopo annunciò che aveva finito e finalmente potei tornare serio. Le guance mi facevano male per il tempo in cui ero rimasto con la faccia sorridente, osservai soddisfatto il ritratto. Era davvero bello.
Era in bianco e nero, io praticamente mi mangiavo Lennon con gli occhi mentre lei sorrideva un po’ a disagio. La guardavo davvero così? Mi ritrovai a pensare.
Ringraziai, porsi i soldi all’”artista” e diedi il ritratto a Lennon.
«Questo è per te» le dissi.
«No, l’hai pagato te. Tienilo tu.»
Alzai gli occhi al cielo, «e che c’entra? Sono un vero cavaliere, io ho già la nostra foto al Trocadero» ribattei.
Lennon fece per dire qualcosa ma probabilmente era a corto di frasi.
«Okay» sospirò rassegnata, prendendo il ritratto.
Sorrisi, felice di aver vinto. «Adesso cosa facciamo?» domandai poi, improvvisamente contagiato dall’atmosfera di quel posto.
«Non hai ancora visto la parte “clou”» mi avvertì lei, riprendendo a camminare verso la chiesa.
«Non vado a messa da anni» la avvertii.
Lennon rise, «non ti porto a messa, tranquillo, c’è qualcosa di molto meglio che ti aspetta.»
Quando fummo quasi in cima alla scalinata lei si arrestò e si tolse la sciarpa che portava al collo.
«Girati» mi ordinò.
La guardai confusa, «ma...»
Lennon mi fulminò con lo sguardo così obbedii, mi legò la sciarpa sugli occhi a mo’ di bandana e subito dopo sentii le sue dita esili intrecciarsi con le mie.
Avendo solo quattro dei miei cinque sensi “funzionanti” mi resi conto di come mi piacesse sentire la sua mano così piccola e morbida a contatto con la mia. Istintivamente le accarezzai il dorso col pollice ma non potei vedere la sua reazione. Sorrisi.
«Non è che mi vuoi buttare in un burrone?» domandai poi.
Sentii Lennon ridere, «no, è che devi vedere solo quando te lo dico io. Seguimi.»
Prima che potessi ribattere mi sentii trascinare, camminavo un po’ incerto, non sapendo dove stavo mettendo i piedi, e se fossi caduto avrei trascinato Lennon per terra con me.
«Attento c’è un gradino» mi avvertii, e io alzai il piede sinistro.
Andammo avanti così per alcuni minuti fino a quando non sentii Lennon lasciare la mia mano.
«Dove vai?» domandai, con una nota di panico nella voce.
Lei rise, «sono qua, vuoi che te la tolga questa sciarpa sì o no?»
In realtà non proprio, aveva un profumo inebriante. Profumava di lei.
Ma prima che potessi dire qualunque cosa Lennon me la levò, «tadan!» esclamò poi, contenta.
Dovetti strizzare gli occhi alcune volte per riabituarmi alla luce, ma quando misi a fuoco ciò che mi si parava davanti rimasi a bocca aperta.
«Non è lo stesso panorama che si vede dalla Tour Eiffel ma è già qualcosa» disse Lennon, appoggiandosi alla ringhiera.
Non dissi niente, rimasi incantato a guardare la città di Parigi che si estendeva ai nostri piedi.
«E’ stupendo» mormorai, continuando a guardarmi in giro.
Lennon annuì, «è un po’ nuvoloso altrimenti quando è bel tempo si distingue chiaramente la Tour Eiffel e anche Notre Dame» spiegò.
Mi voltai dall’altra e la chiesa del Sacro Cuore s’innalzava imponente sopra di noi, guardandomi un po’ in giro notai che c’era una funicolare che portava i turisti fino a lì.
«Tu mi hai fatto sudare sette camicie quando potevamo tranquillamente prendere quella?» domandai, fingendomi alterato.
Lennon sussultò dal tono della mia voce, «ecco...» era evidentemente a disagio.
«Sto scherzando!» la rassicurai, scoppiando a ridere.
Lei mi guardò con un’espressione corrucciata, probabilmente non sapeva nemmeno lei se ridere o meno. Istintivamente le misi un braccio intorno alle spalle e la attirai a me, abbracciandola.
«Grazie per tutto» le sussurrai poi, appoggiando il mento sulla sua testa.
Sentii la sua presa farsi più salda intorno ai miei fianchi per poi alzare la testa il minimo indispensabile per guardarmi negli occhi.
 «Non devi ringraziarmi.»
Sorrisi e le scostai un ciuffo di capelli dal viso, mi abbassai lentamente e le posai un casto bacio sulle labbra.
In quel momento le squillò il telefono, Lennon sbuffò scocciata prendendolo dalla tasca e alzò gli occhi al cielo quando lesse il mittente della chiamata.
«Pronto... Con Harry... Sì... No... Ok...» e riattaccò.
«Come sei loquace» la presi in giro.
«Era mia mamma» disse lei scocciata, «devo tornare a casa, sono quasi le sette di sera.»
«Di già?» domandai sorpreso, guardando l’orologio.
Lei annuì, «non sembra, eh? Con te il tempo passa che è una meraviglia» ammise, stringendosi nelle spalle un po’ imbarazzata.
Le sorrisi rassicurante, «lo stesso vale per me.»
La presi per mano e c’incamminammo verso la fermata della metropolitana.
Il viaggio verso casa fu piuttosto silenzioso, entrambi immersi nei nostri pensieri che, ci avrei scommesso, erano piuttosto simili.
Mi veniva l’angoscia a pensare che in pochi minuti l’avrei dovuta salutare e solo Dio sapeva quando l’avrei rivista. Mi voltai a guardare il suo profilo, aveva lo sguardo perso davanti a sé, chissà cosa le frullava nella mente, pensai.
Quando arrivammo alla nostra fermata ci alzammo di scatto, quasi come due automi, e scendemmo dalla metropolitana sempre in religioso silenzio.
«Mi sembra di andare al patibolo» cercai di sdrammatizzare.
«E’ molto peggio, credimi» borbottò lei.
«Dai, non dire così!»
Lennon si voltò verso di me con lo sguardo infuocato. «Cosa starebbe a significare “non dire così”? Harry, li ho pregati di lasciarmi qua stamattina, mi sembra di essere una ragazza responsabile e non ho mai recato grandi problemi ai miei. Okay, non sarò la figlia modello, insomma, li faccio arrabbiare anch’io ma non sono una mezza delinquente e se mi lasciassero a casa da sola per sei giorni al loro ritorno troverebbero l’appartamento intatto. Non ho intenzione di dare festini o altro, voglio solo stare qua con te» sospirò infine, rassegnata.
Mi fermai e la costrinsi a guardarmi negli occhi, «lo so, lo so» mormorai, «ma credo che più che altro non ti lasciano perché gliel’hai detto oggi, e voi partite domani.»
«Perché non mi hai mandato un’e-mail dicendomi che saresti arrivato così avrei dato loro un mese di preavviso?» domandò lei, con sarcasmo e rabbia allo stesso tempo.
Non potei fare a meno di sorriderle e accarezzarle la guancia, Lennon si appoggiò al dorso della mia mano e chiuse gli occhi, come se stesse trovando conforto in quel contatto.
«Non è la fine del mondo» la rassicurai, riprendendo a camminare.
Raggiungemmo in silenzio casa sua, e solo quando mi arrestai davanti al portone sentii salirmi il magone.
Prima che potessi dire o fare qualsiasi cosa Lennon mi prese il viso tra le mani e mi baciò con forza, quasi. Rimasi inizialmente spiazzato ma poi le appoggiai una mano sulla guancia e l’altra sulla schiena, avvicinandola ulteriormente a me.
Sarei rimasto così per sempre, sentire le sue labbra sulle mie era una sensazione così confortante, ma sapevo che sarebbe stato impossibile.
Mi staccai a malincuore, e vedere gli occhi di Lennon coperti da un velo di lacrime che minacciavano di uscire non fece altro che peggiorare la situazione.
«Ci rivedremo prima di quanto credi» tentai, nonostante quelle parole non convincessero nemmeno me.
Lei annuì, si alzò sulle punte dei piedi e mi baciò un’ultima volta, più dolcemente.
«Non dimenticarti di me» mi sussurrò, sulle mie labbra.
Strabuzzai gli occhi sorpreso dalle sue parole, come avrei potuto dimenticarmi di lei?
«Lennon, certe cose non devi nemmeno dirle. Ho il tuo numero di telefono, esiste internet, ci terremo in contatto» affermai, quasi severo.
Lei annuì poco convinta, la baciai un’ultima volta, cercando di imprimermi nella mente ogni sensazione e ogni brivido che mi provocava.
«Ciao, Harry» sussurrò, e prima che potessi dire qualunque cosa lei sparì in casa senza voltarsi.
Rimasi alcuni secondi ad osservare la porta chiusa e poi m’incamminai verso casa, sentendomi esattamente come sei giorni prima. Anzi, peggio.

-

Eccomi qua, con il capitolo dell'addio çç
La fine è un po' deprimente, lo so, ma a me la parte prima piace abbastanza soprattutto perché adoro Montmartre. Se andate a Parigi vi consiglio vivamente di passarci, è meraviglioso quel posto *-*
Non vi dico nient'altro perché non vorrei spoilerarvi qualcosa, quindi per sta volta salta anche la gif con l'anticipazione uù
Vi ringrazio tantissimo per le recensioni al capitolo precedente e perché la storia ha raggiunto i 100 preferiti! Grazie di cuore <3
Jas

 

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Capitolo 8
*** Giorno 7 ***






Giorno 7
 

28 Dicembre

Harry

 
Mi svegliai di soprassalto, le coperte quasi completamente cadute dal letto e la schiena umida, imperlata di sudore così come la fronte. Non avevo idea di che cosa avessi sognato, nella mia mente c’era soltanto il buio ma una sensazione di angoscia e inquietudine mi era rimasta addosso. Mi alzai lentamente dal letto e indossai un paio di pantaloni della tuta che avevo lasciato appoggiati sulla sedia della scrivania. Andai in bagno e mi diedi una rinfrescata al volto prima di prendere in mano il cellulare. La prima cosa che mi venne in mente fu Lennon, e improvvisamente una strana sensazione mi pervase il corpo. Come se quell’ansia con cui mi ero svegliato fosse, in una qualche strana maniera, collegata a lei. Scossi la testa cercando di cacciare via quegli strani e scomodi pensieri e decisi di mandarle un messaggio augurandole il buongiorno e chiedendole come stesse. Sentii una suoneria famigliare in lontananza, rimasi in silenzio alcuni secondi fino a quando non mi convinsi che era tutto frutto della mia immaginazione ed aprii la porta di camera mia per dirigermi in cucina e far tacere lo stomaco che non smetteva di brontolare. Non appena iniziai a scendere le scale sentii delle voci femminili provenire dal piano inferiore. Chi poteva esserci in casa mia alle nove e mezza del mattino? Trascinai i piedi fino alla cucina, osservai distratto Carmela e la sua interlocutrice prima di arrestarmi di scatto sulla soglia della stanza come immobilizzato. «Che ci fai qui?» domandai dopo alcuni secondi di sgomento. Lennon rise alzandosi dallo sgabello su cui era seduta e venendomi incontro. Quanto mi era mancata la sua risata, mi ritrovai a pensare, nonostante non fossero nemmeno ventiquattro ore che non la sentivo.
«Mi aspettavo almeno un saluto, se non sei felice di vedermi posso anche tornarmene da dove sono venuta» scherzò lei.
Scossi la testa sorridendo ancora incerto e allargando le braccia per accoglierla. La strinsi a me affondando il naso tra i suoi capelli e respirando a pieni polmoni il suo profumo.
«Io vado di là» sentii a malapena dire a Carmela, prima di vederla con la coda dell’occhio uscire dalla cucina.
«Mi stai soffocando» borbottò Lennon, con il viso praticamente schiacciato addosso al mio petto.
Mollai immediatamente la presa grattandomi la nuca imbarazzato, «scusa» mormorai, avvampando improvvisamente.
Lei sembrò non farci caso e si limitò a sorridermi rassicurante, «sono felice di vederti» ammise sincera.
Non riuscii a non increspare le labbra di fronte a quelle parole, «a chi lo dici, ma non so ancora come mai non sei partita» ammisi, «perché non partirai, vero?» aggiunsi, facendomi prendere leggermente dal panico.
Non volevo sentirmi dire che sarebbe partita nel pomeriggio e che era venuta a salutarmi un’ultima volta, non avevo intenzione di salutarla due volte nel giro di due giorni. Non sarei riuscito a...
«Non parto Harry» mi rassicurò lei, mordendosi il labbro inferiore cercando invano di trattenere la felicità, «quando ieri sera sono tornata a casa i miei mi hanno detto che mi dovevano parlare e mi hanno lasciata scegliere se andare con loro oppure no. Non so da cosa sia dipeso questo improvviso cambiamento di idea ma sinceramente non mi interessa, l'importante è che sia successo» spiegò, battendo le mani visibilmente estasiata dalla faccenda.
Non potei che farmi contagiare dall’entusiasmo e istintivamente la strinsi di nuovo a me, «ma sei a casa da sola, quindi?» domandai.
Lei non rispose, ma la vidi annuire.
«E non hai paura?»
Lennon alzò le spalle, «prima che tu me lo chiedessi, no. Ora però mi stai facendo venire i dubbi, dovrei averne?»
Sospirai, «non so. Se vuoi qui un posto per te c’è, magari saranno anche più tranquilli i tuoi.»
Lei inarcò un sopracciglio poco convinta, «non so quanto possa fare  piacere ai miei sapere che dormo con il ragazzo che pensano sia effettivamente il mio ragazzo.»
Mi lasciai scappare una risata, «non devi dormire con me» spiegai, «a meno che tu non lo voglia» aggiunsi ammiccante. «E comunque saresti sotto la supervisione di un adulto, poi i tuoi genitori mi adorano.»
Lennon alzò gli occhi al cielo, «condivido l’ultimo punto, ma sono ancora scettica a riguardo. Non vorrei che pensassero che dopo aver preso il dito pretenda anche tutta la mano, non saprei...» borbottò lei, pensierosa e indecisa.
«Se vuoi parlo io con loro, poi se non ti lasciano non fa niente. Vuol dire che dormirai da sola in un appartamento di città e che nel caso arrivi qualcuno sarai piccola e indifesa...»
Lennon mi diede una spinta facendomi tacere, «smettila!» esclamò, fingendosi arrabbiata nonostante non riuscisse a trattenersi dal ridere, «così mi fai cagare addosso sul serio!»
«Era quello che volevo fare» ammisi, sorridendole sornione.
Lei sbuffò estraendo il cellulare dalla tasca, «li chiamo» borbottò, componendo il numero mentre usciva dalla cucina.
Mi avvicinai alla credenza e presi una tazza che riempii di caffè, andando a sedermi poi su uno sgabello e cominciando a mescolare sovrappensiero lo zucchero che avevo messo.
«Perché non mi avevi detto che Lennon era così una bella ragazza?»
La voce squillante di Carmela mi fece sussultare e mollare la presa dal cucchiaino che cadde nel caffè sbattendo rumorosamente contro la tazza.
«Eh?» domandai confuso.
Lei alzò gli occhi al cielo, «la tua amica» spiegò, «è davvero carina.»
Annuii senza riuscire a trattenere un sorriso, «già» ammisi.
Lei mi si avvicinò scrutandomi attentamente da ogni prospettiva, «c’è qualcosa che mi stai nascondendo?» chiese poi, con tono indagatore.
Mi sentii avvampare nonostante non stessi nascondendo davvero niente, la sua insistenza mi metteva a disagio, in realtà a volte Carmela era in grado di mettermi a disagio così dal nulla. Mi sentivo un po’ in soggezione con lei.
Scossi la testa risoluto, nascondendo la faccia dietro la tazza che mi portai alle labbra.
Carmela sussultò, come colta da un’illuminazione improvvisa. «Vi siete baciati!» mi indicò, sfiorandomi la guancia sinistra con l’indice. Non risposi, mi limitai a finire il caffè in un sorso e a pulirmi la bocca con un tovagliolo.
«Harry...» mi riprese. Mi voltai verso di lei in silenzio. «Rispondi.»
«Non ti interessa!» esclamai.
«Oddio vi siete baciati, vi siete baciati!» continuò a cantilenare lei, come i bambini dell’asilo. Scossi la testa senza riuscire a non ridere a quella scena, una donna di quasi sessant’anni che ne mostrava cinquanta in meno, se non di più.
«Ma è la tua ragazza?» continuò poi, calmandosi improvvisamente.
La osservai smarrito, era la mia ragazza? Non credevo proprio, insomma, ci eravamo solo baciati un paio di volte e non facevamo che uscire insieme e molto probabilmente lei si sarebbe trasferita a casa mia per alcuni giorni e...
«Bo» ammisi sincero.
«Harry!»
Lennon tornò in cucina con un sorriso che le illuminava il volto e il cellulare in mano, sprizzava gioia da tutti i pori. «Hanno detto di sì!» esclamò entusiasta, lanciando una rapida occhiata a Carmela che ci osservava confusi.
«Siccome era a casa da sola le ho chiesto se le andava di venire qua» spiegai, con calma.
Carmela inarcò le sopracciglia annuendo lentamente, «capisco...» aggiunse poi, con un tono di voce che mi sapeva tanto di presa per il culo. «Beh, io torno di là a finire di pulire» spiegò, uscendo dalla cucina.
La osservai andarsene prima di tornare a guardare Lennon, «sei sicuro che non ti dia fastidio?» mi domandò. Risi scuotendo la testa, «c’è posto anche per te, tranquilla! Non può farmi altro che piacere!» esclamai, alzandomi dallo sgabello e avvicinandomi a lei.
«Sicuro?»
Annuii mordendomi il labbro inferiore e prendendo le sue mani tra le mie, «sicurissimo» mormorai, prima di annullare le distanze tra di noi.
Era da quando l’avevo vista in casa mia che stavo aspettando di farlo, e le sue labbra erano esattamente morbide e piene così come le ricordavo. Chiusi gli occhi assaporando al massimo quel momento che non credevo sarebbe arrivato di nuovo, prima di staccarmi a malincuore da lei e appoggiare la mia fronte alla sua, facendo sfiorare i nostri nasi.
Guardai in silenzio in quegli occhi che non avevo mai visto così da vicino e che lei si ostinava a dire che erano orrendi quando in realtà io li trovavo solamente perfetti
Lennon sorrise lievemente, abbassando lo sguardo leggermente in imbarazzo.
«Perché quando ti fisso guardi sempre da un’altra parte?» domandai.
«Perché mi fai sentire a disagio» mormorò lei.
Le misi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro, «non hai niente per cui essere a disagio, sei bellissima» la sussurrai, prima di darle un lieve e casto bacio a stampo.
Lennon avvampò, diventando dello stesso colore del maglione rosso che indossava.
«Sei mai stato al Louvre?» mi chiese poi, di punto in bianco.
 

Lennon

 
Osservai Harry che continuava a girarsi su sé stesso ammirando l’enorme museo che lo circondava e scattando foto a qualunque cosa gli capitasse sott’occhio proprio come quei turisti dagli occhi a mandorla che popolavano la città.
«Mi sembra di essere finito ne “Il Codice Da Vinci”» osservò poi, fotografando una piramide di vetro.
«Hai letto il libro?» domandai meravigliata.
«No, però ho visto il film», Harry mi sorrise sincero.
Non potei fare a meno di ridere mentre mi dirigevo verso l’entrata del Louvre che – stranamente – non era poi così affollata.
«Allora, cosa mi porti a vedere?» domandò Harry, curioso.
«Lo scoprirai, qualunque cosa all’interno di questo museo è da vedere» spiegai, mentre porgevo la mia borsa ad un addetto alla sicurezza perché la controllasse.
Mi diressi verso la biglietteria ma non ci fu ragione che impedì ad Harry di pagare, ignorai la cartina che ci venne data: conoscevo quel posto come le mie tasche.
Cominciai a dirigermi verso la sezione di archeologia mediorientale, non era quella che mi entusiasmava di più ma per Harry era la prima volta che veniva al Louvre e non poteva perdersi tutto il patrimonio che quel museo custodiva.
Gli raccontai quelle poche cose che mi ricordavo dai primi anni di liceo, improvvisandomi la sua guida personale. Lui sembrava ascoltare interessato, ma infondo sapevo che lo faceva più per me che perché gli importasse davvero delle prime monete coniate.
«Perché non facciamo una pausa?» mi domandò a un certo punto, sedendosi sulla prima panchina libera che trovò, sospirai assecondandolo.
«Okay, ma sappi che ci mancano le cose più importanti e famose» lo avvertii.
«Che io sappia solo la Gioconda» disse lui, cercando di reprimere uno sbadiglio, invano.
Strabuzzai gli occhi, «ma cosa stai dicendo? Dove hai lasciato la Vergine delle Rocce, sempre di Da Vinci, la Venere di Milo, la Nike di Samotracia e l’Ultima Cena, anche se è una copia?» lo ripresi stizzita.
Harry mi guardava stralunato senza sapere cosa dire, «l’Ultima Cena è un falso?»
Annuii, «l’originale è custodita a Milano» spiegai, «questa è una copia, ma non significa che non sia altrettanto bella.»
Lui sospirò, «c’è ancora così tanta roba da vedere? Io pensavo ci fosse soltanto la Gioconda» borbottò.
Non riuscii a trattenermi dal ridere, «se si vuole visitare bene questo museo, bisogna trascorrerci come minimo una giornata, noi ci siamo dentro da tre ore!» esclamai, ancora divertita.
«Non possiamo fare un taglio alle regole?» mi propose lui.
Ci pensai su un attimo, ma anche volendo non sapevo cosa fargli vedere e cosa no. Come si poteva visitare un museo così pieno di sapere e di bellezza e saltare delle cose?
«Va bene» cedetti infine, «a cosa ti vuoi limitare allora?»
«Non saprei... Sei tu la guida. L’Ultima Cena no di certo, dato che è un falso» borbottò corrucciato.
Sospirai, «okay, allora che ne dici della Gioconda,  la Vergine delle Rocce, la Venere di Milo e la Nike di Samotracia?» proposi.
«Hai praticamente ripetuto tutto» osservò lui, «lasciamo fuori la Vergine delle Rocce dai, non m’ispira dal nome.»
Lo osservai in silenzio per alcuni istanti, infine non riuscii a resistere a quel sorriso persuadente e a quello sguardo malandrino che mi stava rivolgendo e assentii sconsolata, alzandomi.
Mostrai più velocemente che potei ad Harry tutto ciò che avevamo deciso di vedere lasciando per ultima la Nike di Samotracia, la scultura più vicina all’uscita ed anche la mia preferita. Mi fermai su una delle due scalinate  che portavano ad essa così da poterla ammirare dall’alto senza essere ostacolata dalla marea di turisti che c’erano davanti fotografandola e filmandola.
«Eccoci qua!» esclamai, leggermente affannata per la lunga scalinata che avevamo appena fatto ed indicando la scultura ad Harry.
«Non male» osservò lui, prendendo il telefono dalla tasca per scattare una foto.
«E’ una delle mie sculture preferite» dissi, incantata a guardarla, «nonostante non si sappia bene chi l’abbia scolpita, è stata ritrovata sull’isola di Samotracia, appunto, già priva delle braccia e della testa» spiegai, «rappresenta la giovane dea alata, figlia di Zeus e simbolo delle vittorie militari, mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia. Come si può facilmente notare dalla posizione del corpo, delle ali, e da come il vestito aderisce» indicai la scultura, «la dea era investita dal vento e la gamba destra protesa in avanti dona alla figura un’aria ancora più imponente. Il piede era appoggiato alla nave, ecco perché non c’è più» conclusi brevemente.
Harry annuì serio, continuando ad osservare la scultura davanti a noi, e per la prima volta mi parve davvero interessato a ciò che stavo dicendo, proprio come quando non credeva che spostandosi davanti al dipinto della Monna Lisa si sarebbe sempre sentito i suoi occhi addosso e lo dovette provare sotto lo sguardo sconcertato delle guardie.
«Non si ha proprio la minima idea di chi l’abbia scolpita?» domandò poi.
«Si sospetta Pitocrito, nel 200 a.c. circa.»
«Come sei informata! Sei stata sveglia tutta la notte a studiartele queste cose?» mi domandò poi Harry, divertito.
«Si dà il caso che faccio il liceo artistico!» esclamai, «se non sapessi queste cose non sarei all’ultimo anno» risi.
«Cosa vuol dire? Io so a malapena quand’è scoppiata la rivoluzione francese, e sono anch’io in quinta!»
«Questa è la differenza tra me e te, Harry» lo presi in giro, dirigendomi verso l’uscita del museo.
Passammo a casa mia dove misi in una borsa alcuni vestiti per i successivi giorni, spazzolino da denti e altre cose necessarie alla sopravvivenza prima di andare a casa di Harry.
Mi sentivo leggermente a disagio nel restare da lui, più che altro perché sapevo che avrei conosciuto suo padre che stando ai suoi racconti non era un tipo molto espansivo e loquace e non sapevo cosa avrebbe potuto pensare di me. Sarebbe stato una di quelle persone snob e con la puzza sotto il naso oppure nonostante i soldi, era una persona abbastanza alla mano come il figlio?
Mi sedetti al primo posto libero che trovai sulla metro e misi la borsa in grembo appoggiando la testa sulla spalla di Harry che passò un braccio dietro la mia schiena attirandomi a lui.
«Che cosa dirà tuo padre?» domandai poi, con gli occhi socchiusi e la voce bassa.
«Niente... credo» disse incerto, «cioè, non so, non gli ho mai portato nessuna ragazza a casa, ma non credo gli dia fastidio. E anche se fosse, non può dire niente, per il tempo che lo vedrai...» sospirò.
Cercai la sua mano e la strinsi forte, cercando di infondergli coraggio e un po’ di buonumore, da Natale il rapporto con suo padre era peggiorato ulteriormente e a quanto pareva non si erano mai chiariti. O meglio, Harry non mi aveva mai detto niente.
«Sai, c’è sempre tempo per cambiare» osservai.
«Non è mai cambiato in diciott’anni, perché dovrebbe farlo proprio ora?» domandò, sprezzante.
Mi strinsi nelle spalle senza sapere bene cosa dire, «Harry, rimane sempre tuo padre...»
Lo sentii sospirare e alzai leggermente la testa così da poterlo guardare negli occhi, «come farò senza di te?» chiese poi.
Sentii un brivido attraversarmi il corpo e il mio cuore accelerare i battiti, com’era possibile che esistesse al mondo un ragazzo così meraviglioso? Mi chiesi invece io, e soprattutto che volesse me?
Mi era quasi impossibile da pensare, invece quelle due meravigliosi iridi color verde smeraldo che mi osservavano da così vicino ne erano la prova.
«C’inventeremo qualcosa» lo rassicurai, alzandomi poi dalla sedia dato che la prossima fermata sarebbe stata la nostra.
Harry mi prese gentilmente la borsa e scese per primo dalla metro, sorrisi nel ripensare al primo giorno in cui l’avevo visto, a come si sentiva spaesato e fuoriposto in quella città che ora mi aveva fatto capire non volere abbandonare.
Camminammo in silenzio fino a casa sua, ognuno assorto nei propri pensieri.
Ero ancora spiazzata da quelle parole, era umanamente possibile che le cose che diceva una persona potessero farti sentire così frastornata, spaventata, sorpresa, ma allo stesso tempo così dannatamente felice?
«Pronta?» mi domandò Harry, fermandosi davanti al portone di casa sua.
Non riuscii a trattenere un sorriso ed annuii prima di sentire le labbra di Harry sulle mie.
Quando arrivammo all’appartamento Carmela era già alle prese con la cena, la salutai educatamente prima di seguire Harry verso quella che sarebbe stata camera mia. Era più grande della mia stanza vera, i mobili sapevano ancora di nuovo, probabilmente quel locale veniva utilizzato poco, pensai. Mi mostrò anche il bagno e camera sua, che stava esattamente di fronte alla mia, prima di tornare in cucina.
«Devo aiutarti?» domandai gentilmente a Carmela, che scosse la testa decisa.
«Non c’è bisogno, cara» mi disse poi, dolcemente. «Harry» lo chiamò, cambiando completamente tono di voce, «prepara la tavola.»
Non riuscii a trattenere una risata mentre lui obbediva senza proferire parola, decisi di dargli una mano. Presi i piatti e le posate seguendolo verso il tavolo, in quel momento la porta d’entrata si aprì facendo apparire un uomo alto vestito in un completo elegante.
Lo osservai quasi incantata, era incredibile quanto assomigliasse a Harry, solo con un po’ di anni in più.
«Ciao papà» lo salutò il figlio, con un tono freddo e distaccato.
Solo in quel momento l’uomo si voltò nella nostra direzione, «buonasera» disse, in un tono formale, prima di posare lo sguardo su di me e sorridermi calorosamente.
«Oh, non sapevo avessimo visite!» aggiunse gentile, avvicinandosi.
«Salve signor Styles» lo salutai porgendogli la mano che lui strinse con presa forte.
«Chiamami pure Des» mi corresse.
«Papà, lei è Lennon» s’intromise Harry, «si fermerà da noi per alcuni giorni, i suoi sono in vacanza» spiegò.
Trattenni il respiro aspettandomi qualche commento strano da parte sua ma Des si limitò a sorridermi gentilmente, ecco da chi aveva preso le fossette il figlio, pensai.
«Potevi dirmelo prima!» esclamò l’uomo, «avrei prenotato al ristorante.»
Vidi Harry strabuzzare gli occhi, palesemente sorpreso da quella risposta.
«Anzi, facciamo così, domani sera usciamo a cena, ora devo andare in ufficio a finire una cosa» aggiunse velocemente. «E’ stato un piacere Lennon» mi congedò, prima di sparire nel corridoio.

-

Oddio ma questo è l'ultimo capitolo che ho pronto, mamma mia che trauma oò 
Il prossimo non ho idea di quando arriverà, ho questa settimana e la prossima piena di verifiche ma farò del mio meglio.
Sarò velocissimissima perché ho la batteria del Mac al 10%, non so se rendo l'idea HAHAHA Volevo solo dirvi che era ovvio che Lennon non sarebbe partita, la fan fiction s'intitola 10 giorni per innamorarmi di te, non 6 AHAHAHA
Comuuunque, niente, non ho riletto ma non ho tempo e non metto nemmeno lo spoiler per lo stesso motivo, e poi il prossimo capitolo non è neanche finito. Tutto perché non ho sbatta di alzarmi dal divano e andare in camera a prendere il caricabatterie, anche se mi sto tipo pisciando addosso quindi dovrò tirarmi su per forza çç
Okay la smetto con le mie baggianate, fatemi sapere che ne pensate vi prego <3
Jas


P.S. Ringrazio Wikipedia per tutte le meravigliose informazioni che mi ha dato sul Louvre, sono quasi tutti dei puri copia/incolla ahaha


 

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Capitolo 9
*** Giorno 8 ***


 

 

Giorno 8

 

29 Dicembre

Lennon

 
Aprii lentamente gli occhi mettendoci un attimo a capire dove fossi. Mi guardai in giro, la stanza perfettamente ordinata, i mobili che profumavano di nuovo e un palazzo decisamente troppo “in” perché si potesse vedere dalla finestra di casa mia. Mi stiracchiai per bene e scesi dal letto in punta di piedi, aprendo lentamente la porta. Non avevo idea di che ore fossero ma stando al silenzio che sembrava regnare sovrano in quella casa, era ancora piuttosto presto, oppure Harry era un dormiglione.
Sorrisi osservando la porta di camera sua esattamente di fronte alla mia, incerta se bussare oppure tornare a letto in attesa che si svegliasse. Sospirai, decidendo poi di andare a svegliarlo esattamente come lui aveva fatto con me alcuni giorni prima.
Abbassai lentamente la maniglia della porta facendo attenzione a non fare rumore e poi, con estrema cautezza, entrai nella stanza avvolta nel buio. Alcuni spiragli di luce entravano dalle ante non chiuse perfettamente, il giusto per non farmi inciampare nei vestiti sparsi per terra e individuare il letto su cui Harry dormiva tranquillo. Mi avvicinai in punta di piedi e sorrisi nell’osservarlo, dormiva in mutande nonostante fosse inverno, le coperte quasi completamente per terra, il cuscino in bilico sul bordo del materasso e lui con i capelli che gli cadevano sul viso e la bocca socchiusa. Nonostante ciò, era semplicemente perfetto. Non l’avevo mai visto a dorso nudo, provai un brivido nell’ammirarlo in tutta la sua bellezza, sapevo che sotto a quei vestiti eleganti e che costavano un patrimonio si nascondeva un bel fisico ma non avrei mai pensato che potesse causarmi quella strana sensazione che provavo in quel momento alla bocca dello stomaco. Deglutii cercando di ricompormi, come potevo svegliare una così bella creatura? Mi sembrava quasi un’eresia.
Decisi di lasciare perdere tutti quegli inutili problemi che mi stavo facendo e feci il giro del letto così da potermi sdraiare sulla parte che Harry aveva lasciato libera, dato che dormiva su un lato del materasso. Le doghe scricchiolarono sotto il mio peso, mi irrigidii immediatamente con la paura di averlo svegliato ma Harry non mosse un muscolo. Mi sdraiai lentamente accanto a lui e tirai su le coperte, nonostante indossassi il pigiama avevo freddo, e mi accoccolai addosso a lui. Chiusi gli occhi lasciandomi cullare dal suo respiro regolare e rilassato, tipico di chi è in un sonno profondo, e rimasi così per un tempo che mi parve un’eternità. Dovevo ammetterlo, mi stavo annoiando a morte. Possibile che Harry fosse un ghiro? Mi tirai un po’ su e mi sporsi per vederlo in viso, dormiva come un sasso. Mi abbassai sul suo collo e gli diedi un bacio leggero, poi mi spostai un po’ più in giù e ripetei il gesto. Cominciai a riempirlo di baci, quando arrivai alla sua spalla Harry bofonchiò qualcosa ed aprì gli occhi.
«Buongiorno» dissi sorridente.
«Buongiorno anche a te», mugugnò, con la voce impastata e una smorfia sghemba che doveva essere un sorriso. «Che bel modo per iniziare la giornata» aggiunse poi, baciandomi la punta del naso.
«Non ti svegliavi più» lo ripresi, divertita.
Lui aggrottò le sopracciglia confuso prima di allungare un braccio sul comodino e prendere il cellulare, «ma se sono le otto e mezza di mattina!»
Mi strinsi nelle spalle, «non avevo guardato l’ora» mi difesi.
«Beh, direi che possiamo rimanere ancora un po’ a letto allora» mi sussurrò Harry, mettendosi a pancia in su e attirandomi a lui. Appoggiai la testa sul suo petto e sentii le sue dita giocare con i miei capelli lasciati sciolti e un po’ arruffati. Mi lasciai cullare da quella sensazione rilassante e chiusi gli occhi ma, a differenza di prima, in quel momento stavo bene e non avrei mai voluto muovermi di lì.
Incastrai le mie gambe con quelle di Harry, «hai i piedi gelati» si lamentò lui.
«Scusa» mormorai, togliendoglieli di dosso.
«No lascia» mi bloccò, «te li scaldo io.»
Obbedii, trovando tutta quella situazione assurda.
Insomma, io e Harry sembravamo una coppia a tutti gli effetti, un quadretto felice, ma con un’indelebile macchia a rovinarlo: ad ogni minuto che passava, si avvicinava sempre di più la sua partenza e nonostante non ne facessimo mai parola, era una costante sempre presente.
«Stasera dobbiamo andare a cena con mio padre» mi ricordò poi di punto in bianco, annuii alzando la testa per poterlo vedere, il suo sguardo era perso nel vuoto.
«Andrà tutto bene dai, sembra un tipo simpatico» lo rassicurai.
«Certo, fino a quando non arriverà una chiamata improrogabile di lavoro che lo costringerà ad andarsene» commentò lui duro.
«Vorrà dire che la cena si trasformerà in un romanticissimo appuntamento in uno dei ristoranti più chic della città.»
Harry sospirò a corto di parole, «perché riesci sempre a dire la cosa giusta al momento giusto?»
«Perché...» mi arrestai di colpo, sorprendendomi da sola per ciò che stavo per dire senza nemmeno rendermene conto.
«Perché…?» mi spronò Harry.
Scossi la testa sentendomi avvampare, «niente, nulla di importante» borbottai.
Lui mi guardò confuso ma decise di lasciare perdere e non insistere, «okay» disse, poco convinto.
«Sai già cosa metterti stasera?» mi domandò poi, dopo alcuni minuti di silenzio.
Ci pensai un po’ su prima di rispondere, «no, dovrei andare a casa a vedere se ho qualcosa di decente da mettermi dato che qua ho portato poco o niente.»
«Oppure potremmo andare a comprare qualcosa oggi pomeriggio» propose lui.
Alzai gli occhi al cielo, «se intendi che io mi pago quello che compero okay, se invece parli di andare per negozi con te che sponsorizzi allora direi di no. Dovrei anche stare attenta nel fare commenti che poi potrei trovarmi recapitata a casa tutta la roba che ho detto che mi piaceva» spiegai.
Harry mi osservò sorpreso ma allo stesso tempo divertito per un istante prima di scoppiare a ridere, «Touché.»
 

Harry

 
«Non ci credo che tu non abbia nulla da metterti» borbottò Lennon, mentre guardava poco convinta un capo del negozio in cui eravamo.
«Non è che non abbia nulla, è che niente di quello che ho mi convince» precisai.
In poche parole l’avevo costretta ad accompagnarmi a fare compere. Da quando in qua un ragazzo doveva convincere una ragazza a girare per negozi, mi chiedevo io?
Lennon era una tipa piuttosto strana, dovevo ammetterlo, e mi sorprendeva ogni giorno che passavamo insieme. Come la sera precedente, mai e poi mai avrei pensato che potesse fare una così buona impressione su mio padre da indurlo a proporre un’uscita a cena.
«Tanto ti sta bene tutto, potresti uscire anche in pigiama che saresti bellissimo» disse Lennon tranquilla, mettendosi più comoda sulla poltrona vicino ai camerini di quel costoso negozio di Rue de Saint Honoré.
Smisi di mettermi a posto il papillon che avevo al collo e mi voltai a guardarla sorpreso, «bellissimo?» ripetei divertito.
Lei avvampò, cominciando ad agitarsi sul posto, nonostante non fosse proprio vicino a me vidi chiaramente la sua pelle candida colorirsi graziosamente di rosso.
«Beh… Ecco… Io…» cominciò a bofonchiare in imbarazzo.
Le sorrisi allegro, «beh, grazie» dissi tranquillo, lei fece per ribattere ma poi sospirò soltanto e si appoggiò allo schienale della poltrona, probabilmente senza parole.
 
«Allora, hai finito?» domandai per l’ennesima volta, mentre cercavo di battere il mio record di Temple Run sull’iPhone. In quel momento le porte del bagno in cui Lennon era chiusa da un’eternità si aprirono, alzai lo sguardo di scatto e per poco il cellulare non mi cadde dalle mani.
«Come sto?» chiese lei, titubante, facendo una timida giravolta su sé stessa.
La guardai a bocca aperta, alzandomi lentamente dal divano sul quale ero sdraiato, «sei…» sospirai, non trovando parole più significative ma allo stesso tempo meno banali, «bellissima.»
La vidi arrossire, esattamente come quel pomeriggio, «lo pensi davvero?» domandò, mordendosi un labbro.
Annuii convinto, avvicinandomi a lei e prendendo le sue mani tra le mie, «certamente, se no non l’avrei mai detto. Sei stupenda, la ragazza più bella che io abbia mai visto» affermai, guardandola negli occhi.
«Visto che non serve per forza un abito firmato per essere presentabili?» mi prese in giro, rompendo rovinosamente l’atmosfera che si era venuta a creare.
«Te la sei cavata più che bene con trenta euro da H&M in effetti» risi.
«Contro i tuoi non so quanti soldi che hai speso per il, seppur meraviglioso, completo che indossi tu» mi riprese.
Annuii mio malgrado e mi abbassai lievemente verso di lei, il giusto per posarle un lungo e dolce bacio a fior di labbra, sentii una strana sensazione all’altezza dello stomaco, forse erano le cosiddette farfalle, non lo sapevo, ma in quel momento ero dannatamente felice.
«Forse è meglio che andiamo, tuo papà ci starà aspettando» mi ricordò lei.
Annuii impercettibilmente aiutandola a mettere il cappotto ed uscimmo dall’appartamento.
Arrivammo alla “Tour d’Argent” alle 20 in punto, lanciai una rapida occhiata a Lennon prima di prenderla per mano ed entrare nel rinomato ristorante parigino.
«Dovevo sospettare che saremmo andati nel posto più costoso della città» mi sussurrò Lennon, mentre porgevamo le giacche al portinaio.
«Styles» dissi poi, al cameriere che ci accolse, questo annuì con aria professionale prima di mostrarci la strada verso il tavolo che mio padre aveva prontamente prenotato. Stranamente quando arrivammo nella sala più tranquilla del ristorante, lui era già lì seduto, intento a leggere il menu e con un bicchiere di vino rosso davanti a lui.
«Ciao papà» dissi titubante, facendolo destare dalla sua lettura.
«Oh, buonasera figliolo!» esclamò lui, alzandosi immediatamente.
Mi strinse la mano con lo stesso calore con cui si stringe la mano di un socio in affari e fui costretto a lasciare quella calda e morbida di Lennon.
«Buonasera anche a te, Lennon» continuò poi, stringendo la mano anche a lei e baciandola educatamente su entrambe le guance.
L’unica cosa che non si potesse criticare a mio padre era che non fosse un gentiluomo coi fiocchi.
«Come sta?» domandò Lennon, cercando di mostrarsi gentile.
«Puoi darmi del tu, tranquilla. Comunque tutto bene, a parte il lavoro.»
Lei strabuzzò gli occhi, «che intende dire?» chiese istintivamente, «se ne può parlare, insomma…» si corresse.
In quel momento arrivò il cameriere, ordinammo tutti e tre dell’anatra – a detta di mio padre la specialità del posto – e del Chardonnay.
«Come credo tu ben sappia» riprese poi lui, non appena il cameriere se ne fu andato, «questo non è un bel momento per l’economia, e in una società di investimenti com’è quella per cui io lavoro, il denaro è la cosa primaria e se questo comincia a mancare iniziano i problemi.»
Guardai mio padre scioccato, aveva dei problemi al lavoro e io continuavo a sperperare soldi come se nulla fosse? Mi sentii in colpa.
«Oh, mi dispiace» disse Lennon, visibilmente sentita per aver posto quella domanda.
Des scosse la testa sorridendole gentile, «non è poi così grave, insomma, posso ancora permettermi questo ristorante quindi direi che la nave deve ancora affondare, speriamo di salvarla prima» cercò di sdrammatizzare.
Tirai istintivamente un sospiro di sollievo, e vidi anche Lennon fare lo stesso.
Le ordinazioni ci furono portate ed io mi abbuffai sull’anatra che aveva un sapore troppo invitante per resisterle.
«Tu invece che fai nella vita?» domandò mio padre, bevendo un sorso di vino.
Lennon si mise più composta sulla sedia, segno che era nervosa, sorrisi nel vederla cercare di comportarsi da donna di classe. Era passata dalle Vans ai tacchi, dai leggings e maglioni in cui ci stava dentro due volte ad abiti da sera, ma la cosa che mi rese più sorpreso fu che comunque ai miei occhi lei era sempre la stessa spontanea e semplice Lennon.
Rimasi incantato ad osservarla, con la forchetta a mezz’aria, mentre raccontava a mio padre, con la stessa luce negli occhi che io le avevo visto il giorno precedente al Louvre, che scuola faceva e le varie materie legate all’arte che studiava.
«La società per cui lavoro io ha finanziato diversi viaggi di varie opere da un museo all’altro per le mostre» spiegò mio padre, fiero.
Il volto di Lennon si aprì in un sorriso a trentadue denti, «davvero?» domandò incredula.
Des annuì, ma in quel momento il Blackberry che teneva in tasca cominciò a vibrare, si alzò di scatto leggendo il nome sul display.
«E’ questione di un attimo, scusate» disse poi, prima di allontanarsi dal tavolo.
Lennon si voltò verso di me ancora sorridente, «tuo padre è davvero simpatico» disse poi, perdendo tutta la sua compostezza e lasciandosi andare sulla sedia.
Risi nel vedere il repentino cambiamento di atteggiamento, «ho visto che avete un certo feeling» commentai poi.
Lennon aggrottò le sopracciglia, osservandomi confusa, prima di aprire la bocca per dire qualcosa ma troppo scioccata per parlare.
«Cosa stai insinuando, Styles?» mi fulminò, poi.
Mi strinsi nelle spalle, «niente, ma avete parlato per tutto il tempo come due amichette d’infanzia, non so.»
Lennon mi guardò prima un po’ arrabbiata ma poi dispiaciuta, allungò il braccio per prendermi la mano.
«So che tuo padre non ti va a genio, ma anche tu potresti fare uno sforzo e utilizzare il poco tempo che avete a disposizione per parlare. Insomma, nemmeno tu sapevi dei suoi problemi al lavoro!»
Sospirai cominciando a giocherellare con le sue dita ma lei fece finta di niente e continuò con la predica.
«Se tu ti rendessi più sopportabile, allora forse anche lui farebbe uno sforzo per ritagliare del tempo per te, non credo sia poi così impossibile se è riuscito a farlo anche stasera. Siamo qua da un’ora e si è alzato solo adesso per rispondere al telefono, a me sembrano dei grandi passi avanti.»
Rimasi in silenzio senza sapere cosa dire e in quel momento mio padre tornò a sedersi.
«Scusate, c’è stato un piccolo imprevisto…»
Quindi devo andarmene, continuate senza di me; finii la frase nella mia mente.
«… Ma ora è tutto risolto, stavamo dicendo?»
Strabuzzai gli occhi sorpreso dalle sue parole, Lennon aumentò la presa sulla mia mano e mi lanciò uno sguardo complice.

Forse aveva ragione, ero troppo duro con mio padre. Forse meritava un’altra possibilità.

-

Da quanto non aggiorno? AHAHA
Scusate per il ritardo ma non avevo il capitolo pronto, in realtà questo l'ho finito di scrivere ieri ma poi ho dovuto finire anche quello successivo perché mi serviva per lo spoiler e quindi eccomi qua ad aggiornare adesso uù
La storia sta volgendo alla fine, potete accorgervene benissimo anche voi visto che i giorni sono 10 e noi siamo all'ottavo. 
Questo capitolo mi piace particolarmente, anche perché ieri vagando su Tumblr ho trovato la gif perfetta di quando Lennon esce dal bagno e Harry l'ammira. Cioè, guardate la perfezione:

 


 

Cioè, è asdfghjytgvfdeswsdfres *-*
Ah, poi, vi ricordate quando voi pensavate dallo spoiler che Lennon e Harry si sarebbero baciati e invece lei gli toccava le fossette? Ho la gif anche per quella scena! Fate solo finta che Zayn sia Lennon HAHAHAHA:

 


(non fate caso a Liam che alza la maglietta ad Hazza, Lennon non è così purscela ahaha)

Ma tornando a noi, il prossimo capitolo credo che non vi piacerà molto, ma fa niente. Vi ricordate di Oliver e che vi avevo detto di non dimenticarlo? Ecco, ho detto abbastanza.
Vedrò di aggiornare prima dato che è già pronto ma ovviamente prima di postare devo scrivere anche il giorno 10 (che è l'ultimo çwç) così da darvi lo spoiler e... Non so se ne avrò la forza. Per quanto sia corta questa storia mi ci sono affezionata molto e mi scoccia finirla. Però vabbè, ci sarà anche l'epilogo dopo! haha
Tornando a noi... Niente, mi dimentico sempre che se volete essere avvisati su Twitter offro anche questo servizio ahah basta che me lo dite lì (
@xkeepclimbing) o nelle recensioni, vedete voi.
Ora vi lascio, ho anche postato una one-shot su Hazza se volete passare!
Grazie mille per le recensioni, fatemi sapere che ne pensate anche di questo capitolo!
Jas



 


«Lennon non prendermi per scemo» dissi, cercando di mantenere la calma, «so di Oliver» continuai serio.


 



 

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Capitolo 10
*** Giorno 9 ***






 

Giorno 9
 

30 Dicembre

Lennon

 

Mi appoggiai al carrello ed osservai Harry esaminare attentamente tutti i pacchetti di caramelle esposti sullo scaffale che aveva davanti. Si voltò di scatto verso di me prima di sorridermi: era felice come un bambino, glielo si leggeva negli occhi.
«Haribo alla coca cola o Haribo alla frutta?» domandò poi.
Mi avvicinai a lui spingendo il carrello mezzo vuoto e scrutai i due pacchetti di differente tipo che mi indicava, storsi la bocca pensierosa.
«Non saprei» ammisi poi, «è la tua di tradizione, quella di mangiare Haribo a Capodanno.»
Harry mi scrutò corrucciato, «cosa vorresti insinuare?»
«Niente, però non puoi dirmi che non sia buffo», risi.
Anche lui si lasciò scappare un sorriso, rendendosi probabilmente conto che avevo ragione.
«Nel dubbio prendiamo entrambi», e buttò i due sacchetti nel carrello.
Continuammo a gironzolare a vuoto per gli scaffali, io che osservavo attentamente tutto ciò che era in offerta ed Harry che decideva di comperare qualunque cosa gli capitasse per mano.
«Cosa mangiamo per il cenone?» chiesi, ad un certo punto.
Harry si arrestò e si voltò a guardarmi confuso, «solitamente è Carmela che si occupa di tutto, non ne ho idea.»
Strabuzzai gli occhi, «anche a Capodanno? Ma… La sua famiglia?»
Lui si strinse nelle spalle, «prenderà gli straordinari.»
Gli tirai un pugno sul braccio che ovviamente Harry non sentì nemmeno lontanamente, «che ne dici se cucinassi io per quest’anno?» proposi.
Lui scoppiò a ridere esageratamente, battendosi teatralmente una mano sulla pancia, «sono troppo giovane per morire!»
Gli feci una linguaccia, «si vede che non mi hai mai vista ai fornelli» dissi, stizzita.
Harry mi cinse le spalle con un braccio e mi attirò a sé, «e dimmi, cosa mi cucineresti?» mi sussurrò quasi.
«L’anno scorso sono andata in Italia, da degli amici di famiglia» spiegai, «e là si usa mangiare le lenticchie per Capodanno, si dice portino fortuna.»
Vidi Harry fare una smorfia disgustata, «che schifo» borbottò poi.
«Ma se non le hai mai mangiate!» lo ripresi.
«E tu che ne sai?!»
Ci pensai su un attimo, «lo so e basta!»
«Comunque non le ho mai mangiate» ammise lui dopo un attimo.
«Visto?»
Harry alzò gli occhi al cielo senza tuttavia aggiungere altro.
«Allora cucini tu?» domandò poi.
«Se vuoi…» bofonchiai.
«Va bene» concesse, «ma dopo la cena cosa facciamo?»
Alzai le spalle, «cosa vuoi fare?»
«Sei tu la guida di Parigi.»
Ripensai a come avevo trascorso la notte di San Silvestro l’anno precedente e per un attimo un senso di malinconia e tristezza si impossessò di me. Mi sforzai di sorridere e dissi ad Harry la mia, di tradizione.
«Io solitamente vado a vedere la Tour Eiffel dal ponte vicino alla fermata della metro di Champ De Mars, ma potremmo fare qualunque cosa ci salti in mente quest’anno.»
Lui rimase in silenzio un attimo, come se stesse contemplando la mia risposta, «mi sembra una cosa molto romantica» sussurrò poi al mio orecchio, facendomi rabbrividire. Mi voltai a guardarlo, e per un attimo mi persi nei suoi occhi quasi trasparenti.
«Dobbiamo rimediare al fatto che tuo padre ieri non se n’è andato prima del dovuto e che quindi non ci ha lasciato fare la nostra cena a lume di candela» scherzai.
Harry sorrise prima di darmi un leggero bacio sulle labbra, «sei diabolica» sorrise.
Gli accarezzai i capelli e feci scorrere la mano sulla sua guancia destra prima di riprendermi dal contemplarlo e spingere il carrello alla ricerca delle lenticchie.
 

Harry

 
«Hugh Grant è un figo» disse decisa Lennon, senza distogliere gli occhi dal televisore e mangiando una manciata di Haribo alla coca-cola.
Avevo fatto bene a comperarne due pacchetti visto che uno avevamo deciso di divorarne uno intanto che guardavamo Love Actually,  mentre l’altro di tenerlo per la sera successiva.
«Tu dici?» domandai io, con la bocca piena.
Lennon si voltò di scatto, scrutandomi con i suoi occhi chiari, «vorresti dire che non è bello? Verrei a Londra solo per lui.»
«E per me no?» chiesi, impulsivamente.
La vidi irrigidirsi, avevo involontariamente tirato in ballo un argomento che era un tabù per noi, mi maledii mentalmente. Perché rovinare il poco tempo che ci rimaneva da trascorrere insieme con queste cose? Mi chiesi. Discuterne o meno non avrebbe cambiato i fatti, alla fine.
Un silenzio imbarazzante e carico di ansia cadde tra di noi, proprio mentre Billy Mack si metteva a cantare Christmas Is All Around.
Non riuscii a trattenere un sorriso nel vedere la scena, quello era a mio parere il film più bello di tutti i tempi e per quanto quel momento non fosse esattamente il più adatto mi fu impossibile trattenere una smorfia.
Lennon si fece contagiare dall’allegria e si lasciò scappare anche lei un sorriso.
«Comunque» dissi, per un attimo divertito dalle facce compromettenti di Billy Mack, «non saremo dall’altra parte del mondo, le risorse non mi mancano, verrò qua anche tutti i fine settimana se sarà necessario» conclusi serio.
Ormai la canzone era un suono lontano per me, in quel momento volevo solo mettere in chiaro le cose. Sarei partito nel giro di due giorni ma quello non avrebbe influito sulla relazione mia e di Lennon, sempre che ne avessimo una, di relazione.
La vidi annuire contenta dalle mie parole, gli occhi le brillavano di gioia, istintivamente le presi il viso tra le mani e la baciai con foga, poi mi staccai lievemente e la osservai sorridente.
Era bellissima, bellissima e perfetta. Simpatica, dolce, testarda al punto giusto, divertente e… Sospirai, cercando le parole giuste da dirle nonostante io fossi sempre strato una frana nel parlare e nell’esprimere i miei sentimenti.
«So che ti sembrerà troppo presto da dire» iniziai, «però io…»
«Harry!»
La voce stridula di Carmela mi interruppe, sia io che Lennon sussultammo, «scusa un attimo» dissi, alzandomi dal divano per dirigermi in cucina.
«Che c’è?» le chiesi, piuttosto alterato.
«¡Dios mío Harry!» esclamò lei, «che succede?»
Scossi la testa calmandomi, «niente, avevi bisogno?» domandai poi, cercando di mostrarmi gentile.
Carmela annuì, «volevo sapere per domani, allora vi arrangiate?»
«Sì, cucina Lennon» le spiegai, per l’ennesima volta.
Lei non fece caso al tono piuttosto scocciato della mia voce, si limitò a sorridermi a trentadue denti e a darmi un buffetto sulla guancia, «sono troppo felice per te!» esclamò, «allora non preparo niente per domani, faccio solo la cena per stasera.»
Annuii, «dimmi se hai bisogno» aggiunsi, prima di tornare in salotto e buttarmi sul divano.
«Tutto bene?» mi domandò Lennon, masticando l’ennesima caramella.
«Sì, non si ricordava più cosa doveva fare per domani sera, te l’ho detto io che l’avresti scombussolata di più dicendole che poteva andare a casa!»
Lennon mi diete una leggera spinta, «smettila di sparare cavolate!»
Le bloccai le braccia e la spinsi sul divano, sovrastandola e ridendo nel vedere il suo viso spaventato: era in trappola.
«Cosa vuoi fare?» domandò allarmata.
Alzai un sopracciglio divertito prima di cominciare a farle il solletico ovunque, lei prese ad agitarsi come in preda alle convulsioni pregandomi di fermarmi.
«Harry ti prego smettila!» mi scongiurò tra una risata e l’altra, ma io non l’ascoltai e continuai indisturbato fino a quando Lennon, nel muoversi, mi diede una ginocchiata tra le gambe.
«Ahia!» gridai, perdendo l’equilibrio dal divano e cadendo sul tappeto.
«Non vale!» la ripresi, «non si toccano i gioielli di famiglia!»
Lei scoppiò a ridere, guardandomi divertita, «ti sta bene, la prossima volta impari a tenere le mani a posto Styles!» mi rinfacciò, prima di prendere il suo cellulare che aveva lasciato sul tavolino ed alzarsi. «Devo andare su Skype che Jacqueline mi ha chiesto di connettermi» spiegò, prima di trotterellare allegra verso camera mia.
 
«Harry è pronto!» mi gridò Carmela dalla cucina, mi alzai dal divano sul quale ero seduto da più di un’ora per trasferirmi al tavolo.
«Lennon?» chiesi poi, vedendo la sua sedia vuota.
Carmela si strinse nelle spalle, «se non lo sai te.»
Sospirai alzandomi dalla sedia per andare in camera mia a chiamarla, probabilmente era ancora al telefono con la sua amica, pensai.
Quando arrivai davanti alla porta della stanza, la trovai socchiusa. Appoggiai una mano sulla maniglia per aprirla di più ma mi arrestai nel sentire la voce frustrata di Lennon.
«Perché lo devi sempre tirare in ballo?» chiese, capii chiaramente che era sul punto di piangere.
«Lo ami ancora?» Questa era Jacqueline.
Lennon rimase in silenzio, di chi stavano parlando?
Forse non erano affari miei, non era corretto origliare le conversazioni altrui ma il buonsenso non era abbastanza da prevalere sulla curiosità. C’era qualcosa che Lennon mi stava nascondendo? E cosa stava a significare quell’ancora? Sicuramente non stavano parlando di me, ne ero certo, ma allora di chi?
«Possiamo non parlarne ora?» chiese lei.
Jacqueline sospirò, perché si sentì uno sbuffo strano, probabilmente causato dal microfono che usava per parlare attraverso Skype.
«Va bene, però se fossi in te ne parlerei con Harry, non mi sembra giusto nascondergli di Oliver.»
Lennon non le rispose, «devo andare a cena, ho sentito Carmela gridare. Ci sentiamo Jackie, divertiti» disse atona.
Mi voltai per andarmene di lì prima che mi scoprisse origliare ma andai addosso a mio padre.
«Figliolo non vieni? E’ pronto.»
Annuii, in quel momento la porta alle mie spalle si aprì, mi voltai di scatto incrociando lo sguardo di una Lennon piuttosto distrutta.
«Da quanto sei qui?» domandò seccata.
«Vi aspetto di là» s’intromise mio padre, dileguandosi.
«Cos’aspettavi per dirmi che hai il ragazzo?» ribattei io, infuriato.
Lei strabuzzò gli occhi, completamente sorpresa dalle mie parole, «cosa stai blaterando?» alzò la voce.
«Lennon non prendermi per scemo» dissi, cercando di mantenere la calma, «so di Oliver» continuai serio.
Lei si passò una mano tra i capelli guardandosi in giro ed evitando il mio sguardo.
Poi prese un respiro profondo e si decise a parlare, «facciamo finta che non sia successo niente, okay? Che tu non abbia ascoltato cose che non ti riguardano e che non sappia niente, andiamo a mangiare dai» cercò di persuadermi, avviandosi verso la sala da pranzo.  
La presi per un polso e la bloccai, attirandola a me, infuriato.
Come osava trattari come uno zerbino? Prendermi così in giro e poi pretendere che io facessi finta di niente?
«Stai scherzando spero!» esclamai, «dici di amare un altro ragazzo e poi pretendi che io faccia finta di niente? Ti prego dimmi che siamo circondati da telecamere e sono su Punk’d o un’altra stronzata del genere perché non posso credere alle mie orecchie!»
«Harry…» mi chiamò lei, con voce bassa.
«Harry un cazzo!» gridai questa volta, mi passai una mano tra i capelli esasperato e presi a misurare a grandi passi il corridoio prima di fermarmi di nuovo davanti a lei.
«Io… Non ci credo…» sussurrai più a me stesso che altro, «prima stavo quasi per dirti che… Che ti amavo!» sputai, «e neanche due ore dopo cosa scopro? Che questa è tutta una presa per il culo! Dov’è questo Oliver? Dov’è stato per questi nove giorni? Vi incontravate la notte? Perché mi pare che abbiamo passato insieme praticamente tutte le giornate. E cosa gli hai raccontato per giustificare il fatto che andassi a dormire a casa di un altro ragazzo? Pensa che tu sia da tua zia?»
Cominciai a parlare così velocemente che mi accorgevo a malapena delle cose che mi uscivano dalla bocca, sorrisi amaramente. «Presumo che tu sia un genio in queste cose, però. Hai preso in giro me per così tanto tempo e indovina un po’? Ci sono cascato in pieno, brava Lennon!» mi complimentai sarcastico, battendo alcune volte le mani.
Lennon mi osservava immobile, con un’espressione indecifrabile dipinta sul viso. Sembrava una mummia, solo quando smisi di parlare notai che il labbro inferiore le tremava, era sull’orlo delle lacrime.
«Oliver è morto un anno fa» disse semplicemente, prima di prendere la sua giacca dall’attaccapanni lì vicino ed andarsene.

-

TADAAAAN!
Ed ecco che finalmente si scopre l'identità di Oliver, siate sincere: ve lo aspettavate? Spero di no asdfghgtrf
Comuunque, scusate per l'eventuale ritardo nel postare ma nelle vacanze sono stata.... Indovinate dove? PARIGI! AHAHAHA
Che poi, sono andata nella zona dove, ipoteticamente, abita Lennon, zona nella quale non ci vado praticamente mai perché è tipo dalla parte opposta rispetto a dove ha la casa mio papà e poi sono passata davanti al ristorante in cui Lennon, Harry e suo papà sono andati a cena. Se devo essere sincera l'ho trovato googlando "ristorante più chic di Parigi" poi per curiosità ho anche guardato in che zona era e l'altra sera ci sono passata davanti e l'ho visto dal vivo! Vi giuro che ero gasatissima! ahaha
Ma tornando a noi, durante il viaggio ho finito di scrivere la fan fiction, sono tristissima çç Però in compenso ne ho già iniziata un'altra e sto scrivendo già il decimo capitolo però credo che la posterò quando avrò pubblicato anche tutta Give Me Love, giusto per farvi incuriosire un po' vi lascio sotto il banner meraviglioso che mi ha fatto l'Agata e un piccolissimo spoiler
:D
Detto questo, mi dissolvo. Fatemi sapere che ne pensate! Ci tengo davvero, grazie mille per recensire la storia e metterla tra tutte quelle cose in cui si può mettere hahaha
Un bacio, Jas.



 


«Buon anno, Harry» mi sussurrai da solo, osservando la folla che rideva, scherzava, si abbracciava, stappava bottiglie di spumante, e augurava un buon anno a chiunque si trovasse davanti.


_____________________________________




«Non ne ho idea, l'ultimo ricordo che ho di ieri sera è Louis che mi dice di sedermi sul divano e smetterla di bere. Però le circostanze suggeriscono quello» ammise divertito.
Aprii la bocca per dire qualcosa ma le parole mi morirono in gola, sentii gli occhi pizzicarmi, non era possibile che la prima volta in vita mia che bevevo, la situazione degenerava così tanto.
«I-io... Devo andare» blaterai, guardandomi in giro senza sapere bene cosa fare.

 

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Capitolo 11
*** Giorno 10 ***






 

Giorno 10

 

31 Dicembre

Lennon

 
Quella mattina nevicava, di nuovo. Ma in quel momento neanche i numerosi e leggiadri fiocchi bianchi che cadevano dal cielo avrebbero fatto si che il mio umore cambiasse. Ero depressa, sola il giorno di Capodanno ed avevo rovinato tutto anche con la sola persona che era riuscita a farmi trascorrere le più belle vacanze di Natale della mia vita: Harry.
Non avevo idea del perché gli avessi mentito, infondo io non ero responsabile di ciò che era successo, mi ci ero semplicemente trovata in mezzo. Oliver era il ragazzo che tutte sognavano, bello, in gamba, un po’ stronzetto forse, ma la cosa che più mi aveva presa di lui era stato il fatto che fosse un musicista. Lo avevo conosciuto in primavera, una mattina in cui al posto di andare a scuola avevo gironzolato a vuoto per la città con Jacqueline. Eravamo andate a Montmartre e Oliver e alcuni suoi amici avevano improvvisato un concerto per racimolare un po’ di soldi che avrebbero utilizzato per i loro vizietti. Li avevamo ascoltati rapite dalla loro bravura, Oliver non mi levò gli occhi di dosso per un secondo così come io feci lo stesso con lui. Iniziammo a frequentarci e, durante l’estate, mi chiese di diventare la sua ragazza. Sapevo che non era la persona migliore del mondo, era pieno di difetti, una famiglia disastrata, usciva tutte le sere e rincasava ad orari indecenti. Beveva tanto, troppo per un ragazzo di soli diciott’anni, fumava, se la spassava per bene, e ai miei ciò non andò mai a genio. Non potevo biasimarli, capivo anch’io la loro situazione ma a me Oliver piaceva, tanto, forse troppo. Mi faceva penare a volte, ma mi faceva incazzare era tanto quanto mi faceva sentire viva quando ci si metteva d'impegno. Quando mi dedicava canzoni, prendeva la sua macchina che a malapena stava insieme e mi portava in giro, così, giusto per il gusto di farlo, oppure quando mi regalava dei fiori, o mi faceva correre sotto la pioggia perché lui di ombrelli non ne voleva e non ne lasciava usare nemmeno a me.
Sorrisi a quella marea di ricordi che mi investirono come un fiume in piena e una lacrima mi sfuggì al controllo.
Non avevo detto nulla ad Harry perché forse mi faceva ancora male parlarne, non riuscivo a raccontare a nessuno come un incidente in macchina me lo avesse portato via, era impensabile poi farlo con il ragazzo che era riuscito a farmi andare avanti. Era passato ormai poco più di un anno dalla morte di Oliver, e da allora nessun ragazzo mi si era mai avvicinato, un po’ perché venivo considerata da tutti come una sottospecie di “vedova” e un po’ perché ero io che non lasciavo avvicinarsi nessuno.
Harry però si era presentato così, su due piedi, in panetteria, e con il suo sorriso sghembo, i suoi capelli senza una precisa forma e quegli occhi che così belli non ne avevo mai visti, mi aveva ipnotizzata. Mi era parso di tornare a respirare, dopo quattordici lunghi mesi di apnea, e non avrei permesso a nessuno, per nessun motivo, di rovinarmi quel momento. Forse era per quello che gli avevo mentito, non volevo che sapendo la verità il nostro rapporto potesse cambiare e che lui iniziasse a considerarmi proprio come facevano tutti.
Posai la tazza di caffè ormai  vuota nel lavandino, e il rumore riecheggiò a lungo nella casa avvolta nel silenzio. In quel momento la suoneria del mio cellulare irruppe in quella quiete, quasi angosciante, e allungai il braccio verso il tavolo per poter rispondere.
«Pronto?»
«Tesoro tutto bene?» era mia madre.
Mi sforzai di mostrarmi il più allegra possibile, nonostante in quel momento mi fosse praticamente possibile farlo.
«Sì tutto bene, sono tornata a casa stamattina per prendere dei vestiti, poi torno da Harry» mentii, ma mai e poi mai le avrei raccontato del nostro litigio.
«Oh, bene. Ti ho chiamata solo per sapere come stavi e per augurarti buon anno. Stasera andremo in quel posticino sull’oceano che piace tanto a papà e sai che lì il telefono non prende tanto bene quindi nel caso non riuscissimo a chiamarti, buon anno.»
Sorrisi e mi asciugai velocemente un’altra lacrima che prese a scorrermi sul viso, «grazie mamma, anche a te e a tutti, salutami gli zii.»
«Certo, lo farò. Divertiti stasera con Harry e fai gli auguri anche a lui!»
«Va bene mamma, ciao» e prima che scoppiassi a piangere, riattaccai.
 
Mi faceva strano vedere tutte quelle lapidi ricoperte di neve. Il cimitero era sempre stato un posto macabro per me, e vederlo tutto bianco mi dava una strana sensazione. Procedetti lentamente per il sentiero di neve calpestata da chi, probabilmente, aveva fatto visita a qualche caro prima di me. C’era un silenzio quasi assordante, in quel posto, una leggera nebbia avvolgeva tutto il cimitero conferendogli un’aria buia, aiutata dalle nubi che coprivano il cielo ma in contrasto con la neve che giaceva per terra.
La tomba di Oliver era ricoperta di fiori, come sempre, la sua foto pure, ma di neve. Tolsi una mano dalla tasca del cappotto per pulirla, scoprendo la sua faccia sempre sorridente e quegli occhi da cerbiatto, vispi e furbi, proprio come lui.
Mi inginocchiai, ignorando la neve che mi faceva congelare le gambe, coperte soltanto dalle calze nere che indossavo sotto il vestito, e appoggiai un mazzo di garofani bianchi sulla sua tomba, stando attenta a non calpestare gli altri fiori.
Rimasi in quella posizione per un tempo infinito, ogni volta che andavo a trovare Oliver mi perdevo nei meandri dei miei pensieri e a volte mi sembrava di rimanere lì per pochi minuti quando in realtà ci restavo per ore. Il buio che cominciava a farsi sempre più pesto mi costrinse ad alzarmi di lì, pulendomi le ginocchia dalla neve, e a uscire dal cimitero. Mi tastai le tasche del cappotto alla ricerca del cellulare per vedere che ore fossero, ma queste erano vuote. Avevo dimenticato il telefono a casa.
 

Harry

Vuoto. Ecco come mi ero sentito quella mattina mentre facevo la doccia, colazione, guardavo la tv dove trasmettevano film scadenti con tematiche natalizie che avevo visto un milione di volte. Ero anche solo in casa, avevo sentito mio padre parlare al telefono verso le nove, mentre si dirigeva verso la porta di uscita. Carmela non c'era, visto che quella sera il cenone lo avrebbe dovuto preparare Lennon. Ma neanche Lennon era lì.
Era pomeriggio, o forse sera. Fuori era ormai buio ma non avevo idea dell'ora precisa perché ero finito per perdere la cognizione del tempo, ma la neve non aveva mai finito di scendere e guardando fuori dalla finestra non si vedeva che una nebbia fitta e grigia. Mi alzai dal divano, stando attento a non calpestare il pacchetto ormai vuoto di patatine e alcune lattine di coca-cola che erano state anche il mio pranzo. In quel momento il mio cellulare, abbandonato in camera, prese a suonare. Attraversai il salotto e poi il corridoio come se avessi corso una maratona e fossi ormai in vista del traguardo, rischiai di inciampare nel tappeto non appena mi arrestai davanti alla porta e mi buttai sul letto per raggiungere il telefonino appoggiato sul comodino.
Quando lessi il nome di Liam sul display, sentii un moto di delusione pervadermi, ma infondo come avevo potuto pensare che sarebbe stata Lennon a chiamarmi? Le avevo urlato contro, dato della traditrice e della falsa nella convinzione che avesse un ragazzo di cui mi aveva nascosto l'esistenza quando in realtà il ragazzo in questione era morto. Mi ero scervellato tutta la sera precedente e anche la notte cercando di trovare i motivi per cui mi avesse nascosto una cosa così importante ma non ero giunto ad alcuna conclusione. Che c'era di male nell'aver subito un lutto? Anzi, magari avrei anche cercato di aiutarla, nonostante non fossi pratico nel consolare le persone. Ricordandomi in quel momento del telefono che mi suonava in mano, risposi portandomelo all'orecchio.
«Pronto?»
«Avevo paura mi rispondessi in francese!» esclamò Liam, con la sua voce profonda.
Risi, rendendomi conto che in effetti era da parecchio che non lo sentivo, e che cominciava a mancarmi.
«Come stai?» gli chiesi.
«Io e gli altri ragazzi ce la stiamo spassando alla grande, siamo in Scozia, nella casa dei nonni di Niall e passiamo le giornate andando con lo snowboard, quindi direi da Dio. Te invece? Com'è nella città dell'amour?»
Sospirai, ci mancava solo Liam a ricordarmi per l'ennesima volta che ero un coglione.
«Da schifo» borbottai.
«Come? Fino ad alcuni giorni fa non sembrava che la pensasti così» mi ricordò lui.
«Hai presente quella ragazza che ti avevo detto?»
Avevo parlato a Liam di Lennon durante la nostra ultima chiamata e cioè il giorno stesso in cui l'avevo conosciuta.
«Ci ho fatto amicizia» aggiunsi.
«Oh, bene! Allora perché va da schifo?» domandò lui.
«Ci siamo anche baciati» continuai, e in quel momento un coro di "oooh" mi costrinse ad allontanare l'iPhone dall'orecchio per evitare di perdere l'udito.
Liam rise, «mi sono dimenticato di dirti che sei in viva voce. Louis, Zayn e Niall ti stanno ascoltando.»
«Hazza non perde tempo!» esclamò Zayn, ancora divertito.
Scossi la testa senza tuttavia riuscire a trattenere un sorriso, «ciao ragazzi» li salutai poi.
«Scusa se ti abbiamo interrotto» questo era Niall, «continua col tuo racconto» mi spronò poi.
Sospirai, incupendomi di nuovo. «Ieri abbiamo litigato, ho fatto ma figura di merda» spiegai, passandomi una mano tra i capelli,  «l'ho sentita parlare al telefono con una sua amica riguardo un ragazzo, io pensavo che fosse fidanzata e che non mi avesse detto niente e invece...» le parole mi morirono in gola.
«Invece?» ripeterono loro in coro, pendevano dalle mie labbra.
«Stavano parlando del suo, credo si dovrebbe definire ex ragazzo, che è morto poco più di un anno fa» conclusi.
Qualcuno soffocò una risata, e poi ricevette un cazzotto - presumo da Liam - perché lo sentii gemere.
«Quanto sei coglione» fu il commento di Louis.
«Solidale come sempre» lo punzecchiai.
«E non l'hai più sentita?» s'intromise Liam, preoccupato.
«No, se n'è andata ieri sera e da allora non ho più notizie» bofonchiai.
«E cos'aspetti, scemo?» mi spronò Niall, che probabilmente stava mangiando dato che feci fatica a capire le sue parole.
«Cosa dovrei fare?» strillai quasi, sentendomi preso di mira.
«Andare da lei!» mi gridarono tutti in coro.
Farfugliai qualcosa di insensato, completamente preso alla sprovvista dalla loro reazione.
«Ora!» aggiunsero, di nuovo in contemporanea.
Sembrava si fossero messi d'accordo.
«Sono le otto di sera, magari entro l'anno nuovo, che ne dici?» mi prese in giro Louis.
«Okay ragazzi, grazie. Io...»
«Corri!» rise Liam, seguito dagli altri.
«Okay ciao» e riattaccai.
In fondo avevano ragione. Non avrei concluso niente standomene sdraiato sul divano a guardare film e mangiare porcate come una ragazzina. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa da mettere ma avevo ormai messo nelle valigie tutti i miei vestiti tranne quella tuta sgualcita che avevo indosso e con la quale non mi sembrava il caso di andare in giro, e lo smoking che aveva scelto Lennon e che avrei dovuto indossare quella sera. Decisi di mettere quello, mi vestii in fretta e furia senza disturbarmi di legare il papillon, presi il cappotto ed uscii di casa.
«Harry dove vai?»
Mi voltai di scatto e incrociai mio padre, appena uscito dall'ascensore, mentre io avevo deciso di usare le scale.
«Da Lennon» dissi con già il fiatone, data la mia poca atleticità.
Lo vidi sorridere, «meno male che hai preso da tua madre, vai, vorrà dire che quello a cenare da solo per questa volta sarò io» scherzò.
Gli sorrisi grato, stavo per andarmene ma mi venne l'impulso di andare da lui ed abbracciarlo.
«Scusa papà» mormorai poi.
«Scusami tu figliolo, ma ora vai, che non è galante fare attendere le signorine.»
Annuii quasi commosso e poi corsi giù per le scale, saltando qualche gradino ogni tanto, diretto verso la fermata della metro. Non avevo mai visto la città così affollata, dovevo farmi spazio a forza di spintoni tra la gente e quando notai la coda che c'era per fare il biglietto capii che quella non sarebbe stata la via più veloce.
Salii di corsa le scale e ritornai al freddo parigino, nevicava ancora, ma ormai i fiocchi erano piccoli e radi, quasi invisibili. Mi avvicinai al marciapiede di Rue de Rivoli e osservai il traffico intasato dalla neve, dai semafori e dai numerosi turisti che attraversavano la strada imperterriti. Avvistai un taxi che accostò di fronte a un negozio e fece scendere una famiglia, ero indeciso se fermarlo o no ma notando come procedevano lentamente le macchine capii che avrei fatto prima ad andare a piedi. Mi voltai a destra, verso casa di Lennon, e decisi che una camminata non mi avrebbe fatto male. Cercai di ripensare a ciò che mi aveva detto, quella strada continuava diritta fino a dove abitava lei, più o meno. Non sarebbe stato difficile arrivarci. Cominciai a camminare a passo sostenuto, non correvo solo perché sapevo che sarei finito per cadere per terra stremato. Presi il cellulare dalla tasca e cercai il suo numero, forse era il caso di provare a chiamarla. Mi accorsi che le mani mi tremavano, mentre scrivevo il suo nome nella rubrica, ero in ansia, avevo paura che lei mi avrebbe rifiutato e mandato a quel paese, e che l'avrei persa, se già non lo avevo fatto.
Uno squillo...
«Dai rispondi...» mormorai, mentre guardavo a destra e sinistra prima di attraversare la strada.
Due squilli...
Sospirai, alzando gli occhi al cielo grigio, plumbeo.
Tre squilli... Quattro squilli... Cinque squilli... Segreteria.
«Fanculo!» sbottai, mentre la voce registrata di Lennon mi invitava a lasciare un messaggio.
«Lennon ti prego rispondi» la scongiurai, «sono stato un coglione, lo so, e mi dispiace per quello che ti ho detto io... Non sapevo cosa ti fosse successo e ho frainteso tutto, posso capire se tu non mi vuoi rispondere ma ti prego, fallo. Devo parlarti.»
Omisi il fatto che stessi andando a casa sua, probabilmente sarebbe scappata o non mi avrebbe nemmeno risposto.
 
Cercai di riprendere fiato, prima di suonare al citofono. Quando avevo visto il suo palazzo in lontananza non ero resistito all'impulso di correre e ora sentivo i polmoni reclamare aria e il cuore scoppiarmi nel petto, un po' per lo sforzo e un po' per l'ansia. Presi un respiro profondo e citofonai, attendendo che Lennon mi rispondesse. Non poteva sapere che ero io, avrei imitato un'altra voce fingendomi il postino a costo di farmi aprire, ma non rispose comunque nessuno. Mi sporsi verso l'esterno e alzai gli occhi verso le finestre che sapevo essere di casa sua, ma non c'era nessuno affacciato e se io mi appiccicavo al portone era impossibile vedermi. Ritentai, forse era sotto la doccia, o forse stava dormendo e non mi aveva sentito, oppure...
In quel momento una signora anziana aprì il portone e mi guardò con aria interrogativa.
«Stai cercando qualcuno, giovanotto?» mi domandò
Annuii, sorpreso dalla sua domanda.
«Sto cercando Lennon, Lennon...» ci pensai su un attimo, come faceva di cognome?
Feci per voltarmi verso il citofono in modo da leggerlo ma la signora parlò.
«Sì certo, so chi è, ma non è in casa. È uscita alcune ore fa.»
Strabuzzai gli occhi sorpreso, dove poteva essere andata?
«Okay, beh, grazie signora» dissi gentile.
Lei mi sorrise, prima di incamminarsi lentamente sul marciapiede stando attenta a non scivolare sulle mattonelle ghiacciate. Mi passai una mano tra i capelli e decisi di andare nella direzione opposta rispetto a quella presa dalla vicina di casa di Lennon, senza una precisa meta.
 
La Senna scorreva indisturbata sotto i miei piedi, ero seduto su un muretto che dava direttamente sul fiume, con le gambe a penzoloni nel vuoto. La gente passava indisturbata alle mie spalle, sempre più felice dell'anno nuovo che ormai era alle porte, io invece avevo l'aria di un depresso. Se qualcuno con della segatura al posto del cervello avesse avuto la malsana idea di darmi una spinta sarei finito diretto nell'acqua gelata sotto di me, senza opporre resistenza. Starnutii per l'ennesima volta, avevo il sedere completamente congelato da quanto era freddo il muretto su cui ero seduto. Alzai lo sguardo ed osservai le luci della città davanti a me, un numero esorbitante di addobbi natalizi ma soprattutto, tanto caos. Caos delle macchine intasate nel traffico causato dalla neve decisamente abbondante che era caduta quest'anno, caos delle persone che ridevano, scherzavano e chiacchieravano allegre tra di loro. Caos del mondo che andava avanti mentre io sembravo essere rimasto indietro. Mi voltai a sinistra, la cattedrale di Notre-Dame sorgeva imponente sul suo isolotto in mezzo alla Senna, alla sua sinistra il quartiere di Saint-Michel, dove c'era il pub in cui mi aveva portato Lennon. Dove avevo conosciuto Jacqueline, Chantal e il resto della combriccola. Sorrisi ripensando a come aveva dato fastidio a Lennon il fatto che la sua "amica" non mi avesse levato gli occhi di dosso per tutta la sera, era adorabile vederla gelosa. Di me. Probabilmente non avrei più assistito ad una scena del genere, Lennon non si decideva a rispondermi al telefono nonostante l'avessi chiamata almeno una trentina di volte nell'arco di tutta la serata e inoltre io l'indomani sarei ritornato in Inghilterra. Quel pensiero che avevo sempre cercato di tenere lontano dalla mente mi colpì come un macigno, meno di ventiquattr'ore e avrei salutato Parigi, mio padre, ma soprattutto Lennon. Sempre se l'avrei trovata, visto che sembrava non avere la minima intenzione di parlare con me. Estrassi il telefono per vedere l'ora, erano le undici di sera ormai, possibile che fosse ancora in giro? Improvvisamente mi alzai, non ero più tornato a casa sua e probabilmente era lì, dove avrebbe potuto passare se no tutta la serata? Cominciai a correre nella direzione opposta rispetto a quella che avevo preso alcune ore prima, rischiai di cadere sulla strada ghiacciata e di attraversare col rosso un paio di volte. Quando arrivai davanti a casa di Lennon mi mancava il fiato ma allo stesso tempo mi si congelava la gola per tutta l'aria fredda che cercavo di immagazzinare. Suonai il citofono senza esitazioni, possibile che fosse ancora fuori? Probabilmente aveva qualche parente in città o qualche amico di cui non mi aveva mai parlato ed aveva deciso di trascorrere il Capodanno con loro, oppure...
Improvvisamente mi vennero in mente le sue parole del giorno precedente al supermercato, riguardo le tradizioni della notte di San Silvestro.
Non mi ero ancora ripreso dallo sforzo precedente che ripresi a correre ancora una volta per la strada percorsa alcuni minuti prima. Guardai l'ora, erano le 23.30 circa, a Lennon piaceva vedere la Tour Eiffel illuminarsi a mezzanotte da quel dannato ponte che si trovava esattamente dal lato opposto della città. Il traffico ormai era ingestibile, c'era un caos infernale causato dal suono dei clacson degli automobilisti incazzati, e un brusio generale, delle persone eccitate dall'arrivo dell'anno nuovo.
E io invece correvo, correvo davanti a tutto il Louvre, i giardini di Tuileries, dove ci demmo il nostro primo bacio, Place de la Concorde, il tunnel in cui era morta Lady Diana, al di sopra del quale sorgeva una fiaccola color oro, il Trocadero, dove avevo scattato la prima foto a Lennon, dove lei mi aveva toccato le fossette, dove non credevo che sarei stato ancora così felice. Invece poi arrivarono i giorni successivi, giorni in cui mi alzavo attivo, col sorriso sulle labbra e la consapevolezza che l'avrei rivista, che avremmo trascorso la giornata insieme, che l'avrei vista ridere, arricciare il naso, darmi spintoni quando dicevo qualcosa di sbagliato. Mi ritrovai a sorridere anch'io, al pensiero di quelle giornate spensierate.
Mi arrestai di colpo, ormai allo stremo delle forze, davanti alla Tour Eiffel. La gente aveva cominciato a fare il conto alla rovescia, capivo ben poco di francese ma quale sarebbe stato il motivo, se no, di dire qualcosa in coro? Non avevo idea di a che punto fossero, purtroppo non sapevo neanche contare in francese, ma avevo sicuramente meno di dieci secondi per raggiungere quel ponte illuminato da molti lampioni, alla mia destra. Ripresi a correre, nonostante ogni fibra del mio corpo mi pregasse di fare il contrario, e quando arrivai all'inizio di quel dannato ponte, un boato generale mi fece arrestare, di nuovo.
«Buon anno, Harry» mi sussurrai da solo, osservando la folla che rideva, scherzava, si abbracciava, stappava bottiglie di spumante, e augurava un buon anno a chiunque si trovasse davanti. Fui preso in considerazione da alcuni sconosciuti, che completamente incuranti dello stato in cui ero, mi avevano abbracciato e detto qualcosa in francese che, puntualmente, io non avevo capito. Mi limitai a sorridere e dire "merci" mentre attraversavo lentamente il ponte. Era pieno di gente, le probabilità di vedere Lennon erano alquanto scarse ma, soprattutto, nessuno mi aveva garantito che lei sarebbe stata lì. Quello era il mio ultimo tentativo, se fosse andato a vuoto, me ne sarei tornato a casa, senza la possibilità di fare altro.
Mi guardai in giro, facendo balzare velocemente lo sguardo da un volto all'altro, che puntualmente non si identificava come quello di Lennon. Poi la vidi.
Avvolta in un vestito nero, con delle scarpe col tacco che sicuramente le stavano torturando i piedi, affacciata sulla Senna, in direzione della Tour Eiffel, immobile. Mi arrestai anch'io, concentrato nel contemplarla. I capelli biondi legati in una crocchia leggermente disordinata erano mossi dal leggero venticello che tirava, la vidi rabbrividire e poi incrociare le gambe. Mi venne l'impulso di correre da lei ed abbracciarla, cercare di scaldarla col calore del mio corpo e percepire col mio naso congelato il suo profumo. Invece mi limitai ad avvicinarmi a lei lentamente, senza avere la minima idea di cosa fare o, peggio ancora, cosa dire.
Mi arrestai ad un metro da lei, alle sue spalle. Poi mossi un altro passo, senza tuttavia avvicinarmi troppo, non volevo spaventarla.
«Buon anno» le dissi poi.
Lennon si voltò, per nulla spaventata, forse sapeva che sarei arrivato, o semplicemente lo sperava. Così come io avevo sperato che lei fosse lì.
«Buon anno, Harry» mi rispose lei, con le stesse parole che mi ero detto io da solo alcuni secondi prima. Dalla sua bocca però facevano tutto un altro effetto.
«Sono in ritardo, come al solito» mormorai, togliendo le mani dalle tasche per congiungerle e cominciare a torturarmele, in preda al nervoso. «O forse sono semplicemente ritardato» continuai.
Lei sorrise lievemente, ma non troppo, le sue labbra si incresparono solo un po'.
«Mi dispiace per averti detto tutte quelle brutte cose, io...» abbassai lo sguardo, sentendomi uno vero schifo, sentendomi troppo un coglione per poterla guardare negli occhi.
Sentii la sua mano appoggiarsi sulle mie, alzai la testa di scatto sorpreso da quel gesto, lei scosse la testa.
«Avrei dovuto dirti tutto, mi dispiace averti nascosto la verità ma io...» la voce le si ruppe, e vidi i suoi occhi coprirsi di un velo di lacrime.
Senza lasciarle aggiungere altro la attirai a me e l'abbracciai, cercando di darle tutto l'amore che mi sentivo in quel momento, trasmetterle il mio dispiacere, il mio senso di colpa per aver prima aperto la bocca e poi pensato. Tutto.
«Stai tranquilla» le sussurrai, accarezzandole la schiena, «non è colpa tua se non te la sentivi di raccontarmi cosa ti è successo.»
Lennon tirò su col naso, «abbiamo sprecato un giorno, Harry. Uno dei pochi che già avevamo per stare insieme» borbottò lei, arrabbiata.
«Ti ricordi quello che ti ho detto ieri?» le domandai, accarezzandole i capelli. La vidi annuire. «Vale ancora» dissi deciso, e lei si staccò da me, scrutandomi con quegli occhi chiari circondati dal nero del trucco colato. Era bellissima comunque.
«Non cambierà niente tra di noi Lennon, lo giuro. Faremo in modo di far funzionare questa cosa, ho già rischiato di perderti una volta e non lo farò di nuovo.»
Lei non disse niente, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Sentii una scarica elettrica partire dal petto e pervadermi in tutto il corpo, mentre le nostre labbra gelate si incontravano, mentre le nostre lingue si cercavano sempre più avidamente e mentre sentivo le sue dita affusolate giocherellare con i miei capelli. Mi staccai a malavoglia da Lennon in cerca di ossigeno, un po' per il vortice di emozioni che provavo in quel momento e un po' per la corsa che avevo appena fatto e dalla quale non mi ero ancora completamente ripreso.
«Ti ho cercata ovunque oggi» dissi poi, Lennon si lasciò sfuggire un sorriso, «ho girato Parigi a piedi, vorrei precisare di corsa, e sono allo stremo delle forze» continuai, «ti avrò chiamata una cinquantina di volte e non mi hai mai risposto.»
«Ho dimenticato il cellulare a casa» si difese lei, stringendosi nelle spalle.
Spalancai la bocca sorpreso, se la mascella non fosse stata attaccata al viso probabilmente mi sarebbe caduta per terra, la presi per i fianchi e la attirai a me cominciando a farle il solletico, «Harry no!» gridò lei, cominciando a ridere a crepapelle. Smisi all'istante e la zittii baciandola con foga, la volevo, dannatamente. Volevo che lei fosse mia, esattamente come io mi sentivo suo. Ma volevo delle parole che sigillassero ciò, volevo sentirlo uscire dalle nostre bocche, volevo mettere le cose in chiaro.
«Lennon» la chiamai, lei mi guardò negli occhi lievemente preoccupata dal tono improvvisamente serio che avevo assunto.
«Sì?»
Sorrisi alla domanda che avevo appena formulato mentalmente, mi sembrava di essere tornato ai tempi delle elementari, dove si facevano queste proposte così formali.
«Vuoi essere la mia ragazza?» le chiesi, quasi divertito.
Il viso le si illuminò all'istante, allacciò le braccia al mio collo e si avvicinò a me, «sì, sì, sì!» continuò ad esclamare, tra un bacio e l'altro, risi stringendola a me e guardandola negli occhi.
Era stupenda, così felice, sorridente e spensierata. Quello era il momento giusto.
Feci per aprire la bocca ma lei mi anticipò, «cos'hai mangiato per il cenone?» mi chiese.
«Niente, ero in giro a cercarti, tu?»
«Anch'io non ho mangiato nulla, infatti ora sto morendo di fame» rise, portandosi una mano sullo stomaco che brontolava. «È arrivata Carmela?» continuò.
Scossi la testa, «non ho idea di che cosa abbia mangiato mio papà, sinceramente.»
Lennon rise, dandomi un leggero bacio sulle labbra, «ti amo, Harry Styles» mi sussurrò poi, così spensierata e spontanea come suo solito.
Sentii come dei brividi all'altezza dell'addome e improvvisamente il mio cuore prese a battere più velocemente, «sai, Carmela aveva ragione» dissi io. Lennon mi guardò interrogativa, non capendo le mie parole. «Il giorno in cui ti ho conosciuta» continuai, «mi ha detto che dieci giorni sarebbero stati più che sufficienti per innamorarsi, peccato che io ti amassi già dal primo.»
Lennon sorrise raggiante, prendendomi il viso tra le mani e baciandomi con trasporto, poi si staccò divertita, «sento qualcosa che si muove ai piani bassi» cinguettò maliziosa. Arrossii all'istante, sorpreso da tutta quella sfacciataggine da parte sua, «io...» cominciai a borbottare, imbarazzato.
Lennon rise, «non c'è niente di male, sai? Sono contenta di farti questo effetto» mi sussurrò, «io direi di andarcene da qua, sai com'è, ho la casa libera.»
Non riuscii a non sorridere anch'io, la attirai di nuovo a me e la baciai, la amavo, da morire, e non l'avrei più lasciata andare.

 -

Dovrò procurarmi un canotto perché la prossima volta che posterò starò annegando nelle mie lacrime çç.
Cioè, questo è il penultimo capitolo, ve ne rendete conto? Mi mancherà tantissimo questa storia :(
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, era ovvio che Lennon e Harry avrebbero fatto pace, se no la fan fiction non sarebbe stata mia HAHAHA
La frase di Harry che si era innamorato di Lennon già dal primo giorno che l'ha vista l'avevo in mente dal prologo, sinceramente non mi convince molto come l'ho "introdotta" però fa niente, ormai è così AHAHAHA
Aggiornerò entro fine della settimana prossima con l'epilogo, vi chiedo - come al solito - di farmi sapere che ne pensate, anche quelli che magari fino ad ora hanno letto in silenzio giusto per sapere che ci siete :)
Okay basta, la concludo qua se no comincio a deprimermi già da ora uù
Un bacio
Jas




 

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Capitolo 12
*** Epilogo ***






 

Epilogo

 

12 Febbraio

Harry

 
La campanella che annunciava la fine delle lezioni si fece sentire con un suono acuto e prolungato, il professore di francese sospese immediatamente la spiegazione e scrisse gli esercizi di compito alla lavagna mentre la classe era già in piedi e pronta ad uscire. Sorrisi e mi chiesi in quanti avrebbero svolto quei compiti. Non appena uscii dalla classe presi il telefono in mano e mi incupii nel vedere, o meglio, non vedere, alcuna chiamata o messaggio da parte di Lennon. Il primo quadrimestre era appena finito ed ero stato costretto da mia madre a studiare per non avere alcuna insufficienza, non avevo mai passato così tanti pomeriggi sui libri in vita mia e alla fine mi ero ritrovato con una sola materia non recuperata: francese. A causa dei numerosi impegni scolastici non ero riuscito a trovare nemmeno il tempo di andare da Lennon, erano tre settimane che non la vedevo. Avevo cercato di mantenere la promessa, ero andato a Parigi per due fine settimana dopo la mia partenza, volevo che le cose funzionassero ma mi rendevo anche conto che era difficile, più di quanto pensassi. Approfittando del cambio dell'ora decisi di chiamarla, sperando che anche lei in quel momento non avesse lezione, ma il suo telefono era spento. Strano, pensai, non appena rimisi il cellulare nella tasca dei pantaloni sentii qualcuno saltarmi in spalla.
«Ciao playboy!»
Risi, riconoscendo l'accento irlandese di Niall e scrollandomelo di dosso.
«Cosa fai in giro?» gli chiesi, rubandogli alcune patatine dal pacchetto che teneva in mano.
Lui alzò le spalle, «così, ma non abbiamo educazione fisica anche con gli altri adesso?»
Ci pensai su un attimo, «non ne ho idea.»
Niall mi cinse le spalle con un braccio, «Harry, Harry...» mi richiamò, «quella ragazza ti ha letteralmente fottuto la testa, da quando sei tornato da Parigi non mi sembri più te, sei sempre con la testa fra le nuvole, svampito...» scosse la testa, «non va bene così.»
«Non è vero» borbottai corrucciato, «è che... Ha il telefono spento» sospirai infine.
Niall alzò gli occhi al cielo, mentre cominciavano ad incamminarmi verso la palestra, «Harry capita a tutti di avere il telefono spento qualche volta, le si sarà scaricato, che ne sai? Stai diventando paranoico...»
Forse aveva ragione, ma mi mancava, da morire. Ero passato dall'essere uno dei ragazzi più popolari e ambiti della scuola al diventare una femminuccia quasi, ma non potevo farne a meno, era più forte di me.
«Questo sabato Cole organizza una festa di Carnevale, ci andremo e ci divertiremo come mai abbiamo fatto in vita nostra, okay?» mi propose Niall, speranzoso.
Ci pensai su un attimo, «ora che i compiti in classe erano finiti veramente io pensavo di andare da Lennon» borbottai timoroso.
Niall sbuffò, «sei diventato insopportabile, sappilo» mi accusò, prima di accelerare il passo e raggiungere gli spogliatoi, sbattendo per bene la porta alle sue spalle.
Alzai gli occhi al cielo prendendo di nuovo il telefono, nessun messaggio. Forse Niall aveva ragione, stavo diventando quasi ossessionato da quella ragazza ma... Non mi ero mai sentito così bene con una persona, sapevo che Lennon era quella giusta e per nulla al mondo l'avrei persa. Entrai anch'io nello spogliatoio e mi diressi verso il mio solito posto, accanto al quale Liam si stava già cambiando.
«Ehi Hazza» mi salutò allegro come al solito.
Gli sorrisi a malapena, prendendo la divisa di calcio dallo zaino e le scarpe.
«Niall è entrato alquanto incazzato» continuò.
Mi guardai in giro non vedendo l'irlandese, «dov'è?» gli chiesi a proposito, cercando di sviare l'argomento che sapevo volesse tirare in ballo.
«Non fare il finto tonto con me Harry, non funziona» mi riprese Liam duro, mentre si allacciava le stringhe.
Sospirai, «dovete smetterla di giudicarmi tutti, okay?» sbottai, alzando inconsapevolmente la voce. «Voi non avete idea di come io mi senta, non vi siete mai trovati nella mia situazione, okay?»
«Harry, ti capisco. Eccome» mormorò lui, semplicemente.
Alzai lo sguardo sorpreso, Liam era così, era in grado di farmi ragionare quando perdevo le staffe solo continuando a mantenere la calma. Lo conoscevo dall'asilo, se non prima, era come un fratello per me, anche con gli altri ragazzi ero particolarmente legato ma lui... Con lui era diverso, era così razionale, dispensava consigli a tutti e riusciva a farmi ragionare anche quando mi intestardivo come un mulo.
«Anch'io sono stato innamorato» continuò, sorridendo amaramente, era palese che si riferisse alla sua storia con Danielle, ormai finita da un pezzo. «E non ti critico per il tuo comportamento, anzi» continuò, «però ti stai facendo condizionare troppo.»
Sospirai, mi aspettavo una soluzione, non l'ennesima critica.
«E cosa dovrei fare?» domandai infastidito.
Liam alzò le spalle, «imparare a condividere con la distanza che c'è tra di voi, capire che comunque la vita va avanti e che non puoi pretendere che Lennon passi le giornate col telefono in mano perché tu potresti chiamarla da un momento all'altro, inoltre tu non puoi mandare all'aria tutto ciò che hai qui perché ogni fine settimana devi correre da lei. Tralasciando poi il fatto che tutto ciò ha un costo non indifferente...» spiegò.
Mi passai una mano tra i capelli alzandomi dalla panchina, le parole di Liam mi avevano messo in difficoltà perché infondo lui aveva ragione, «non la chiamerò fino a stasera» dichiarai poi.
Liam mi sorrise e mi abbracciò, dandomi una pacca sulla schiena, «è già un inizio. E poi,se questa Lennon è così speciale come dici, non ti lascerà scappare anche perché pure tu sei speciale a modo tuo.»
«Ci stai provando con me?» domandai divertito, ma tuttavia lusingato dalle parole di Liam.
«Oh sì Harolda!» esclamò lui in tutta risposta, palpeggiandomi il culo.
Lo scansai da me ridendo, «hai tendenze omosessuali, sappilo» lo ripresi, dirigendo mi verso la palestra.

 

Lennon

 
Decisi di chiudere gli occhi e cercare di fare un pisolino dato che ogni volta che arrivavo in prossimità di un incrocio venivo assalita dal panico. Come facessero gli inglesi a guidare al contrario lo sapevano solo loro, ripensai il comportamento di Harry a Parigi e di come lui invece non mi fosse sembrato per niente turbato nel vedere le macchine che, dal suo punto di vista, andavano al contrario.
Mi rilassai sul sedile posteriore del taxi, cercando di prepararmi psicologicamente a ciò che mi aspettava di lì a pochi minuti. Il viaggio dall'aeroporto a Holmes Chapel durava poco più di un'ora ed io ero lì da un'ora circa, doveva mancare molto prima dell'arrivo.
«Signorina ci siamo quasi» mi comunicò in quel momento il tassista, «dove la devo lasciare di preciso?»
Guardai l'ora, ero decisamente in anticipo per la famiglia così cambiai improvvisamente destinazione, «mi può portare alla scuola superiore?»
Il tizio annuì, sorridendomi gentile, «saremo lì in pochi minuti allora.»
Sospirai profondamente mentre indossavo giacca, sciarpa e berretto. Solo in quel momento mi accorsi di stare tremando, ero agitata al solo pensiero che di lì a poco l'avrei rivisto. Avrei risentito la sua voce roca e non solo per telefono, il suo respiro caldo, il suo profumo, avrei percepito di nuovo le sue labbra sulle mie, avrei toccato le sue fossette, i suoi capelli, avrei sentito le sue mani sul mio corpo. Un brivido mi pervase al solo pensiero.
Il taxi si arrestò davanti ad un cancello aperto che dava su un cortile immenso e oltre al quale si innalzava un edificio altrettanto imponente, fatto di mattoni rossi.
«Eccoci qua!» esclamò il tassista, scendendo dall'auto per aiutarmi col bagaglio. Mi resi conto in quel momento che forse non era stata una buona idea andare diretta dall'aeroporto alla scuola di Harry, senza nemmeno lasciare la valigia a casa, ma morivo dalla voglia di vederlo e poco mi sarebbe importato girare per la scuola come una barbona in cerca di rifugio. Pagai il tassista e presi il mio enorme bagaglio prima di attraversare il cortile. Le ruote del trolley facevano un rumore assordante sul cemento del viale, chiunque fosse nelle vicinanze si voltava a guardarmi incuriosito, ma non me ne curai più di tanto. Solo in quel momento decisi di mandare un messaggio a Harry, visto che avevo ignorato le sue chiamate per tutta la giornata.
"Che fai di bello?" gli scrissi.
La sua risposta arrivò all'istante, "Sono in cortile con gli altri, tu?"
Trasalii a quelle parole e cominciai a guardarmi in giro, che mi avesse vista e stesse facendo finta di niente? Decisi di spostarmi sul prato, nonostante così facessi il doppio della fatica a portarmi la valigia appresso almeno non avrei fatto rumore. Lo chiamai in preda all'ansia ma allo stesso tempo all'eccitazione di ciò che stavo facendo e con la consapevolezza che Harry non ne sapesse assolutamente niente.
«Ehi!» mi rispose raggiante, col solito entusiasmo nella voce.
«Scusa se non ti ho risposto prima, ma ero impegnata» dissi io, mentre mi guardavo intorno alla ricerca di qualcuno col telefono all'orecchio.
«Non fa niente» mi tranquillizzò lui, «come stai?»
«Benissimo!» esclamai raggiante, cercandolo con sempre più fretta, non ce la facevo più ad attendere,«e tu?»
Lo sentii sospirare, «mi manchi» mormorò semplicemente.
Sentii un magone formarsi all'altezza dello stomaco, avrei voluto dirgli "tra pochi minuti non più" ma non avevo intenzione di rovinargli la sorpresa, rimasi in silenzio. «Anche tu» mormorai poi, con gli occhi bassi.
Quando alzai lo sguardo me lo ritrovai davanti, a distanza di una trentina di metri. Mi nascosi all'istante dietro il muro della scuola, col cuore in gola dall'agitazione. Mi affacciai il minimo indispensabile per tenerlo sotto controllo, era di spalle, ma l'avrei riconosciuto anche in mezzo a un milione di persone, era in piedi di fianco ad una panchina sulla quale erano seduti tre o quattro ragazzi, non riuscivo bene a capire quanti fossero.
Presi un grande respiro e decisi di avvicinarmi a lui con passo felpato, abbandonando la valigia dietro un cespuglio nella speranza che nessuno avrebbe avuto la malsana idea di rubarmela.
«Cosa mi racconti?» domandai, cercando di fare conversazione.
Lo vidi alzare le spalle, e sperai con tutto il mio cuore che non decidesse di voltarmi verso di me, fortunatamente non lo fece.
«Niente di che, sempre le solite cose, scuola... Scuola... Scuola...»
«Ragazze?» chiesi, giusto per dire qualcosa.
«Dovresti già saperla la risposta» ribatté lui deciso, una strana sensazione mi colpì allo stomaco, accelerai il passo verso di lui.
«E che mi dici di tutte quelle belle ragazze intorno a te?»
Lo vidi agitarsi, guardarsi a destra e sinistra e finalmente voltarsi verso di me.
Per poco il telefono non gli cadde dalla mano, strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca, mi sembrava un burattino per la posa che aveva assunto.
Risi, «ti manco ancora?» domandai poi, sempreal telefono, nonostante ormai fossimo a pochi metri di distanza l'uno dall'altro.
Harry scosse la testa mostrandomi quel sorriso perfetto, prima di riattaccare e percorrere quei pochi passi che ci separavano per prendermi tra le sue braccia. Mi fece girare alcune volte, stringendomi a sé e poi mi posò terra.
Gli buttai le braccia al collo e lo strinsi a me, appoggiando la testa sulla sua spalla col viso rivolto verso il suo collo così da poter respirare il suo profumo. Chiusi gli occhi e cercai di gustarmi quella piacevole sensazione di pace. La sua pelle era calda, e le sue braccia mi stringevano a lui facendomi sentire al sicuro. Mi staccai a malavoglia e Harry  mi osservò attentamente, ancora incredulo.
«Cosa ci fai qui?» domandò.
Mi passai una mano tra i capelli cercando di non ridere, «non mi baci neanche?» ribattei corrucciata.
Lui scosse la testa, «farò appello a tutto l'auto controllo che ho in corpo per non farlo finché tu non mi avrai risposto.»
Sospirai rassegnata, «non te ne ho fatto mai parola perché nel caso in cui non mi avessero accettata non volevo che ci rimanessi male» premetti, «comunque la mia scuola organizza spesso dei quadrimestri da trascorrere in Inghilterra - o per chi se lo può permettere negli Stati Uniti - per imparare meglio l'inglese. Non mi sono mai interessata alla cosa perché... Beh, lo puoi ben capire da solo il motivo, ma questa volta è diverso. Ho cercato disponibilità in alcune famiglie di Holmes Chapel e guarda caso la signora...» estrassi il biglietto dalla tasca, «Stewart, ha accettato, quindi, sempre che tu sia d'accordo, finisco l'anno qua!» esclamai raggiante.
Harry mi guardava incredulo, «perché non l'hai chiesto a me? Ti avrei sicuramente ospitata!»
Sospirai, «non credo sarebbe stata una buona idea, e poi ho già fatto abbastanza la mantenuta a Parigi» spiegai.
 Lui si passò una mano tra i capelli, ancora incredulo per tutta la faccenda «io... Non so che dire» aggiunse infine.
Alzai le spalle, «dimmi solo che mi vuoi, se no prendo il primo aereo che c'è e me ne torno a casa» spiegai risoluta.
«Non devi neanche chiedermelo Lennon, certo che ti voglio» disse lui, e finalmente mi prese per i fianchi e mi baciò con tutta la passione che aveva tenuto in serbo per me dall'ultima volta che ci eravamo visti.
Le sue labbra mi parvero persino più morbide e voluttuose dell’ultima volta, fui pervasa per un istante dalla paura di potermi dimenticare delle sensazioni che mi provocava Harry ma le sue mani che si posarono sui miei fianchi attirandomi a lui mi ricordarono che non l’avrei più lasciato.

-

Siamo già all'Epilogo, che tristezza :(
Nonostante la storia non sia lunghissima, mi sono affezionata tantissimo a Lennon, a questo Harry che non è il solito puttaniere apparentemente insensibile, all'atmosfera natalizia che avevo già iniziato ad immaginarmi quest'estate quando ho iniziato a scrivere la fan fiction e a tutto il resto.
Spero che vi sia piaciuto leggere questa storia almeno la metà di quanto a me è piaciuto scriverla ed idearla. Come al solito in queste situazioni non so mai cosa dire ma se c'è una cosa che non posso evitare, quella è ringraziarvi. Non mi metterò a fare liste perché poi potrei dimenticarmi qualcuno e non voglio far rimanere male nessuno, ringrazio semplicemente chi si è immedesimato in Lennon o chi magari ha sognato di essere al suo posto. Se sono riuscita ad emozionarvi almeno un pochino, ecco. Perché quando io leggo delle storie fatte bene mi immedesimo tantissimo nei personaggi e rido o ci rimango male per loro e con loro e in quelle situazioni mi chiedo se esiste qualcuno che prova le stesse sensazioni leggendo ciò che scrivo io. Non la tirerò per le lunghe, ringrazio chi ha recensito, chi ha aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate, chi mi ha tra gli autori preferiti e credo basta.
Fatemi sapere che ne pensate, come al solito, se il finale vi è piaciuto o se vi aspettavate qualcosa di diverso e magari - chi lo sa - anche più bello.
Ovviamente il finale non poteva che essere un bell'happy ending, Harry e Lennon di nuovo insieme, per più di 10 giorni :)
Più avanti posterò un'altra fan fiction su Harry ma prima ci tengo a finire quella che ho già in corso e della quale vi lascio il link qua sotto se vi va di farci un salto. Vi lascio anche il link di una one shot stupenda e che vi consiglio vivamente di leggere, se poi non vi piace me ne assumo io tutte le responsabilità e sarete libere di inseguirmi con badili e forconi (anche se sarà impossibile perché è bellissimissima uù).
Grazie di nuovo, di cuore.
Jas



 


L'ultima gif di  Harry, che mi sono dimenticata di ringraziare ma senza il quale questa storia non sarebbe mai esistita.
Grazie perfezione.











 

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Capitolo 13
*** Seguito ***



 
Ho postato il seguito di 10 giorni per innamorarmi di te! :)







"Ti sto scaricando con un messaggio in segreteria, dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto quello che tu sei stato per me. Mi sento patetica, e molto stronza, ma se ti chiamassi e sentissi la tua voce rauca e lenta, non riuscirei a dire nulla di quello che invece devo dirti.
Non ce la faccio più ad andare avanti così, mi sembra di stare combattendo per una causa persa. Tu sei preso dall'università, e lo capisco, io dal nuovo lavoro, da tutti questi cambiamenti che sono avvenuti nel giro di poco tempo. Fino a sei mesi fa dovevamo frequentare l'università insieme, ora io sono dall'altra parte dell'oceano. Il destino non è stato dalla nostra parte, Harry, forse è meglio smetterla di prenderci in giro e finirla qui.
Abbiamo provato a raggirarlo ben due volte, la prima quando ho deciso di concludere l'anno ad Holmes Chapel con te, e credimi quando ti dico che non ho mai vissuto così serenamente la scuola, con la consapevolezza che tu eri lì con me. La seconda, quando  abbiamo scelto un'università che offrisse economia per te ed arte per me. Peccato che tra quelle mura non ci entreremo mai insieme. Ora il destino ci ha posti davanti ad un muro troppo alto da scavalcare con le nostre forze, lo sappiamo entrambi, ma forse abbiamo solo troppa paura di ammetterlo.
Stiamo combattendo una battaglia che è già persa in partenza, è inutile rimanere ancorati ad un qualcosa che non c'è più. Ti ho amato, ti amo tutt'ora ed una parte di me ti amerà per sempre, ma non possiamo andare avanti così.
Magari tra 10 anni ci rincontreremo, e tu e io saremo ancora single, o separati, o divorziati dai rispettivi coniugi, e allora capiremo che abbiamo fatto bene ad aspettare il momento giusto. Ma fino ad allora, Harry, non cercarmi, non seguirmi dall'altra parte del mondo, non intasarmi la segreteria.
Vivi.

Salutami Parigi e chi lo sa, magari troverai un'altra ragazza inglese, un po' strana, lavorare in una panetteria."

 

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