Diario antico

di TheMask
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo; ritorno al passato ***
Capitolo 2: *** Vecchi amici ***
Capitolo 3: *** Street ***
Capitolo 4: *** Surreal Friend ***



Capitolo 1
*** Prologo; ritorno al passato ***


Hei, ciao, qualcuno si ricorda di me? no? si? boh.
Comunque, vi ricordate quella storia un po' brutta e appena un po' incomprensibile che si chiamava Bakup? (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=828114&i=1)
Ecco proprio quella! Questa storia è una specie di continuo. No, mi spiego, non è precisamente un continuo.
Vi ricordate che nell'ultimo capitolo Mina, una cooprotagonista, si ammazzava? Ecco, praticamente questa fan fiction rivela finalmente il suo passato e intanto fa vedere come se la cavano i sopravvissuti. Si insomma che ne so! bah! mah!
...
Non me lo dovete dire che è una cosa stupida, lo so! Però se vi va di leggere vi sarò grata a vita e vi beatificherò di nascosto in caso crediate. In caso contrario vi farò un bel monumento, che ne dite? Bene! Allora perdonate il mio delirio e se avete voglia leggetevi questo inizio! 
NOTABENE: in caso qui capitasse qualcuno che NON HA LETTO LA PRIMA STORIA DELLA SERIE sappia che non è necessario,  a mio parere può capire benissimo la trama comunque! :D
Grazie ancora e buona lettura!
THINKS OF BEYOND BIRTHDAY
Mina era morta da tre mesi precisi quel giorno. Il giorno in cui con un grande sforzo, declinando l’invito di L a venire con me, ero uscito di casa con una grande borsa nera sulla spalla, salito in macchina e guidato fino al grande edificio circondato da un prato ormai selvaggio con una grande targa dorata sul cancello: la casa di Wammy.  Scesi dalla macchina sotto la neve gelida che aveva cominciato a scendere. Si era ai primi di gennaio e il freddo si insinuava come sempre dappertutto, sotto i guanti e le sciarpe, fra i capelli, nella schiena, nelle scarpe. Ciononostante, abbandonai l’asciutto e caldo abitacolo della macchina senza pensarci due volte o forse non l’avrei fatto. Ma non volevo essere vigliacco. Così, mi fermai davanti al cancello sbirciando l’interno mentre estraevo un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca a vento e ne collaudavo una nella serratura del lucchetto. Ne provai tre prima di riuscire ad aprirlo. Spinsi, e con un profondo e perforante cigolio, cedette sotto le mie mani. Entrai, lasciando leggere impronte sulla neve fresca e rivelando un prato non curato. Alcuni grossi e tetri alberi si protendevano nel giardino, scheletrici per l’inverno. Non volli pensare che fosse per il luogo nefasto dove avevano messo radici. Avanzai verso l’edificio e vecchi ricordi si fecero vivi senza permesso. Chinai il capo e tenni lo sguardo sui miei piedi, scacciandoli. Finalmente, dopo quella che mi parve un’eternità, arrivai alla porta. Feci un respiro profondo. Esitai. Volevo davvero entrare? Per risentire nella mia mente urla, voci antiche di morti, per ricordare volti ormai mangiati dai vermi o consumati dal mare, per rivedere mura che mi avevano quasi fatto impazzire? Mi spinsi a prendere una chiave a caso e infilarla nella serratura. Ero sfortunato: era quella giusta. La porta si aprì, stavolta senza cigolii troppo evidenti. Salii i due gradini dell’ingresso e li mi fermai. Strinsi gli occhi, ma non potei scacciare le immagini che già si stavano creando, vivide, quasi reali, nelle mie retine influenzate. Mi costrinsi a pensare solo a dove mettere i piedi e feci i primi due passi, verso destra. Trovai le scale in fondo al corridoio e cominciai a salirle, sebbene sospettassi che non avrebbero retto molto più del mio peso a giudicare dai sonori rumori di protesta che emettevano a ogni gradino. Era brutto essere li da solo, ma forse sarebbe stato peggio essere con gli altri. Si, decisamente, era un gran bene che non avessi detto ad altri che L ciò che volevo fare.
Appoggiai una mano al corrimano, ma la ritirai quasi subito, vista la precipitosa caduta che esso fece, come per dispetto, sollevando una nube di polvere qualche gradino più in basso. Sospirai o sbuffai, non lo capii bene neanche io, e continuai a salire fino al sesto piano senza più degnare il corrimano di uno sguardo, trovando molto più interessanti le mie scarpe così risolute, che salivano gradino per gradino ogni rampa di scale. Misi i piedi sul pianerottolo e non potei fare a meno di lanciare un’occhiata in giro. Avanzai, imboccando uno stretto corridoio e mi girai verso la seconda porta a destra. Cautamente, con una paura ingiustificata, poggiai la mano sulla maniglia di falso ottone, molto economica, e aprii lentamente. Camera mia. Feci qualche passo nell’angusta  stanzetta riconoscendo in essa alcuni segni del mio passaggio. Il vetro era crepato per un pugno che Mello vi aveva tirato una volta.
il letto aveva le molle rotte dopo che l’avevo preso a calci e a pugni una volta che mi avevano punito severamente facendomi solo arrabbiare di più. La scrivania era piena di scritte dei miei amici. Non le lessi. La sedia era a terra. Non la sollevai. Non toccai nulla se non un libro che trovai come sapevo, sotto un’asse del pavimento che avevo staccato con pazienza a forza di calci e unghie rotte.
“Ci sono bambini a zig zag” diceva il titolo.
L’unico libro che avevo e non certo legalmente diciamo. Lo misi nella borsa con un sospiro e lanciai ancora un’occhiata alla camera.
Uscii velocemente dalla stanza: non era per quello che ero li. Continuai a percorrere il corridoio. Sapevo bene che dietro ogni porta c’era una vita segnata, una storia da raccontare, ma lo ignorai, arrivando all’ultima porta a sinistra. Con qualcosa di metallico, avrebbe potuto essere uno dei suoi braccialetti pieni di borchie, aveva inciso una profonda ed elegante M su di essa.
Sospirai sentendo una strana sensazione farsi strada sotto la maglietta e la felpa. Sentivo l’aria viziata scendere nei polmoni e ritornare su ancora più avariata e avevo bisogno di una boccata almeno una di aria fresca, pensai. Esco un momento in giardino e torno subito qui, mi dicevo convinto, ma sapevo che se l’avessi fatto non sarei più entrato in quella camera. Appoggiai di nuovo la mano sulla maniglia percependone la freddezza metallica e le zigrinature vaghe. Inspirai. Espirai. Lo feci di nuovo. ricordai il volto di Mina la prima volta che l’avevo visto. Poi subentrò nella mia mente l’immagine dell’ultima.
“Così non va!” borbottai, aprendo con un gesto che voleva essere deciso quella maledetta porta.
La tentazione di chiudere gli occhi e fuggire era tanta ma… mi trattenni e diedi un’occhiata alla stanza.
La finestra era aperta, notai per prima cosa, e l’aria era fresca come fuori. me ne riempii i polmoni con sollievo. Poi vidi le pareti. Già, mi ero scordato come Mina tenesse le pareti. Da ogni angolo spuntavano poster, foto, pagine, scritte, incisioni… qualsiasi cosa. il pavimento addirittura, era completamente inciso, pieno di parole, citazioni…
Il mio piede poggiava sull’inizio di una frase che le avevo sentito dire alcune volte: L’affermazione è la regola della piena libertà.
Camminai verso la scrivania, per controllare ciò che già sapevo esserci: una parte di Romeo e Giulietta, la sua parte preferita:
Ma quale luce apre l’ombra da quel balcone?Ecco l’oriente e Giulietta è il sole… Alzati, dunque, o vivo sole e spegni la luna già fioca, pallida di pensa perché ha invidia di te, tu che la servi! E se ha invidia di te lasciala sola. Il suo manto vestale ha già un colore verde di palude, e nessuna vergine lo porta. Gettalo via!
Oh, è la mia donna, è il mio amore! Ma non lo sa! Parla e non dice parola: il suo occhio parla, e a lui risponderò!
Ma che folle speranza; non è a me che parla.
Due fra le stelle più lucenti, che girano ora in altre zone, pregano i suoi occhi di splendere nelle sfere senza luce, fino al loro ritorno. E se i suoi occhi fossero nel cielo veramente, e le stelle nel suo viso? Lo splendore del suo volto farebbe pallide le stelle, come la luce del giorno, la fiamma d’una torcia! Se poi i suoi occhi fossero nel cielo veramente, quanta luce su nell’aria, tanta che gli uccelli credendo finita la notte, si metterebbero a cantare!

Sorrisi leggendola e ricordando con quanta passione lo faceva lei. Adorava recitare, mettere maschere, mettere allegria sul volto delle persone… non era certo capitata nel posto giusto però.
Sospirai di nuovo, sedendomi dove mesi prima (era passato così poco tempo?) si era seduta lei. mi chinai sulla scrivania e trovai un capello verde che le era appartenuto. Lo presi fra le mani. C’è ancora un po’ di Mina al mondo, mi ritrovai a pensare, mentre alcune lacrime mi scendevano impudentemente sulla faccia. Le asciugai con rabbia e aprì con un gesto deciso il primo cassetto.  Vi trovai alcuni libri che poggiai con gesti cauti sulla scrivania. Presi il primo e con una carezza, tolsi la polvere dalla copertina. Naturalmente era Romeo e Giulietta, c’era da aspettarselo. Lo sfogliai delicatamente, come temendo che potesse andare in pezzi da un momenti all’altro e notai che vi erano parecchie note in matita, frasi sottolineate. Non mi ci soffermai più del necessario però, l’avrei fatto in seguito. Il secondo libro me lo ricordavo bene: me lo aveva prestato più volte e l’avevo sempre letto volentieri: Qualcuno con cui correre era il titolo. Quello non lo sfogliai, passai direttamente al terzo, un libretto sottile: Il gabbiano Jonathan Livingston. In sequenza, trovai e misi da parte sulla scrivania questi libri:
Cime tempestose; Il giro del mondo in 80 giorni; Ventimila leghe sotto i mari; L’inventore dei sogni; La collina dei conigli; Abbaiare stanca; In viaggio con Erodoto; Le commedie di Shakespire; Tre uomini in barca; 1984.
E li finì la sua piccola biblioteca personale. Ricordavo bene il traffico di libri che teneva con tutti gli altri, di nascosto dai sorveglianti. Sembrava proprio che si divertisse a fargliela sotto il naso, infatti prestava sempre tutti i libri (tranne naturalmente quelli di Shakespire per i quali provava uno strano attaccamento.)  Mi assicurai di mettere bene i libri nella borsa,  non volendo rovinarli, e passai al secondo cassetto.
Tentavo di non pensare che tutte quelle cose erano appartenute a lei, che le aveva toccate, lette, usate…
Nel secondo cassetto c’erano una serie di quaderni con una rigida copertina nera. Saranno stati sei. Persi il primo con curiosità. Che fosse ciò che cercavo? Il diario? Lo aprii e subito fu chiaro che non era così. Lessi la prima pagina. Era una storia. Il quaderno era completamente ricoperto dalla fitta scrittura, non un angolino aveva trovato salvezza. Non potevo leggerli subito però, quindi li infilai uno a uno, dopo averli sfogliati per un momento, nella borsa. In fondo al cassetto trovai un mp3 molto vecchio e un bel po’ graffiato con attorcigliate sopra, un paio di cuffie bianche. Presi anche quello.
Aprii l’ultimo cassetto, o almeno tentai visto che era chiuso a chiave. Già. Sbuffai, guardandomi intorno e chiedendomi dove avrebbe potuto nascondere una chiave. Riaprii i due cassetti per vedere se avevano un doppio fondo. Niente. Contrariato, estrassi un coltellino dalla borsa e forzai il cassetto, venendo meno alla promessa che mi ero fatto, cioè di lasciare tutto come l’avessi trovato.
Il cassetto era vuoto, a parte un foglio scritto a mano in bella calligrafia quasi gotica, un sacchettino e un piccolo e spesso quaderno marrone scuro. Presi il foglio per primo e lessi questo:
 
Heilà, brutto scassinatore di cassetti di persone defunte!
Guarda che lo so che hai scassinato il cassetto: la chiave ormai è persa per sempre, perciò non hai scuse!
Comunque: se sei un sorvegliante, va al diavolo e restaci, chiaro? Non voglio che un vecchio mefitico ostricone del Bengala stracotto dal sole dell’Alaska sappia qualcosa di me, perciò come ho appena detto, giù le mani! Brucia il foglio, buttalo nel cesso, non mi interessa (ma stai attento ai canguri mi raccomando!).
Hei, ancora leggi con una faccia interessata? Qualche lacrima? Ah, ma allora tutto si spiega, devi essere un mio amico, e io devo essere morta, non è così? Ebbene avevo ragione! Hahaha! Le mie previsioni di morte prematura non erano mica false vero? Bene! Dunque, suppongo che dovrei mettere per iscritto qui le mie ultime volontà, così non buttate la mia roba va! Che conoscendovi… allora chi sei? Alma? Jen? L? BB?
Va bè, va bè, andiamo avanti che se no qua non finiamo più!
Ecco a chi vanno i miei averi:

§  Il mio basso va a Mello che gli fa sempre il filo per provarlo e al quale non l’ho mai fatto toccare, proprio lui! Non mi ringraziare biondino, te l’aspettavi, lo so! Se me lo righi, all’inferno ti ammazzo, chiaro? Bene!
§  I miei vestiti (ves-ti-ti  non accessori, mi raccomando) vanno tutti a quella punk di Alma, che non si chieda di nuovo dove li ho presi e se lo fa, tirale un ceffone amico. Se sei Alma, in mia memoria, fallo lo stesso.
§  I miei accessori dateli tutti a Jennifer, le starebbero così bene con quella carnagione chiara, lo dice anche lei, ma dice sempre anche che non sa come procurarseli, perciò che li tenga lei.
§  La mia tinta, se non è finita fatene un po’ quel che ve ne pare, non è che me ne freghi molto. Guardate la data di scadenza però!
§  I miei libri vanno tutti a Near.
§  Cos’ho ancora? Beh, ci sono le storie che ho scritto. Quelle che vadano a Alma, lei scrive sempre, saprà cosa farne.
§  A Federica lascio il sesto quaderno nero, dove sono annotate accuratamente tutte le mie imprecazioni.
§  Per L e BB, c’è il diario marrone che tu (oh profanatore di cassettiere tarlate!) hai trovato ora. Decidano loro se farlo leggere anche agli altri, vedranno loro se è il caso. Mah…
§  Per Matt (non non mi sono dimenticata del fumatore di sott’aceti fritti) c’è una cosa che si trova a Londra. Si lo so che è un casino scomodo farsi il viaggio fino a Londra per questo, ma non ho avuto la possibilità di recuperarlo. Dunque, una volta a Londra, Matt deve andare in Princess May rd al numero 13, dove troverà, se ha fortuna, un mio vecchio amico. Se gli dirà che viene da parte mia, magari facendogli vedere una mia foto e simili, il sunnominato lo porterà in una camera. Capirà da solo qual è la cosa che deve prendere. Certo, se vuole prendere altro non è un problema per me. Faccia pure.
E con ciò ho finito il testamento. Dei soldi sinceramente non me ne frega niente, li prenda chi vuole. Tanto con quel riccone di L che probabilmente mantiene tutti non ne si ha certo bisogno. Dateli in beneficienza va! Così fate una buona azione e via! ;)
Bene allora, ti saluto mio caro, chiunque tu sia! Va a te il sacchetto, ok? Fanne ciò che vuoi.
Addio!

 
Mina


Rimasi a fissare il foglio per qualche minuto buono, poi lo rilessi e  solo allora alzai lo sguardo dalla carta e mi permessi di tirare un profondo respiro. Quindi potevo leggere il quaderno marrone? Presumibilmente proprio il… diario? Misi il foglio nella borsa e lo presi fra le mani. Ero tentato di leggerlo subito, ma poi lo misi un momento da parte e presi curiosamente il sacchetto.
tirai i lacci per aprirlo e al suo interno trovai molte liquirizie di quelle che piacevano a lei. e in fondo, scorsi un luccichio. Così, svuotai il sacchettino sulla scrivania, annusando volentieri l’aroma forte che emanava e trovai un anello di quello che sembrava vero oro molto raffinato, con una piccola pietra verde sopra. Lo esaminai da vicino. Da dove l’aveva preso quello? Nessuno che io sapessi, l’aveva mai visto. Ma quante cose potevo dire di sapere di lei, dopotutto? Quasi niente.
rimisi le liquirizie e l’anello dentro il sacchetto e me lo misi in tasca.
dopodiché mi alzai, con ancora un sospiro e andai ad aprire l’armadio, con la borsa sottobraccio. Vi riposi uno a uno tutti i vestiti, un paio di anfibi e le catene, i bracciali e braccialetti, gli orecchini e quant’altro ella avesse (li trovai riposti in uno spazioso cassetto).
Ora che l’armadio era vuoto e la borsa praticamente piena, mi avvicinai un’altra volta alla scrivania e presi il diario in mano, indietreggiando sino al letto. Mi ci lasciai cadere mollemente e il suo odore, rimasto prepotentemente nelle lenzuola e sul cuscino, m’investì in pieno, dolorosamente. Mi rialzai subito, ma misi nella borsa anche il cuscino, per un motivo a me ignoto. Mi guardai intorno (Ridere è il linguaggio dell’anima; A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio;).
Guardai il pavimento (Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dei dubbi;
Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri;)
Alla fine mi decisi a uscire dalla camera, dopo averle lanciato ancora un ultimo sgaurdo. Mi ritrovai di nuovo nel corridoio, ancora abbagliato da ciò che avevo trovato. Come mai aveva lasciato un testamento?
Decisi di non pensarci subito. Invece mi affrettai a uscire, respirai a fondo la neve e richiusi il cancello a chiave.  Entrai in macchina e feci un altro respiro profondo. Presi il diario fra le mani e aprii alla prima pagina.

Caro diario (se così posso chiamare questa raccolta di fogli a righe che ancora non conosco),
ho intenzione di riempire la tua candida concezione di spazio con lettere nere che nessuno a parte me leggerà forse. Ma se qualcuno sta veramente leggendo queste righe, allora vuol dire che, come mi ero immaginata, sono morta prima dei venticinque anni.


Mi fermai dopo quattro righe, decidendo di leggerlo solo con L. Da solo non me la sentivo. Era così cinica a volte quella ragazza! Anche da morta!
Scossi la testa e accesi il motore, accingendomi a tornare a casa.

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Capitolo 2
*** Vecchi amici ***


Eccomi al secondo capitolo di questa storia. Non so bene se andare avanti o meno, ditemelo voi.
Comunque, vi avverto che questo è un capitolo che funge quasi da presentazione: si rivedono i vecchi amici e si comincia a svelare alcuni dei segreti della misteriosa Mina.
Qualsiasi commento è ben accetto, grazie.
Mina




Scossi la testa e accesi il motore, accingendomi a tornare a casa.
Parcheggiai la macchina vicino a casa e mi entrai con la borsa a tracolla, cercando L con lo sguardo: lo trovai come al solito seduto davanti al pc a pensare a qualche caso.
“Ciao BB, come va?” mi chiese con la voce atona.
“Tutto bene… ecco, ho trovato qualcosa… insomma, dovremmo chiamare gli altri.”
Il detective si girò a guardarmi e appena vide la borsa piena si affrettò verso il telefono. In pochi minuti erano tutti convocati d’urgenza da noi.
Per prima arrivò Jennifer, lo sentimmo da rombo insistente della moto. Era da un mese che non ci rincontravamo, tutti avevano infatti tentato di rifarsi una vita lasciandosi il passato alle spalle, e vedere i compagni della sfortunata sorte che ci era toccata non aiutava di certo.
La bionda salì le scale con passi pesanti e bussò alla porta un paio di volte con il casco della moto. Andai ad aprire io e la salutai pur con un certo distacco.
Senza chiedere niente, Jen entrò in casa e fece un cenno a L per poi sedersi intorno al tavolo tondo al centro della sala. La seguii sospirando. Era cambiata molto. Ora infatti, la bionda non era più bionda. Bensì aveva i capelli neri come il catrame, pur con alcune ciocche bionde che spiccavano fra i capelli.  Anche i suoi vestiti erano scuri: indossava un paio di pantaloni di pelle neri e una maglietta grigia con sopra un corto giubbotto di pelle. I suoi occhi erano molto tristi, facevano sentire in colpa chiunque li incrociasse.
“Come stai?” le chiese L.
“Bene, bene. Perché ci hai chiamato L?”
“Aspetterò gli altri per dirlo. Così non lo dovrò ripetere troppe volte.”
“Non siamo più così tanti” ribatté Jen.
Calò un silenzio pesante.
Poi arrivò Matt, insieme con Mello. Entrarono anche loro silenziosamente, salutandoci appena e sedendosi vicino a Jen.
Dopo qualche minuto, bussarono di nuovo: era Federica.
Aveva degli occhi sottili, quasi cattivi, sebbene una volta erano stati pieni di allegria.
E infine aprii a Near e lo trovai un po’ cresciuto. Non disse una parola naturalmente e quando si sedette anche lui, fummo di nuovo al completo. Nessuno incrociava lo sgaurdo con gli altri, anzi, quasi tutti tenevano gli occhi sul vetro del tavolo o sui piedi.
Presi una sedia anche io e misi la borsa sul tavolo.
“Vi devo parlare di Mina.” Dissi semplicemente.
E a un tratto, l’attenzione di tutti si spostò su di me, tutti gli occhi scattarono sui miei.
“Io.. io sono tornato all’orfanotrofio e… ho trovato questo.” Dissi, estraendo dalla borsa il foglio con il suo testamento.
“Cos’è?” chiese subito Mello.
Glielo porsi, togliendomi il peso di doverlo leggere ad alta voce, cosa che probabilmente non sarei riuscito a fare. Mello lo tenne in mano per alcuni minuti, poi lo passò con un gesto secco al compagno, Matt, che ripeté la scena.
Il foglio passò in mano a tutti, anche in mano a L, che ancora non sapeva cos’avevo trovato nella stanza di Mina.
L’atmosfera nella stanza era sempre più pesante. Jennifer si asciugava una lacrima col dorso della mano.
Poi, senza sapere cosa dire, diedi loro ciò che a ciascuno Mina aveva destinato. Ciascuno se lo rigirò tra le mani come se fosse una reliquia. Matt invece aveva preso la lettera, tutti erano stati d’accordo a dargliela, e aveva deciso di partire il giorno successivo, da solo. Mello non aveva insistito.
Ci guardammo.
Poi loro cominciarono ad alzarsi e ad andarsene, salutandosi con un abbraccio al massimo. Capivo che per loro era come riaprire una ferita che tentavano da mesi di rimarginare.
E quando il rombo della moto di Jennifer si fu estinto in lontananza, io e L rimanemmo in silenzio, a pensare.  
Infine mi alzai e uscii dalla stanza, dirigendomi in cucina. Era ormai sera e presi come pretesto il fatto di cucinare per andare via da quella stanza.

Avevamo appena finito di cenare, quando L mi chiese se volevo leggere il diario ottenendo per tutta risposta un sospiro.
“Se non vuoi non importa… ”
“No, va bene.” Dissi sommessamente.
“Tu lo sai perché Mina era la dentro?”
“No, tu?”
“Neanche io.” rispose, tirando fuori il quadernetto e andando ad accucciare sul divano, seguito da me.
Quella sera qualcosa ci separava, non capivo cosa.
Ma poi cominciammo a leggere, e tutto questo passò in secondo piano.

Caro diario (se così posso chiamare questa raccolta di fogli a righe che ancora non conosco),
ho intenzione di riempire la tua candida concezione di spazio con lettere nere che nessuno a parte me leggerà forse. Ma se qualcuno sta veramente leggendo queste righe, allora vuol dire che, come mi ero immaginata, sono morta prima dei venticinque anni. Chiunque tu sia, amico, nemico, sconosciuto, ti prego abbi cura di questi fogli, perché conservano tutti i miei segreti, i miei pensieri, la mia vita. Se vuoi, leggile, non m’interessa, visto che tanto sono morta e non lo saprò mai. Se non vuoi, non buttarle giu da un balcone o nello scarico del tuo amato gabinetto perfavore. Te ne sono grata. E se esiste la vita nell’aldilà, cosa del che in effetti io dubito, la gratitudine di una morta può servire a qualcosa, no?
Comunque, caro il mio diario,
desidero raccogliere qui le mie memorie. Perché? perché se come credo muoio giovane, i miei amici potranno sapere finalmente qualcosa di me, visto che con ogni probabilità s’illuderanno di sapere qualcosa, pur non sapendo. In caso contrario, sarà interessante rileggere queste righe per me, fra un bel po’ di anni.
Bene allora, mi prendo la libertà di aprire con una bella frase fatta a effetto:
cominciamo dal principio, lettore mio…

Avevo compiuto da cinque mesi quattordici anni, ma non fu a questo che pensai quel sabato mattina uscendo dal letto: mia madre aveva la febbre alta e non saremo potuti andare in vacanza come avevamo previsto. Mio padre stava preparando la colazione quando entrai in cucina e mi sorrise comprensivo vedendo il broncio che avevo messo su. Mi disse qualcosa come “Vedrai che si rimetterà in pochi giorni e potremo partire lo stesso!”, non ricordo con precisione.
Dopo aver mangiato mi rintanai in camera mia a scrivere una delle mie storie e ci rimasi per un bel po’. Papà era occupato a stare con mia madre, misurarle la febbre eccetera e non mi chiese di vestirmi ne di fare qualcosa in casa come avrebbe fatto normalmente.
Passarono le ore e a un tratto accadde. Qualcuno entrò in casa. Io non me ne accorsi subito, ma mio padre si e corse all’ingresso chiedendo ci fosse.
Poi successe. Udii uno sparo, poi un altro. Ero immobile, le orecchie tese, il cervello in pappa. Non era possibile, mi ripetevo. Non poteva essere possibile. Mi alzai, e mi avvicinai alla porta senza riuscire a pensare con logica. Sentii delle voci litigare. Fra quelle, il familiare timbro di mio padre non c’era. Non so cosa pensai in quei momenti. Mi ricordo solo una sensazione primordiale, di paura, no, di terrore puro. Ogni parte di me era tesa, agitata, sull’attenti, ma il mio cervello era come scollegato. Avevo la pelle d’oca e dubitavo che sarei rimasta viva ancora a lungo. Non urlavo perché non ci riuscivo, non per altro.
 Dei passi si avvicinarono nel corridoio, ma la porta dietro la quale mi rifugiavo, rimase ferma. Una voce femminile esclamò: “Ma non dovevano essere in vacanza?”
“Mi avevano detto così, che cazzo ci posso fare?” rispose una voce preoccupata dall’altro lato della casa.
Sentii la voce tenue di mia madre.
“Cosa… cosa ci fate qui… chi.. chi sie-”
La sua voce fu interrotta. “Porca puttana Wolf, vieni qui! Che cazzo faccio, ammazzo anche lei?”
“Perché cazzo urli il mio nome? Ammazzala subito!”
“No… no perfavore no vi pre-”
Sparo
Persi un battito.
Seppi che non l’avrei più sentita in vita mia e sentii una profonda rabbia crescere dentro di me, forte e strana per me.
Li sentii andare in giro per la casa. Poi uno dei due si avvicinò alla porta di camera mia e non fui capace di muovermi. Mi stanò con una facilità che non mi perdonai mai.
“Cazzo c’è anche una bambina!” disse la donna.
“Ma porca troia!” rispose l’uomo dalla cucina.
Lei era vestita tutta di nero e aveva un passamontagna sul viso, ma alcuni capelli biondi uscivano lunghi e lisci. Aveva degli occhi azzurri. La guardai dritta in quel ghiaccio che aveva visto i miei genitori morire e per un momento, il dolore fu portato in secondo piano da quella rabbia che non avevo mai conosciuto.
La donna si chinò su di me addolcendo lo sguardo.
“è ancora piccola. Hei bambina, vuoi venire con noi?” mi chiese come se fossi deficiente.
Senza pensare alle conseguenze, le tirai un forte pugno sul naso con tutta l’energia che avevo.
“CAZZO! QUESTA TROIETTA MI HA ROTTO IL NASO!”
“E tu le hai ucciso i genitori idiota. E abbassa quella fottuta voce, cazzo!” Le rispose Wolf sempre dalla cucina.
Il mio sguardo, per puro caso, si fermò sui fianchi dell’assassina, con le mani sul viso: la pistola. Ancora una volta agii impulsivamente e la sfilai dalla cintura con una mossa veloce, che la donna non riuscì a evitare e che anzi, neanche vide, occupata com’era a tenersi il naso.
Poi sentì il rumore della sicura.
“Hei bambina, lascia quella pistola. Non riusciresti mai a uccidermi, idiota. Dai dammela cacasotto.” Disse con una voce mielata, falsa.
Avevo il dito fermo sul grilletto, ma la mano mi tremava. O morivo io, o morivano loro.
“Dai, dammi quella cazzo di pistola! Tanto non hai le palle per uccidermi, sei una fottuta bambina!”
Non riuscivo a muovermi. Dovevo, dovevo, dovevo farlo. Ma come potevo? Non me lo chiesi. Ero troppo combattuta per formulare i pensieri completamente.
Pensai agli occhi di mia madre. A quelli di mio padre.
“CAZZO UN GATTO!”urlò Wolf. Sparo.
“Dammi la pistola cretina, chi cazzo ti credi di essere, eh?”
No. Non te la do la tua fottuta pistola.
Ora non so dire come feci. Ma riuscii a premere quel cavolo di grilletto, e il colpo partì. Ebbi fortuna, perchè andò dritto alla testa della donna. Altro colpo. La donna cadde. Sentii un dolore profondo, come un urlo stridente che partiva nel mio stomaco e mi saliva al cervello. Tremavo, ma ora sapevo che potevo farcela. Oramai ero un’assassina. Il primo colpo, il più difficile. La prima vittima, quella che non scordi mai. E chissà perché, per me fu più che veritiero.
Non sapevo cosa fare. E a un tratto lo seppi.
“L’HAI UCCISA JEN?”
Mi misi dietro la porta.
“JEN?”
Dei passi si avvicinarono lentamente. Aveva la guardia alzata. Per me era un gran male. Ma poi vide il corpo della compagna.
“JEN! DOVE SEI TROIA? DOVE CAZZO SEI!” urlò, lanciandosi sull’assassina e guardandosi intorno.
“Dietro di te.” Furono le ultime parole che sentì.
Ancora uno sparo profanò la casa.

E grazie a dio ci siamo tolti di mezzo la faccenda pietosa dei miei genitori, perché non vedevo l’ora. È per questo che è corta. Mi sembra ovvio il motivo per cui non mi ci voglio di certo soffermare. Ripensandoci, spesso credo che sarebbe stato meglio morire per me, che non tramutarmi in un’assassina di punto in bianco. Come feci? Come potei guardare una persona negli occhi e toglierle la vita? E in un secondo ero già una esperta omicida. Infatti avevo teso la trappola fatale al collega della bionda e paff, un’altra vita a cui la fine era giunta troppo presto. E tutti i loro pensieri, le loro paure, le loro piccole vittorie, le loro vite, per me non furono nulla. Come potei? Dopo che successe, ero come in trance, agivo senza sapere di farlo, come se una voce mi dicesse cosa fare e io non potessi disubbidirle. Così ficcai un po’ di vestiti in una borsa insieme con tutti i soldi che trovai, presi la mia chitarra acustica e uscii di casa, chiudendomi la porta alle spalle e lasciando la dentro tutto il mio passato. Si chiude una porta e si apre un portone, no? Già, il portone di casa. Finii in strada e cominciai a camminare senza meta per le larghe strade di Londra. Passarono le ore, senza che io mi fermassi una sola volta. Ormai erano circa le sei di sera e mi trovavo in centro, davanti al big ben. Alla fine mi sedetti sul bordo del ponte a gambe incrociate e per un po’ guardai la gente passare frettolosa, i turisti fare fotografie, tutti ignari di me. Allora presi coscienza che per vivere avrei dovuto suonare e cantare davanti a costoro, cosa che mai avevo fatto. Presi però coraggio, estrassi la chitarra appoggiando davanti a me la custodia aperta come avevo visto fare altrove e cominciai ad accordare. Come diceva mia madre? Tira fuori la voce da dentro lo stomaco, fa del tuo corpo una chitarra e la tua testa sarà una cassa armonica, i tuoi pensieri saranno corde.
Che canzone potevo cantare per presentarmi a quel pubblico di ignoti, di vite che non avevo il privilegio o la sfortuna di incontrare, ma delle quali potevo cambiare un momento con la musica?
Pensai a uno dei miei libri preferiti, “qualcuno con cui correre” e mi riconobbi nella protagonista. L’unica differenza era che lei aveva uno scopo che l’aiutava ad andare avanti, io avevo solo una gran dose di paura.

L chiuse il quaderno e mi guardò negli occhi. aspettai che parlasse, come sapevo che avrebbe fatto.
E invece niente. Nulla. Nisba. Niet. Nada.
Silenzio. E quei giganteschi occhi da panda che mi fissavano insistentemente.
“Sono stupito” ammise infine.
“Cosa? tu sei stupito?” gli chiesi incredulo, per un momento dimentico della situazione.
“Si BB. Perché non dovrei? Non me lo aspettavo. Tu?”
“No, neanche io. Credi che dovremmo dirlo a… agli altri?”
“Non li chiami più amici, vero?”
“La verità è che non lo sono più. Non fraintendermi, morirei per loro se dovessi, ma… c’è qualcosa di troppo pesante che non ci permette di frequentarci come allora.”
“Allora? Stai parlando di neanche un anno fa.”
“A volte mi sembra che sia passato molto più tempo.”
“Perché allora fra di noi non è cambiato nulla?”
“Fra di noi non è cambiato nulla? Pensaci un momento L. Da quanto tempo non ridiamo? ”
Silenzio.
“Immagino che tu voglia lasciarmi, vero?”
“Cosa? ma che dici? Dopo tutto quello che abbiamo passato!”
“Da come parli sembra che tu resti in questa casa solo perché abbiamo vissuto un passato alquanto… tormentato, insieme.”
“L piantala. Lo sai che non è così.”
“Scusa, hai ragione.” Disse con uno sbuffo.
“Cosa? mi hai chiesto scusa? Tu? L, sicuro di sentirti bene? Ti misuro la febbre?” esclamai con una risata.
Mi accennò un sorriso.

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Capitolo 3
*** Street ***


Era notte fonda, quando mi svegliai. L non era di fianco a me, come immaginavo: spesso la notte stava alzato a risolvere casi o più semplicemente a strafogarsi di torte intanto che io non lo trattenevo…
Soffriva di insonnia a differenza di me che, quando volevo, potevo dormire per ore senza che una bomba atomica potesse svegliarmi, tranquillo come un bambino. Mi venne in mente una volta che mi ero svegliato con gli occhi del panda davanti e mi aveva praticamente fatto venire un infarto. E come risposta al mio spavento lui si era messo a ridere. Alzai gli occhi al cielo al solo ricordo ed entrai nella cucina. Lo trovai seduto a tavola, con in mano una generosa fetta di torta alla panna e il quaderno di Mina davanti, chiuso.
“L?”
“Oh, BB, vedo che ti sei svegliato! Vuoi favorire della torta?” mi domandò con un piccolo sorriso.
“No grazie, non ho molta fame. che cosa stavi facendo?” risposi, mentre lui si mangiava un gigantesco boccone di torta, suo tipico.
“Mmf… niente di che. Mi chiedevo se fosse il caso di leggere ancora un po’, ma mi frenava il fatto che tu non ci fossi.”
“Ora ci sono, se lo desideri possiamo andare avanti.”
“Cosa ne pensi di ciò che abbiamo letto ieri?”
“Cosa ne dovrei pesare scusa?”
“No, niente. Qualche ragionamento sulla morte dei genitori? Dopotutto non hai ancora mantenuto fede alla tua promessa di raccontarmi tutto di te, no?”
“L… vado in bagno un momento.”
“Bella scusa. Non ce n’è bisogno, quando vorrò davvero saperlo, lo saprò.”
Sogghignai alla sua sicurezza, e mi sedetti di fianco a lui, per poi avvicinare il diario e aprirlo alla pagina alla quale eravamo  arrivati.

La scelta cadde su una canzone chiamata Knockin' On Heaven's Door
(http://www.youtube.com/watch?v=2tmc8rJgxUI)
Cominciai a fare i primi accordi, studiando ansiosamente la reazione della gente: alcuni mi lanciavano un’occhiata di sfuggita e andavano avanti pur riservandomi un piccolo sorriso, pochi si fermarono ad ascoltare, altri ancora parevano non accorgersi affatto di me.
Infine, decisi di immaginarmi di essere sola con il mio migliore amico di allora, un bassista pazzo e pieno di problemi che però trovava sempre il tempo di ascoltarmi cantare e di darmi consigli.
Lo pensai seduto davanti a me, a guardarmi con quell’aria a metà fra la risata e la critica a gambe incrociate, con il basso nero in braccio. E per puro miracolo, riuscii a estraniarmi da tutto ciò che mi circondava e diedi il massimo per quella proiezione della mia mente, pur così familiare.
Quando ritornai alla realtà, alla fine della canzone, la prima cosa che vidi, fu la faccia di una signora che teneva il manico di un grazioso passeggino che mi sorrideva apertamente e maternamente. Intorno a me si era formato un piccolo capannello di gente e alcune monete erano cadute nella custodia della chitarra: la mia cena.
Mi sentii decisamente rincuorata e feci a quelle persone un gran sorriso, pensando alla canzone che avrei cantato per seconda. La scelta cadde su una canzone che mi era sempre piaciuta tantissimo: Suzanne, di Cohen.
 (http://www.youtube.com/watch?v=otJY2HvW3Bw)
Quando intonai le prime parole, ero molto più rilassata di pochi minuti prima. Non pensavo più alla mattina di quel terribile giorno. Ne pensavo al futuro che si profilava stentato e pieno di orrore. Pensavo solo al presente. Quei volti attorno a me, che come una fragile campana di vetro mi proteggevano da ciò che c’era all’esterno, mi circondavano e mi facevano sorridere fra le parole.
Alcuni, lo si vedeva negli occhi, erano persi nella melodia che forse ricordava loro qualcosa di lontano.
Finii anche quella canzone, ma non mi fermai. Cantai invece altre tre canzoni che piacquero al piccolo e variegato pubblico, tanto che quella sera a cena mi permisi una pizza con le olive e una lattina di coca cola.
Mentre, seduta su una panchina, mangiavo e bevevo, cominciò a piovigginare e il problema della notte si fece ancora più insistente nella mia testa: dove avrei dormito?
Vagai alla cieca per le strade, cambiando marciapiede appena vedevo qualche barbone. Vidi per la prima volta una prostituta, asiatica, che mi squadrò dall’alto al basso.
Alla fine mi rintanai in un vicolo, dietro e sotto alcune scatole da fruttivendolo. Fu una notte orribile.
La mattina mi svegliai con la schiena a pezzi, la chitarra stretta fra le braccia, una fame lancinante e una puzza di vomito nel naso che proveniva dal fondo del vicolo. Mi alzai, guardandomi intorno, ma fortunatamente non c’era nessuno. Così mi misi la chitarra sulle spalle e ripresi a camminare. In un bar presi una brioche per fare colazione e la trovai stantia, ma la mangiai lo stesso. La fame però non si attenuò. Quanto desideravo la colazione che preparava di solito mia madre. Però mi impedivo di pensarci. Non potevo permettermelo. Così andai avanti a camminare, cercando di capire in che zona di Londra fossi e scoprii di essere a Brixton. Fui costretta dalle circostanze a prendere un biglietto per la metropolitana e mi ripromisi di stare più attenta a dove mi portavano i piedi. Tornai in centro e feci alcuni concerti in giro per la zona, guadagnando tanto da permettermi di prendere delle economiche caramelle per la gola. Evitai di guardare i giornali nelle edicole, per paura di leggere titoli sulla mia famiglia. E su di me. Avevo paura di me stessa in quel momento. Di quello che avevo fatto.
Camminai tantissimo per i miei standard, e capii che sarebbe stata la mia routine. Suonavo, suonavo e suonavo ancora. Ma ero sempre più disperata. Le facce della gente sembravano sempre meno calorose, nel fondo dei loro occhi leggevo sempre che erano tristi. Ed erano così anonimi, certi. Ancora una volta mi frenai poco prima di pensare al mio incerto futuro. I miei giorni in strada erano faticosi e lunghi. Mai prima di allora mi erano mancate le mie amiche, la scuola, i professori… la mia vita. Mi sentivo così spaesata! Non riuscivo a pensare che avrei dovuto vivere quella vita per sempre, e ogni mattina mi svegliavo sperando di essere nel mio vecchio e comodo letto. Ma scoprivo di essere in stazione, su una panchina, per terra. La mia vita fu terribile per poco più di un mese, poi, proprio quando stavo per cedere,  una nota di colore decise di venirmi incontro. Stavo camminando in un parco, in mezzo ai numerosi alberi, mangiando un panino al prosciutto, quando a un tratto scorsi un movimento. Era una donna, piegata in due vicino a un albero, che si guardava intorno guardinga. Mi nascosi per puro istinto e quando mi girai, la donna non c’era più. Incuriosita, mi avvicinai all’albero dove l’avevo vista. Più mi avvicinavo più mi sembrava che qualcosa si muovesse sotto l’erba alta. Infine, mi accucciai davanti all’erba che si muoveva in modo anomalo e la scostai d’un colpo. Immaginati, mio bel lettore, che sorpresa provai nel vedere un piccolo cucciolo di cane nero guardarmi con gli occhietti lucidi e le orecchie tese.
Avvicinai la mano al suo musino ed essa venne accuratamente analizzata dal mio nuovo amico che decise che ero una tipa di cui fidarsi e mi leccò l’indice, per poi lanciare una specie di guaito e rotolarmi incontro. Sorrisi e lo presi in braccio, guardandolo. Si vedeva che sarebbe diventato un cane grande, aveva un musino destinato a diventare lungo,  un orecchio dritto come una puntina e l’altro piegato comicamente.
“E tu chi sei?” gli chiesi con una carezza.
Insomma, finì che lo adottai. Ma cosa potevo fare, lasciarlo in mezzo al parco? Così gli diedi metà del panino, un nome e una corda perché non finisse sotto una macchina.
Lo chiamai Nacho dell’Orecchio e lo tenni con me ovunque andavo. Avevo sempre desiderato un cane, e ora, nel momento in cui ormai non ci pensavo da molto tempo, eccolo cadere fra le mie braccia!
Era un cucciolo intelligente e coraggioso, anche se n po’ imprudente. Pensava che i miei capelli verdi fossero qualcosa di unico e passava metà del suo tempo a tentare di salirmi in testa i primi tempi. Poi vide un ragazzo coi capelli quasi dello stesso colore e la smise grazie a dio.
fu veramente una nota di felicità in quel periodo della mia vita, uno dei peggiori.
Ogni volta che vedeva le mie lacrime, mi saltava in braccio e mi si stringeva al petto. Ogni volta che avevo bisogno di parlare mi guardava dritto negli occhi e alzava l’altro orecchio. E ogni volta che vedeva un mio sorriso lanciava un versetto di gioia e faceva una giravolta. Passarono ancora due mesi. Non mi capacito del fatto di poter racchiudere quei giorni in una frase di sole quattro parole, così banali e semplici. Furono un vero inferno infatti. Ogni giorno era diversamente terribile e se non ci fosse stato quel cane non credo ceh l’avrei superato. Spesso, troppo spesso, guardavo con una sorta di melanconico desiderio le rotaie della metropolitana, ma non arrivai mai a toccarle.
Poi, per la terza volta, la mia vita cambiò. Stavo cantando una canzone dei Beatles quando vidi, insieme a una moneta da un dollaro nella mia custodia cadde un foglietto. Appena smisi di cantare, dopo aver messo via i soldi, lo raccolsi cautamente, chissà cosa mi aspettavo. Lessi, in una frettolosa calligrafia un indirizzo non molto lontano da li e una breve frase: è un centro di accoglienza per quelli di strada.
Mi stupii che qualcuno si fosse preoccupato per me e diffidai per qualche momento di quell’indirizzo. Ma poi, scrollando le spalle e accartocciando il foglietto, mi avviai in quella strada con Nacho al seguito.
Mi ritrovai in una via  molto dimessa e un po’ cadente, davanti a un portone aperto che dava su uno squallido cortile. Mi feci coraggio ed entrai, facendo risuonare per la prima volta i miei passi in quel posto.
Ricordo distintamente che quel giorno pioveva ancora e più che mai quella mattina, avevo desiderato un letto in cui infilarmi, un tetto che mi riparasse la testa, uno scudo fra me e il mondo a cui ormai appartenevo.
Ero dunque fradicia quando entrai, accompagnata da Nacho nell’ingresso dell’edificio, oltre il cortile scarno e puzzolente. L’atrio era vuoto e freddo, ma vidi una rampa di scale di un bianco sporco e decisi di salire. Dopo tutto cos’avevo da perdere? A ogni gradino che facevo mi domandavo se fosse prudente continuare a salire. Alla mia destra, sul muro, c’era una macchia rossa e densa, che poteva essere sangue rappreso, e per terra, al quinto gradino capii il perché della puzza di vomito che avevo sentito poco prima, vedendo una larga macchia verde e liquida che mi affrettai a superare. Sembrava che quel posto non avesse mai visto un detersivo o un moccio.
Ma nonostante l’odore, continuai a salire. Arrivata al primo pianerottolo, sulla porta vidi una targa in finto ottone che diceva: “Centro di accoglienza per giovani di strada”.
Allora era vero, qualcuno si era preoccupato per me! Quasi non ci credevo. Cautamente, aprii la porta e vidi un ingresso con una minuscola scrivania sommersa di fogli e dietro di essi una donna bruna che lavorava. Appena sentì la porta aprirsi, alzò lo sguardo e mi rivolse un caldo sorriso. Mi accorsi di non riuscire a rispondere a quel gesto. Così rimasi ferma sulla porta, impassibile, con Nacho di fianco e la chitarra a tracolla insieme alla borsa con la cinghia allentata.
La donna bruna si alzò e mi si avvicinò porgendomi la mano e presentandosi. Disse di chiamarsi Katie e di essere una volontaria che lavorava li qualche giorno la settimana. Io le risposi stringendole la mano e accennando al fatto di chiamarmi Mina.
“Vuoi fermarti qui per un po’? basta che firmi li e avrai una camera tutta per te, la colazione e la cena ogni giorno. La domenica anche il pranzo! Ti va allora?” mi chiese con una gentilezza che avevo dimenticato.
Guardai un momento il mio cane, che annusava la ragazza tutto felice.
“Emm… ma se mai desidererò andarmene potrò farlo senza vincoli, vero?” le chiesi, pur pensando che avevo ben poche possibilità di trovare un modo per uscire dalla mia situazione.
“Certo che si! Puoi andartene quando vuoi se lo desideri! Dunque, firmi?”
“Ok.” Risposi, prendendo la penna che mi porgeva e mettendo la mia firma su un foglio.
“Bene, ora se mi segui ti mostro la tua camera!” esclamò la bruna soddisfatta incamminandosi per il corridoio.
In quel momento decine di domande mi infestarono la testa. Stavo per trovare una casa? Stavo per cambiare vita? E come? Sarebbe stato bello? Sarebbe stato terrificante? Avrei incontrato qualcuno di simpatico? Mi sarei emarginata? Avrei fatto qualcosa nella mia vita? Quanto sarei rimasta li? Tutta la vita? Pochi giorni? Qualche mese? Avrei conosciuto qualcuno con cui suonare? Avrei vissuto male? Bene? Così e così?
Poi, la bruna aprì una porta e mi lasciò sola davanti alla mia nuova camera. alla mia nuova casa. Aveva le pareti completamente bianche e il pavimento in legno. Un letto rifatto stava a sinistra, contro il muro, e alla sua destra avevano messo una piccola scrivania e una sedia. Sull’altra parete un armadio e di fianco a me un paio di scaffali con qualche libro riposto. Non era un granché ripensandoci, ma a me sembrò un paradiso! Una stanza tutta per me! Con addirittura una serratura e una chiave! Fu allora che il corso di danza diede i suoi frutti e senza pensare cominciai a danzare per la stanza, con Nacho che saltellava intorno contento. Volteggiavo tra ciò che sarebbe stata la casa dei miei pensieri da quel giorno stesso, anzi già lo era! In quel momento, da quel momento, sarebbe stata la custode dei miei sogni, dei miei pianti, delle mie risa, dei miei ricordi, di tutta la mia esistenza, di me insomma! Ero completamente estasiata da quelle quattro mura, soprattutto da quando, avvicinandomi ai libri avevo visto che il primo titolo era quello del mio libro preferito: Romeo e Giulietta! Un’ombra di familiarità passò sul mio volto, mentre lo prendevo e lo aprivo, trovavo la pagina che cercavo e cominciavo a recitare.
Romeo, Romeo, perché tu sei Romeo?

Anche senza il suo nome, la rosa avrebbe il suo profumo e così Romeo, anche senza il suo nome, sarebbe caro com’è!

Non sei Romeo, uno dei Montecchi?
Ne l’uno ne l’altro se non ti è caro ne l’uno ne l’altro!

Sono alti i muri del giardino e aspri da scalare!

Quanti ricordi riaffiorano in me solo a scriverle, queste parole! Mi ricordo che mentre recitavo mi sembrava di vedere i volti dei miei compagni di teatro e di sentire le loro voci! Ero così felice in quei momenti! Dopo aver finito di recitare mi buttai sul letto (e non ci fu modo di convincere Nacho che non doveva dormire insieme a me… ) e in poco tempo, sfinita, mi addormentai così com’ero.

Chiudemmo il libro.
“Allora L, cosa ne pensi della nostra Mina?”
“Sapevo che nascondeva misteri, ma non sapevo che fossero di questo genere. Certo è che ne ha passate di belle e che sono molto combattuto: da un lato sono molto curioso di sapere tutto del suo passato, dall’altro… ”
“Dall’altro?”
“Dall’altro diciamo che mi sento un po’ indiscreto. E non voglio prendere questa questione in modo diverso da quello che è: cioè una questione personale. Ho paura di ricadere nel mio spirito investigativo e trattare la faccenda freddamente. Capisci quello che intendo? Ho paura di leggerlo come si legge un libro. Cosa dovrei fare?”
“L, se ti fai queste domande vuol dire che non lo stai prendendo come un libro, anzi il contrario.”
“Sai sempre cosa dirmi tu, vero?”
“Esattamente. Cos’ho da fare oggi?”
“Sei impegnati tutta la mattina.”
“Che felicità… ”
“Perché non ti piace il tuo lavoro?”
“Assai, ma quando a casa c’è qualcosa di tanto gustoso…”
“Ti aspetterò per leggerlo, non ti preoccupare…”
“Ma io non intendevo il diario, L.”

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Capitolo 4
*** Surreal Friend ***


 

Tornai a casa per cena, quel giorno. Entrato in casa, mi accorsi che c’era qualcosa di strano: L non era, come suo solito, al pc a risolvere casi. Questo perché amando così tanto il suo lavoro spesso non si accorgeva del tempo che passava  e se non ci fossi stato io a ricordagli di mangiare non si sarebbe più staccato dalle sue elucubrazioni.
Vagamente preoccupato e incuriosito, mi diressi in sala, ma anche li, non lo trovai.
“L?” chiamai. Nessuno rispose.
Mi affacciai alla cucina e rimasi a bocca aperta.
La tavola di legno era stata coperta con una tovaglia a scacchi blu e bianchi, sopra la quale stavano portate di ogni ben di dio per due. Si passava da un leggero antipasto, al primo, a due secondi e infine alla frutta e i dolci. Improvvisamente mi accorsi di avere fame. All’improvviso L comparve, dalla porta della dispensa, con un grembiule un po’ sporco in mano e un timido sorriso.
“L? tu hai fatto tutto questo?” gli chiesi stupito.
“Certo, non te l’aspettavi?”
“Sinceramente… no.”
“Beh, buon compleanno Beyond.” Ribatté dolcemente, invitandomi a sedere.
“Compleanno? Oh, me lo ero totalmente dimenticato… ”
“Immaginavo. Comunque, si, oggi è il tuo compleanno. Prego, accomodati.”
Fu una serata splendida e il suo regalo fu squisito. Dove aveva imparato a cucinare, poi, era un mistero.
Fatto sta che il mattino dopo arrivò un regalo dai nostri amici per il mio compleanno. Non me lo aspettavo e invece si erano uniti e mi avevano regalato una ironica fornitura di marmellata di fragole per tre anni. naturalmente ero in estasi.
“Allora, pensi ancora che non siamo più come prima?” mi chiese L.
“Credo solo che siamo diversi, ma tutto ciò… ”
Non seppi concludere la frase che sentivo solo come concetto astratto, ma scommetto che L capì. La giornata successiva, L mi aveva garantito un giorno libero da impegni e per la mattinata, decidemmo di andare avanti a leggere il diario di Mina, curiosi di sapere come fosse stato il suo passato.

 

Mi svegliai alle prime luci del mattino e mi alzai in fretta. Poi mi ricordai dov’ero e andai a cercare un bagno con Nacho che mi seguiva, facendo ticchettare le unghie sul pavimento. Vidi molte altre porte, ma tutte chiuse. Finalmente trovai il bagno, e per poco non mi stupii della sua pulizia: mi aspettavo uno schifo. Solo guardandomi allo specchio mi resi conto di quanto ero sporca e mi infilai subito in doccia. Ne uscii appena dieci minuti dopo e me ne ci vollero appena altri cinque per vestirmi e andare a fare colazione sempre col cane al seguito, ormai è inutile dirlo. Trovai una mensa alla fine del corridoio, composta da un lungo tavolo verde e una serie di sedie. Ma niente cibo. All’improvviso ricordai di aver visto un foglio sulla scrivania, magari diceva quando servivano la colazione. Così mi fiondai in camera mia e andai a vedere: avevo ragione: sul foglio erano scritte a chiare lettere tutte le regole da rispettare la dentro, inclusa quella che diceva che la colazione era servita dalle nove e mezza, alle dieci e mezza. E in quel momento sospettavo che fossero appena le sette di mattina. Andai dunque a fare due passi con Nacho, per rendermi conto di quale zona circondasse la mia nuova casa. Mi chiedevo spesso chi fosse stato a darmi quell’indirizzo, visto che non l’avevo neanche guardato in volto per un istante, troppo concentrata a cantare. Che faccia avrà avuto?, pensavo fra me e me richiamando Nacho, allontanatosi troppo. Cosa l’avrà mai spinto a farmi questo favore?, continuavo, scusandomi con un signore per essere stato investito da qualcosa di nero e fulmineo. Conclusi in fretta che era inutile stare troppo a preoccuparsi e sgridando severamente Nacho per aver inseguito un gatto randagio, decisi di tornare a casa. Casa. Che strano per me utilizzare di nuovo quel termine. Anche solo nei pensieri, sentivo una sorta di estraneità con quel vocabolo.
Cosa vuol dire alla fine casa? Vuol dire protezione? Vuol dire stare a proprio agio? O vuol dire solo “posto fisso dove stare”? Non può essere la stessa cosa con questa casa e con la mia casa passata, mi dicevo.
Salendo le lerce scale, canticchiavo una canzone dei Sonata Artica: Shy. Mi era piaciuta dal primo istante quella canzone. Ricordo che me l’aveva fatta ascoltare la mia più grande amica, chiedendomi di cantargliela. E così l’avevo imparata ed era per me stata una canzone piena di significato dal punto di vista dell’evoluzione della mia voce. entrai nella mia camera e trovai ancora una volta conforto nelle parole di Shakespeare, le quali mi fecero davvero sentire a casa. Allora forse una casa altro non è che… familiarità assoluta con il luogo in cui sei. È forse per questo che molti ragazzi, conoscendo al meglio una zona di Londra dicono “Questa zona è casa mia”?
Per trovare ancora più conforto in quella camera che ad un tratto non sentivo mia in tutta se stessa (dal letto su cui ero seduta, alle crepe del muro, alla porta accostata, alla lampadina che penzolava sulla mia testa come una pena capitale), presi fra le braccia la mia chitarra e la accordai con movimenti che volevano essere calmi. Conoscevo quei tasti come le mie tasche ormai, pensai. Cominciai a fare qualche accordo, senza riuscire a decidere che canzone suonare. Infine scelsi per un cantautore che avevo sempre amato: Fabrizio de André.  Come conoscevo un artista italiano? Mia madre, alla quale ora con riluttanza pensavo, era italiana e mi aveva fatto crescere con questo sottofondo. Certo, non avevo molta familiarità con l’italiano, ma le parole di quelle canzone invece, mi sembravano poesia più che italiano, anche senza capire completamente il senso di queste.
http://www.youtube.com/watch?v=2kNwJX6E7pE
E naturalmente, appena potuto, per lei avevo imparato quella canzone di Faber che preferiva fra tutte. Non so se fosse per la musicalità, per le parole o per l’insieme. Ma che sorriso aveva, quando la cantavo!
Cantando, chiusi gli occhi istintivamente, per lasciarmi cullare dal suono che producevo e trovare in esso consolazione alla nostalgia che mi era sovvenuta come un pugno nello stomaco.
Erano tutti schierati davanti alle mie palpebre, neanche avessero aspettato quella canzone per comparire.
Mia madre, mio padre, le mie tre amiche, il mio amico con il suo basso…
Li vedevo dentro la testa come immagini nitide e chiare, piene di volontà.
Mi fermai di botto, decisa a continuare con la mia abnegazione alla nostalgia, così distruttiva per me, nella situazione in cui mi trovavo. Ma mi accorsi che era troppo tardi: avevo già cominciato a versare lacrime.
Mi misi la testa fra le mani tentando di non pensare ad altro che al posto in cui mi trovavo. Non al futuro, non al passato, ma al presente. Assolutamente i piedi a terra, mi dicevo. Ma non riuscivo a smettere di piangere, per qualche incantesimo dei miei purtroppo sdolcinati pensieri, che in quel momento non mi aiutavano affatto. Fu in quel momento che vidi i piedi di qualcuno davanti alla mia porta, attraverso i capelli verdi. Due anfibi graffiati e logori con il tacco ormai consumato per metà e dei pantaloni stracciati sistemati alla meglio.
Alzai la testa stupita e incontrai un paio di occhi scuri e un caschetto di capelli azzurri. Era una ragazza che avrà avuto la mia età, forse un po’ più piccola. Mi fissava con l’ombra di un sorriso sul volto.
“Chi sei?” le chiesi irritata con lei e con me. Ma questo non sembrò spaventarla, tutt’altro.
“Oh, ciao, io sono Amy!” esclamò infatti, avvicinandosi a passi pensanti e porgendomi la mano con un largo sorriso. Ma prima di stringergliela, le chiesi bruscamente cosa ci facesse in camera mia.
“Beh, avevo sentito qualcuno cantare in una lingua che non conoscevo, ma mi piaceva, così sono venuta a vedere. Scusami se ti ho disturbato! Vuoi venire a vedere la mia camera?”
“Emmm… certo.” Risposi: sembrava in buona fede.
La seguii per il corridoio, fino a una delle tante porte, che aprì come se fosse l’entrata di un palazzo. Sembrava felice di mostrarmela, quasi infantile. In effetti guardandola bene mi accorsi che non poteva avere che dodici anni massimo. Com’era finita li?, mi chiesi, con un po’ di tristezza. Con un larghissimo sorriso mi stava mostrando un letto a castello, una scrivania e una libreria.
“Guarda, questo è il mio preferito!” esclamò contenta, porgendomi una vecchia edizione di Jane Eyre.
“Davvero? L’hai trovato qua?”
“No… no, era di casa dello zio Tony.” Disse con un’ombra sul viso, al ricordo del passato.
Mi diedi della stupida almeno venti volte.
“Mi dispiace… come ti chiami?” le chiesi, tentando di sviare l’argomento.
“Amy, te l’ho già detto, tu?” rispose con un altro sorriso, apparentemente dimentica della figuraccia che avevo fatto poco prima.
“Io… io mi chiamo Mina” dissi, inventandomi un nome sul momento: non volevo avere niente a che fare con il passato. Eh già amici, non era il mio nome. Ma da quel momento lo è stato, allo stesso modo che me l’avessero dato alla nascita. Come se quel nome stesse aspettando solo di venire fuori.
“Che bel nome Mina, io il mio l’ho sempre odiato. Se invece avessi un nome interessante come il tuo… ”
“E come vorresti chiamarti?”
“Suzanne mi piace molto! O se no Joanna! Tu non hai mai voluto cambiare nome?”
“No, mai. Posso chiederti se sei in stanza con qualcuno? È che vedo il letto a castello.”
“Si, con me c’è mia sorella, Linda. Sai, lei tenta di mantenere tutte e due, e ora che siamo qui è possibile. Prima invece ogni tanto, dovevo lavorare anche io, sai? Non era per niente bello. Tu canti per vivere vero? Sei molto fortunata a poterlo fare! Noi… noi non possiamo.”
“Si, io canto.” Risposi, senza chiederle nulla sul lavoro che aveva dovuto fare, avendo notato il suo tono melanconico.
Mi sorrise.
“Vuoi diventare mia amica?”
“Emmm… ci conosciamo da poco… comunque va bene, se vuoi.”
“Che bello che ora siamo amiche! Suoni qualcosa per me?”
“Ma…. Come? Cioè, cosa vuoi che ti suoni?”
“La sai Across the universe? È dei Beatles!”
“Si, la conosco. Aspetta che accordo la chitarra.” Le dissi, chiedendomi cosa mi avesse spinto a dirle di si. Provavo un istintivo senso di protezione verso quella ragazza, non poi così bambina, ma così infantile.
Così cominciai gli accordi di quella canzone, spiandola. Lei si limitò a sedersi di fianco a me, sul letto e ad aspettare. I suoi grandi occhi non abbandonavano per un istante le mie dita, cosa che in effetti mi metteva un po’ a disagio. Non sorrideva ora, ma aveva un’espressione indecifrabile. Niente solcava quel volto se non un pizzico di curiosità. Cantando una delle canzoni che mi stavano più a cuore, sentii gli occhi asciugarsi definitivamente e addirittura accennai un sorriso fra le parole, cosa che fece sorridere anche Amy. Poi smisi di lanciarle quelle sporadiche occhiatine e ricordo distintamente che abbassai lo sguardo ai miei piedi, ovvero su Nacho, che mi guardava con occhi languidi e orecchie alzate. Tutte e due.

Passarono alcuni giorni, durante i quali il mio tenore di vita si alzò. Scoprii che volendo potevo donare alcuni dei miei pochi spiccioli alla casa, cosa che feci in simbolico risarcimento dei pasti che mi venivano offerti. Ogni mattino mi alzavo verso le nove, facevo una bella colazione a base di caffèlatte e bacon (eh, l’Inghilterra…), uscivo e andavo a cercarmi un posticino favorevole. Al che cominciavo a cantare. Cambiavo un bel po’ di posti al giorno e mettevo da parte tutti i soldi possibili mangiando tanto a colazione e a cena, così da poter saltare il pranzo e poter risparmiare qualche soldo. Non so cosa sperassi di fare con quei soldi. Amy mi parlò poco, dopo quella volta. Quel giorno, stavo ingurgitando una bella dose di pasta al pesto come cena, sempre più grata a quegli affettuosi volontari che dispensavano sorrisoni a tutti insieme a fumanti piatti di cibo. Davanti a me c’era un uomo sui vent’anni che mangiava con lo sguardo basso e delle occhiaie spaventose. Non parlava, come d’altra parte molti dei miei… “compagni”.
Ma quella sera avevo voglia di attaccare discorso.
“Hei, io sono Mina, tu?” gli chiesi allora, porgendogli la mano al di sopra del tavolo.
Mano che egli non guardò neanche.
Un po’ irritata finii di mangiare e feci per tornare in camera.
“Mina!” mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai e vidi un caschetto di capelli azzurri e due occhioni neri che mi guardavano un po’ più in la.
“Ciao Amy!” la salutai, avvicinandomi.
Mi sedetti di fianco a lei, non so come desiderosa di contatto con una qualsiasi persona. Di affetto forse…
“Come stai? È da un po’ che non ti sento suonare!”
“Bene. Non sono spesso qua. Tu?”
“Oh, io sto molto bene! Cioè, abbastanza in realtà! Ma non importa.”
“Come sta tua sorella?”
“Bene, bene. Sta facendo grandi incassi in questi giorni.”
“Ah, bene, sono felice per te.”
“Dipende da che punto di vista la prendi. Comunque si, va bene. Almeno possiamo sopravvivere no?”
“Emm.. si.”
“Prima hai parlato a quel tipo, ho visto. Se vuoi ti dico chi è.”
“Se vuoi…”
“Sai, in realtà è qui da molto tempo, si dice. Era un grande avvocato, con tanti soldi, uno di quelli messi proprio bene, sai? Ma poi ha cominciato a comprare la neve e ha sperperato tutto. Ora sta qua, guadagnandosi in modi infidi dei soldi che poi spende sempre e solo per la neve. E pensare che potrebbe essere ricco…”
La neve, mi chiesi, che cavolo è? Poi capii a cosa alludeva Amy. La famosa polverina bianca, no?
“Cosa? Davvero? Che idiota.”
“Già. Quando è entrato qua dentro, in un momento di lucidità ha detto che vorrebbe smettere ma non ci riesce.”
“Lo faccio smettere io.”
“Cosa?”
“Mi fa arrabbiare. Quindi lo farò smettere. Che lo voglia o no.”
“Oh… ma sei sicura di farcela?”
“Tentar non nuoce, no?”
“Se la metti così…”
“La metto così.”
Aspettai che il tipo, che nella mia mente avevo chiamato Signor Y, finisse di mangiare e vidi in che camera si rintanava.
La mattina dopo
, piena di buoni propositi, uscii dalla mensa e andai subito in camera del Signor Y.
Bussai sommessamente. Niente. Bussai più forte. Niente. Aprii ed entrai. Lui era seduto sul letto, fissava il pavimento e non pareva vedermi. Rimasi ferma ad osservarlo. Era un bel ragazzo, alto, spalle larghe, magro, capelli bruni e corti. Gli occhi non li vedevo.
“Chi sei” disse infine al pavimento.
“Sono una persona che ti può aiutare a smettere.”
“Uh.”
“Vuoi?”
“Mh.”
“Cosa?”
“Vattene.”
“Quindi no?”
“Mh.”
“Beh non mi interessa. Da oggi non ti farai più. Mai più.”
“Vattene idiota”
“No.”
Non mi spaventava il fatto che fosse più grande e probabilmente più forte di me, forse per incoscienza, forse per stupidità, forse senza motivo. Ero una sciocca allora.
“Vattene idiota.”
“No.”
“VATTENE!” sbottò all’improvviso.
“No.”
“…”
“Dove tieni la roba?”
“…”
“Dove cazzo tieni la roba?”
“…”
“Ma mi senti?”
“Che cazzo vuoi?”
“La tua roba”
“Fottiti.”
“No grazie. Dov’è?”
“Ti fai?”
“No”
“E allora che te ne fotte?”
“Voglio che tu smetta.”
“Ma chi cazzo sei?”
“La tua coscienza.”
“Uau. Esci.”
“No.”
“Esci”
“No”
“Esci.”
“Dammi la tua roba.”
“ESCI CAZZO!”
“No.”
Sbuffò.  Si alzò e estrasse un sacchetto dal cassetto. Me lo porse.
“Tutta.”
Si girò prese altri due sacchetti dal cassetto e me li diede.

Così conobbi James, un uomo di 26 anni, un avvocato, una speranza, ma soprattutto una persona che aveva bisogno di aiuto. Per prima cosa ricordo che buttai la roba trovata nel cestino all’ingresso. Poi tornai da lui e li rimasi per i seguenti sette giorni senza mai uscire. Neanche una volta. Fu terribile. Aveva continue e profonde crisi, contrazioni dolori. Dormiva pochi minuti, poi si svegliava e vomitava. Era un incubo, ma avevo deciso una cosa, e quando decidevo una cosa nulla mi persuadeva dal farla, come tu, caro lettore dovresti sapere. Ricordo che Nacho si accucciò di fianco alla porta e rimase li quasi sempre. La porta chiusa a chiave per tutto il giorno, tranne quando Amy portava i pasti a tutti e tre.
Poi, il settimo giorno, finì. Fu un sollievo inimmaginabile per tutti e due. Non avevamo in mente altro che andarcene da quella stanza, possibilmente per sempre.
Così, insieme uscimmo. Non solo dalla stanza, ma dall’edificio a respirare aria che non fosse rarefatta e a riprenderci. Passarono i minuti. Io, con Nacho affianco, sedevo sul marciapiede e guardavo le nuvole simili alla schiuma dello spumante che mio padre apriva a capodanno. Sarebbe stato fiero di me? No, mi rispose subito. Non lo sarebbe stato per niente. E avevo ragione. Ero un’assassina, mai nessuno ne sarebbe stato felice. Sapevo che il fattaccio probabilmente aveva riscosso i giornali, ma io li avevo evitati. Sapevo che avrebbero potuto scoprire la mai identità, ma non l’avevano fatto. La mia vita era un tutt’uno precario e instabile che dipendeva solo dal fatto che era passato tanto tempo e che l’uomo dimentica in fretta ciò che non gli serve. Contavo sul fatto che ciò che era accaduto fosse rapidamente caduto nell’oblio, anche se faceva male pensare ai miei amici, ai miei parenti, alla mia vecchia vita. Mi dicevo che tutti loro erano andati avanti come me e che ormai, semplicemente, le nostre strade si erano divise. Evitavo di pensare che in ciò che vivevo non c’era nulla di semplice e scontato. Diciamo che evitavo di pensare alla mia vita in generale. Ero giunta a uno stato in cui mi adattavo semplicemente alle situazioni, senza chiedermi perché o percome. L’uomo davanti a me camminava in tondo, guardando ora il cielo, ora il marciapiede pieno di cicche di sigarette, spente da suole ignote in quella che sembrava un’altra dimensione del conscio.
Passò del tempo, non saprei dire quanto, finché egli si girò verso di me con uno sguardo strano.
“Grazie” mi disse con sincerità.
Mi stupì quel gesto, ma mi ci adattai. Come detto poc’anzi non mi risultava difficile farlo.
Comunque sia, rientrammo, ma poco prima di salire le luride scale, l’uomo mi guardò e mi disse:
“Grazie a te presto me ne andrò da qui. Grazie.”
“Figurati.”
Per tutti e due, era evidente, la gentilezza, l’amicizia erano cose insolite da trattare, non vi eravamo abituati.
Rientrai in camera mia, avvertendo un’atmosfera leggermente surreale. Mi sentivo malinconica, ma al contempo soddisfatta. Non sapevo cosa fare, ne come farlo. così presi la mia chitarra e decisi di dedicare una mezz’oretta a lei, per poi uscire in strada a cantare e riprendere la routine.

Interrompemmo la lettura.
“Che forza.”
“Il diario?”
“Mina.”
“Matt quando arriva a Londra?”
“Domani sarà in quella casa.”
Con queste parole mi alzai per andare a cucinare qualcosa per il pranzo, mentre L mi guardava riflettendo pandosamente.

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