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Quella mattina Arvel si
svegliò verso le nove, come al solito. Non aveva fretta.
Era un uomo basso e grassoccio
che si aggirava sui cinquanta, come dimostravano i capelli corti un tempo neri,
ma ora grigi. Si alzò dal letto lamentandosi per gli acciacchi dell’età, scese al
piano di sotto e aprì la porta della taverna. Fare l’oste in quel paesello
sperduto e dimenticato da un re che pensava solo ai suoi giochi di alleanze non
era un gran lavoro, ma Arvel si accontentava. A lui bastava la vita di ogni
giorno: servire ai tavoli, ascoltare le solite lamentele dei contadini, i
racconti dei soldati di ritorno dal fronte e le storie degli stranieri di
passaggio e accertarsi che non si scatenassero risse o peggio nella sua
osteria.
Tutti erano ammessi, purchè
nessuno portasse dei guai che riuscissero a toccarlo o a causargli fastidi con
l’autorità, qualunque essa fosse.
Arvel non era certo un cuor
di leone, ma era arrivato alla sua età in quel modo, facendosi sempre i fatti
suoi, e così voleva continuare a vivere.
La sua taverna era piuttosto
modesta e povera, priva di inutili ornamenti. C’erano sei tavolini con quattro
sedie ciascuno e al piano di sopra qualche camera da letto.
Aprì anche le finestre e la
forte luce di una mattina primaverile entrò nel locale, illuminando il
pavimento fino al bancone. Arvel ci si sedette dietro, come al solito,
aspettandosi di vedere, come al solito, i pastori che tornavano a casa dopo
aver trascorso la notte a vigilare sulle greggi nei pascoli, poco più a nord
del suo villaggio, Laca, e che passavano sempre davanti alla sua locanda,
perchè era il primo edificio sulla via proveniente dalle Montagne Verdi.
Invece non udì il belare
delle pecore nè l’abbaiare dei cani e neppure le voci degli uomini. Sentì solo
il rumore prodotto dalla terra battuta dagli zoccoli di un cavallo che si
avvicinava. Siccome ciò gli sembrava insolito, per un attimo sperò che il
cavaliere, chiunque fosse, non si fermasse lì, ma andasse avanti. Subito dopo
si chiese perchè avesse sperato una simile cosa: dopotutto, chi poteva mai
essere di tanto terribile?
E tuttavia ebbe un piccolo
sussulto quando sentì il cavallo fermarsi. Scivolò fuori da dietro il bancone e
si avvicinò alla finestra per vedere meglio la scena. Scorse un uomo alto e
vestito di nero scendere dal cavallo e assicurarlo un albero. Poi si accorse
che veniva deciso verso la sua locanda. Allora sospinse la porta in avanti e
corse al bancone lasciandola socchiusa.
“Così magari penserà che sia
ancora chiuso e passerà più tardi, quando ci sarà più gente... Non mi piace,
non capisco chi sia, ma forse mi ha visto e allora ho fatto male a chiudere la
porta... Magari faccio in tempo a riaprirla...” Ma il flusso dei suoi pensieri
si interruppe quando vide la porta aprirsi silenziosamente. Subito dopo sentì
un lieve fruscio di piedi sul pavimento e alzò gli occhi dal bancone per
guardare lo sconosciuto. Aveva vestiti neri e sporchi, ma di buona fabbricazione.
Portava dei mocassini marrone scuro che gli consentivano di muoversi silenziosamente.
Indossava un mantello nero con un cappuccio che gli copriva anche parte del viso.
Non si riusciva bene a capire quanti anni avesse, ma sembrava giovane poichè
nessuna ruga solcava il suo volto e la sua pelle appariva ancora liscia e
perfetta, ad eccezione di un piccolo taglio sopra la parte sinistra del naso.
Eppure gli occhi non davano certo questa impressione. Erano uguali a quelli di
un cane da caccia a pochi passi dalla sua preda. Guizzarono veloci e scrutarono
tutta l’osteria, prima di fermarsi sull’oste, stupito e un po’ impaurito dalla
comparsa di un viandante così strano. L’uomo vestito di nero si avvicinò al bancone
e appoggiò una mano coperta da un guanto su di esso. Sul guanto nero c’era uno
strano simbolo: tanti cerchi concentrici uno dentro l’altro. O almeno così
apparve all’oste, che lo guardò per un attimo, prima di rivolgersi allo strano
figuro con un sorriso forzato.
-Salve e benvenuto nella mia
locanda! Vuole qualcosa da bere o da mangiare?-
Lo straniero fissò la faccia
grassoccia di Arvel che si sforzava di mantenere un’espressione calma con i
suoi occhi penetranti per un po’, poi con una voce calma rispose:-Voglio delle
informazioni. Sono disposto a pagarle bene.- E fece scivolare dalla mano sul
bancone un sacchettino pieno di monete d’oro.
-Che cosa vuole sapere?-
chiese l’oste, incerto se quel signore rappresentasse la sua fortuna o la sua
rovina.
-Ieri sera è arrivato qui un
giovane uomo, sui vent’anni, alto, con i capelli castani arruffati. Se lo
ricorda?- domandò guardandolo come se potesse leggergli nell’anima.
-Sì, ma... C’è ne sono tanti
così... Vedo molti contadini e pastori con i capelli castani arruffati e alti
di statura... Non ricordo bene se anche ieri sera...-
-Non ha l’aria di un
contadinotto qualunque! Chi sto cercando porta con sè un bastone che si biforca
e poi si riunisce in cima. Inoltre viaggia sempre coperto da un mantello e un
cappuccio verde scuri. Porta abiti da poco, ma non ha l’aria di uno povero.
Faccia uno sforzo di memoria!- ribattè il forestiero con uno scintillio negli
occhi verdi.
-Non ricordo bene... qui ne arrivano
tanti di tipi strani...- borbottò Arvel e guardò meglio il suo interlocutore. C’erano
due strani rigonfiamenti nel suo cappuccio sui due lati opposti. Poi vide lo
scuro figuro portarsi una mano al fianco sinistro e scostare il mantello,
rivelando così l’elsa di una lunga spada.
-Colui che mi preme trovare
non ama farsi notare: sarà stato in un angolo tutta la sera. Avanti, ci pensi
bene.- disse quello come se niente fosse.
L’oste, cominciando a sudare
freddo e maledicendo la sua abitudine a far entrare tutti i viandanti, pensò
con forza alla sera prima. -In effetti, c’era un tale...- disse dopo qualche
minuto -era arrivato tardi ed era rimasto tutto il tempo vicino alla porta come
se aspettasse qualcuno... E, ora che ci penso, aveva proprio uno strano
bastone...-
Gli occhi dello staniero
ebbero un guizzo. -E ora dov’è?- chiese battendo il pugno sul tavolo. L’oste
atterrito sobbalzò e rispose tremando di paura:-Ha detto che voleva passare qui
la notte, ma che non aspettava nessuno...-
L’uomo non aspettò che
finisse e cominciò a salire le scale. L’oste gli si precipitò dietro e gli
sussurrò:-Ma signore... Non voleva essere disturbato... e...-
Il nero figuro lo interruppe
fulminandolo con lo sguardo. -Dimmi subito in quale stanza si trova, lurido
Cadàn, se non vuoi che la mia spada beva il tuo sangue!-Arvel, quando vide che l’uomo metteva una
mano sull’elsa della spada, smise di temporeggiare e disse in fretta:-N-nell’ultima
in fondo al corridoio.-, mentre malediceva ancora se stesso e quella assurda
mattina.
Seguì con lo sguardo lo
straniero che arrivava davanti all’ultima stanza e lo vide dare un calcione
alla porta, che cedette subito. Poi il nero figuro entrò.
Dal fondo del corridoio
l’oste sentì un grido e poi alcune voci che non riuscì a capire bene. Nonostante
la paura che lo attanagliava e il desiderio di darsela a gambe, non riuscì a fare
a meno di dirigersi verso la fine del corridoio. La curiosità fu più grande del
terrore e, arrivato, guardò oltre la porta scardinata.
Nella piccola camera c’era
solo l’uomo vestito di nero di spalle che stava in piedi sopra il letto disfatto
con la spada grigia sguainata nella mano destra. Lanciò un altro grido di
rabbia e si voltò lanciando un sasso luccicante sul pavimento vicino ad Arvel.
Poi urlò con frustrazione e odio:-Il maledetto bastardo è sparito! Ma lo
prenderò! Non deve avere al massimo più di mezza giornata di vantaggio e non
potrà sfuggirmi! Lo farò pentire di essersi fatto beffe di me e delle mia
Regina!-
Dopo che ebbe pronunciato
queste parole, il nero figuro si accorse dell’oste impaurito sulla porta, scese
dal letto e lo prese per il bavero della giacca.
-E tu non dirai niente a
nessuno di tutto questo, o te la farò pagare!- gli gridò puntandogli la spada
al collo.
-N-no, non dirò n-niente a
nessuno, nessuno!...- farfugliò Arvel atterrito. Lo sconosciuto lo buttò a
terra e uscì dalla camera. L’oste rimase rannicchiato sul pavimento fino a che
non sentì il rumore degli zoccoli del cavallo che si allontanava. Solo a quel
punto, ancora spaventato e confuso, notò che sparsi per terra c’erano dei
soldi. Poi vide il sasso lanciatogli dal nero figuro. Lo raccolse per
osservarlo meglio. C’erano sopra degli strani simboli rotondeggianti che lui
non capiva. All’improvviso, mentre se lo rigirava fra le mani, esso si illuminò.
Arvel tremò e sentì una voce provenire dal sasso. La riconobbe: era quella del
giovane che aveva preso quella camera.
-Caro oste, le lascio il
dovuto per la camera e la cena. Non si preoccupi se non mi troverà nella mia
stanza, perchè in ogni caso ciò che mi succede non la riguarda.Eldacil, se invece sei tu a stringere questa
pietra, mi auguro che non te la sia presa se ti ho lasciato a bocca asciutta.
Prega la tua padrona, magari ti darà la forza per prendermi!- Poi ci fu una
breve litania in una lingua sconosciuta all’oste e la voce si spense.
Sbalordito, Arvel raccolse i
soldi in fretta e tornò al piano terra con in mano anche il sasso e si sedette
al bancone, pensieroso. “Ma che mattina!” pensò “Un uomo tutto nero che
minaccia due volte di uccidermi...e quel tale di ieri sera... anche lui un bel
tipo! Incredibile! Tutta la vita a evitare i guai ed ecco che un tizio vestito
di verde arriva qui e mi porta il finimondo! Bah! Per fortuna, nessuno dei due
sa come mi chiamo e presumibilmente nemmeno sanno il nome del villaggio.
Speriamo che non arrivino altri così!” Si alzò e andò verso la porta come per
assicurarsene. Poi salì di sopra e rimise a posto la stanza come meglio poteva
e si disse che era stata proprio una fortuna che non ci fosse nessuno nella
taverna quella mattina.
Infine scese giù e pensò a
dove poter nascondere il sasso, come se fosse una prova di un atroce delitto.
Buttarlo via non era una buona idea perchè chiunque avrebbe potuto trovarlo e
allora avrebbe anche lui visto e sentito. Di romperlo neanche a parlarne, aveva
paura che gli succedesse qualcosa di terribile e l’ultima cosa che voleva era
una maledizione sulla testa o, peggio ancora, che qualcuno venisse a punirlo.
“Non si sa mai... Un oggetto
magico come questo va maneggiato con cura... Devo fare in modo che nessuno lo
veda nè possa sapere che esiste. Non voglio avere problemi con le guardie... Ho
sentito che si rischia grosso se si possiede qualcosa di magico in casa e di
certo non crederanno a ciò che mi è accaduto, stento a crederci perfino io!
Devo farlo sparire!” Così decise di nasconderlo insieme ai soldi in un buco
sotto un barile nel retro, dove teneva le provviste. Dopo che ce lo ebbe gettato
e coperto con una trave di legno e la botte di vino, si sentì un po’ sollevato,
pensando che adesso il suo segreto era al sicuro. Tornò al bancone ad aspettare
i clienti.
“Se ne arriva un altro
strano” pensò mentre si sedette “lo caccio fuori e appendo un cartello con
scritto in modo ben chiaro: vietato l’ingresso agli stranieri.”
Verso le dieci cominciarono
ad arrivare i pastori e la vita di Arvel riprese a essere normale. Anche se non
sarebbe rimasta così ancora molto.
Questo capitolo non mi
convince molto... Ma non ho più voglia di aspettare!
Chiedo gentilmente a tutti
quelli che leggono di commentare, in negativo, su qualunque cosa non funzioni.
Ovviamente ringrazio Suikotsu che ha commentato il primo capitolo, ma vorrei
sentire anche una seconda opinione (e magari una terza, una quarta, una
quinta...).
Capitolo
2 - Preda
Una scarsa luce filtrava attraverso
gli alberi, molto fitti e intricati. La foresta era molto buia e si riuscivano
appena a vedere i tronchi delle piante. Non esisteva nessun sentiero e da quasi
trecento anni neanche una persona aveva percorso quell’antica selva. Gli uomini
se ne tenevano alla larga e i pochi temerari che vi si erano addentrati non
erano più tornati indietro.
Eppure un solitario
viaggiatore camminava in mezzo agli alberi. Aveva un mantello e un cappuccio
verde. Portava in mano un bastone che si biforcava, si attorcigliava e si
riuniva. Il suo volto era nascosto da un cappuccio cosicchè si vedevano solo
gli occhi verdi. Portava guanti. Il suo nome era Arellon ed era un mezzelfo.
Era giovane, ma non era inesperto. Sapeva dei pericoli della Grande Foresta
Oscura, ma doveva prendere quella via. Di certo il suo nero inseguitore aveva
già raggiunto la locanda e perciò non aveva molto vantaggio. Se avesse percorso
uno qualunque degli altri sentieri sulle montagne sarebbe stato raggiunto e,
con ogni probabilità, ucciso. In ogni caso voleva essere prudente: stava
camminando vicino ai margini della foresta senza arrischiarsi a entrare troppo
nel folto.
“Qui Eldacil non mi seguirà
mai.” pensò con sicurezza guardandosi intorno “Eppure non riesco a liberarmi
dalla sensazione di non essere solo...”
Infatti gli sembrava di
sentire dei rumori simili al frusciare di foglie al vento. Ma non c’era vento.
Sua nonna gli aveva raccontato che un tempo la foresta era molto frequentata da
viaggiatori e mercanti che narravano aver visto grandi reami e città. Erano
abitate da driadi, centauri ed elfi tutti quanti caratterizzati da una
carnagione chiara a causa del fatto che vivevano nel folto della Foresta, dove
non c’era altra luce se non quella debole e fioca creata dalla loro magia. Poi
c’era stata la Guerra delle Follia e gli esseri che là dimoravano si erano
nascosti e da tre secoli la Foresta era muta e silenziosa. I suoi abitanti
erano svaniti, come inghiottiti dall’oscurità. Non si sentivano più i canti
delle driadi nè il nitrire dei centauri nè le odi degli elfi rivolti ai grandi
alberi come le querce, i castagni, i pini e le sequoie. Gli uomini erano
convinti che quelle strane creature fossero morte. Eppure temevano ancora i
rami e le fronde che si protendevano come artigli pronti a catturare gli
incauti viaggiatori.
Alcune ore prima aveva
chiesto ad alcuni pastori sulle Montagne Verdi se era sulla strada giusta per
la Grande Foresta Oscura. Un pastore guardandolo stupito gli aveva
chiesto:-Straniero, forse tu cerchi la morte? Oppure abiti in quella selva
maledetta?- Gli aveva risposto che voleva solamente attraversarla e allore il
pastore lo aveva guardato preoccupato e gli aveva indicato la strada verso Sud.
-Quella è la via, signore.- E pensò:“Deve essere un perseguitato o un disperato
per voler passare di là!”
Arellon continuava a
camminare accanto a quegli enormi alberi. Si sentiva stanco, ma doveva
raggiungere un corso d’acqua per essere sicuro per avere le prove di quello che
pensava.
Ma ormai doveva essere
diventata notte perchè l’oscurità era aumentata e quindi ci si poteva perdere
continuando a camminare. Non era sicuro accendere un fuoco, si correva il
rischio di essere visti e di offendere le creature della foresta bruciando una
parte della loro terra. Così il silenzioso viaggiatore si fermò e si sedette.
Mangiò un poco del pane che aveva preso alla locanda il giorno prima.
Poi provò ad ascoltare i
rumori della foresta. Apparentemente si sentiva solo il frusciare leggerissimo
delle foglie, ma esattamente come poche ore prima gli sembrava che ci fosse
qualcuno che lo osservava.
Ma chi poteva essere?
Eldacil? No, non era possibile. Prima di tutto, non avrebbe mai pensato che lui
avrebbe corso il rischio di percorrere un sentiero così oscuro e pericoloso. E
poi sapeva che Eldacil odiava e temeva la Grande Foresta.
Allora chi? Forse le guardie
del re Gardon? Impossibile! Anche se lo avevano notato e lo credevano sospetto
avrebbero abbandonato la pista non appena si fossero accorti che si era
addentrato fra quegli alberi.
Doveva sapere chi lo seguiva.
Purtroppo non aveva trovato un corso d’acqua e perciò la magia non sarebbe
stata completa. Ma almeno avrebbe saputo quanti lo seguivano e con quali
intenzioni.
Prese il bastone e tracciò un
cerchio intorno a sè, per quanto l’oscurità gli permetteva. Poi prese da una
tasca del mantello un sacchettino che conteneva delle foglie di forma
circolare. Gli erano state date alcuni anni prima da sua nonna che a sua volta
le aveva ricevute da suo nonno il quale le aveva avute in dono dal grande
stregone elfico Olidos. Avevano un’enorme valore e potere, ma non le aveva mai
usate. Sua nonna gli aveva spiegato che servivano ad entrare in comunione con
l’ambiente circostante e a percepirne i pensieri. La terra rivelava il numero
dei passi che la calpestavano, gli alberi, eterni e saggi, sapevano dire le
intenzioni e i fini di tutto ciò che vedevano e l’acqua mostrava l’aspetto di
coloro che le passavano vicini. Era molto pericoloso però, perchè si correva il
rischio di perdersi e di diventare parte dell’ambiente.
Per un po’ rimase lì a
pensare se davvero fosse il caso di usarle, ma, quando era sul punto di lasciar
perdere, sentì un dolore acuto al palmo della mano sinistra. “Oh, no! Non posso
più esitare.” pensò e addentò una foglia. Poi incrociò gambe e braccia e chiuse
gli occhi. Sentì una ventina di passi felpati a poca distanza da lui a sinistra
e un incedere duro e veloce poco più lontano a destra. Percepì un odio
immotivato e feroce alla sua destra e una curiosità unita a rabbia a sinistra.
Vide che l’individuo alla sua destra bramava di prenderlo e ucciderlo mentre
quelli a sinistra volevano solo catturarlo, almeno per il momento, ma neanche le loro intenzioni sembravano amichevoli.
Poi successe una cosa che non
si aspettava. Sentì due voci confuse nella testa. -Molti ti seguono...
vattene... continua la tua strada... abbandonala subito... qui non ti accadrà
nulla di male... ti uccideremo orribilmente... resta... muori!-
Arellon si riscosse dal suo
stato di trance mandido di sudore. Gli spiriti della foresta non erano tutti
della stessa opinione, mancava la sintonia. Ecco perchè gli alberi e i rami si
intrecciavano e crescevano gli uni sopra gli altri: era come se ci fossero due
anime che si contrastavano. Una era amica di ogni forma di vita, mentre l’altra
odiava tutte le cose estranee che mettevano piede nella foresta. “Chissà cosa è
accaduto qui... Di certo qualcosa di orribile che ha turbato la solidità degli
alberi.” pensò mentre si rialzava per cancellare il cerchio. Decise che forse
era meglio riposare e pensare la mattina dopo a cosa fare.
Per sua fortuna, gli esseri
misteriosi che lo osservavano non approfittarono del suo sonno per catturarlo,
ma si limitarono a sorvegliarlo. Quando fu mattina, una luce verde riuscì a
passare attraverso gli alberi e svegliò il viaggiatore che, dopo aver
sbocconcellato un altro po’ del suo pane, riprese il cammino. Per tre giorni
proseguì nella foresta senza che succedesse nulla.
Poi nel pomeriggio del quarto
giorno, dopo aver camminato intorno ad alberi secolari e a giovani arbusti,
arrivò in una radura. Gli sembrò strano che ce ne fosse una in mezzo a una
foresta selvaggia. Gli parve davvero bizzarro, ma la attraversò. Non poteva
fare altrimenti: a sinistra gli alberi erano troppo intricati per passare e lo
stesso valeva a destra. Forse avrebbe dovuto cercare un’altra strada, ma
correva il rischio di perdersi nel buio e di essere catturato dalle misteriose
creature o di uscire dal bosco e di essere ucciso da Eldacil. Così avanzò
attraverso le erbe alte e i cespugli ed entrò nella radura. Aveva una forma
circolare e l’erba era molto bassa, come se fosse stata tagliata. Era
circondata da pini e querce altissimi e maestosi in mezzo ai quali si
nascondeva una timida e piccola betulla. Dopo il cerchio di alberi crescevano
una fila di cespugli rigogliosi e una di fiori meravigliosi di tutti i colori
dell’arcobaleno. Quando arrivò a metà della radura, davanti alla quercia più
alta e grande, sentì un dolore acuto alle gambe, come se lo avessero colpito
con un frusta. Poi non riuscì più a muoverle. Le guardò e vide che erano legate
da delle funi che sembravano di legno. E infatti erano le radici del pino che
aveva dietro di sè ad una distanza di tre metri. In preda al panico agitò il
bastone cercando di pronunciare una semplice magia per liberarsi. Ma non aveva
ancora finito di parlare che i rami della quercia che aveva di fronte gli
avevano già avvinghiato il torace e le braccia. Alzò la testa verso il cielo
divincolandosi disperatamente nel tentativo di liberarsi, ma gli servì solo ad
accorgersi che gli altri alberi stavano unendo le loro fronde per oscurare la
radura. Aprì la bocca per gridare, ma le foglie della quercia si mossero fulminee per tappargliela. I cespugli e i fiori mutarono, sfoderando come artigli centinaia di
spine e si colorarono di rosso, rosso sangue. Prima che il buio più totale
calasse nella radura, Arellon sentì delle voci.
-Lo abbiamo preso!-
-Andiamo ad avvisare Iselia.-
-Non lasciamo nessuno a
sorvegliarlo?-
-No... Anche se riuscisse a
fuggire ci penserebbero gli alberi a fermarlo.-
Ringrazio Suikotsu che ha
commentato e ha anche messo la storia tra i suoi preferiti.
E anche quelli che leggono
senza commentare.
Capitolo 3 - La spia
Era notte fonda. Nessuna luce
illuminava il castello di Duscar. Neanche sulle mura erano accese delle
fiaccole per garantire migliore visuale alle sentinelle.
Tutto era immerso nell’oscurità,
eccetto l’Ala Ovest del corridoio del quarto piano.
Lì la debole luce tremolante
di un candelabro rischiarava la via al suo portatore. Era un uomo sui
trent’anni alto, slanciato, ma muscoloso. Aveva dei lunghi capelli rossi
avvolti in una coda a cavallo dietro la testa per evitare che fossero
d’intralcio nella visuale. I suoi occhi erano scuri come la notte e rendevano
il suo sguardo sicuro e contemporaneamente astuto. Il suo viso, dalla pelle
molto chiara, non era brutto, ma di certo non si poteva dire che fosse
rassicurante. Portava solo una leggera giacca senza maniche e dei pantaloni e
delle scarpe che gli permettevano di muoversi molto liberamente. Aveva legata
alla cintura una guaina contenente un lungo coltello.
Si muoveva rapidamente,
sapeva di non avere molto tempo. Camminava con passi felpati sul tappeto
porpora guardando attentamente alla sua sinistra, dove si trovavano numerose
porte. Alla sua destra invece c’erano delle finestre e a metà del corridoio una
grandissima vetrata dalla quale si scorgevano in lontananza le Montagne Verdi.
Si fermò davanti all’ultima
porta, dopo la quale il corridoio svoltava verso l’Ala Sud. “Questa è la porta.
Speriamo che il nostro amico sia stato ai patti.” pensò l’uomo e la spinse. La
pesante porta si aprì lentamente verso l’interno. “Sì! È proprio vero che la
brama di denaro cancella ogni paura negli avidi!”
Entrò sorridendo e si ritrovò
in una grande stanza a forma quadrata. Sulle pareti si trovavano undici armadi
a muro, due per la parete con la porta e tre per ogni altra. L’uomo si diresse
veloce verso quello al centro della parete in fondo alla stanza. Spalancò le
ante e velocemente passò in rassegna con lo sguardo tutti i ripiani. Migliaia e
migliaia di boccette e alambicchi erano messi in perfetto ordine, ciascuno con
un foglietto che ne indicava il contenuto. L’uomo si chinò a terra per
osservare il secondo ripiano. Si fece luce con il candelabro che stringeva
nella mano destra e lesse mentalmente alcuni dei nomi.
“Pozione di Crescita, Pozione
di Crescita potenziata, Pozione di Rafforzamento muscolare, Pozione di
Indebolimento muscolare... No, non sono su questo ripiano!”
Neanche quello superiore si
rivelò quello giusto. Continuò a ispezionare l’armadio, finchè arrivò al
penultimo ripiano.
“Ecco! Sono queste!” Con
un’espressione di giubilio sul volto appoggiò il candelabro a terra e si aprì
la giacca. Poi allungò entrambe le mani e prese una boccetta contenente un
liquido cremisi dal ripiano. La pose con estrema delicatezza dentro una piccola
sacca che teneva appesa al collo tramite una cordicella sotto la giacca
all’altezza del petto. Tolse dal ripiano altre tre boccette e le mise insieme
alla prima.
“Meglio prendere anche
questa... Non credo che mi serva, ma è meglio essere prudente.” Afferrò un’altra
boccetta sottile dove si agitava un liquido nero e se la cacciò in una tasca
della giacca. “Ora posso andare.”
Fece per richiudere le ante,
ma si fermò. Aveva sentito un rumore alle sue spalle. Voltò piano la testa e
vide a poca distanza da lui un ragazzo al massimo di diciotto anni con i
capelli cortissimi avvolto in una tunica marrone. Era chiaramente un mago, sia
per l’abbigliamento sia perchè stava mormorando qualcosa in una strana lingua
muovendo lentamente le mani. Proprio nell’attimo in cui puntò il palmo destro
contro di lui, l’uomo si abbassò di scatto. Mentre l’armadio dietro di lui
veniva colpito da una magia che mandava in frantumi molte boccette, lui si
tuffò in avanti, afferrò il mago per le ginocchia e lo scaraventò a terra.
Prima che il ragazzo potesse tentare con un’altra fattura, l’uomo estrasse il
pugnale con la mano destra e glielo piantò in petto. Con un lieve gemito il
mago spirò. Lui estrasse il coltello insanguinato e lo rimise nel fodero.
Era stato scoperto, aveva
davvero poco tempo per darsela a gambe. Ringraziando mentalmente la sua
previdenza, prese la boccetta dalla tasca nella giacca e ne bevve il contenuto
tutta d’un fiato. Poi la gettò a terra con una smorfia di disgusto per il
saporaccio che aveva la pozione e sentì odore di bruciato. Guardò dietro di sè
e vide che il candelabro era caduto incendiando il tappeto.
“Magnifico! Ci mancava solo
questo... Almeno questi maledetti maghi avranno qualcos’altro a cui pensare!”
Corse fuori dalla stanza e si
ritrovò nel corridoio. Alla sua sinistra dei maghi si stavano avvicinando
rapidamente gridando che c’era un ladro nell’Ala Ovest. Allora lui andò verso
destra, ma, arrivato quasi alla fine del corridoio, sentì provenire anche da
quella parte rumori di passi affrettati e di urla di allarme. Corse di nuovo
indietro fino ad arrivare al centro del corridoio. Da entrambi i lati
arrivavano maghi e soldati. Alcuni provenienti da sinistra si fermarono a
spegnere l’incendio nella stanza delle pozioni, ma la maggior parte si
diressero verso il centro del corridoio per chiudere ogni via di fuga.
Contemporaneamente si accesero tutti i bracieri del corridoio, consentendo a
tutti di vedere il ladro.
Lui era perfettamente calmo.
Un acuto dolore lo colpì nella schiena, appena sotto le scapole. Una sorriso di
trionfo si segnò sul suo volto, malgrado la sofferenza.
-Fermo! Sei circondato!-
gridò un mago dalla tunica rossa mentre lui e gli altri si preparavano a
lanciare un incantesimo per fermarlo.
-Davvero? Non credo!- rispose
beffardo. Poi prese la rincorsa e si scagliò contro la vetrata, mandandola in
frantumi e precipitando fuori.
Tutti furono colti alla
sprovvista da quel gesto. Erano al quarto piano e ciò significava un salto di
almeno trenta metri. Nessuno si sarebbe aspettato che facesse una simile
pazzia.
-Adesso raccoglieremo solo i
cocci di quello che ha rubato! Bah, non importa.- disse il mago che aveva
parlato prima -Voi, andate al piano terra e prendete ciò che ne è rimasto.
Portatelo dentro, voglio cercare di capire chi era e chi può averlo mandato.-
Un gruppo di maghi si allontanò in direzione delle scale. -Voialtri invece
andate nella stanza delle pozioni e guardate cosa manca e...-
-Maestro Fertor, presto
venite a vedere! Non è morto!- gridò un mago che guardava oltre lo squarcio nella
vetrata. A quelle parole molti altri gli si fecero intorno per vedere.
-In nome di Jasdala, Gannon,
cosa stai farneticando? Come può non essere morto dopo essersi sfracellato a
terra dal quarto piano?- urlò Fertor facendosi largo tra la folla per ottenere
una buona visuale.
-Perchè non si è mai
sfracellato, Maestro.- disse Gannon con un filo di voce indicando un punto nel
cielo. Il Maestro riuscì ad arrivare davanti alla vetrata e guardò dove
indicava l’allievo. Alla debole luce della luna calante fu in grado di vedere
qualcosa che assomigliava ad un enorme uccello. Però poi si accorse che era
troppo grande e che non aveva solo due ali nere, ma anche due braccia e due
gambe. In un istante comprese l’astuzia del ladro.
-Maledizione! Ha bevuto il
secondo tipo della Pozione del Volo! Presto! Salite sugli spalti e dite a tutti
di cercare di abbatterlo! Muovetevi! Non fatelo fuggire!- sbraitò furibondo. I
maghi e i soldati corsero in direzione delle scale per salire sulla cima delle
mura. Fertor però sapeva che non sarebbero mai arrivati in tempo. Il ladro era
già troppo lontano per qualunque colpo magico o di freccia.
Sopraffatto dalla rabbia per
il senso di frustrazione che sentiva puntò entrambe le mani contro la figura
volante e gridò:-Weston Axos!- Un fulmine partì dalla punta delle sue dita e
illuminò la notte, ma non andò neppure vicino all’uomo alato, che si
allontanava velocemente in direzione delle Montagne Verdi.
Era una sensazione
bellissima. Il mondo sotto di lui sembrava tanto piccolo, mentre la luna e le
nuvole erano così vicine. Nonostante il suo pragmatismo, l’uomo si sentiva
incredibilmente felice. Si era anche sciolto i capelli con le mani libere, per
poter sentire il vento che li scompigliava. Volare era qualcosa di fantastico.
Certo, all’inizio aveva fatto
un po’ male. Aveva sentito come se dentro di sè si formasse qualcosa di
estraneo che desiderava uscire e premeva. Poi le grandi ali di penne nere gli
erano spuntate sulla schiena proprio mentre precipitava e gli avevano
squarciato la pelle, oltre che la giacca. Erano lunghe almeno due metri
ciascuna per potere sorreggere bene il suo peso. Aveva perso sangue, ma non
aveva sentito il dolore, dato che le due ferite si erano rimarginate quasi
subito e soprattuto perchè era inebriato dal potere che sapeva di possedere.
Come se avessero sempre fatto parte del suo corpo, le ali avevano cominciato a
muoversi su e giù fermando la caduta e portandolo sempre più in alto.
Aveva gioito sentendo le urla
dei maghi e si era beffato dei loro incantesimi e delle loro armi, di gittata
troppo corta per raggiungerlo. Volava sbattendo leggermente le ali, sfruttando
soprattutto le correnti del vento, che sapeva trovare facilmente, neanche fosse
un uccello. Era un altro effetto della pozione, ovviamente.
Scacciò dalla mente i
pensieri riguardanti la bellezza del volo. Che cose stupide! Quasi si
rimproverò di essersi lasciato prendere dall’ebbrezza di quella nuova
sensazione.
“Ho completato la mia missione.”
Con una mano toccò la piccola sacca appesa al collo. “Ora devo solo trovare
Jidak e otterrò la mia ricompensa.”
Dopo quasi un’ora di volo
arrivò alle Montagne Verdi. Le cime dei monti erano verdi e prive di neve sia
perchè erano molto basse sia perchè era estate. L’uomo cominciò a planare
dolcemente, aguzzando la vista nel tentativo di scorgere la presenza di Jidak.
Finalmente vide una forte
luce gialla e scese nel piccolo anfratto roccioso da cui proveniva. Quando
toccò terra, fece alcuni passi in direzione di un uomo vicino a un fuoco, poi
si fermò.
Un lancinate dolore gli
attraversò la schiena. L’uomo ne fu quasi sbattuto a terra. Agitò
disperatamente braccia e ali, ma era tutto inutile. Si sentì un rumore secco,
come di un osso che si spezza, e le ali si staccarono dalla schiena dell’uomo
cadendo a terra. Lui finì bocconi e sentì il sangue sgorgare dalle due ferite.
Poi udì delle parole in una lingua che non comprendeva. Alzò gli occhi e vide
un ragazzo dai capelli biondi tagliati molto corti avvolto in una tunica grigia
che muoveva le mani mormorando una lenta nenia. Quando finì, le ferite sulla
schiena dell’uomo si erano completamente rimarginate.
-Grazie per l’aiuto, Jidak.-
disse rialzandosi.
-Di nulla, Dralos, non è
stato difficile.- rispose Jidak e un sorriso compiaciuto comparve sul suo viso
pallido e magro. Dralos si voltò un attimo a guardare quelle che erano state le
sue ali. Adesso si erano tutte rattrappite e molto penne giacevano intorno
sparse.
-Peccato che la pozione non
duri per sempre. Un vero peccato, già.- disse il giovane mago. Dralos lo guardò
fisso nei suoi occhi azzurri senza rispondere. A volte pensava che riuscisse a
leggergli nel pensiero. E questa eventualità non gli piaceva affatto.
-Hai avuto dei problemi,
vedo.- continuò Jidak mentre si avvicinavano al fuoco indicando la mano destra
di Dralos, sporca di sangue fino al polso.
-Uno dei maghi della Gilda ha
cercato di fermarmi da solo.- spiegò brevemente l’uomo dai capelli rossi.
-Bene! Presto lo seguiranno
anche gli altri suoi fratelli traditori! Quindi ti hanno scoperto e sei dovuto
fuggire con la Pozione del Volo, giusto?-
Dralos annuì.
-Hai preso le pozioni?-
-Certo, eccole qui.- Dralos
si sfilò la piccola borsa dal collo e la diede a Jidak, che la aprì e ne guardò
il contenuto.
-Sì, benissimo! Le boccette
non si sono neanche scheggiate, dentro questa sacca incantata.
L’Eccellentissimo Saggio fra i Saggi ne sarà molto felice.- Jidak frugò dentro
la tunica, tirò fuori un sacchetto e lo lanciò a Dralos. -Ecco la tua ricompensa,
mille Fobian d’oro. Contali pure.-
-Non ce n’è bisogno, voi
maghi della Confraternita siete gente seria.- disse l’uomo mettendosi il
sacchetto in una tasca della giacca. Jidak sorrise e si mise la sacca al collo,
nascondendola sotto la tunica.
-Sarà meglio andare, non
credo che ti abbiano seguito, ma non si sa mai.- Con un gesto spense il fuoco.
Poi afferrò Dralos per un braccio e mormorò alcune parole. Il paesaggio intorno
ai due divenne sfuocato e cominciò a cambiare. Le montagne divennero colline,
poi pianure. Infine si ritrovarono in una via di una città. Era buia e
silenziosa. Le porte e le finestre delle case erano tutte chiuse e non si
vedeva anima viva.
-Eccoci a casa.- disse Jidak
lasciando il braccio di Dralos. Il mago alzò gli occhisopra di sè per ammirare un’immensa torre
color bianco avorio che sovrastava la città. “E presto sovrasterà il mondo
intero!”
-Io ora vado a spassarmela.
Vieni con me, Jidak?- chiese Dralos al mago, che si riscosse dai suoi pensieri.
-No, grazie. Anch’io devo
porgerti un invito, comunque.-
-E dove?-
-Tra una settimana si terrà
l’assemblea generale della Confraternita della Conoscenza. L’Eccellentissimo
Saggio fra i Saggi vuole che tu venga.-
-Quale onore! Perchè mai
dovrebbe rivolgere un simile invito a un comune mortale?-
-Desidera conoscere la nostra
abile spia e ringraziarti personalmente per i tuoi servigi resi alla nostra
patria e al nostro re.- disse Jidak e aggiunse -E poi ci sarebbe un’importante
missione segreta da affidarti. È una faccenda molto delicata. Perciò
l’Eccellentissimo Saggio fra i Saggi vuole sentire il parere dei Maestri e
degli Eccelsi riguardo quale dei nostri agenti sia meglio usare e il mio
Maestro ed io siamo sicuri che tu sia il migliore.-
Dralos ci pensò un attimo.
Questa era l’occasione per diventare ricco e potente. Però non si fidava
affatto dei maghi e del loro agire nascosto. Ma certamente neanche loro si
fidavano completamente di lui. Nemmeno Jidak gli avrebbe dato le spalle se
avesse anche lontanamente sospettato che lui avrebbe potuto ottenere un qualche
guadagno dalla sua morte.
-Verrò volentieri e spero di
essere scelto per l’incarico.- rispose infine.
-Anche il Maestro Saedor e io
lo speriamo.- disse il giovane mago e fece per allontanarsi in direzione della
torre.
-Toglimi una curiosità,-
cominciò Dralos fermando Jidak -perchè non vuoi venire con me a divertirti con
qualche bella donna? Voi maghi disprezzate tanto i piaceri del corpo? Oppure è
perchè hai paura dell’editto reale o del divieto degli dei?-
Jidak rise. -Ho paura solo
degli dei che esistono. L’Eccellentissimo Saggio fra i Saggi ci ha sconsigliato
di distogliere la concetrazione dalla ricerca della conoscenza totale. Credo
che sia più giusto dire che seguo il suo consiglio, piuttosto che pensare che
io tema il divieto di un’autorità nulla o di divinità inesistenti.-
Anche Dralos rise e i due si
allontanarono in direzioni opposte.
Ora che siete arrivati qui,
non è che potreste lasciare un commentino?
Ringrazio i miei tre
commentatori che mi hanno riempito di complimenti:
@Suikotsu: Esageri come
sempre!
@giodan: Grazie per gli
incoraggiamenti! Riguardo ai drow, so che sei un gran fan di Drizzt Do’Urden e mi
spiace darti questo dolore, ma non credo che li metterò.
@Bankotsu: Grazie anche a te,
ma guarda che la tua fanfic mi piace! Comunque, ottima scelta: il tuo
personaggio preferito è tra quelli che rimangono vivi per un bel po’!
Ringrazio anche chi legge
senza recensire.
Capitolo 4 - La driade
-Sei sicuro di voler andare,
figlio mio?- Il giovane dai capelli ricci si voltò.
-Questa è la mia decisione, madre,
e non posso certo cambiare idea ora che l’ho detto pubblicamente.- La figura
femminile lo guardò preoccupata con i suoi occhi neri. Gli passò una mano sulla
testa vicino a una delle due orecchie a punta.
-Possa Colei che veglia sui
giusti proteggerti, allora.-
Lentamente queste immagini
svanirono dalla mente di Arellon. Si guardò attorno, ma gli servì soltanto per
accertarsi del fatto che era ancora intrappolato. I rami e le radici lo
legavano stretto. Inoltre, a peggiorare le cose, c’era il fatto che il suo
bastone gli era caduto a terra quando gli alberi gli avevano immobilizzato le
braccia. Certo, avrebbe comunque potuto lanciare un incantesimo, ma non poteva
muovere le mani e la bocca era tappata da delle foglie di quercia. Lui non era
ancora così potente da poter lanciare una magia di trasporto o di
allontanamento in grado di liberarlo solo con la forza del pensiero mentre con
una di fuoco avrebbe solo corso il pericolo maggiore di essere bruciato insieme
alle piante. Poi non avrebbe mai osato: nella sua condizione era meglio non
arrecare alcuna offesa alla prole della Natura.
“La tua missione è vitale per
la salvezza del nostro popolo. Così mi aveva detto mio padre. Ed eccomi qua
intrappolato! La sua fiducia è stata proprio ben riposta! Che incapace che sono
stato!” Poi si ricordò delle voci che aveva sentito un giorno prima (o erano
due?). Avevano fatto riferimento a una certa Iselia. Un nome che gli suonava
familiare, doveva averlo letto in qualche racconto o cronaca storica. Ma in
quel momento non gli veniva in mente chi potesse essere. “Probabilmente gli
abitanti della foresta facevano riferimento a una loro guida. Meglio loro che i
servi di Eldacil, ma non credo che le loro intenzioni siano buone. Altrimenti
non mi avrebbero catturato. Una volta i nostri rapporti con loro erano
pacifici, ma poi trecento anni fa... Secondo la saggia Lasdel alcuni elfi
dissero che la colpa era anche nostra e ci odiarono. Per questo la regina
Deanilia ci cacciò, per evitare inutili spargimenti di sangue. Ma... ”
Qualcosa si mosse di fronte a
lui. All’inizio non ci fece caso, credendo che fosse una sua allucinazione. Poi
guardò con più attenzione e vide una creatura che aveva trovato solo nei libri
fino a quel momento.
La piccola betulla sembrava
che si stesse gonfiando. Una grande e alta protuberanza si stava formando sopra
la corteccia. Quando ebbe raggiunto una certa estensione in altezza, accadde
una cosa straordinaria: si aprì. Come se fosse una porta, la corteccia venne
spostata di lato da una mano piccola e delicata. Ne uscì un’essere leggiadro
dall’aspetto di una donna o quasi. Una driade. Era alta, superava Arellon di
almeno una spanna. La sua pelle aveva un colorito verde chiaro, uguale a quello
della linfa degli alberi. Lunghi capelli verde foglia sciolti ondeggiavano
sulla schiena. Era coperta da un lungo vestito bianco con macchie nere sparse
qua e là che lasciava scoperte spalle e braccia. Aderiva perfettamente al
properoso seno e al ventre, quasi ne facesse parte. Le gambe invece erano
coperte da una gonna semplice che lasciava intravedere i piedi scalzi.
Con le dita affusolate
richiuse delicatamente la corteccia della betulla. La driade si voltò e osservò
Arellon, che ricambiò il suo sguardo.
Il viso della driade era di
una bellezza sconvolgente, ogni tratto della sua pelle chiara era perfetto,
levigato come fosse stata una scultura, eppure una cosa guastava questa
perfezione: aveva un’espressione infinitamente triste. I suoi occhi privi di
pupille color verde acqua sembravano due abissi di dolore, come se avesse
patito sofferenze terribili. Una smorfia le attraversò il viso e una lacrima
scese fino alle guancia sinistra.
Si mosse verso il mezzelfo
intrappolato. Con un piccolo e aggraziato salto superò i cespugli e i fiori e
le loro spine affilate come aghi. Pareva danzasse: ogni suo movimento aveva una
grazia e una scioltezza eccezionale.
Quando fu a poca distanza da
Arellon parlò. La sua voce era disperata e furibonda, come lei.
-Umani! Pazzi! Ingrati!
Scellerati! Assassini! Traditori! Maledetti tutti voi, nemici dell’Armonia!
Morirete per i vostri orribili crimini!-
La driade tacque per un
attimo, poi proseguì con voce più calma. -Ma, ahimè, siete anche innocenti...
Sciocchi umani! Tu, povero stupido, tu sei uno fra i tanti. Perchè sei venuto
qui? Perchè ti sei avventurato nella nostra foresta? Voi umani la chiamate
Grande Foresta Oscura... Bravi! Siete stati voi a renderla degna di questo
nome! Oh, certo, non avete fatto tutto da soli, ma avete avuto una buona parte
nella nostra rovina!-
Arellon sentì un forte dolore
in tutto il corpo. Le radici del pino e i rami della quercia lo stavano
stringendo più forte, come volessero stritolarlo. Rivolse alla driade uno
sguardo supplichevole di aiuto, ma lei ricambiò con un’espressione di rabbia
feroce.
-Traditori e assassini! Pazzi
e folli! Avete rovinato la pace per sempre e perciò pagherete!- gridò con tono
minaccioso e gli alberi strinsero ancora più forte Arellon.
-Ma...- continuò di nuovo a
voce più bassa, mentre il mezzelfo sentiva la stretta degli alberi allentarsi
-il sangue di mille o di milioni di voi cambierà qualcosa? No, non porterà
nessun miglioramento! Sciocchi elfi del bosco! Hanno perso il loro amore per la
pace e per la vita. Vivono per la morte. Solo alcuni di loro, è vero, ma è una
questione di tempo: l’odio ci prenderà tutti! Misero umano! Tu morirai non
appena gli elfi e i centauri guidati da Iselia arriveranno! Forse decideranno
di farti morire pian piano di fame e di sete o ti imprigioneranno nel buio
senza fine fino a farti perdere il senno. Presto o tardi, il tuo destino è
ormai segnato! Il tuo sangue bagnerà la nostra terra e tutti godranno
dell’amaro sapore della vendetta! E ciò non farà che peggiorare le cose, perchè
il sangue chiama altro sangue.- La driade si portò le mani al viso per
nascondere le lacrime. -Perchè ti parlo, misero condannato? Non capisci la mia
lingua, non sai chi sono... L’odio! L’odio avvelena tutti! Ci divora, ci svuota
e ci riempie di sete! Sete di sangue, morte e distruzione! Tutti siamo
maledetti! Volevamo giustizia e non l’abbiamo avuta! Ci è stata tolta perfino
l’amara consolazione di vedere puniti i colpevoli dello scempio... Ma la colpa
è anche nostra: non avremmo dovuto permettere che ciò accadesse. Non avremmo
dovuto permettere che la rabbia contaminasse lo spirito degli alberi! Rabbia
senza fine per un passato che non si potrà mai cambiare!- La creatura dei
boschi allontanò le mani dalla faccia rivelando il viso rigato di lacrime e con
la destra indicò Arellon. -E per quel passato tu morirai!- urlò con tutta la
forza che le proveniva dall’ira e dalla disperazione.
Il mezzelfo la osservava
sbalordito e anche preoccupato per le sue parole. Approfittando del fatto che
la driade si era fermata per soffocare i singhiozzi, tentò di parlare, ma dalla
sua bocca uscì solo un mugugnio indistinto per via del tappo di foglie di
quercia.
-Vuoi parlare?- gli domandò
gentilmente la driade -Sì, dopotutto sarebbe giusto concedere un’ultima parola
a un condannato a morte. Giusto... Ma è giusto che tu muoia? Cosa vuol dire ora
“giusto”? I centauri vivevano solo per questo valore: la giustizia. Ora la
confondono con la sete di vendetta! Dove sono gli dei? Olidos, il saggio
Olidos, era il loro figlio prediletto, si diceva. Ed è morto! Morto! Colui che
voleva la pace muore e colui che voleva la guerra vive. Cosa c’è di giusto in
questo?- Mentre pronunciava queste parole, Arellon si accorse che la quercia e
il pino stavano ricominciando a stringerlo con i rami e le radici e continuò a
mugugnare rivolto alla driade cercando inutilmente di sputare le foglie, che
invece gli venivano spinte sempre di più in gola, col chiaro intento di
soffocarlo.
La driade lo fissava
immobile. Perchè avrebbe dovuto fare qualcosa per lui? Forse era meglio
lasciarlo morire così. Dopotutto il trattamento degli elfi non sarebbe stato
migliore.
Però... Però negli occhi di
quello straniero, di quell’umano, c’era qualcosa di familiare. Nel corso della
sua lunga esistenza aveva visto centinaia di esseri dagli occhi verdi, ma in
quelli c’era una luce che le ricordava qualcuno. Una persona cara, un’amica di
un passato lontano.
Oltre a ciò non voleva che
una creatura fosse privata della propria vita di fronte ai suoi occhi. Era
un atto orribile, secondo gli insegnamenti di Olidos, privare un qualunque
essere vivente, anche il più infimo e maligno, della sua vita, perchè essa gli
era stata data dalla Natura e dagli dei e solo loro potevano togliergliela.
Spinta da questi pensieri, la
driade si avvicinò ad Arellon e toccò con la punta delle dita della mano
sinistra il ramo di quercia che cercava di soffocare il mezzelfo con le sue
foglie.
-Calmati, possente quercia.
Ritrai questo ramo, l’umano non deve morire ora! Non è questo l’ordine che ti
diedero gli elfi. Smettete di farlo soffrire! Non vi basta la sofferenza a cui
andrà incontro in seguito? Pino e quercia, smettetela! Io te lo ordino, quercia
maestosa, ritrai questo ramo!- disse con voce solenne e l’ordine fu eseguito,
anche se con una certa riluttanza. Arellon tossì e riprese lentamente fiato.
-Grazie per il vostro aiuto,
driade leggiadra!- ansimò in elfico. La driade lo fissò stupita.
-Tu...- disse sgomenta -Tu
conosci l’elfico! Che strano che un uomo abbia una tale conoscenza. Ma a che cosa
ti è servita, se non a sapere il tuo destino? Ora sai che morirai per appagare
il desiderio di vendetta di elfi e centauri...-
-‘La vendetta è sbagliata
perchè il sangue ne richiede sempre dell’altro e alla fine si otterrà un mare
di sangue. Le mani del vendicatore saranno macchiate del sangue dei suoi stessi
figli e non gli resterà che piangere per la sua follia di essersi voluto porre
al di sopra degli dei, avendo elargito morte senza conoscere la verità.’-
recitò a memoria Arellon tossendo. La meraviglia della driade divenne ancora
maggiore.
-Conosci gli insegnamenti del
saggio Olidos? Come è possibile che un uomo ne sappia qualcosa? Chi sei? Perchè
sei venuto nella foresta? Non lo sapevi che qui tutti gli umani vengono uccisi?
Non importa a nessuno che tu sia un seguace di Madeno o Lena, i più saggi fra
gli uomini mai esistiti! Non fanno distinzione, gli elfi furiosi!-
-Io non sono un uomo!-
-Cosa? Cerchi di ingannarmi?-
domandò la driade con un punta di rabbia nella voce fissandolo dritto negli
occhi verdi. Il mezzelfo dovette costringersi a non abbassare lo sguardo,
perchè gli sembrava che lei lo trapassasse e riuscisse a vedere la sua anima.
Dopo alcuni attimi la driade si ritrasse con un’espressione a metà tra
sospettosa e stupita.
-Non sei un uomo?...- chiese
più rivolta a sè stessa che ad Arellon -Ma allora...- Con un mano sfiorò la
testa del mezzelfo alle due estremità laterali. Nonostante il cappuccio, le sue
dita sottili sentirono che sotto c’erano due orecchie a punta.
-Non sei un uomo...- ripetè
piano e lo guardò attentamente per un’attimo. Poi il suo viso si illuminò. -Ma
non sei neanche un elfo della città. Sei della stirpe del Corvo. Sei uno dei
figli di Atascal e Lalia: un mezzelfo! A cosa ha portato la nostra follia?
Abbiamo intrappolato uno dei nostri fratelli!- La driade si voltò verso la
quercia, alzò le braccia e gridò:-Via! Vattene, quercia possente!- Si girò,
oltrepassò Arellon e si rivolse al pino:-Allontanati anche tu, pino alto e
magro! Basta! Basta odio, basta sangue!- Si abbassò e accarezzò i fiori,
continuando a gridare. -Abbandonate i vostri artigli, dolci fiori e bassi
arbusti! Siate rigogliosi per la luce del Sole! Risplendete di mille colori,
non solo quello della vendetta!-
Lentamente, la quercia ritirò
i suoi rami e lo stesso fece il pino con le sue radici. Le fronde degli alberi
si separarono, permettendo ai caldi raggi solari di entrare nella radura. Le
spine scomparvero, vennero ritratte come fossero gli artigli di un gatto, e i
fiori tornarono ad avere il loro magnifico colore.
Arellon fu liberato, ma cadde
subito a terra di schiena. Infatti tutti i suoi muscoli erano intorpiditi e
doloranti per la lunga prigionia e per la fame e perciò faticava a rialzarsi.
La driade, raggiungendolo a
passo di danza, si inginocchiò sull’erba e appoggiò una mano sulla sua fronte.
Arellon provò una sensazione indescrivibile: quella carezza era gentile e
piacevole come i petali di un fiore, ma celava la forza di un albero. La driade
mormorò parole che il mezzelfo, un po’ intontito, non comprese al principio.
Poi sentì un’ondata di calore attraversarlo dalla testa alle gambe e la
stanchezza svanì. Era di nuovo forte e vigoroso, come se si fosse sfamato e
riposato per alcuni giorni. Guardando la meravigliosa creatura che sorrideva
sopra di lui disse:-Vi ringrazio ancora per il vostro aiuto, bellissima driade.
Come avete fatto a...?-
-La Terra ci nutre e noi
nutriamo la Terra. Ma solo coloro che la amano veramente possono sperare di
ottenere un aiuto maggiore da Lei. Solo i degni ottengono la benedizione del
calore della Terra, sorella della Natura. Io ho fatto solo da intermediaria. A
quanto pare tu eri degno, mezzelfo.- rispose la driade aiutandolo ad alzarsi.
Si sentiva felice, da tanto tempo non usava quella magia di guarigione, da
troppo tempo non aveva la meravigliosa sensazione di aver aiutato una creatura
vivente. -Qual è il tuo nome?- gli chiese.
Arellon esitò. Sarebbe stato
saggio rivelare chi era? Doveva stare in guardia: c’erano molti più nemici di
quanti potessero sembrare, Eldacil non era solo. Ma d’altronde la driade lo
aveva aiutato e di certo non era una spia del suo inseguitore.
-Io mi chiamo Arellon, figlio
di Erotlon e Arila. E voi chi siete, mia salvatrice?-
-Io non ho un nome. Non nella
attuale lingua degli elfi, almeno. Nella lingua degli dei lo avevo ma non lo
ricordo più. Gli elfi del bosco mi chiamano Mahallonie, che significa driade
della betulla. Puoi chiamarmi così, Arellon, straniero incappucciato.-
Il mezzelfo si abbassò il
cappuccio, rivelando folti capelli marroni ricci da cui spuntavano due orecchie
a punta.
-Avete ragione, Mahallonie, è
maleducato parlare nascondendo il proprio aspetto. Ma è la prima volta da molto
tempo che qualcuno mi mostra una gentilezza come la vostra.-
Mahallonie studiò
attentamente il mezzelfo. Era abbastanza bello, dai tratti del viso sembrava non avere più di venti,
venticinque anni. Ma erano gli occhi sormontati da lunghe ciglia scure ad
interessarla di più. Lo sguardo del mezzelfo possedeva determinazione e
lasciava intendere che lui avesse senso di responsabilità e coraggio. Lei aveva
già incontrato un altro essere che le aveva dato subito la stessa impressione.
Ma quando? Dopo un attimo di riflessione, domandò:-Conosci Lasdel figlia di
Nisaran?-
-Sì,- rispose Arellon stupito
-è mia nonna.-
La driade ebbe un tuffo al
cuore. -Tua nonna!- esclamò -Tua nonna è Lasdel, la giovane mezzelfa che
passava più tempo nella foresta che nel suo palazzo ad Allesfeia. La mezzelfa
che detestava lo sfarzo e gli intrighi della sua gente. La mezzelfa che mi era
tanto amica, al tempo in cui noi driadi danzavamo fra gli alberi insieme agli
elfi e ai centauri, prima della guerra e della morte di Olidos. Ed è tua nonna!
Già, sono passati più di trecento anni, tanti anche per uno di voi. Come sta
ora? Non ti ha mai parlato di me?-
-Mia nonna è stanca e
preoccupata per la sorte del nostro popolo, ma quando sono partito era in
salute. Però non ricordo che mi abbia mai parlato di voi, mi spiace.- rispose
il mezzelfo confuso.
-Non darmi del voi! Dovrei
essere io a rivolgermi a te così. Discendi da una nobile famiglia, antica quasi
quanto il mondo. Lasdel non ti ha mai detto nulla di me? Sì, capisco... La
gente del bosco non si è comportata bene con voi mezzelfi. Che colpa avevate,
se l’odio, incarnato in quell’elfo mostruoso, non vi dava tregua? Ma lui non
siamo riusciti ad averlo, quel traditore, quell’assassino e demmo la colpa a
voi perchè, poichè vi avevamo aiutato, lui aveva colpito anche noi. Mille volte
maledetto Eldacil!- Al suo urlo di furia le fronde degli alberi e i fiori si mossero,
come spazzati da un vento terribile.
-Ma il passato non può
cambiare. La mia rabbia è inutile: anche lui non è più tra i vivi. Non mi hai
ancora detto perchè sei entrato nella nostra foresta, Arellon, nipote di
Lasdel.-
-Sto compiendo un viaggio di grande
importanza per il destino del mio popolo e forse anche del mondo intero. Era
più sicuro passare fra questi alberi che là fuori nelle pianure.- rispose
Arellon guardandosi intorno in cerca di qualcosa.
-Più sicuro? Che genere di
pericolo ti attende fuori dalla foresta?-
-Un essere che tutti credono
morto.- disse il mezzelfo chinandosi a raccogliere il suo bastone in mezzo
all’erba.
-Cosa intendi dire? E...- La
driade osservò il bastone che lui stringeva nella mano destra. -Sei un mago?
Usi quel bastone? Sei un amico della Natura?- domandò sbigottita. Arellon
annuì.
-Mia nonna mi ha insegnato
ogni cosa sulla vera magia, quella che non è solo basata sui poteri innati, ma
chiede l’aiuto della Natura per i propri fini.-
-Oh, mi farebbe tanto piacere
rivederla! Ma quando vi cacciammo voi andaste tanto lontano che nessuno ora sa
dove siete.- disse tristemente la driade.
-Avete... Hai ragione,
Mahallonie: noi mezzelfi superstiti fuggimmo a settentrione, oltre la Muraglia
e i Monti Truderkor, nelle steppe gelate, fino al Monte Oxetran, dove trovammo
rifugio e nuova dimora.- spiegò Arellon.
-Hai fatto un viaggio davvero
molto lungo, allora. Ma per quale motivo? Perchè esiti? Non ti fidi di me?-
chiese la driade avvicinandoglisi e fissandolo dritto negli occhi.
-Io mi fido, ma prima voglio
sapere cosa è successo alla foresta. Perchè gli alberi sono pieni di rabbia e
odio?-
-Come, non sai che il re
degli elfi del bosco Olidos fu ucciso a tradimento circa trecento anni fa? Non
sai nulla della guerra che ne seguì?- domandò Mahallonie quasi arrabbiata.
-Sì, questa parte della
storia la conosco, l’ho letta sulle poche cronache di quel periodo, ma l’ho
anche sentita dai pochi che ne hanno memoria e la vogliono raccontare. Ma delle
sue conseguenze non so nulla, così come credo che non ne sappia nessun
mezzelfo, perchè non eravamo più qui. Perchè lo spirito della foresta è diviso
in due? Cosa è successo in tutti questi anni? Perchè gli alberi mi hanno
intrappolato? Chi è Iselia e perchè gli elfi e i centauri uccidono i viandanti?
Cosa intendevi prima quando dicevi che non avevate avuto giustizia?-
La driade non rispose.
Abbassò lo sguardo a terra e si voltò in modo da dare le spalle ad Arellon. Le
stavano tornando in mente ricordi di quel tempo lontano. Ricordi che avrebbe preferito
non rammentare mai, perchè erano troppo dolorosi.
-Non ti darò la risposta a
queste domande. Non spetta a me questo compito. Chiedilo alla regina o alle sue
figlie. Forse loro sapranno trovare una risposta soddisfacente che copra la
nostra negligenza.-
Il mezzelfo capì che era
inutile insistere. Anche sua nonna per qualche strano motivo non gli aveva
detto nulla degli avvenimenti di trecento anni fa nella Grande Foresta, gli
aveva solo accennato che i mezzelfi erano stati prima accolti e poi cacciati,
ma nient’altro. Erano solo piccoli cenni, senza riferimenti a nomi o persone e
soprattutto senza spiegazioni chiare. E per un analogo motivo anche le cronache
di quel periodo non riportavano altro che notizie vaghe. Tutte concordavano sul
fatto che dopo la morte di Olidos la foresta non era più un luogo sicuro, ma
nessuna spiegava il perchè. Era un mistero che avrebbe voluto chiarire, però
decise di lasciar perdere: aveva una missione da portare a termine, la sua
curiosità personale doveve essere appagata in un altro momento.
-D’accordo, come non detto.
Ti spiegherò il motivo per cui viaggio: una minaccia tremenda incombe sul mio
popolo e sto andando a chiedere aiuto agli elfi della città.-
-Cosa? Perchè proprio a
loro?- chiese Mahallonie voltandosi di scatto -Dopo tutto quello che vi hanno
fatto, ti aspetti che vi aiutino?-
-Appunto perchè sono in
debito con noi mi aspetto che ci diano soccorso.- ribattè Arellon sicuro. La
driade scosse la testa.
-Tu devi essere pazzo! Non
muoveranno un dito per voi, a meno che la minaccia non li tocchi da vicino.-
-Infatti è così.- disse il
mezzelfo. Fece una pausa e poi parlò di nuovo. -Eldacil è vivo.-
Mahallonie spalancò gli occhi
sbalordita. Quelle parole la colpirono come pugnali. L’assassino era vivo. Non
era possibile! Il mostro che aveva portato la rovina su di loro era ancora
vivo! No, non voleva crederci.
-Menti!- sbraitò afferrando
Arellon al collo -Oppure sei pazzo sul serio! Il maledetto è morto nella
battaglia di Micara trecento anni fa!-
-No, vi siete tutti
ingannati! Non è morto, ha solo finto di esserlo. Ed ora è tornato! Si è
alleato agli orchi e attacca la mia gente da ben cinque anni. Io sono partito
per chiedere aiuto prima che sia troppo tardi!- gridò il mezzelfo prendendo i
polsi della driade e cercando di allontanare le sue mani dal proprio collo.
Mahallonie lo lasciò. Fece qualche passo verso la betulla. Si stropicciò le
mani tremanti. Per qualche attimo ci fu completo silenzio nella radura.
-È da quando ho intrapreso
questo viaggio che Eldacil mi insegue. Qualche giorno fa mi ha quasi raggiunto,
ma credo di essere riuscito a far perdere le mie tracce entrando nella Foresta.
Lui mi aspetta là fuori però, ne sono certo.- disse Arellon rompendo il
silenzio. La driade non rispose. Sotto gli occhi del suo interlocutore appoggiò
una mano al tronco della betulla e sollevò leggermente corteccia e legno. Ma,
invece di spalancarli e rientrare svanendo, si voltò verso Arellon.
-Tra poco Iselia e i suoi
elfi e centauri saranno qui, insieme alle driadi del pino e della quercia. Li
sento arrivare. Devi andartene subito, loro non ti faranno parlare. Ma non
riuscirai mai a sfuggirgli a piedi. E se anche uscissi dalla foresta, ci
penserebbe il maledetto ad ucciderti.- disse con voce calma e decisa -Vieni,
sarò io a condurti dove vuoi arrivare. Dammi la mano.-
Arellon si avvicinò
sospettoso.
-Non temere, ti porterò ai
confini delle terre degli elfi della città. Ma useremo i sentieri di noi
driadi: gli alberi. Dammi la mano, fidati.-
Il mezzelfo sentì in
lontananza il rumore di uno zoccolo che batteva per terra. Non era più il
momento di chiedersi se potesse fidarsi o no, rimanendo lì o fuggendo a piedi
sarebbe di certo morto. Nel peggiore dei casi sarebbe comunque andato incontro
allo stesso destino, tanto valeva tentare. Allungò la mano sinistra e la driade
la strinse forte, avvertendo sotto il guanto la presenza di segni a lei molto
familiari.
-Non lasciare mai la presa!-
gridò Mahallonie e spalancò completamente la corteccia. Una luce fortissima
abbagliò Arellon, che dovette chiudere gli occhi mentre la driade lo trascinava
dentro l’albero.
Per qualche attimo Arellon
dovette continuare a tenere gli occhi completamente chiusi. Fece qualche
tentativo di aprirli, ma ogni volta da fuori una luce potentissima glieli
abbagliava così forte da fargli male. Non sentiva più la terra sotto i suoi
piedi. Pensò che forse stava volando. Ma si rese conto di non percipire
assolutamente nessun vento nè una minima brezza sul volto. Provò a muovere la
mano destra che impugnava il bastone in modo da portarsela davanti al viso in
modo da farsi un po’ di ombra sugli occhi. Per qualche strana ragione però non
ci riuscì. Non solo la luce accecante continuava a impedirgli di aprire gli
occhi, ma nemmeno gli sembrava di aver mosso o di poter muovere il braccio e la
mano. Peggio ancora, non si sentiva più la mano. In effetti, si accorse di non
avere la benchè minima sensazione da nessuna parte del corpo. Nemmeno dalla
mano sinistra, con la quale doveva stringere la mano della driade. Arellon ebbe
paura, temeva di aver sbagliato qualcosa, di aver commesso uno sbaglio
involontario senza accorgersene. Cercò di aprire gli occhi di nuovo. Stavolta
gli risultò più semplice. La luce non faceva più tanto male. All’inizio non
vedeva quasi niente, per via della grande luminosità. Ma anche dopo che gli
occhi vi si abituarono, la visione che ebbe non fu chiara. Era tutto luce.
Variava dai toni del giallo più chiaro quasi bianco a quelli del verde. E non
c’era niente altro. Almeno, agli occhi di Arellon sembrava non ci fosse nulla.
In effetti non vedeva neanche sè stesso, nonostante muovesse la testa (o almeno
gli sembrasse di farlo) per guardarsi intorno. Abbassando lo sguardo non vedeva
nè il suo busto nè le sue gambe. Esitò ad alzarlo: non voleva che i suoi timori
diventassero realtà.
Ma, visto che a quanto pare
la vista era l’unica capacità di percezione rimastagli, guardò. Non c’era
nulla, a eccezione della luce. La sua mente fu attraversata da mille pensieri e
nessuno rassicurante. Perchè non sentiva più il suo corpo? Peggio ancora,
perchè non era più visibile? Cos’era successo? Dov’era la driade? Aveva
lasciato la sua mano? No, non gli sembrava di averlo fatto. Allora cosa aveva
sbagliato? Perchè doveva aver sbagliato qualcosa, altrimenti non si spiegava
come mai si trovasse in quella situazione.
Oppure poteva essere che la
driade lo avesse lasciato intenzionalmente. Il suo errore sarebbe stato quello
di fidarsi, allora. No, ma perchè mai Mahallonie avrebbe dovuto fargli questo?
Se voleva farlo morire, tanto valeva lasciarlo nella radura in balia degli
elfi.
“No, sono sicuro che lei non
avrebbe ragioni per abbandonarmi qua a morire.” pensò sicuro “Ma comunque non
capisco cosa stia succedendo. Dov’è? Dove sono? Questo abisso di luce... cosa
significa?”
“La verità è talmente
evidente e chiara. Ma chi non ha occhi per vedere non può coglierla.” sussurrò
la voce della driade nella testa di Arellon. Il mezzelfo ebbe un sussulto. Provò
a parlare, ma gli risultò impossibile, era come se non avesse più la bocca per
farlo.
“Mahallonie?” pensò allora
domandando speranzoso.
“Sì, sono io. Non sforzarti a
parlare: qui possiamo comunicare solo attraverso i pensieri. Scusami se ti ho
fatto spaventare, ma per me è tutto così naturale...”
“No, perdonami tu se ho
dubitato di te. Sono stato un ingrato.”
“Va tutto bene. Non avevo
pensato che non sapessi nulla di questo, del vero mondo di noi driadi.
D’altronde Lasdel stessa aveva fatto questa esperienza...” Arellon fu un po’
contrariato da questa affermazione: sua nonna aveva deliberatamente omesso di
dirgli anche questo. “Ma con che parole potrebbe descriverla uno di voi?” proseguì
la driade come per calmarlo.
“Uno di noi?” domandò
telepaticamente incuriosito.
“Un aeilaasom. Lo siete
tutti, mezzelfi, elfi, centauri, uomini, nani e tutte le altre razze di Laimoth.
Mortali o immortali non fa differenza. Siete costituiti tutti da anima e corpo.
E finchè vive il corpo la vostra anima è legata ad esso inscindibilmente. Per
questo vivete nel mondo dei sensi e solo raramente alcuni di voi riescono ad
allontanarsene. Tramite le visioni o altri vostri incantesimi cercate di
astrarvi dal mondo e percepire ciò che i sensi non possono.”
“Sì, questo lo so. Io stesso
ho provato qualche giorno fa a entrare in comunione con l’ambiente.”
“Ah, sei stato tu! Ecco chi
era che avevano sentito Raolaonie e Terassonie!”
Arellon fu sorpreso. “Sono
state loro due a...?”
“Minacciarti e rassicurarti?
Sì, è una cosa molto triste. Un tempo erano tanto amiche, la driade della
quercia e del platano. Sempre le prime a danzare per ogni primavera. Ma ora...
Ora hanno preso strade diverse. Una prova tanto odio, l’altra vorrebbe che
tutto questo finisse. Purtroppo Terassonie non è mai stata la più forte delle
due...” Seguì un attimo di silenzio.
“Comunque” continuò la driade
“noi dobbiamo prendere la forma di un corpo per entrare nel vostro mondo perchè
in realtà siamo ciò che voi definite spiriti. Non abbiamo sempre un corpo, ma
ci serve solo venire ad ammirare la Natura dall’esterno. Noi viviamo qui,
dentro.”
“Quindi io non vedo niente
perchè...”
“Non hai gli occhi adatti. La
tua anima non è ancora in grado di percepire con chiarezza e davvero raramente
accade che una delle vostre anime lo diventi. Anche il tuo incantesimo di
comunione, in realtà, è sì un’astrazione dal corpo, ma solo per poter avere
conoscenze comunque inerenti ai cinque sensi. In realtà non ti sei allontananto
così tanto. Forse Raolaonie avrebbe voluto che lo facessi: in quel caso non
credo che saresti sopravvissuto a lungo.”
“Per questo allora non vedo
nemmeno te che sei più vicina. Ma perchè non sento più il mio corpo?”
“Tu non puoi sentirlo. Non ce
l’hai più.”
“Cosa?”
“Non ti spaventare. Vedi, tu
non sei più nel tuo mondo, ora sei nel mondo delle driadi e niente non può
entrare qui appesantito dal corpo.”
“Che significa? Il mio corpo
è ancora nella radura?”
“No, questo non è un
incantesimo di divinazione o di comunione con la natura, come quelli che vi
dilettate a fare, te l’ho già detto. Tu sei proprio entrato nell’albero. Solo
che qui non si può stare se non in forma di spirito. Riacquisterai il tuo corpo
quando usciremo, come facciamo noi driadi. Ma stai attento: non dimenticarti
chi e cosa sei, altrimenti non potrai più uscire! Tu non puoi crearti un nuovo
corpo ogni volta come noi, perciò devi mantenere il ricordo.”
“Ma questo mondo... Cos’è?”
“Questa grande luce è quello
che Olidos definiva come ‘ineffabile e magnifica visione, che ti porta ad
abbandonare la spoglia mortale e a unirti ad essa, perchè così arriverai a un
passo dal comprendere cosa sia la luminosa sorgente di vita’.
“Allora... La luce... Come
posso dire? È...”
“Non credo esista la parola
giusta a definirla. Almeno non in una lingua che tu possa sentire. Chiamala
Natura, Essenza della vita, ciò che fa sì che ogni cosa nasca. Ma è luce
indistinta solo per te. Tu sei abbagliato dall’immensità e dalla grandezza che
ti si spalanca davanti, io ne sono la figlia. Ma, come ti ho detto, nessuna
parola potrà mai farti cogliere anche solo una parte di ciò che vedo.
L’aeilaasom che può vedere è il più fortunato fra tutti gli esseri che mai
nacquero. Ed è lui che, avendo visto cosa sia la vita e quanto essa sia al di
sopra di ogni bene, può veramente e a buon diritto comandare su tutti gli
altri. I saggi re del bosco lo potevano vedere. Ma questo non ha impedito loro
di morire tutti per mano di coloro che non sanno e perciò odiano la vita.” Ad
Arellon parve quasi di percepire un goccia sfiorarlo.
“Rammenta quello che hai
sentito, ti servirà. Tra non molto arriveremo a destinazione, ti lascerò fuori
dalla Foresta, in un boschetto proprio sul confine che gli elfi hanno tracciato
della loro terra. Ma non abbassare la guardia nel frattempo, perfino questo
luogo non è più sicuro.”
Il centauro entrò nella
radura un attimo dopo. I suoi possenti zoccoli scavalcarono cespugli e fiori
con un solo balzo. Nella parte inferiore del corpo aveva le fattezze di un
cavallo bianco con la coda bruna, mentre sopra le zampe anteriori partiva un
busto umano. Aveva possenti pettorali e muscoli anche nelle braccia che
stringevano un’ascia bipenne. Si guardò intorno muovendo la lunga chioma bruna
come la coda. Un smorfia di rabbia gli attraversò il volto dalla chiara
carnagione.
Non c’era più. Il viaggiatore
che aveva visto chiaramente intrappolato dagli alberi due giorni prima era
sparito.
-Che significa questo,
Traxian?- gridò un’irata voce femminile alle sue spalle -Dov’è lo zacrul? Dov’è
l’intruso?-
Ai margini della radura
comparvero una quindicina di elfi, altri tre centauri e due driadi. Gli elfi, sia
maschi che femmine tutti dalla pelle molto chiara, indossavano vestiti leggeri
verdi scuri, nessuna armatura, e portavano tutti un arco e una faretra di
frecce in spalla, ma qualcuno aveva anche una spada nel fodero legato alla
cintura.
A parlare era stata un’elfa
davanti a tutti gli altri. I suoi capelli biondi erano tagliati cortissimi, in
modo da mettere in risalto il suo viso leggermente allungato e le orecchie a
punta. La sua espressione era feroce nonostante le dolci fattezze femminili,
che gli abiti nascondevano completamente, e le mani stringevano le else di due
spade ricurve che portava ai fianchi, impaziente di sguainarle per mietere
vittime.
-Dov’è l’intruso, Traxian?-
ripetè fissando furiosa il centauro con i suoi occhi dalle pupille blu.
-Non lo so, Iselia! L’abbiamo
catturato qui due giorni fa grazie all’aiuto della quercia e del pino. Ma
ora...-
-Ora è sparito! Siete degli
incapaci!- gridò rivolta anche agli elfi alle sue spalle -Non riuscite neanche
a tenere imprigionato un miserabile uomo per due soli giorni!-
-Nessuno è mai riuscito a
liberarsi dagli alberi!- protestò Traxian.
-Non potevamo sapere che
questo zacrul ci sarebbe riuscito!- gli fece eco un elfo.
-Ma potevate almeno lasciare
una sentinella a controllare che non fuggisse!-
-Gli alberi sono le migliori
sentinelle!- gridò un’elfa.
-Perchè non l’hanno fermato?
Perchè l’hanno lasciato andare?- domandò un altro dei centauri.
-Basta!- ordinò Iselia
troncando sul nascere ogni discussione -È scappato. Questo è un fatto certo e
per ora è tutto ciò che dobbiamo sapere. Mi avete detto che probabilmente
andava verso il paese dei nostri cugini traditori e scellerati. Dunque dobbiamo
seguirlo in fretta. Cercate delle tracce.-
Obbedienti all’ordine, tutti
gli elfi cominciarono a osservare attentamente il suolo della radura. La stessa
Iselia si chinò a terra in cerca di orme. Quelle dell’intruso erano molto
evidenti. “Calpesta il terreno tanto forte che sarà un giochetto seguirlo e
catturarlo.” pensò Iselia con un sorriso, pregustando già la lenta morte dello
zacrul. Poi notò che accanto alle sue tracce ce n’erano delle altre, ma quasi
invisibili perfino ai suoi occhi. Dovevano essere state lasciate da una
creatura molto leggera, scalza e dal passo saltellante. Erano anche piuttosto
confuse, perchè andavano avanti per poi tornare indietro. Ma terminavano tutte,
insieme a quelle dell’intruso, davanti a una piccola betulla.
-Fedhagonie, Raolaonie!
Venite qua!- Le due driadi le si avvicinarono veloci. Erano simili a Mahallonie
per il colore della pelle e degli occhi, ma le somiglianze finivano lì. La
prima era più alta, superava Iselia di due spanne, ed aveva una veste di un
marrone abbastanza scuro, mentre i lunghi capelli erano verdi, ma anche questo
era di una tonalità più scura rispetto a quelli verde foglia della driade della
betulla. La seconda invece, più bassa, anche se comunque di un’altezza considerevole,
visto che era sempre più alta di Iselia, aveva capelli più corti di una
tonalità di verde ancorapiù scuro,
mentre la veste era uguale a quella dell’altra.
-Guardate queste orme.- disse
Iselia indicando a terra. Le due driadi osservarono accuratamente le tracce,
poi passarono a controllare la betulla.
-Per la sacra quercia!-
esclamò dopo un po’ Raolaonie.
-Che c’è? Cos’hai scoperto?-
chiese l’elfa impaziente. Nel frattempo tutti gli altri avevano smesso di
cercare e si erano radunati lì intorno.
-Nostra sorella Mahallonie è
stata qui poco fa. E ha aiutato l’intruso! L’ha liberato dalla morsa degli
alberi e... e l’ha fatto fuggire con sè!- gridò la driade furibonda. Al suo
urlo si unirono quelli di elfi e centauri.
-Non posso credere che
Mahallonie abbia potuto fare una cosa simile...- mormorò Fedhagonie.
-Non c’è altra spiegazione,
sorella! Le tracce dei suoi piedi non lasciano dubbi.-
-Ma perchè? Perchè avrebbe
dovuto aiutare un uomo? Perchè avrebbe voluto infrangere il tabù mostrandogli
il nostro mondo? E soprattutto perchè mai tradire così la memoria di Olidos?-
-Non è il momento di cercare
una spiegazione! Se stanno davvero viaggiando dentro gli alberi, allora non c’è
tempo da perdere! Inseguiteli e portatemi lo zacrul vivo!- ordinò severa Iselia
-Della driade della betulla fate quel che vi pare, non è di mia competenza il
suo tradimento. E ora andate! Nel nome di Olidos e della vendetta!!- L’elfa
alzò entrambe le braccia e tutti imitarono il suo gesto urlando, sfogando
momentaneamente la loro rabbia, una rabbia vecchia di secoli per alcuni di
loro. Le due driadi si accostarono l’una a un pino, l’altra alla quercia,
appoggiarono una mano alla corteccia, la sollevarono leggermente e ci si
infilarono dentro svanendo.
Mahallonie percepì subito
delle nuove presenze. Ma non ci fece caso. Erano sorelle driadi di certo, ma
non era detto che potessero rappresentare una minaccia. Questa sua convinzione
andò diminuendo a mano a mano che le sentiva sempre più vicine. Cercò di
affrettarsi, non mancava molto. Poi arrivò chiaro e forte: l’odio e la rabbia
erano così forti che quasi la stordirono.
“Traditrice! Come hai osato
liberare lo zacrul? Perchè l’hai condotto nella nostra dimora, maledetta
traditrice?” La voce così forte che risuonò nella sua mente non le lasciò alcun
dubbio: Raolaonie.
“Sorella, perchè l’hai
fatto?” mormorò dopo più supplichevole Fedhagonie.
“Lui non è un uomo! È un
mezzelfo!” rispose Mahallonie senza voltarsi aumentando la sua velocità.
“Razza di sciocca! Sarà uno
stregone, ti avrà incantata con le sue malizie!”
“Ti prego, sorella adorata,
consegnacelo. Iselia vuole solo lui. Tu non subirai alcun male!”
“No, mai! Mi stupisco di voi!
Avete dimenticato ogni cosa? Noi siamo le figlie della vita e vorreste
chiedermi di portare alla morte un essere vivente?”
“Mahallonie, è un uomo! Noi
non avevamo mai fatto nulla di male alla sua razza, ma loro fin da subito hanno
affilato le scuri e colpito gli alberi. Sono malvagi! Olidos si fidava e loro
cosa gli hanno fatto?”
“No, lui è un mezzelfo e deve...”
“Un mezzelfo? E anche se
fosse, cosa significa? Loro hanno attirato la sciagura su di noi! Sono degli
ibridi grotteschi: nelle loro vene scorre il sangue degli abbattitori di alberi
e della stirpe del maledetto assassino! Non sono meglio, non meritano la vita!”
“Non vuoi ascoltarmi,
Raolaonie! Il mezzelfo è discendente di Lasdel! Deve andare a Falesalai
perchè...”
“Visto? Cosa dicevo? Deve
andare dal popolo del massacratore! No, per il tuo bene, Mahallonie, devo
fermarti!”
Arellon ebbe una strana sensazione,
come se si fossero fermati. Era strano perchè in effetti non è che durante il
movimento sentisse qualcosa di molto diverso. Intorno a lui c’era sempre e
comunque solo luce uguale. Eppure gli sembrava che per qualche motivo
Mahallonie non si muovesse più.
Non poteva sapere nulla di
quello che era accaduto, perchè non aveva sentito nulla. Infatti le tre driadi
avevano parlato nella loro lingua, assolutamente impronunciabile e inudibile
nel mondo esterno. Ad Arellon non era giunto nessun suono, continuava a esserci
assoluto silenzio. Ma quella sensazione non se ne voleva andare e perciò decise
di togliersi il dubbio.
“Mahallonie” pensò cercando
di mettersi in contatto con la driade “cosa succede? Va tutto bene?”
“Arellon! Ascoltami: non
allentare la presa, tieni bene a mente chi sei! Hai capito? Ricordati chi e
cosa sei!” Queste parole piene di preoccupazione e paura giunsero veloci al
mezzelfo e gli fecero immediatamente capire che c’era qualcosa che non andava.
“Ma cosa sta succedendo?”
“Non dimenticare! Ricorda chi
sei e non abbandonare la mia mano!” gridò la driade col pensiero per poi
tornare alla sua lotta disperata. Raolaonie l’aveva attaccata. Stava cercando
di spezzare il legame spirituale tra lei e il mezzelfo. Mahallonie faceva del
suo meglio per contrastare il suo attacco, ma la driade della quercia era molto
più forte di lei. Il suo era stato un colpo a doppio taglio: mentre la
indeboliva cercava di rompere le difese mentali del mezzelfo, per dividerlo da
lei e poterlo portare via.
Nel suo mondo Arellon era un
bravo mago e si sarebbe saputo difendere bene, ma ora, in un terreno che
avvantaggiava il nemico e per di più lo nascondeva totalmente ai suoi occhi,
non era in grado di contrastare efficacemente un qualunque attacco.
Sentì come uno strano
torpore. Mahallonie gli gridò ancora qualcosa, ma non comprese quasi nulla. Con
un grande sforzo, cercò di evocare una barriera che lo proteggesse.
“Aesf! Aesf Osfìl!”
Per quanto ripetesse
mentalmente la formula della magia difensiva, sembrava non servisse a niente.
Il senso di torpore e sonno aumentavano.
“Aesf! Sallon Aesf Osfìl!
Sallon Aesf Osfìl! Sallon Aesf O...” Arellon si accorse atterrito di non
riuscire più a ricordare come finisse l’ultima parola.
“Ricordati il tuo nome!”
Queste parole sembrarono provenire da molto lontano, come una bassissima eco di
qualcosa gridato a voce molto alta. Il mezzelfo, visto che anche la parola base
dell’incantesimo gli era svanita dalla memoria, decise di seguire l’ordine alla
lettera. Cominciò a ripetersi mentalmente il suo nome, quello dei suoi parenti
più stretti ed amici, la sua razza e la sua missione. Ma inesorabilmente anche
questi svanivano. Uno ad uno venivano falciati da un mietitore invisibile e
inarrestabile.
“No... non posso
permetterlo... io sono Arellon... figlio di Erotlon e Arila... fratello di
Darila... nipote di... di...” Contemporaneamente gli sembrava che tutto si
oscurasse, come se la luce infinita si stesse spegnendo lentamente e con essa
sparisse ogni suo ricordo. Il torpore e il senso di sonno crescevano. Il
mezzelfo lottava disperatamente per contrastarli, ma alla fine dimenticò anche
il suo nome. No, non poteva essere quella la sua fine. “Io... non morirò
così... l’ha predetto... l’ha predetto... L... La... l’ha predetto mia nonna...
No... io sono... sono...” Un ricordo gli riaffiorò nella mente: di quando sua
madre, il giorno del suo quindicesimo compleanno, gli aveva spiegato il
significato del suo nome. -La mia saggia madre- aveva detto -ha ordinato di
chiamarti così, perchè tu, dopo tanti secoli, sarai colui che infrangerà la
promessa e porrà fine alla discordia.- “Sì” pensò nuovamente “io sono Arellon!”
Improvvisamente l’attacco si smorzò e l’oscurità diminuì. Ma non era tempo di
festeggiare: Raolaonie era ancora più furiosa di prima. Lo zacrul resisteva
bene e ciò era intollerabile.
“Mahallonie, per l’ultima
volta, consegnacelo!” sbraitò colpendola nuovamente. I suoi attacchi erano
totalmente invisibili, l’unica cosa che si poteva scorgere era solo un piccolo
fascio di luce che splendeva leggermente più del resto. Ma ciò non significava
che non fossero potenti. Colpivano direttamente lo spirito, sgretolandolo
lentamente. La driade della betulla, nonostante fosse molto ferita, non
demordeva dalla sua fuga.
“Mai! Non lo avrai mai, stupida
pazza accecata dall’odio!” rispose con rabbia.
“Allora mi costringi a
qualcosa che non avrei voluto fare. Mi dispiace, ma non mi lasci altra scelta.”
Raolaonie preparò il suo colpo più terribile contro Mahallonie. Ma non
l’avrebbe uccisa, le avrebbe solo fatto perdere totalmente conoscenza di sè.
Così la driade della betulla non sarebbe più potuta uscire dal loro mondo, se
non per sempre, per molto tempo, almeno finchè non avesse riacquistato la sua
memoria e con essa il ricordo della sua forma spirituale e sensibile.
“No! Sorella, non farlo!”
gridò Fedhagonie trattenendola.
“Lasciami, stupida! Vuoi
farlo scappare anche tu?”
“Io... Io non voglio che
succeda ancora!”
“Di cosa parli?” domandò la
driade della quercia sempre più infuriata.
“Lo sai bene: di Terassonie!”
“Non parlarmi di lei! Era
debole, sciocca! Ha avuto ciò che si meritava!”
“No, non si meritava di
diventare ciò che è ora! L’hai vista? Hai visto come l’hai ridotta? Vaga alla
cieca, senza meta, ripetendo parole senza senso! Si sta lasciando appassire!”
“Fa parte del ciclo della
vita che un fragile arbusto che non attecchisce debba lasciare il posto a un
più forte albero.”
“No, non è naturale, non fa
parte del ciclo della vita che una di noi sollevi le mani contro una sorella!”
“Basta, taci!”
“Io non ti permetterò di
farlo nuovamente!”
“Mi hai stancato! Levati!”
“No!” gridò la driade del
pino ponendosi di fronte a Raolaonie. La driade della quercia vide che
Mahallonie ne stava approfittando per allontanarsi.
“Stupida!” sbraitò colpendo
Fedhagonie.
Intanto la driade della
betulla era quasi arrivata a destinazione.
“Arellon!” lo chiamò con il
pensiero “Tra poco ti farò uscire. Tieniti pronto: rammenta bene chi sei.”
Il mezzelfo vide una specie
di buco che si apriva, un’apertura su una zona buia. Fece appena in tempo ad
accorgersene, che subito dopo ci fu scaraventato dentro. Precipitò verso
l’oscurità cercando di gridare senza riuscirci. Poi sentì la sua voce. Percepì
l’aria che gli entrava in gola e la dolce e fresca brezza della notte che gli
passava sulle guance e sui capelli. E subito dopo il duro contatto col suolo
coperto da poca erba secca. Alzò subito il viso da terra e si sfregò gli occhi.
Si guardò attorno. Sì, era di nuovo nel suo mondo. Per la precisione era in un
boschetto di notte. Poi osservò se stesso, le sue mani, i suoi abiti, il suo
bastone. Aveva riacquistato il suo corpo. La gioia per lo scampato pericolo
durò appena un attimo però. Si alzò in piedi e si voltò immediatamente verso la
betulla alle sue spalle. La corteccia era ancora scostata e ne usciva una forte
luce, in mezzo alla quale era possibile scorgere il viso di Mahallonie.
-Addio, nipote di Lasdel!
Vai, porta a termine la tua missione. Forse finalmente tornerà la Primavera...-
disse la driade sorridendo.
-Mahallonie!- gridò Arellon
notando due braccia che uscivano dietro di lei dall’albero. Le mani verde
chiaro la afferrarono e la trascinarono dentro. -No! Mahallonie!- Il mezzelfo
corse verso l’albero, ma la corteccia ormai si era richiusa. Battè dei pugni
sul tronco e lo colpì col bastone, chiamando il nome della driade ancora per un
po’. Ma era inutile, se n’era andata. Arellon non sapeva chi o cosa li avesse
attaccati e ora la avesse catturata. Di certo nulla di buono. Se solo le driadi
avevano accesso a quel mondo, allora doveva essere stata una di loro. Ma quanta
rabbia doveva provare per attaccare una della sua stessa razza?
“Moltissima, ma non contro la
gentile Mahallonie. Contro di me. O meglio, contro l’uomo che doveva pensare
che fossi.” pensò tristemente il mezzelfo appoggiandosi all’albero “E lei si è
sacrificata per me. Lei è un’altra che ha subito e che ora subirà terribili
patimenti per causa mia! Come tanti amici e parenti...” Arellon si sollevò e
scacciò quei tristi ricordi. “Ma se non voglio che il loro sacrificio sia vano,
non devo più esitare!” Deciso, sollevò lo sguardo al cielo che si intravedeva
fra gli alberi. La stella di Laila brillava molto luminosa quella notte
d’estate senza nuvole. Indicava la via per il Nord, per il ritorno. Ma anche
quella di Atascal era particolarmente lucente, dalla parte opposta rispetto alla
prima. Guidava verso il Sud, verso la meta.
Arellon, dopo aver dato un
ultimo triste sguardo alla betulla, si mise in cammino seguendo la seconda
stella.
Incredibile ma vero, ho
deciso di aggiornare! Spero che non siate furiosi con me per il ritardo, cari
lettori.
Ringraziamenti:
@Suikotsu: Non te preocupe,
mi impegnerò a leggerlo!
@giodan: I draghi sì. Comunque,
devo proprio ringraziarti: avevo qualche dubbio su come intitolare il capitolo e
il tuo commento mi ha aiutato. Grazie! E spero che il capitolo non ti sia
sembrato banale!
@CaMbAbOy: Beh, sei molto
gentile. Continua a commentare, perchè ti sei fermato al terzo cap?
@Rakyr il Solitario: Non
esagerare con le lodi o potrei montarmi la testa...
C’era grande agitazione nel
castello di Duscar. Un furto come quello non era cosa da poco. Il ladro sapeva
quando colpire, dove andare e perfino come riuscire a fuggire in modo da far
perdere totalmente le sue tracce. I maestri della Gilda del Sapere ne avevano
discusso a lungo, ma alla fine avevano dovuto riconoscere la gravità del fatto
e l’assoluta necessità di informare il loro re. Ma una semplice missiva, che
comunque fu inviata, non era sufficiente, bisognava convocare il sire di
persona. E le notizie di cui bisognava informarlo non erano assolutamente
buone. In quel momento nessuno invidiava la carica di vicario reale del Maestro
Moderav, il quale nonostante ciò avanzava davanti a tutti nella sala del trono impettito
e altero come sempre nella sua tunica color rosso fuoco dagli orli dorati. Ma
un osservatore acuto avrebbe potuto notare che numerose gocce di sudore gli
imperlavano la fronte solcata da rughe scendendo da sotto i corti capelli
grigi. E non era sudore dovuto al calore dei raggi del sole che filtravano dai
due enormi finestroni sulla parete opposta all’ingresso.
Dietro di lui venivano gli
altri dieci maestri avvolti nelle loro tuniche viola orlate d’argento e insieme
a loro gli apprendisti coperti da semplici sai neri senza fronzoli. Il Maestro
Moderav camminò sul tappeto rosso porpora percorrendo tutto l’enorme salone
dalle pareti ricche di arazzi che ritraevano i passati re di Astharal fino a
fermarsi di fronte a una piccola gradinata sopra la quale si trovavano due
troni di legno vuoti. Erano dorati e riccamente decorati. Sui braccioli
correvano motivi floreali, mentre sui bordi degli schienali erano intagliate
torri guglie in miniatura. Sulla cima del trono di destra, il più basso, era scolpita
nel legno una corona, invece su quella dell’altro una rosa rossa che risaltava
notevolmente sullo sfondo oro.
Sopra, la parete era coperta
da un arazzo che raffigurava una donna bellissima in un lungo vestito rosso. La
sua pelle era leggermente scura. Gli occhi bruni osservavano la sala con uno
sguardo ammaliatore e le labbra erano inclinate in un sorriso quasi malizioso. I
capelli corvini le ricadevano lunghi sulle spalle. Appena sotto il florido
seno, la mano sinistra reggeva un grande libro rilegato in pelle e la destra un
alambicco contenente un liquido blu. La donna si trovava in un prato e sullo
sfondo si vedeva in lontananza un castello. Al di sopra dell’azzurro del cielo
era intessuto un riquadro dorato dove campeggiava un nome color rosso sangue:
Jasdala.
Il mago vestito di viola si
inginocchiò davanti al trono di destra toccando quasi il tappeto con la fronte.
Gli altri maghi lo imitarono disponendosi velocemente in modo da creare due
semicerchi dietro Moderav. Quello più vicino e più piccolo era formato dai maestri
e l’altro più grande dagli allievi, divisi in gruppi in modo che ognuno stesse
alle spalle del proprio maestro. Quando tutti si furono inginocchiati, il
Maestro Moderav cominciò a intonare una cantilena subito ripetuta da tutti gli
altri.
-Faestmin Goudes Hadàr.- In
coro e in perfetta sintonia le voci di maghi e maghe pronunciarono più volte le
tre parole. Poi a un gesto del vicario reale la nenia cessò.
-Faestmin Goudes Hadàr.- disse
ancora Moderav sollevando appena lo sguardo sul trono -Vostra Maestà Reale, noi
vi invochiamo supplici perchè c’è grande bisogno di voi e della vostra
illuminata saggezza. Faestmin Goudes Hadàr Fredeskar!- e riabbassò
immediatamente la testa.
Una leggera folata di vento
attraversò la sala, facendo oscillare gli arazzi, e subito dopo sul trono
comparve un uomo sulla quarantina, alto e robusto. Indossava un’armatura sobria
con qualche ammaccatura e portava un lungo spadone al fianco. Sopra i capelli
rossicci portava una corona d’oro senza gioielli, ma certamente opera di un
abile orafo: sul davanti c’era inciso un leone che abbatteva un orso. Osservò
severo la sala e posizionò i suoi occhi neri sul vecchio inginocchiato ai suoi
piedi.
-Maestro Moderav, spero che
tu abbia un’ottima spiegazione riguardo ciò che è accaduto. Il messaggio
arrivato ieri non era esattamente quel che si dice esauriente.- esordì dopo
qualche istante il re gelido.
-Vostra Maestà, Gran Re
Fredeskar IV, imploro umilmente il vostro perdono e la comprensione se io e gli
altri Maestri ci siamo permessi di disturbarvi durante un così delicato momento
della guerra...- rispose Moderav tenendo sempre il volto a terra.
-Visto che è un momento così
delicato, vedi di non farmi perdere tempo in inutili chiacchere!- Il mago tremò
impercettibilmente al sentire tono di voce irritato del re.
-Come avrete letto, sire,
abbiamo subito un grave furto...-
-Sì, ho letto che un ladro è
riuscito a intrufolarsi nel mio castello l’altroieri. Quello che vorrei tanto
sapere è come ci sia riuscito, dato che avevo lasciato a difesa della mia
reggia una persona che mi sembrava così capace e degna della mia fiducia!-
-Maestà, ve lo spiegherò. In
base alle indagini che sono state effettuate il ladro è arrivato al tramonto di
due giorni fa. Si è avvicinato al castello travestito come uno di quegli
straccioni che normalmente circolano intorno alle mura in cerca di cibo, così
nessuno l’ha notato. Doveva essere bene infomato perchè ha scelto proprio il
momento della giornata in cui le nostre sentinelle sono totalmente cieche,
perchè dopo aver bevuto la Pozione della Vista Notturna per qualche momento non
vedono più nulla. I loro occhi diventano capaci di vedere solo nel buio e gli
ultimi chiarori del crepuscolo offuscano totalmente la loro vista. È un effetto
collaterale, ma stiamo cercando un rimedio. Comunque, il ladro ha approfittato
di quei pochi attimi per scalare le mura...-
-Come ha fatto ad
arrampicarsi in così poco tempo?- domandò il re con rabbia.
-Altezza, non lo sappiamo per
certo... Credo che abbia usato un congegno meccanico, un artefatto, una specie
di rampino che trascina automaticamente in alto le persone. In ogni caso è
salito, ha stordito due sentinelle ed è entrato nel castello dalla Torre Ovest.
È sceso al quarto piano senza incontrare nessuno ed è entrato nella stanza dove
sono custoditi i miei ultimi ritrovati. Ha arraffato delle pozioni, non
sappiamo con certezza quali, perchè in seguito all’intervento del mio allievo
Fiol è divampato un incendio.-
-Spero che quell’incapace
abbia ricevuto la giusta punizione.-
-Sì, maestà, il ladro l’ha
ucciso. Io non ero presente, ma mi è stato riferito che poi un gran numero di
maghi e soldati avevano circondato il ladro, ma lui aveva rubato anche la
Pozione del Volo di secondo tipo e perciò è riuscito a scappare sfondando la
vetrata al centro del corridoio. Abbiamo cercato di inseguirlo, ma era troppo
veloce. Prima ancora che avessimo organizzato delle squadre di inseguimento era
già scomparso dal cielo. Il giorno dopo abbiamo continuato le indagini e abbiamo
mandato un messo per avvisarvi, dato che non potevamo contattarvi mentalmente,
poichè eravate impegnato in battaglia. E questo è tutto, altezza.-
Seguì qualche attimo di
silenzio. Tutti rimasero immobili aspettando una risposta da parte del sovrano.
Fredeskar IV si passò una mano nella barba rossa come pensieroso, poi domandò:-
Per quale strano motivo l’altroieri notte non c’erano incantesimi a difesa
delle porte delle torri, Moderav?-
-Eh... Ecco, sire...-
balbettò il Maestro preoccupato.
-E perchè non c’era nessun
sigillo magico nemmeno sulla porta della tua stanza delle pozioni?-
-Le assicuro che c’erano, Vostra
Altezza.-
-Ah, c’erano! Vorresti farmi
credere che allora siano tutti svaniti non appena è giunto il ladro??- sbraitò
il re -Anche se per caso il ladro fosse stato un mago non avrebbe mai potuto
rompere gli incantesimi di protezione, perchè solo i maghi di questo castello
conoscono le parole esatte! E come faceva a sapere quando colpire? Come faceva
a sapere con esattezza dove cercare le pozioni che doveva rubare? Questo ladro
sapeva un po’ troppe cose, non ti pare Moderav?-
-Sire, io...-
-Non credo che tu mi abbia
detto tutto. Guardami negli occhi!- Come comandato da una volontà non sua il
vecchio mago dovette alzare il viso dal tappeto. Il suo sguardo impaurito
incontrò quello furente e spietato del sovrano. -Mi hai detto tutto quello che
sai?-
-Cosa intendete dire...?-
-Posso chiudere un occhio su
molte cose, Moderav. Sul fatto che tu sia stato così negligente nell’adempiere
al tuo compito. Sul fatto che tu non sia stato nemmeno presente e che altri
abbiano dovuto buttarti a forza giù dal letto perchè stavano rubando le tue
pozioni. Sul fatto che tu non sappia nemmeno cosa abbiano rubato. Sul fatto che
tu non abbia la più pallida idea di chi sia il ladro nè di dove sia ora. Sul
fatto che tu abbia aspettato così a lungo a informarmi come si deve.-
-Ma... eravate in battaglia,
non potevo...-
-Osi interrompermi?!-
Fredeskar balzò in piedi per la collera. -Posso tollerare anche le tue continue
scuse. Le detesto, ma potrei perdonarti anche quelle. Ciò che veramente non
posso sopportare è che mi si menta!-
-Io non vi mentirei mai!-
giurò Moderav bianco come un cencio scuotendo la testa.
-Allora, dimmi: come faceva
il ladro a sapere tutte quelle cose? Chi gliele ha dette?-
Moderav tremava in preda al
panico ormai.
-No, non sono stato io,
maestà! Ve lo giuro!-
-Allora chi è stato, parla!-
-Io...- Il mago esitò un
attimo, come se dovesse soppesare due possibilità, entrambe comunque rischiose.
Poi gridò:- È stato il mio allievo Dagerv! È fuggito quella notte stessa! Sì, è
stato lui, ho già mandato un gruppo di soldati a catturarlo!-
-Incapace! Neanche i tuoi
allievi sai tenere sotto controllo!-
-No, ho fatto tutto il
possibile! Vi prego, abbiate pietà di me!- Fredeskar guardò con sommo disprezzo
il vecchio in lacrime.
-Erifion Osfil!- gridò
muovendo veloce la mano destra e puntando l’indice verso di lui. Moderav
cominciò a gridare e si portò le mani alla testa, che ora gli sembrava trafitta
da mille spilli. Il dolore era tale che non poteva minimamente pensare a un
qualunque incantesimo per proteggersi. Perciò doveva subire completamente il
maleficio. Si rotolava sul pavimento in preda a spasmi sempre più forti sotto
gli sguardi attoniti e inespressivi di tutti gli altri maghi. Poi il re abbassò
la mano.
-Non temere, non ti ucciderò,
anche se la morte sarebbe una punizione perfino troppo lieve per la tua totale
incapacità!- disse Fredeskar mentre Moderav ancora boccheggiava -C’è almeno uno
fra voi Maestri che abbia visto di persona il ladro?- domandò poi rivolto al semicerchio
dei maghi in tonaca viola.
Uno alzò la testa:- Io,
Vostra Altezza.- Il re osservò chi aveva parlato: un uomo sui cinquant’anni,
con capelli e corta barba di colore bruno mischiato al bianco.
-Maestro Fertor! Molto bene!
Avanti, vieni, voglio sentire tutta la faccenda da te che eri presente.- ordinò
il re sedendosi -Ah, attento a non inciampare in quella sottospecie di larva
incapace che sbava sul mio tappeto!- Queste ultime parole scatenarono un boato
di risate di tutti gli allievi nella sala. Erano in molti a odiare l’altezzoso Moderav
e non pareva loro vero di aver assistito alla sua pubblica umiliazione. Fertor
oltrepassò il suo superiore senza degnarlo di uno sguardo e si inginocchiò
sempre col capo rivolto a terra. Il re alzò leggermente la mano destra e il
salone piombò nuovamente nel silenzio.
-No, alza pure la testa,
Maestro Fertor. Le persone meritevoli non devono chinare la fronte dinanzi a
me.-
-Vi ringrazio, Vostra
Maestà.- rispose Fertor alzandosi in piedi.
-Avanti, sono ansioso di
sentire una versione più precisa dell’accaduto.-
-In tal caso, mi rammarico di
non poter esservi di grande aiuto. Sono arrivato nell’Ala Ovest del quarto
piano, solo un attimo prima che il ladro spiaccasse il volo. Per quel che ho
potuto vedere, era un uomo giovane, alto, muscoloso e dai lunghi capelli rossi.
Certamente anche molto sicuro di sè e bene informato, perchè sapeva dov’era la
Pozione del Volo del secondo tipo, una formula che avevamo ottenuto piuttosto
di recente. Ma è chiaro che Dagerv, l’allievo del vicario Moderav, gli ha
spiegato per bene ogni cosa.- Moderav emise un rantolo sommesso come di
protesta, ma fu ignorato. -Il mio allievo Gannon, invece, si è subito accorto
che il ladro stava fuggendo in volo, ma purtroppo era già troppo tardi, perchè
era lontano dalla nostra portata.-
-In che direzione è fuggito?-
-Verso le Montagne Verdi,
Vostra Maestà.-
-Ne sei sicuro, Maestro
Fertor?-
-Più che certo, Vostra
Altezza.- Il re si accarezzò di nuovo la barba.
-Quel che dici è molto grave:
ciò significherebbe che il ladro sia in combutta con qualcuno del regno di
Arfanas. E questa sarebbe una violazione della pace di Gortari, siglata venti
anni fa col re Gardon II. Maestra Drechelda, cosa ne pensi?- domandò Fredeskar
IV rivolgendosi a una maga dai capelli biondi del gruppo dei maestri. Lei subito
sollevò da terra il bel viso un po’ pallido. Nonostante il monarca sapesse che
si aggirava intorno alla sessantina d’anni, non si stupì nel vedere che la
maestra non mostrava più di venti, al massimo venticinque anni. Mantenere la
giovinezza era necessario e certamente molto utile per il lavoro di
ambasciatrice e spia che svolgeva. Drechelda si avvicinò al trono e si mise di
fianco a Fertor.
-Vostra Altezza, io non credo
che re Gardon II faccia parte del genere di persone in grado di ingannare o di
cercare di agire di nascosto per fare torto a qualcuno e favorire così i propri
interessi. Sarebbe troppo complicato per una mente come la sua. Invece sono
convinta che sia un uomo molto ingenuo e semplicissimo da ingannare e manovrare
per i propri fini. Per questo è diventato re: era un fantoccio che tutti
speravano di controllare, il più stupido di tutti i figli di Fobian III.-
-Sì, sono d’accordo. Perciò
chi pensi che possa aver organizzato questo furto?-
-Qualcuno che vuole
nuovamente la guerra, sire. Qualcuno di potente in Arfanas. Non la famiglia
degli Hanzolmer e i loro alleati: la pace è solo un vantaggio per loro,
specialmente dopo che due anni fa il re si è sposato in seconde nozze con la
duchessa Tresera di Hanzolmer. Tramite lei, il fratello, il duca Cronrad, sta
cercando di ottenere sempre maggiore ascendente sul re in modo da rafforzare i
suoi possedimenti a danno dei rivali. La guerra potrebbe essere l’occasione di
rovesciare la situazione interna al regno e perciò lui non ne ricaverebbe
niente: se cercasse di nominarsi re, incontrerebbe un’opposizione troppo dura
da parte della maggior parte della nobiltà e soprattutto dalla Confraternita
della Conoscenza. Secondo me sono invece appunto i maghi della Confraternita a
voler riprendere la guerra con noi.-
-Assurdo! Con tutti i nemici
che hanno in Arfanas perchè dovrebbero cercarsene altri?- esclamò un altro dei
maestri.
-Nessuno ha domandato la tua
opinione, Maestro Torkai!- gridò il re fulminandolo con lo sguardo. -Prosegui
pure, Maestra Drechelda.-
-Grazie, Altezza. È vero che
hanno molti nemici, tra cui la potente famiglia degli Hanzolmer e l'Ordine di Lena, ma questo non
significa nulla. Anzi, il loro Gran Maestro potrebbe avere in mente un piano
per togliere di mezzo sia loro che noi. Non dobbiamo inoltre dimenticare che
noi siamo già in guerra con i barbari del deserto e la Gilda di Bajad e quindi
non possiamo difenderci molto bene in caso di un attacco anche da Ovest. Non
sarebbe affatto strano se i nostri nemici giungessero ad un accordo per
schiacciarci.-
-Dunque pensi che Ataloc e
Khair-jan si alleerebbero?- domandò Fredeskar pronunciando i due nomi con
grandissimo disprezzo.
-Pur di ottenere il nostro
Libro i due Gran Maestri sarebbero capaci di ogni cosa.-
-Maestro Torkai, tu che sei
stato ambasciatore alla corte del pashà dei barbari del deserto, cosa ne
pensi?- chiese il re al mago che aveva parlato prima. Torkai, un vecchio dalla
voce aspra, si alzò, ma rimase fermo al suo posto.
-Con tutto il rispetto,
Vostra Altezza, io non sono affatto convinto di ciò che ha detto la Maestra
Drechelda. Secondo me sarebbe sbagliato arrivare a conclusioni affrettate e
crearci così altri nemici, meglio affrontare prima quelli che abbiamo,
piuttosto che sospettare anche di altri con cui abbiamo siglato la pace.-
-La pace l’hanno siglata i
re, non noi maghi!- ribattè seccata Drechelda voltandosi.
-Sono d’accordo.- concordò
Fertor -Nessun accordo può dissuadere i maghi della Confraternita dal cercare
di ottenere il Libro di Jasdala.-
-E allora perchè hanno
aspettato venti anni a riprendere le ostilità?- domandò un’altra maestra
alzandosi.
-Forse perchè volevano che ti
facessi una domanda così inutile!- rispose ironico il suo vicino.
-Se anche fosse, perchè ci hanno
messi in allerta con quel furto?- chiese polemico Torkai a Drechelda.
-Concordo con Torkai, questa
storia non mi quadra proprio! Mi sembra che si esageri: dopotutto potrebbe
semplicemente essere successo che lo stesso Dagerv abbia assoldato un ladro per
rubare delle pozioni in modo da poterle poi rivendere e andare a vivere da
ricco da qualche parte a Ovest, chissà magari in Ifadia. Era evidente a tutti
come gli luccicavano gli occhi al solo tintinnio delle monete.- fece un altro
ancora.
-Che Dagerv l’abbia fatto per
i soldi non c’è dubbio: quindi potrebbero anche averlo corrotto i maghi della
Confraternita affinchè dicesse loro come entrare nel castello e disattivasse le
protezioni magiche.- ribattè Drechelda. Prima che qualcun altro potesse dire la
sua Fredeskar IV sollevò la mano destra e intimò silenzio.
-La situazione è in ogni caso
molto grave.- disse poi -La guerra contro quei luridi beduini e i loro
illusionisti mi terrà impegnato ancora a lungo e non posso permettere che nel
frattempo altri nemici attacchino il mio regno. È chiaro che ho sbagliato
pensando di potermi fidare di te, Moderav.- Il vecchio nella tunica rossa
sollevò piano il volto dal pavimento e si mise nuovamente in ginocchio, temendo
una nuova punizione. -Ma ti voglio mostrare la mia misericordia. Nonostante i
tuoi fallimenti ti affido un importante compito: devi reclutare un nuovo
contingente di almeno quattrocento soldati e venti maghi e portarlo sul fronte
entro tre giorni. Spero che questa volta non mi deluderai.-
-Grazie signore, grazie.-
-E per evitare che eventi
come quelli dovuti alla tua incapacità si ripetano, d’ora in poi sarà una
persona molto più affidabile a governare in mia assenza, la mia consorte Aizal.-
Detto questo pose la mano sinistra con il palmo rivolto verso l’alto sul
bracciolo del trono che aveva di fianco. Nella sua mano segnata dal mestiere
della guerra comparve una mano candida e lentamente su tutto il trono apparve
una donna giovane molto bella. Sui lunghi capelli bruni ricci portava un
diadema con un rubino incastonato sopra la fronte. Indossava un vestito color
oro riccamente decorato, che mostrava appena sotto il seno una rosa intessuta
in porpora per il fiore e nero per il gambo e le spine.
-E mia figlia, Elizal.-
aggiunse Fredeskar mentre affianco alla donna compariva una giovane di circa
vent’anni dai capelli ramati e gli occhi verde acqua. Indossava un vestito
simile a quello della regina. Era anche lei bella, anche se non reggeva il
confronto con la madre. La loro espressione era però quasi identica: una specie
di sorriso malizioso, ma occhi freddi e crudeli.
-Lascio a voi, mia cara sposa
e mia giovane figlia, il comando sul castello e sul regno. E consiglio a voi
tutti di non disubbidire e di non commettere sbagli: Aizal non è comprensiva
come me.- Fredeskar e la moglie si scoccarono un sorriso d’intesa. Poi lui
recitò una formula magica e scomparve. Aizal osservò i presenti nella sala e
posò gli occhi bruni sul vecchio mago avvolto nella tunica color rosso fuoco
inginocchiato a terra.
-Sono piuttosto stupita che
tu non abbia convocato anche me, Maestro Moderav.- disse con voce dolce
sorridendo -Ma non c’è nessun bisogno che si ripeta ciò che è stato detto: io e
mia figlia eravamo qui fin dall’inizio. L’invisibilità non è un trucchetto poi
così difficile. Dimmi: chi hai mandato sulle tracce del tuo allievo traditore?-
-Altri due miei allievi e un
manipolo di quindici soldati.- mormorò Moderav.
-Bene, spero per te che lo
riportino, vivo o morto. In caso contrario, la responsabilità sarà solo tua. Comunque
voglio assicurarmi che tu non deluda nuovamente il mio sposo: puoi partire
adesso per reclutare i soldati che servono sul fronte. Non preoccuparti per i
tuoi allievi, saranno affidati ad altri maestri. Non voglio che tu abbia troppe
preoccupazioni. E ora va’ pure.-
Moderav incassò senza
ribattere: praticamente gli era stato appena tolto il titolo di maestro e gli
era stato intimato di sparire dal castello il più in fretta possibile, ma
sarebbe stata una follia mettersi contro la regina. Non tanto per via del
marito, ma proprio per via di lei: era l’erede diretta di Jasdala e, come tutte le sue
antenate, possedeva un potere magico eccezionale, infinitamente più grande di
quello del re. Non per nulla era lei la Gran Maestra della Gilda del Sapere. Il
vecchio mago si alzò, si inchinò nuovamente due volte di fronte alle due maghe
e uscì dalla sala con una certa fretta, come se avesse paura di essere colpito
nella schiena da una fattura o da un qualche oggetto contundente di ferro. Gli
altri maestri lo guardarono senza dire una parola.
-Chi di voi è Gannon?-
domandò la regina rivolta agli allievi. Un giovane dai capelli neri corti e gli
occhi scuri si alzò deciso.
-Vieni pure avanti.- Gannon
camminò oltre il semicerchio dei maestri fino ad arrivare di fianco al Maestro
Fertor e si inginocchiò.
-I miei complimenti, giovane
allievo. Sei stato senza dubbio il mago più sveglio in tutto il castello
l’altroieri notte. Non me ne dimenticherò, ora che c’è un posto di maestro
vacante.-
-Io... Vi ringrazio, Vostra
Maestà.- disse il giovane in preda all’emozione. La regina spostò il suo
sguardo sui maestri.
-Ora, io sono convinta che la
Maestra Drechelda abbia ragione. Quello che vi ostinate a definire un semplice
ladro per me non è altro che una spia della Confraternita. Voglio che vengano
fatte indagini vere, non quel lavoro frettoloso e mal fatto di Moderav, per
scoprire esattamente cosa ha rubato, oltre al secondo tipo della Pozione del
Volo. Maestro Fertor, occupatene tu. Maestro Torkai, a che punto è quella
pozione che dovrebbe togliere la sete per giorni che hai promesso al re tre
mesi fa per la guerra che tu hai tanto voluto?-
-Ci stiamo lavorando, devo
riuscire a trovare un composto nel quale non servano le Foglie-lacrima che non
crescono nel deserto.-
-Vedi di sbrigarti, o mi
vedrò costretta ad affidare ad altri l’incarico. Maestra Drechelda, voglio che
tu invece ti metta in contatto con i tuoi informatori ad Arfanas. Se sarà
necessario potrai recartici di persona. Dopotutto siamo ancora in pace. Anche
se non credo che durerà molto... Maestri Rafes e Ferbrina, voi dovrete
scegliere fra i vostri allievi venti sufficientemente forti e capaci e mandarli
sul fronte. Gli altri invece continueranno con le loro normali occupazioni, ma
vi raccomando di stare all’erta. Non dobbiamo permettere che la mano di Ataloc
giunga nuovamente così vicina al Libro.-
Ringraziamenti:
@giodan: Beh, il mio tempo me
lo sono preso, spero sia venuto bene anche questo.
@Cleo92: Grazie, ma non ti
devi buttare giù: solo scrivendo si può migliorare.
@Suikotsu: Ma sì, non ti
preoccupare, se la caverà...
@Carter_Farrel:
Oh, ben tornato! Forse non ti ho stupito con questo cap, ma ho risposto ad
alcuni enigmi (creandone degli altri...)
@Armelle: Grazie
per i compliments! Ora si capisce di più? O di meno? In ogni caso, continuo
bene?
Arellon si lavò il viso
prendendo con le mani a conca l’acqua fresca del ruscello. La notte prima aveva
camminato tutto il tempo senza dormire neanche un attimo. Tuttavia non sentiva
sonno e non era solo a causa del ricordo dell’esperienza indescrivibile di
poche ore prima. La sua agitazione veniva dalla consapevolezza di ciò che stava
per fare. Mesi prima, all’inizio del viaggio, non ci aveva pensato, o comunque
non gli aveva dato molta importanza. Ma ora era lì, di fronte a quel ruscello,
che gli elfi chiamavano Searalm, Fiume di Lacrime. Secondo la leggenda, sui
suoi argini l’elfa Feria aveva pianto settimane per suo figlio, che non avrebbe
mai più visto, finchè l’acqua del torrente non era diventata salata per la
quantità di lacrime versate. L’acqua non era però affatto salata in quel
momento, come ebbe modo di constatare il mezzelfo bevendola. Si alzò in piedi e
guardò di fronte a sè, verso il bosco soleggiato. Sembrava perfettamente identico
a quello alle sue spalle, ma c’era una differenza, assolutamente essenziale per
lui. Dall’altra parte del ruscello si estendeva il Regno Eterno, l’Antica
Patria di tutti gli elfi. A meno di un giorno di cammino si trovava Falesalai,
la città costruita nel luogo in cui gli dei erano apparsi ai primi elfi
all’inizio della loro era, migliaia di anni prima. Arellon era quasi giunto a
destinazione: anche se doveva ancora svolgere il difficile compito di riferire
il suo terribile messaggio al sovrano degli elfi, il suo viaggio era
praticamente concluso. Ma non era questo pensiero ad agitare il giovane.
Attraversando il piccolo corso d’acqua, lui, un mezzelfo, avrebbe messo piede
nel regno degli elfi della città. Lui sarebbe stato il primo dopo più di cinquemila
anni. Lui avrebbe percorso la via opposta ad Atascal. Lui sarebbe tornato.
Strinse forte il bastone. “Sì” pensò “io, primo di tutta la mia stirpe,
tornerò.”
Avanzò e in pochi passi si
trovò dall’altra parte del corso d’acqua. Prima di proseguire, si voltò e bevve
ancora dal ruscello. -Asciuga le tue lacrime, madre Feria. Finalmente la
discendenza di tuo figlio ha fatto ritorno.- sussurrò Arellon. Poi si rimise in
cammino, lasciandosi il Searalm alle spalle ed entrando nel bosco.
Il mezzelfo camminò spedito
per alcune ore. Era una calda giornata estiva, ma l’ombra degli alberi la
rendeva più sopportabile. Quel bosco non dava alcun senso di oppressione come
la Grande Foresta Oscura, era veramente piacevole, il luogo ideale per una
passeggiata. Gli alberi erano curati da una mano esperta, anche se il mezzelfo
poteva sentire, non senza una certa tristezza, che nessuna driade era
intervenuta nella loro cura da tempo.
A un certo punto Arellon si
accorse che il bosco era forse un po’ troppo calmo. Si fermò ad ascoltare: non
si udiva neanche il cinguettio di un uccello. In quel silenzio irreale Arellon
sentì, o pensò di sentire, un lievissimo fruscio alle sue spalle. Si voltò
appena in tempo per vedere una figura snella e alta piombargli addosso.
-Aesf!- gridò muovendo il
bastone verso di essa e dalla cima del legno uscì una luce verde. Questa si
propagò in modo da formare di fronte ad Arellon un cerchio in aria. L’assalitore ci cozzò sopra e ne fu respinto. Cadde a terra rotolando per alcuni metri.
Una freccia fu scoccata da un albero alle spalle di Arellon, che si gettò a
terra mentre la freccia si conficcava nel terreno e si girò. Su un ramo stava in piedi una creatura alta, con i capelli lunghi biondi e orecchie a
punta: un elfo. Portava abiti leggeri verdi e marroni e una faretra piena di
frecce sulle spalle, ma nessuna armatura. Stringeva un arco e con la mano
destra aveva già incoccato un’altra freccia mentre guardava lo straniero con
un’espressione truce.
-Io vengo in pace, non voglio
combattere!- gridò Arellon in elfico. L’elfo lo fissò a lungo negli occhi.
-Se è così, getta il bastone
e tieni le mani bene in vista.- rispose infine.
-D’accordo, ma tu abbassa
l’arco.- Lentamente l’elfo allentò la corda tesa, mentre Arellon si abbassava
per appoggiare a terra il bastone. All’improvviso due braccia lo afferrarono al
collo tirandogli indietro il cappuccio. Era l’elfo che prima aveva gettato a
terra! Divincolandosi nel tentativo di liberarsi dalla ferrea presa del suo
avversario, colpì col bastone il fianco dell’elfo e gridò:-Axos!-
Una forte luce bianca si
generò dal bastone e colpì l’elfo, che subito lasciò andare il collo di Arellon
e si accasciò a terra tremando e scosso da fremiti con tutti i capelli ritti.
-No! Fratello!- gridò l’elfo
sull’albero e scoccò un’altra freccia. Il mezzelfo si slanciò di lato per
evitarla. La seconda centrò in pieno il bastone che il mezzelfo aveva usato
come scudo e ne fu subito respinta. Poi Arellon lo puntò veloce verso l’albero.
-Tarpsas!- urlò. Un getto
ocra partì dalla punta e volò verso l’elfo. Durante il suo volo si allungò in
orizzontale e si appiattì. Alle due estremità si formarono due sfere di luce
più scura e cominciò a roteare. Il getto di luce colpì l’elfo sulle gambe, appena sotto le
ginocchia. Ma non si dissolse, anzi si fece duro come una corda. Si legò
saldamente, facendo compiere vari giri alle sfere intorno alle gambe dell’elfo
che, così legato, barcollò sul ramo stringendo ancora l’arco in mano per poi
rovinare a terra fra i cespugli.
Arellon si rialzò. Si passò
una mano sulla fronte madida di sudore scostando indietro i capelli ricci.
Quelle tre magie compiute in fretta lo avevano stancato, soprattutto perchè non
aveva riposato la notte.
“Decisamente non me l’ero
immaginato così il mio arrivo... Almeno, non mi aspettavo che mi attaccassero
senza neanche farmi parlare... Forse la driade aveva ragione, dopotutto. Ma
ormai sono arrivato fin qua e non posso più tirarmi indietro!” pensò osservando
il punto del bastone dove era arrivata la freccia. Non c’era neanche un segno,
eccetto le venature che il legno possedeva normalmente.
“Meglio muoversi, questi due
non possono essere soli e...”
All’improvviso altri tre elfi
comparvero da dietro gli alberi. Due di loro erano vestiti come quelli che
aveva già affrontato, mentre il terzo portava anche una giacca più scura.
All’altezza del cuore vi era ricamato un albero circondato da un cerchio
dorato.
Tutti e tre impugnavano
scimitarre affilate e lucenti sotto i raggi del Sole.
-Prendete l’intruso!- gridò
l’elfo con la giacca agitando la lama.
Gli altri due corsero verso
Arellon alzando le spade. Lui impugnò il bastone con entrambe le mani e lo
sollevò in fretta in modo da difendersi dai due fendenti. Le lame infatti
colpirono il legno, ma non lo tagliarono. Come se fosse stato di ferro, il bastone
non fu minimamente intaccato dal colpo. I due elfi premevano con le spade ed
Arellon sembrava che stesse per cedere. All’improvviso si abbassò di scatto,
prendendo gli avversari di sorpresa, e colpì quello alla sua destra con
l’estremità in fondo del bastone in pieno stomaco. Con un gemito si accasciò a
terra, mentre l’altro balzò addosso ad Arellon gridando:- Maledetto bastardo!-
Tentò un affondo, ma fu vanificato dalla prontezza di riflessi del mezzelfo,
che mosse veloce il bastone e fermò la spada a pochi centimetri dalla sua
faccia. Tuttavia era in una posizione svantaggiata rispetto all’elfo. Così, con
le ginocchia piegate mentre il suo avversario era in piedi, aveva poche
possibilità di resistere. In più vide che quella che aveva colpito prima si
stava rialzando. Sebbene le sue energie si fossero quasi esaurite, decise di
tentare con un’altra magia.
“Non ho scelta, ma prima devo
liberarmi da questa situazione. Però per riuscirci dovrò fare una cosa che
sarebbe molto piaciuta a Corlaros.”
Il suo viso e quello
dell’elfo erano vicinissimi, tanto che i due si potevano specchiare l’uno
nell’occhio dell’altro. Arellon sputò nell’occhio destro del suo nemico.
Istintivamente quello si
ritrasse portandosi una mano all’occhio e imprecando contro l’intruso. Il
mezzelfo ne approfittò per gettarsi a terra e rotolare di lato. Poi si sollevò,
si mise accovacciato e puntò il bastone contro i due elfi stringendolo con
entrambe le mani. -Sallon Aesf!- urlò con tutta la sua voce.
Dalla punta del bastone uscì
di nuovo una luce verde che si propagò fino a formare un cerchio di fronte al
mago. Stavolta però il cerchio si mosse verso i due nemici e li investì in
pieno scaraventandoli a terra alcuni metri più in là.
Arellon respirava
affannosamente. La magia lo aveva sfiancato. Sentiva i muscoli delle braccia
che stringevano il bastone come svuotati da ogni energia.
Un freddo metallo gli toccò
il collo. -Bene bene! I miei complimenti, messer mago, eccellente spettacolo!
Peccato che ti sia distratto sul finale.- disse il terzo elfo prendendo Arellon
per i capelli e premendogli la spada sul collo. -Sei stanco? Non ti
preoccupare, ora ti potrai riposare per bene!- detto questo gli lasciò i
capelli, allontanò la spada e lo colpì con il fianco della mano sinistra sulla
nuca. Arellon alzò la testa per il contraccolpo e con un gemito cadde a terra
svenuto.
-Per gli dei! Non so chi tu
sia, ma è da molto tempo che non vedevo simili magie fatte da stranieri!- esclamò
l’elfo con la giacca rivolto al corpo disteso. Rimise la spada nel fodero
legato alla cintura e si avvicinò ai due elfi distesi tra le foglie. Giacevano
con gli occhi chiusi e non avevano nessun segno del colpo preso.
“Neanche un graffio o una
scottatura dove li ha colpiti la magia. Strano, molto strano! Gli uomini
normalmente non riescono a compiere stregonerie pure così perfette da non
lasciare traccia...” pensò l’elfo osservando i due compagni.
-Capitano Tilvell! Cosa è
successo qui?- Il capitano si voltò e vide quattro elfi. Quello che aveva
parlato stava davanti a tutti e aveva una lunga veste rossa con cappuccio. Sul
petto aveva ricamato in stoffa argentea lo stesso simbolo che c’era sulla
giacca del capitano: l’albero all’interno di un cerchio. I suoi capelli erano
tagliati più corti e stringeva in mano un bastone.
-Ho sentito dei rumori e mi
sono affrettato a venire con dei rinforzi. Temevo ci fosse un problema
riguardante la presenza di un intruso che avevo percepito stamattina.- disse
ancora.
-In effetti c’era un
problema, ma ormai è stato risolto, stregone Maros.-
-Vedo, vedo... Certo che è
stato difficile da risolvere, vero?- domandò Maros sarcastico -Cos’è successo a
quei due soldati?- aggiunse guardando i due elfi a terra.
-Li ha colpiti l’intruso con
delle magie. Più in là ci dovrebbero essere altre due sentinelle che avevo
mandato in avanscoperta stordite allo stesso modo.- rispose il capitano Tilvell
piatto indicando dietro di sè.
Lo stregone fece un cenno ai
tre elfi e quelli corsero nella direzione indicata.
Maros si avvicinò al
capitano. -È lui l’intruso?- domandò muovendo il bastone verso Arellon disteso
a terra supino.
L’elfo annuì.
-Molto bene! Si direbbe solo
un mago umano. Mi aspettavo qualcosa di peggio dopo la sensazione di un così
grande potere che ho avuto stamattina. Lo esaminerò con calma, ma prima meglio
prendere delle precauzioni.- disse lo stregone e puntò il bastone verso
Arellon. -Zallen Fath!- Mentre pronunciava le parole magiche mosse la punta del
bastone in cerchio cinque volte. Si formarono cinque anelli di luce dorata. Lo
stregone li spinse verso il basso toccandoli ad uno ad uno con i bastone.
Questi cerchi luminosi si diressero verso Arellon dividendosi: uno andò verso
il collo, dueverso i polsi e due verso
le ginocchia. Ciascuno si aprì in un punto e si strinse intorno alla parte del
corpo che aveva di fronte richiudendosi subito.Poi tutti si fissarono al terreno con la parte inferiore.
Maros guardò soddisfatto il suo incantesimo: il collo, i polsi e le ginocchia
di Arellon erano stretti dai sottili cerchi di luce gialla saldamente
agganciati al suolo.
-Gli Anelli di Potenza lo
terranno fermo per un bel po’, quando si sveglierà. Ora andiamo a vedere cos’è
successo alle guardie.-
Lo stregone e il capitano
andarono verso il punto dove giacevano a terra i due elfi. Piegato sopra di
loro c’era uno dei tre soldati venuto con lo stregone. Tenendo in mano una
borraccia contenente un filtro di guarigione lo versava sulle loro labbra.
-Neral, dove sono Soglen e
Darfal?- chiese Maros.
-Sono andati a cercare le
altre due sentinelle stordite dall’intruso, stregone Maros.- rispose Neral
rialzandosi.
-Bene, intanto vediamo le
condizioni di questi due.- Lo stregone si chinò sui due soldati, li osservò
attentamente per un po’ e poi borbottò:- Com’è possibile?-
-Sì, l’ho notato anch’io: non
hanno nessun segno della stregoneria che li ha storditi.- disse Tilvell come
per esplicitare i dubbi di Maros.
-Ma tutto ciò è ridicolo,
capitano! Nessun uomo è in grado di compiere magie non elementali senza
lasciare una traccia, una ferita sul bersaglio!- sbraitò lo stregone
sollevandosi.
-Già, ed è anche vero che
nessun uomo generalmente usa bastoni o oggetti magici di sorta per questo
genere di fatture.- rispose Tilvell.
-Cosa, un bastone?-
Lo stregone corse vicino al
corpo di Arellon e lo vide. Prima non ci aveva fatto caso, aveva pensato che
fosse un ramo di un albero o qualcosa del genere. Ma ora lo osservava stupito:
semicoperto dalle foglie secche degli alberi c’era un bastone lungo di legno
scuro. In cima si divideva in due rami che si attorcigliavano e si riunivano.
Lo raccolse da terra con la mano sinistra. Sentì un grande potere sprigionarsi
dal legno e investirlo. La mano e tutto il braccio gli cominciarono a scottare.
Una scossa tremenda lo attraversò tutto e gli arrivò dritta alla testa. Maros urlò
di dolore e gettò il bastone a terra.
-Stregone Maros, che cosa vi
è successo?- domandò Neral preoccupato avvicinandoglisi seguito da Tilvell.
-No... Non posso crederci...
Il bastone mi ha respinto. Mi ha colpito con una scarica di energia! Ma è impossibile!-
gridò Maros guardando la mano che ancora gli doleva.
-Forse dipende dal fatto che
il mago sia solo privo di sensi e non morto.- azzardò il capitano. Lo stregone
gli lanciò un’occhiata furibonda.
-È ovvio che, siccome è
ancora vivo, il suo bastone tenti di respingere gli estranei che lo impugnano!
Ma io non sono uno sprovveduto, anzi sono uno stregone abbastanza potente! Un
semplice bastone magico non dovrebbe oppormi così tanta resistenza! Normalmente
dopo qualche attimo si dovrebbe arrendere al potere del mago più forte. Perchè
non è così?- domandò Maros più a se stesso che agli altri. In quel momento
arrivò un altro dei tre elfi venuti con lo stregone.
-Stregone Maros, capitano
Tilvell, abbiamo portato qui anche gli altri due e stanno cominciando a
svegliarsi.-
-D’accordo, Soglen. Andiamo.-
rispose Tilvell.
Poco dopo furono tutti
davanti ai quattro soldati che stavano rinvenendo.
Il primo ad aprire gli occhi
fu l’arciere. Dopo che si fu messo a sedere sorretto da Soglen e Darfal ed ebbe
bevuto dalla borraccia, il capitano si rivolse a lui.
-Arciere Omnil, che cosa è
successo qui? Fai rapporto!-
-Capitano, grazie agli dei
siete arrivato! Un dannato intruso ha messo fuori combattimento mio fratello e
me con delle magie prima che riuscissimo a fermarlo. Mi ha fatto cadere
dall’albero! Che male alla testa!-
-Ma ha detto qualcosa? Ti ha
parlato o almeno hai sentito cos’ha detto nel lanciare le fatture?- chiese
Maros.
-Sì, mi ha detto che veniva
in pace e poi ha colpito mio fratello e...- In quel momento si accorse degli
altri elfi distesi a terra. -Fratello! Asmil!- gridò gettandosi su di lui e
scuotendolo. -Che gli ha fatto quel maledetto?-
-Questo puoi dircelo solo tu
di preciso, ma io credo che l’abbia colpito con una specie di fulmine.- rispose
lo stregone osservando i capelli ritti e ancora un po’ fumanti di Asmil.
-Sì, quel dannato mago ha
gridato Axos, prima di colpirlo. Invece contro di me ha lanciato una corda
eterea con due sfere alle estremità che mi ha stretto le gambe e mi ha fatto
perdere l’equilibrio.-
-L’incantesimo di fulmine
semplice e delle bolas eteree... L’intruso conosce molte magie...- osservò
Maros pensoso. Poi si chinò su Asmil e lo toccò alla testa col bastone
pronunciando un breve incantesimo di guarigione. Una luce calda irrorò la
fronte dell’elfo e i suoi capelli biondi si afflosciarono smettendo di fumare.
-In che lingua ti ha detto
che veniva in pace?- chiese ancora rivolto all’arciere.
-Beh, in elfico. Parlava
bene, ma aveva uno strano accento: non sembrava quello degli uomini, anche se
gli somigliava molto. Tuttavia aveva qualcosa di diverso, ma non saprei dire
cosa...-
Lo stregone guardò il
capitano che ricambiò senza una parola. Che razza di accento era? Poteva certo
trattarsi di un mago umano che aveva imparato l’elfico, ma allora come
si spiegava il fatto che avesse un bastone per lanciare gli incantesimi? Un
bastone che, oltretutto, lo aveva respinto. Maros era sempre più stupito e
confuso.
Poi Omnil raccontò di quando
aveva cercato di colpire Arellon con le frecce.
-Cosa? La freccia è stata
respinta dal bastone? È impossibile!- sbottò lo stregone -Hai visto male tu
oppure l’intruso ha creato un’illusione.-
-Non credo che sia così,
mastro stregone.- disse Tilvell -Omnil potrebbe scorgere una formica da più di
tre chilometri di distanza. Inoltre anche i miei soldati hanno colpito il
bastone con le loro spade e non lo hanno neanche scalfito.-
-Capitano, loro due da cosa
sono stati colpiti?-
-Credo da un incantesimo di
scudo lanciato contro di loro.-
-Uno scudo-attacco. In tal
caso, rinverranno tra poco come Asmil. Darfal, Soglen, Omnil, voi rimanete qui
e fate bere loro la pozione di guarigione nelle borracce. Neral e Tilvell
invece verranno con me a ispezionare l’intruso. Voglio vederci chiaro in questa
storia.- dichiarò Maros.
Si diressero veloci verso
Arellon. Giaceva ancora a terra con gli occhi chiusi.
-Perquisitelo, controllate se
ha qualche arma addosso o qualcosa di sospetto.- disse lo stregone. Poi si chinò
sul bastone di Arellon e lo osservò senza toccarlo. Sembrava legno normale. Un
banalissimo legno modellato per servire da bastone. Ma, a parte la stranezza
della forma, com’era possibile che fosse così resistente?
Maros guardò il bastone che
stringeva nella mano destra. Il suo bastone gli serviva per incanalare le magie
ottenendo l’aiuto della Natura e della Terra. In esso era presente una certa
quantità del suo potere magico ed avrebbe opposto una buona resistenza al
controllo di un altro mago o all’attacco di un’arma non magica. Ma non avrebbe
mai resistito a due lame elfiche senza riportare nessun segno. Nemmeno avrebbe
respinto un mago più forte qualora se ne fosse impossessato. Che lo straniero
fosse più forte di lui? No, era un umano dopotutto. E anche giovane. Mentre
Maros si lambiccava il cervello cercando di risolvere il dilemma, Neral gli si
avvicinò.
-Stregone Maros, abbiamo
controllato, ma l’intruso non ha nessun’arma con sè, ha solo alcune monete di
uno dei regni umani, mi pare Arfanas.- disse.
-Però qualcosa di sospetto ce
l’ha: gli abiti sono sporchi ma non poveri e le sue orecchie- aggiunse Tilvell
-sono a punta!- Maros guardò i due elfi incredulo e poi osservò lui stesso. Si
chinò, scostò i folti capelli ricci di Arellon da entrambe le parti e vide che
sotto c’erano orecchie che si allungavano in alto in modo da formare delle
punte, anche se non proprio come quelle degli elfi, cioè un po’ meno appuntite.
-È proprio strano anche il
fatto che porti i guanti in questa stagione! È un’estate piuttosto calda.-
borbottò Neral indicando le mani di Arellon.
-Cosa? I guanti?- chiese
Maros gridando.
-Già, è vero, chissà perchè
li indossa...- disse il capitano Tilvell.
-Razza di ignoranti! Asini!
Possibile che non riusciate a capire?- sbottò Maros afferrando la mano sinistra
di Arellon e togliendo il guanto -Sapete cosa significa questo? Lo sapete?- I
due elfi guardarono la mano. Il palmo era interamente occupato da una specie di
tatuaggio che però sembrava inciso col fuoco. Raffigurava un corvo nero dalle
ali spalancate circondato dalle spire di un serpente verde e rosso scarlatto in modo tale che il cerchio si chiudeva sotto il pollice, dove la testa e la
coda del rettile si incontravano. Negli occhi bianchi del corvo era possibile
leggere due sillabe:‘Ca’ nell’occhio sinistro e ‘dàn’ nell’occhio destro.
-Questa,- disse Maros
afferrando la mano per l’indice, il medio e l’anulare -questa è la risposta a
tutte le nostre domande! Questo è il simbolo della Maledizione di Naefarval!
L’intruso è un mezzelfo!-
Ringraziamenti:
@Suikotsu: Beh, non tutti i
nomi sono così importanti, non ti preoccupare.
@evening_star: Ancora grazie
mille! Adesso si è svelato qualcosa in più?
Arellon sentiva un forte
dolore alla nuca. Mugolando provò a toccarsela con una mano, ma non riuscì a
muovere il braccio. Tentò anche con l’altro, ma era inutile: c’era qualcosa che
lo stringeva ai polsi. Aprì piano gli occhi. Vedeva un elfo di spalle che
indossava una veste rossa con cappuccio. Sembrava discutere animatamente con un
altro, che però Arellon non riusciva a vedere. Cercò di sollevare la testa, ma
anche intorno al collo c’era qualcosa che lo immobilizzava. Era freddo e
sembrava duro come acciaio, eppure dava una strana sensazione sulla pelle, come
se fosse vivo. Il mezzelfo alzò piano la testa e lo osservò: un semicerchio
dorato percorso continuamente da nuovi bagliori. Un Anello di Potenza.
“Maledizione, non posso usare nessuna magia per liberarmene. Specialmente senza
bastone...”
-Ah, ti sei svegliato, eh?- A
parlare era stato l’elfo con la veste rossa. Teneva in mano un bastone di
faggio. “Ecco chi mi ha messo gli anelli...” pensò Arellon.
-Ti consiglio di non provare
a usare qualcuno dei tuoi giochetti magici. Gli anelli non te lo perdoneranno.-
continuò lo stregone Maros.
-E ci servi sveglio, ci sono
molte cose che devi spiegare, zacrul.- disse il capitano Tilvell avvicinandosi
e coprendo con la sua ombra il viso del mezzelfo. Arellon vide che non erano
solo lui e l’elfo dalla veste rossa a sovrastarlo. C’erano altri sette elfi
intorno a lui, tutti con espressioni impassibili sui visi eternamente giovani,
ma con le armi strette in pugno.
-Perché hai attaccato le mie
guardie?- domandò veloce il capitano.
-Sono stati loro a cercare di
ammazzare me per primi.- rispose Arellon calmo.
-Certo, è il nostro dovere
catturare o rendere inoffensivi gli intrusi come te. Cosa sei venuto a fare
nella nostra terra?-
-Io sono venuto a portare un
messaggio importantissimo al vostro re.-
-Davvero? Mi spiace
deluderti, ma non permettiamo a tutti di parlare al nostro re, intruso
mezzelfo.- rispose beffardo Tilvell. Arellon d’istinto voltò gli occhi verso la
mano sinistra e contemporaneamente mosse le dita: si accorse che il guanto non
c’era più. Ora si giocava a carte scoperte.
-Sì, io sono un mezzelfo.-
proclamò deciso -Io vengo a infrangere il giuramento di Atascal. Devo
assolutamente parlare col vostro re: ho una notizia importantissima da
riferire.-
-E noi dovremmo fidarci?
Quale sarebbe questa notizia?-
-Non posso dirvelo, è per il
re solo.-
-E perché?-
-Non mi credereste.-
-Certo che non ti crederemmo!
Saranno di certo tutte menzogne!- esclamò Tilvell.
-No, non è vero. Una
terribile minaccia incombe su tutti noi.-
Il capitano rise forte. -Ah,
bene! Così, oltre ad essere intruso, mago e mezzelfo saresti pure un profeta!-
-Dovete farmi parlare col
vostro re! È importantissimo!- Tilvell lo colpì con un calcio nelle costole.
-Basta! Mi hai stancato con
questa lagna! Ti interrogheremo di nuovo in prigione! Forse là sarai più
sincero.-
Maros allora mosse il bastone
verso l’alto e fece salire gli Anelli di Potenza da terra, sollevando anche
Arellon fino a portarlo in piedi. Poi chiese:- Che incantesimo hai gettato sul
tuo bastone? Perché non posso tenerlo in mano?-
-Non può essere toccato da
nessuno che non sia il legittimo proprietario.-
-Come si annulla questo
potere?-
Arellon non rispose.
-Non vuoi dirmelo?- continuò
Maros arrabbiato -Vuoi che lo scopra da solo?- aggiunse allungando una mano
sulla fronte del mezzelfo. Minacciava di leggergli nella mente e di scoprire
tutti i suoi segreti, ma Arellon non poteva permetterlo.
-No.- rispose il mezzelfo
-Posso farlo solo io, ma non posso compiere alcuna magia in questo momento.-
-Ci hai preso per scemi? Non
appena ti togliessimo gli anelli ne approfitteresti per scappare!- gridò
Tilvell, ma Maros lo zittì con un gesto e fece sparire l’anello intorno al
polso destro sfiorandolo con il bastone. -Una mano basterà.-
Arellon sospirò. No, non era
sufficiente a liberarsi. Tanto valeva obbedire per il momento. Pronunciò una
breve cantilena al cui suono le fronde degli alberi frusciarono come mosse dal
vento. Maros lo guardò un po’ stupito e preoccupato. Era la lingua antica. Lui
stesso conosceva solo una piccola parte di essa, ma solo formule fisse per
compiere determinate magie. Invece sembrava che quel mezzelfo la padroneggiasse
ottimamente, come se fosse la sua propria.
-Ora puoi toccarlo.- Per
tutta risposta Maros fece ricomparire l’anello impedendo nuovamente ad Arellon
di muovere il braccio. Poi si avvicinò circospetto al bastone del mezzelfo, si
chinò e lo impugnò. Questa volta non successe nulla. Con un mezzo sorriso lo
stregone lo lanciò ad una delle guardie, che lo afferrò al volo.
-Bene. Andiamo a Lar-Tolas
adesso.- ordinò il capitano. Maros sfiorò con il bastone gli Anelli di Potenza
intorno ai piedi di Arellon e quelli scomparvero, riassorbiti dal legno. Contemporaneamente
quelli ai polsi si spostarono dietro la schiena trascinando le mani e le
braccia. Poi si formò una catena di energia che li unì a quello sul collo.
-Così potrai camminare, ma
senza tentare trucchetti.-
-E ora muoviti, zacrul!-
gridò Tilvell spingendolo in avanti.
-Dovete ascoltarmi! Io porto
un messaggio importantissimo per la sopravvivenza stessa del mondo! Devo
riferirlo al vostro re!-
-Vuoi tacere?- urlò Tilvell
colpendolo nuovamente e facendolo cadere a terra. Arellon colpì col mento il
suolo erboso. Ma non poteva permetterlo: se l’avessero portato in prigione
avrebbe perso troppo tempo a cercare di fuggire. Troppo tempo, durante il quale
sarebbe potuto succedere l’irreparabile.
-In piedi! Non sai rialzarti
da solo?- lo sbeffeggiò Omnil afferrandolo per i capelli. Gli elfi risero, ma
nemmeno un gemito uscì dalla bocca del mezzelfo.
-Adesso basta!- ordinò Maros
severo.
-E perché mai dovrei
smettere? Non avete visto cos’ha fatto a mio fratello?-
-Tuo fratello ora sta bene e
io non ho tempo da perdere: dobbiamo sbrigarci a raggiungere Lar-Tolas. Là
potrò interrogare l’intruso e capire il vero motivo della sua presenza.- spiegò
Maros muovendo il bastone in modo da sollevare magicamente il mezzelfo.
-Ve l’ho già detto perché
sono qui!- esclamò Arellon -Ho un messaggio per il vostro re! Se siete stupiti
che uno della mia stirpe abbia osato fare ritorno, perché non mi credete quando
vi dico che ne va della salvezza dei nostri due popoli e di molti altri?-
-Vstevne.- disse Maros
fissandolo negli occhi. Silenzio. Il mezzelfo continuò ad aprire la bocca e a
muovere la lingua, ma non riuscì ad emettere alcun suono.
-Ti ascolterò molto
volentieri a Lar-Tolas, non qui. Ora muoviamoci.-
Il gruppo si mise in cammino,
lo stregone e il capitano in prima fila, il mezzelfo dietro e infine le
sentinelle disposte in modo da formare una mezzaluna e impedire al prigioniero
ogni via di fuga. Arellon si sentiva al colmo della frustrazione. Dopo due mesi
di viaggio e tutti i pericoli e i nemici ai quali era sfuggito, era finalmente
giunto alla sua meta. E non solo non era stato accolto nel migliore dei modi,
ma, quel che era peggio, non volevano ascoltarlo. Se non riusciva nemmeno a
convincere quegli elfi che speranze aveva con il re e la sua corte? Sentiva che
per lo stregone la sua presenza era qualcosa di stranissimo, ma come dargli
torto?
“Avevano ragione Corlaros e
mio zio: trecento anni sono un tempo sufficientemente lungo perché gli uomini
dimentichino, e troppo breve perché gli elfi cambino idea.”
Arellon vedeva lo sguardo
carico d’odio dell’elfo arciere e del fratello. “Già... Troppo breve...”
Voltandosi ogni tanto
velocemente scorgeva le altre sentinelle intente invece a parlottare tra loro.
Gli lanciavano occhiate con un misto di curiosità, divertimento e timore.
Sembrava che non credessero ai loro occhi. In effetti erano giovani, anche per
la normale età degli elfi. Forse non avevano mai visto un mezzelfo o
addirittura non erano mai andati fuori dai confini della loro terra. Magari lo
avrebbero anche ascoltato... ma gli avrebbero mai creduto?
Camminarono silenziosamente
per alcune ore. Il sole si spostò nel cielo mandando sulla terra i suoi raggi
più caldi. Ma nel bosco rimaneva un clima fresco.
Arellon procedeva calmo e
impassibile, all’apparenza. Terribili pensieri lo tormentavano. Soprattutto da
quando la mano sinistra aveva ripreso a dolergli. Sentiva un grande calore: un
fuoco inestinguibile ardeva nel palmo della mano diramandosi in tutte le dita.
Gli divorava la carne e gli penetrava nelle ossa. Il simbolo inciso nel palmo
era attraversato da lingue di fuoco che lo illuminavano e lo facevano rilucere,
ma soprattutto bruciavano la pelle. Tuttavia la mano destra non provava alcuna
sensazione di dolore al contatto con la sinistra, nemmeno un lieve calore. Il
fuoco magico era tutto interno: dolorosissimo, ma quasi invisibile a meno che
si osservasse il simbolo al centro del palmo, completamente infiammato e molto
luminoso.
Il mezzelfo non soffriva
tanto per il dolore infertogli dal fuoco, quanto piuttosto per quello che
significava: stava venendo versato il sangue del suo popolo. E lui non poteva
fare niente per impedirlo. Non stava assolutamente portando a termine il suo
compito. Andò con il pensiero alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua gente.
Sebbene non credesse a certe cose, si ritrovò a recitare una preghiera
mentalmente. Pregò la dea dei mezzelfi e i suoi progenitori, Atascal e Lalia.
Li pregò che proteggessero tutti coloro che aveva lasciato. Pregò che le lame
degli orchi si infrangessero sugli scudi dei mezzelfi.
Il capitano Tilvell si voltò
a squadrare il mezzelfo. Fu quasi irritato dalla sua espressione. Si rivolse
allo stregone.
-Come ci comporteremo con
l’intruso?- domandò sottovoce.
-Seguiremo la prassi, per
ora. Poi decideremo.- rispose Maros pensoso. Già, la procedura normale:
imprigionamento e interrogatorio. Ma quello non era un caso normale: un
mezzelfo che entrava nelle loro terre e per di più affermando di portare un
importante messaggio per il loro re. Era qualcosa di impensabile: dai tempi
della cacciata di Atascal nessuno della sua stirpe era mai tornato. -Manderemo
anche un messaggio al re, magari.- aggiunse.
-Ah, sì? E cosa gli diremo?
Che abbiamo trovato uno zacrul pazzo che afferma di avere un messaggio per
lui?-
-Non vedo perché nascondergli
la presenza del mezzelfo.-
-Maros, qui è in gioco la
nostra credibilità, il nostro incarico.-
-Non mi pare che lo
assolveremo bene tacendo questa informazione al re.-
-Ma che t’importa di quello
zacrul? Che ha di particolare?-
-Forse non hai capito bene,
capitano: è un mezzelfo, non un intruso qualsiasi. Sono passati millenni dal
giorno in cui furono esiliati da queste terre. Non credi sia strano che uno
abbia fatto ritorno?-
-Che sia strano, sono
d’accordo. Ma che vorresti fare? Portarlo al cospetto del re?-
Maros stava per ribattere
quando si udì il rumore di zoccoli che colpivano il terreno. Dei cavalli si
stavano avvicinando. Con un gesto il capitano ordinò ai soldati di fermarsi.
Arellon si domandò chi stesse arrivando, come tutti gli elfi. Poi nella radura
in cui si trovavano comparve un cavallo bianco cavalcato da un biondo
cavaliere. Una piccola corona d’oro decorata con motivi floreali cingeva il suo
capo, sopra gli occhi azzurri allegri e il viso sorridente. La giacca, la
camicia e i pantaloni che indossava erano verde bottiglia e semplici, privi di
inutili fronzoli. Sulla spalla sinistra portava una faretra piena di frecce
dall’impennaggio bianco, l’arco lungo era stretto nella sua mano sinistra
mentre la destra teneva le redini. Al fianco era legata una spada leggermente
ricurva dall’elsa riccamente decorata con gemme.
Qualche attimo dopo il primo
giunsero altri elfi a cavallo. Le guardie si inginocchiarono di fronte al primo
venuto e Maros costrinse anche Arellon a farlo muovendo magicamente gli anelli.
L’elfo a cavallo fece loro un gesto e gli elfi si rialzarono.
-I vostri umili servitori vi
porgono il loro saluto, Vostra Maestà principe Daolis. Per quale motivo vi
trovate da queste parti?- domandò Tilvell.
-Sto facendo una battuta di
caccia con alcuni amici. Tutto regolare nel giro di pattuglia, capitano?-
-Non proprio, altezza.-
rispose lo stregone indicando il prigioniero.
-Che cos’è?- chiese Daolis.
-Un intruso, altezza.-
-Questo è facilmente
intuibile!- sbottò acido un elfo del seguito. -Il principe vi ha chiesto cos’è!
È un uomo?-
-Avevo bene inteso le parole
del principe, ma avevo timore a rispondere direttamente, Lord Isfacil.- ribattè
il capitano con asprezza. Isfacil avanzò col cavallo mettendosi di fianco al
principe Daolis. Era un elfo più anziano, anche se ugualmente giovane
nell’aspetto. Capelli biondo molto chiaro contornavano il suo viso privo di
rughe, sul quale era stampata una smorfia sprezzante e arrogante. A differenza
del principe, il suo abbigliamento era fin troppo elegante per andare a
cavallo in mezzo alla foresta: la giacca era ricca di rifiniture dorate, in
fondo ad entrambe le maniche si trovavano due gemelli d’oro massiccio e portava
un anello con un rubino all’anulare della mano destra.
-Ah, sì? Perché, cosa
dovresti dire di tanto sconvolgente? Cos’è l’intruso?- domandò fingendo di essere
stupito.
-Un mezzelfo.- Immediatamente
si levò un brusio tra gli elfi della scorta, mentre il principe sgranò gli
occhi per lo stupore.
-Cosa... Cosa vai blaterando,
capitano? Ti prendi gioco di Sua Maestà il principe? È impossibile!- gridò
Isfacil sbiancando.
-È vero- confermò Maros -Io
stesso ho visto il simbolo della Maledizione di Naefarval sulla sua mano
sinistra.-
-Un mezzelfo...?- mormorò Daolis
-Certo è molto strano... Siete riusciti a capire il motivo per cui si trova
qua?- domandò poi.
-No, lo stavamo giusto
portando a Lar-Tolas per interrogarlo.- rispose il capitano.
-Per ora ha solo affermato di
avere un importante messaggio per vostro padre il re, ma si rifiuta di dirci
quale.- aggiunse Maros, mentre Tilvell gli lanciava un’occhiataccia. Isfacil
rise con disprezzo.
-Messaggio? E sarebbe
arrivato da chissà quale remota terra solo per portare un messaggio? Perché mai
dovremmo credere a questo lurido zacrul?-
A queste parole Arellon cominciò a fremere di rabbia e a muovere convulsamente
la bocca nel tentativo di ribattere, ma la magia di Maros persisteva ancora,
rendendolo muto. Il principe lo osservò un attimo, poi guardò interrogativamente
lo stregone.
-L’ho zittito perché
continuava a ripetere di dover vedere il re.- rispose Maros.
-Capisco, ma non credo che ce
ne sia bisogno ora: io sono il principe, ciò che vuol dire a mio padre può
benissimo riferirlo a me. Fatelo avvicinare!-
-No, sire. Potrebbe essere
pericoloso...- Isfacil venne zittito da un gesto del principe.
-Portalo avanti e fallo
parlare.- ordinò di nuovo Daolis.
Maros si avvicinò ad Arellon
e gli sussurrò:- A quanto pare è il tuo giorno fortunato. Ma ricorda: niente
trucchetti, ti tengo d’occhio.- Poi aggiunse a voce alta:- Xovis.- e la voce
tornò al mezzelfo, che avanzò verso il principe e si inginocchiò.
-E ora, mezzelfo, cosa devi
dirmi?- domandò Daolis chinandosi verso di lui.
-Vostra Maestà, vi ringrazio
per la vostra generosità.- esordì Arellon sollevando il viso verso il suo interlocutore
-Tuttavia imploro il vostro perdono, ma preferirei riferirvi il mio messaggio
in privato.-
-Non ho segreti con nessuno
dei miei sudditi. Parla pure.- ribattè il principe calmo.
-Penso che sarebbe comunque
meglio così. Temo che molti stenterebbero a credere a quello che devo dirvi.-
-Cioè intendi che noi
comprenderemmo subito che sono tutte menzogne, mentre il principe è
sufficientemente credulone, giusto?- lo sbeffeggiò Isfacil.
-Ora basta, Isfacil! Non ha
ancora detto nulla, come puoi affermare che menta?-
-Esatto sire, non ha detto
nemmeno il suo nome!-
-Il mio nome non ha
importanza, sono solo un ambasciatore.- ribattè Arellon -Vengo a nome del mio
popolo, che chiede aiuto ai propri fratelli contro il comune nemico.-
-Quale nemico?- domandò il
principe.
-Un assassino, una serpe che
tutti credono schiacciata per sempre, ma che vive ancora e minaccia nuovamente
la sopravvivenza del mio popolo e la sicurezza del vostro.-
-Basta parlare per enigmi! Di
chi stai parlando?- sbottò Isfacil.
-Di Eldacil figlio di
Ferdacil nipote di Acil.-
Per un attimo la radura fu
avvolta da un silenzio opprimente, interrotto però subito da Isfacil.
-Che vi avevo detto? Una
palese menzogna e nient’altro!- gridò
-No, lo giuro, è la verità!-
ribattè in fretta Arellon -Maestà, dovete credermi, l’ho visto coi miei occhi!-
-Zitto, zacrul!- esclamò
Tilvell. Lo colpì con un pugno nelle costole facendolo cadere a terra. -Perdonatemi,
Maestà! Vi prometto che gli faremo sputare la verità.- aggiunse rivolto al
principe.
-Me lo auguro. Quanto a te,
zacrul, credo che mio padre non abbia tempo per sentire pazzi della tua risma.
Eldacil è morto nella battaglia di Micara trecento anni fa, lo sanno tutti.-
-Ah, sì? Avete sepolto il
cadavere?- domandò Arellon cercando di rialzarsi.
-Cosa vorresti insinuare?-
gridò Isfacil -No, non l’abbiamo nemmeno mai trovato perché fu bruciato da una
fiammata magica evocata dai maghi. Ma ci sono tantissimi testimoni che l’hanno
visto svanire nelle fiamme.-
Maros aiutò Arellon a
rialzarsi. -Lord Isfacil ha ragione, mezzelfo. Io stesso guidai l’attacco dei
maghi che lo spazzò via per sempre.-
-Ma perché vi fa tanto
arrabbiare quello che dico? Non vi sto accusando di nulla, quando invece ne
avrei ben ragione.- disse Arellon con ira scrollandosi dalla presa dell’elfo.
-Odiamo le menzogne, noi veri
elfi, a differenza di voi mezzosangue. E di cosa dovresti accusarci di grazia,
zacrul?- domandò Isfacil con disprezzo. -Noi non dobbiamo proprio niente alla
vostra miserabile razza di Cadàn!-
Cadàn. Aborto di natura,
essere aberrante, ibrido mostruoso immeritevole di vita. L’insulto più
sanguinoso della lingua antica. Un insulto che ogni mezzelfo portava inciso
sulla mano sinistra. Un insulto che Arellon non poteva tollerare. Zacrul
significava intruso, un epiteto che il mezzelfo considerava comunque ingiusto perché
nessuno è un intruso in nessun luogo, il mondo è di tutti. Ma Cadàn era una
parola insopportabile, odiosa, maledetta e che gli faceva ribollire il sangue
dalla rabbia.
-Io non dovrei accusarvi di
niente? Davvero? Eldacil non era forse un vostro generale? Cosa avete fatto
mentre i suoi scagnozzi saccheggiavano e radevano al suolo Allesfeia? Voi non
avete mosso un dito per fermare le sue stragi della mia gente! Ma tanto cosa ve
ne importava, erano solo mezzosangue, no?-
-Metti a dura prova la mia
pazienza, mezzelfo, con queste parole ingiuriose e offensive.- disse il
principe con sguardo duro.
-A me pare, Vostra Maestà,
che il primo offeso qui sia stato io e la mia stirpe la prima ingiuriata. Ma
d’altronde che altro mi dovevo aspettare da costui?- domandò accennando a
Isfacil con un movimento della testa.
-Non permetto a nessun
mezzosangue di rivolgermisi così!- sbraitò l’elfo, rosso in viso.
-Chiedo perdono, nobile
cugino di Eldacil, ma a mio parere voi meritate tanto rispetto quanto ne avete
per gli altri!- Isfacil guardò il mezzelfo con stupore. -Oh, non credevate che
sapessi? Per un mezzelfo è impossibile non sapere di Isfacil, cugino e secondo
in comando di Eldacil.-
-Lord Isfacil ha riconosciuto
il suo sbaglio ed è stato perdonato dal re.- affermò Tilvell.
-Certo, ma a quanto pare non
ha perso il suo vizio di provare disprezzo per il mio popolo. Ma dimenticavo
che è un discendente di Acil, non si può certo uccidere una persona così
nobile, anche se ha massacrato centinaia di innocenti!-
-Basta, portatelo via, non
voglio più sentirlo!- ordinò Daolis irato.
Tilvell fece un cenno ad
Omnil e Asmil. I due elfi afferrarono Arellon per le spalle, ma lui oppose
resistenza.
-Che stupido sono stato!-
urlò dimenandosi -Credevo di andare a chiedere aiuto agli elfi, le più nobili
creature, poste dagli dei a custodire il mondo e solo ora capisco: non ve ne
importa nulla degli altri! Isfacil non ha ucciso nessun elfo della città, al
massimo qualche centinaio di mezzelfi ed elfi della foresta, perciò lo chiamate
Lord! Cosa farete quando arriverà Eldacil? Lui ha massacrato migliaia di
innocenti che avevano come unica colpa quella di non essere perfetti come lui,
ma non solo: ha anche fatto assassinare Olidos, distruggendo per sempre la pace
nella Grande Foresta! Come minimo lo nominerete subito vostro re!-
-Come osi?- gridò il principe
-Mio padre è Re Farilos, colui che ha guidato la ribellione contro Eldacil e lo
ha sconfitto nella battaglia di Micara.-
-Forse vostro padre è
sinceramente convinto del suo compito, ma voi non gli assomigliate di certo.-
Daolis scese veloce da
cavallo e sferrò un destro tremendo sulla guancia sinistra di Arellon. -Questo
è quel che meriti, lurido bastardo!-
-Ben fatto, sire!- esclamò
Isfacil battendo le mani.
-Ben fatto davvero!- affermò
Arellon sarcastico sputando sangue -Colpire un inerme è proprio un’impresa
degna di essere lodata! Che coraggio, Vostra Maestà!-
Daolis fissò Arellon negli
occhi. Entrambi bruciavano d’odio l’uno nei confronti dell’altro.
-Nessuno mi può dare del
codardo! Maros, togligli gli Anelli di Potenza e voi due guardie lasciatelo e
ridategli le sue armi!- esclamò il principe sguainando la spada -Ti farò vedere
se non sono degno di mio padre!- Asmil e Omnil lasciarono rudemente la presa e
si diressero verso i loro compagni.
-Sire, ma...- cominciò Maros.
-Obbedisci! Voglio dare una
lezione a questo zacrul!- sbraitò il principe. Lo stregone non potè opporsi:
toccò i tre anelli con la punta del bastone e quelli svanirono. Arellon si
portò le braccia davanti e si massaggiò i polsi. -Zacrul, prendi!- gridò Omnil
lanciandogli il bastone. Il mezzelfo lo afferrò al volo.
-Solo quella è la tua arma,
mezzosangue? Ti posso prestare una spada se vuoi!- lo derise Daolis. Isfacil
rise sguaiatamente.
-La mia forza viene dalla
Natura, non ho bisogno di altre armi per vincere, se sono nel giusto.-
-La tua arroganza non ti
salverà dal filo della mia spada!-
-Sire, fate attenzione: è un
mago molto abile...-
-Può darsi, Tilvell, ma non
potrà competere con la mia superiorità nella scherma.-
Gli elfi intanto si erano
disposti in cerchio intorno ai due. Tilvell si avvicinò preoccupato a Maros.
-Non temere, capitano,
interverrò non appena il principe ne avrà bisogno.- mormorò lo stregone
interpretando i timori di Tilvell.
-Controlla soprattutto che lo
zacrul non ne approfitti per scappare.- gli sussurrò il capitano di rimando.
-Date una lezione a quello
sfrontato, principe! Versate il suo sangue!- gridò Isfacil scatenando
un’ovazione in favore del principe da parte di tutti gli elfi. Arellon nel frattempo
stringeva il bastone con entrambe le mani, calmo e sordo alle grida degli elfi.
Richiamò i suoi poteri e si preparò allo scontro: si concentrò in modo da
percepire il debole sussurro degli alberi vicini. Non c’era molto amore per gli
elfi in ciò che sentì e se ne compiacque: avrebbe potuto sfruttare ciò a suo
vantaggio.
Daolis attaccò veloce
sollevando la spada. Il mezzelfo aspettò calmo, poi all’ultimo momento puntò il
bastone contro l’elfo evocando lo scudo magico. Daolis lo colpì con la spada
ricurva e rise.
-È tutta qui la tua magia?
Anche un bambino sa come annullare quest’incantesimo! Seish!- La barriera si
dissolse all’istante e il principe tornò alla carica. Calò la spada dall’alto,
ma Arellon la parò sollevando il bastone in orizzontale con entrambe le mani.
L’elfo tentò un affondo sul fianco, ma il suo avversario scartò e lo colpì sul
braccio sinistro col bastone. I due si allontanarono per osservarsi a vicenda
girando in cerchio. Daolis roteò la spada e attaccò nuovamente. Arellon impugnò
il bastone con entrambe le mani. -Issif!- Un forte vento scaturì dalla punta
contro il principe, ma l’elfo non si fece intimidire.
-Questa brezza non ti
salverà!- gridò saltando al di sopra del soffio. Arellon sollevò il bastone e
fece volare via l’elfo che cadde dietro di lui rotolando sull’erba.
-Maledetto!- Daolis corse
incontro ad Arellon così in fretta che il mezzelfo non riuscì a pronunciare
l’incantesimo difensivo e dovette usare ancora il bastone per fermare la spada.
Il principe lo incalzò con numerosi affondi, non concedendogli neanche un
attimo di respiro. Tutti gli elfi applaudirono quando ferì il mezzelfo sul
dorso della mano destra. Daolis sorrise e sollevò la spada in alto per mostrare
il rosso del sangue. Arellon approfittò di quel momento di distrazione per
colpirlo con un pugno in pieno viso e subito dopo allo stomaco con il bastone.
L’elfo si accasciò a terra dal dolore. Il mezzelfo sbattè il bastone contro il
suolo gridando:-Matmer!- e creò un’onda d’urto che scaraventò il principe ai
piedi del suo cavallo. La sua corona rotolò lontano in mezzo all’erba. Daolis
annaspò un attimo tentando di riprendere la spada, poi si rialzò e fissò il suo
avversario carico d’odio.
-Questo è davvero troppo, è
ora di finirla, miserabile zacrul!-
-Sono d’accordo, è ora di
finirla!- Arellon cominciò a recitare una nenia nella lingua antica prima a
bassa voce, poi sempre più forte. Le foglie degli alberi frusciarono, scosse da
un vento invisibile: il suono sembrava quasi un mormorio. Un mormorio iroso.
Maros le fissò preoccupato e si preparò a intervenire. Intanto il principe
stava nuovamente attaccando il mezzelfo, quando all’improvviso una radice sbucò
dal terreno e si avvinghiò attorno al suo piede destro.
-Cosa? Che stregoneria è mai
questa?- domandò sbalordito, mentre un’altra radice gli immobilizzava la gamba
sinistra.
-L’antica magia...- mormorò
Maros pieno di stupore. Daolis provò a tagliare le radici con la spada, ma
perse l’equilibrio e cadde a terra. Altre radici emersero dal suolo e lo
avvolsero cominciando a ricoprirlo completamente. Daolis gridava atterrito e
impotente. Isfacil ed altri elfi spronarono i loro cavalli sguainando le spade.
-Ti taglierò la testa, lurido
Cadàn!- Subito altre radici avvolsero le zampe dei cavalli costringendo i
destrieri a fermarsi di scatto o a rovinare a terra. Isfacil fu sbalzato giù
dal suo cavallo e rotolò sull’erba perdendo la spada. Maros cominciò a evocare
delle catene magiche che fermassero il mezzelfo, mentre i soldati gli correvano
addosso alle spalle e Omnil gli scoccava contro una freccia. Ma Arellon fu più
veloce: si voltò di scatto, puntò il bastone e gridò:-Sallon Aesf!- Lo scudo
magico respinse la freccia e travolse gli elfi, compreso lo stregone, che non
riuscì a pronunciare la formula di annullamento magico in tempo. Le guardie si
ritrovarono tutte sul suolo erboso. Alcuni elfi della scorta del principe
iniziarono a rialzarsi. Il mezzelfo se ne accorse e corse via fra gli alberi.
Non appena si fu allontanato le radici scomparvero, scendendo nuovamente sotto
terra.
-Prendetelo! Non lasciatelo
scappare, buoni a nulla!- sbraitò Isfacil rialzandosi. Tilvell diede
velocemente degli ordini e i suoi soldati si allontanarono fra gli alberi.
Anche gli elfi della scorta si unirono a loro nell’inseguimento, mentre Maros
accorreva a soccorrere il principe. Si chinò su di lui e recitò una formula di
guarigione allungando la mano sulla sua fronte.
-Sto benissimo!- sbottò
Daolis allontanando la mano dello stregone con rabbia. In effetti era vero, le
radici non gli avevano fratturato nessun osso, l’avevano solo immobilizzato.
Neanche il pugno del mezzelfo gli aveva fatto troppo male. Ciò che era stato
ferito era il suo orgoglio: quello zacrul l’aveva sconfitto e umiliato di
fronte ai suo amici e alle sue guardie. Daolis fremeva di rabbia. Raccolse la
spada e si rialzò.
-Non preoccupatevi, sire! Lo
troveremo e lo puniremo come si deve, quel lurido Cadàn!- Isfacil raccolse la
corona da terra e la risistemò sul capo del principe. -Un simile affronto non
passerà impunito!-
-Lo spero.- mormorò Daolis.
Ma le speranze del principe erano mal riposte. Poco dopo le guardie e gli altri
elfi fecero ritorno a mani vuote.
-Siamo oltremodo mortificati,
Maestà- affermò Tilvell -Ma non siamo riusciti a trovarlo, sembra svanito nel
nulla...-
-Incapaci! Idioti! E voi
sareste le guardie del regno? Non riuscite nemmeno a trovare un miserabile
zacrul fuggito qualche attimo fa!- gridò Isfacil.
-Infuriarsi con loro è
inutile. Non può comunque essere andato lontano: montiamo a cavallo e
inseguiamolo!- ordinò Daolis avvicinandosi al suo cavallo.
-Potrebbe sempre essersi
smaterializzato: in tal caso, chissà dove potrebbe trovarsi ora...- suggerì il
capitano.
-No, non credo. Avrei
percepito una magia così potente, altrimenti.- affermò Maros.
-Basta inutili chiacchere!
Voi guardie non avete cavalli, quindi montate insieme ai miei cavalieri!
Muoviamoci!- incalzò Daolis. Poco dopo gli elfi partirono in direzioni diverse
nel bosco. Gli ultimi furono l’arciere Omnil e l’elfo con cui condivideva il
posto a cavallo. L’arciere fissava verso l’alto. Gli sembrava di avere scorto
qualcosa tra le fronde degli alberi, per questo aveva chiesto all’altro elfo di
attendere.
Poi giunse da poco lontano
l’odiosa voce di Isfacil:- Vi volete muovere, voi due?-
Omnil sbuffò e l’elfo
ridacchiò:- Non lo sopporto neanch’io, non capisco come faccia a stare
simpatico al principe. Andiamo?- Omnil annuì. Dopotutto era stata solo
un’impressione. L’elfo spronò il cavallo e i due uscirono al galoppo dalla
radura.
Arellon guardò sotto di sè
gli elfi allontanarsi, tranquillamente seduto su un ramo di una quercia ai
margini della radura. Era stato facile salire, era bastato un piccolo
incantesimo di levitazione.
“Meno male che gli elfi non
sono più in grado di guardare al di là del proprio naso... o, in questo caso,
al di sopra della propria testa.” pensò Arellon sorridendo. Un sorriso amaro,
però. La situazione era peggiore del previsto: Isfacil, il cugino del
massacratore, non solo era vivo, ma era tenuto in gran considerazione dagli
elfi e dal loro principe. Come se non bastasse, gli elfi non gli credevano.
Ovviamente Isfacil aveva le sue buone ragioni, per modo di dire, per accusarlo
di mentire: lo disprezzava in quanto mezzosangue e temeva che rievocasse i suoi
crimini passati. Ma gli altri semplicemente non volevano starlo a sentire. Non
volevano sentirsi rinfacciare orrori passati di cui in parte si sentivano colpevoli.
Nessuno gli credeva. Almeno, nessuno eccetto lo stregone. Sembrava che fosse
meglio disposto degli altri nei suoi confronti, forse avrebbe potuto
convincerlo... Il mezzelfo sospirò guardandosi il dorso della mano destra
coperto di sangue. No, quella vista decisamente gli toglieva ogni speranza di
successo. Arellon appoggiò la punta del bastone sul dorso della mano destra, recitò
una breve formula e la ferita scomparve. Se quella si poteva guarire
facilmente, però non si poteva dire altrettanto dei suoi rapporti col rampollo
della famiglia reale, decisamente guastati. “Meglio dire definitivamente.”
Si guardò il palmo della mano
sinistra. Il simbolo della maledizione dei mezzelfi ora era nero, non bruciava
né risplendeva più. Ma gli bruciava l’animo vederlo, il marchio
dell’emarginazione. Tutto il suo popolo era stato segnato così fin dall’origine,
a causa delll’amore dell’elfo Atascal per l’umana Lalia, maledetto per
l’eternità.
Ringraziamenti:
@evening_star: Meno male che
non hai fretta, dati i miei lunghi tempi...
@Suikotsu: Contento di vedere
ancora combattimenti?
@giodan: Speranza vana...
@Rakyr il Solitario: Beh, non
era proprio una battaglia... comunque grazie!