Capitolo
1 - Cacciatore
Quella mattina Arvel si
svegliò verso le nove, come al solito. Non aveva fretta.
Era un uomo basso e grassoccio
che si aggirava sui cinquanta, come dimostravano i capelli corti un tempo neri,
ma ora grigi. Si alzò dal letto lamentandosi per gli acciacchi dell’età, scese al
piano di sotto e aprì la porta della taverna. Fare l’oste in quel paesello
sperduto e dimenticato da un re che pensava solo ai suoi giochi di alleanze non
era un gran lavoro, ma Arvel si accontentava. A lui bastava la vita di ogni
giorno: servire ai tavoli, ascoltare le solite lamentele dei contadini, i
racconti dei soldati di ritorno dal fronte e le storie degli stranieri di
passaggio e accertarsi che non si scatenassero risse o peggio nella sua
osteria.
Tutti erano ammessi, purchè
nessuno portasse dei guai che riuscissero a toccarlo o a causargli fastidi con
l’autorità, qualunque essa fosse.
Arvel non era certo un cuor
di leone, ma era arrivato alla sua età in quel modo, facendosi sempre i fatti
suoi, e così voleva continuare a vivere.
La sua taverna era piuttosto
modesta e povera, priva di inutili ornamenti. C’erano sei tavolini con quattro
sedie ciascuno e al piano di sopra qualche camera da letto.
Aprì anche le finestre e la
forte luce di una mattina primaverile entrò nel locale, illuminando il
pavimento fino al bancone. Arvel ci si sedette dietro, come al solito,
aspettandosi di vedere, come al solito, i pastori che tornavano a casa dopo
aver trascorso la notte a vigilare sulle greggi nei pascoli, poco più a nord
del suo villaggio, Laca, e che passavano sempre davanti alla sua locanda,
perchè era il primo edificio sulla via proveniente dalle Montagne Verdi.
Invece non udì il belare
delle pecore nè l’abbaiare dei cani e neppure le voci degli uomini. Sentì solo
il rumore prodotto dalla terra battuta dagli zoccoli di un cavallo che si
avvicinava. Siccome ciò gli sembrava insolito, per un attimo sperò che il
cavaliere, chiunque fosse, non si fermasse lì, ma andasse avanti. Subito dopo
si chiese perchè avesse sperato una simile cosa: dopotutto, chi poteva mai
essere di tanto terribile?
E tuttavia ebbe un piccolo
sussulto quando sentì il cavallo fermarsi. Scivolò fuori da dietro il bancone e
si avvicinò alla finestra per vedere meglio la scena. Scorse un uomo alto e
vestito di nero scendere dal cavallo e assicurarlo un albero. Poi si accorse
che veniva deciso verso la sua locanda. Allora sospinse la porta in avanti e
corse al bancone lasciandola socchiusa.
“Così magari penserà che sia
ancora chiuso e passerà più tardi, quando ci sarà più gente... Non mi piace,
non capisco chi sia, ma forse mi ha visto e allora ho fatto male a chiudere la
porta... Magari faccio in tempo a riaprirla...” Ma il flusso dei suoi pensieri
si interruppe quando vide la porta aprirsi silenziosamente. Subito dopo sentì
un lieve fruscio di piedi sul pavimento e alzò gli occhi dal bancone per
guardare lo sconosciuto. Aveva vestiti neri e sporchi, ma di buona fabbricazione.
Portava dei mocassini marrone scuro che gli consentivano di muoversi silenziosamente.
Indossava un mantello nero con un cappuccio che gli copriva anche parte del viso.
Non si riusciva bene a capire quanti anni avesse, ma sembrava giovane poichè
nessuna ruga solcava il suo volto e la sua pelle appariva ancora liscia e
perfetta, ad eccezione di un piccolo taglio sopra la parte sinistra del naso.
Eppure gli occhi non davano certo questa impressione. Erano uguali a quelli di
un cane da caccia a pochi passi dalla sua preda. Guizzarono veloci e scrutarono
tutta l’osteria, prima di fermarsi sull’oste, stupito e un po’ impaurito dalla
comparsa di un viandante così strano. L’uomo vestito di nero si avvicinò al bancone
e appoggiò una mano coperta da un guanto su di esso. Sul guanto nero c’era uno
strano simbolo: tanti cerchi concentrici uno dentro l’altro. O almeno così
apparve all’oste, che lo guardò per un attimo, prima di rivolgersi allo strano
figuro con un sorriso forzato.
-Salve e benvenuto nella mia
locanda! Vuole qualcosa da bere o da mangiare?-
Lo straniero fissò la faccia
grassoccia di Arvel che si sforzava di mantenere un’espressione calma con i
suoi occhi penetranti per un po’, poi con una voce calma rispose:-Voglio delle
informazioni. Sono disposto a pagarle bene.- E fece scivolare dalla mano sul
bancone un sacchettino pieno di monete d’oro.
-Che cosa vuole sapere?-
chiese l’oste, incerto se quel signore rappresentasse la sua fortuna o la sua
rovina.
-Ieri sera è arrivato qui un
giovane uomo, sui vent’anni, alto, con i capelli castani arruffati. Se lo
ricorda?- domandò guardandolo come se potesse leggergli nell’anima.
-Sì, ma... C’è ne sono tanti
così... Vedo molti contadini e pastori con i capelli castani arruffati e alti
di statura... Non ricordo bene se anche ieri sera...-
-Non ha l’aria di un
contadinotto qualunque! Chi sto cercando porta con sè un bastone che si biforca
e poi si riunisce in cima. Inoltre viaggia sempre coperto da un mantello e un
cappuccio verde scuri. Porta abiti da poco, ma non ha l’aria di uno povero.
Faccia uno sforzo di memoria!- ribattè il forestiero con uno scintillio negli
occhi verdi.
-Non ricordo bene... qui ne arrivano
tanti di tipi strani...- borbottò Arvel e guardò meglio il suo interlocutore. C’erano
due strani rigonfiamenti nel suo cappuccio sui due lati opposti. Poi vide lo
scuro figuro portarsi una mano al fianco sinistro e scostare il mantello,
rivelando così l’elsa di una lunga spada.
-Colui che mi preme trovare
non ama farsi notare: sarà stato in un angolo tutta la sera. Avanti, ci pensi
bene.- disse quello come se niente fosse.
L’oste, cominciando a sudare
freddo e maledicendo la sua abitudine a far entrare tutti i viandanti, pensò
con forza alla sera prima. -In effetti, c’era un tale...- disse dopo qualche
minuto -era arrivato tardi ed era rimasto tutto il tempo vicino alla porta come
se aspettasse qualcuno... E, ora che ci penso, aveva proprio uno strano
bastone...-
Gli occhi dello staniero
ebbero un guizzo. -E ora dov’è?- chiese battendo il pugno sul tavolo. L’oste
atterrito sobbalzò e rispose tremando di paura:-Ha detto che voleva passare qui
la notte, ma che non aspettava nessuno...-
L’uomo non aspettò che
finisse e cominciò a salire le scale. L’oste gli si precipitò dietro e gli
sussurrò:-Ma signore... Non voleva essere disturbato... e...-
Il nero figuro lo interruppe
fulminandolo con lo sguardo. -Dimmi subito in quale stanza si trova, lurido
Cadàn, se non vuoi che la mia spada beva il tuo sangue!- Arvel, quando vide che l’uomo metteva una
mano sull’elsa della spada, smise di temporeggiare e disse in fretta:-N-nell’ultima
in fondo al corridoio.-, mentre malediceva ancora se stesso e quella assurda
mattina.
Seguì con lo sguardo lo
straniero che arrivava davanti all’ultima stanza e lo vide dare un calcione
alla porta, che cedette subito. Poi il nero figuro entrò.
Dal fondo del corridoio
l’oste sentì un grido e poi alcune voci che non riuscì a capire bene. Nonostante
la paura che lo attanagliava e il desiderio di darsela a gambe, non riuscì a fare
a meno di dirigersi verso la fine del corridoio. La curiosità fu più grande del
terrore e, arrivato, guardò oltre la porta scardinata.
Nella piccola camera c’era
solo l’uomo vestito di nero di spalle che stava in piedi sopra il letto disfatto
con la spada grigia sguainata nella mano destra. Lanciò un altro grido di
rabbia e si voltò lanciando un sasso luccicante sul pavimento vicino ad Arvel.
Poi urlò con frustrazione e odio:-Il maledetto bastardo è sparito! Ma lo
prenderò! Non deve avere al massimo più di mezza giornata di vantaggio e non
potrà sfuggirmi! Lo farò pentire di essersi fatto beffe di me e delle mia
Regina!-
Dopo che ebbe pronunciato
queste parole, il nero figuro si accorse dell’oste impaurito sulla porta, scese
dal letto e lo prese per il bavero della giacca.
-E tu non dirai niente a
nessuno di tutto questo, o te la farò pagare!- gli gridò puntandogli la spada
al collo.
-N-no, non dirò n-niente a
nessuno, nessuno!...- farfugliò Arvel atterrito. Lo sconosciuto lo buttò a
terra e uscì dalla camera. L’oste rimase rannicchiato sul pavimento fino a che
non sentì il rumore degli zoccoli del cavallo che si allontanava. Solo a quel
punto, ancora spaventato e confuso, notò che sparsi per terra c’erano dei
soldi. Poi vide il sasso lanciatogli dal nero figuro. Lo raccolse per
osservarlo meglio. C’erano sopra degli strani simboli rotondeggianti che lui
non capiva. All’improvviso, mentre se lo rigirava fra le mani, esso si illuminò.
Arvel tremò e sentì una voce provenire dal sasso. La riconobbe: era quella del
giovane che aveva preso quella camera.
-Caro oste, le lascio il
dovuto per la camera e la cena. Non si preoccupi se non mi troverà nella mia
stanza, perchè in ogni caso ciò che mi succede non la riguarda. Eldacil, se invece sei tu a stringere questa
pietra, mi auguro che non te la sia presa se ti ho lasciato a bocca asciutta.
Prega la tua padrona, magari ti darà la forza per prendermi!- Poi ci fu una
breve litania in una lingua sconosciuta all’oste e la voce si spense.
Sbalordito, Arvel raccolse i
soldi in fretta e tornò al piano terra con in mano anche il sasso e si sedette
al bancone, pensieroso. “Ma che mattina!” pensò “Un uomo tutto nero che
minaccia due volte di uccidermi...e quel tale di ieri sera... anche lui un bel
tipo! Incredibile! Tutta la vita a evitare i guai ed ecco che un tizio vestito
di verde arriva qui e mi porta il finimondo! Bah! Per fortuna, nessuno dei due
sa come mi chiamo e presumibilmente nemmeno sanno il nome del villaggio.
Speriamo che non arrivino altri così!” Si alzò e andò verso la porta come per
assicurarsene. Poi salì di sopra e rimise a posto la stanza come meglio poteva
e si disse che era stata proprio una fortuna che non ci fosse nessuno nella
taverna quella mattina.
Infine scese giù e pensò a
dove poter nascondere il sasso, come se fosse una prova di un atroce delitto.
Buttarlo via non era una buona idea perchè chiunque avrebbe potuto trovarlo e
allora avrebbe anche lui visto e sentito. Di romperlo neanche a parlarne, aveva
paura che gli succedesse qualcosa di terribile e l’ultima cosa che voleva era
una maledizione sulla testa o, peggio ancora, che qualcuno venisse a punirlo.
“Non si sa mai... Un oggetto
magico come questo va maneggiato con cura... Devo fare in modo che nessuno lo
veda nè possa sapere che esiste. Non voglio avere problemi con le guardie... Ho
sentito che si rischia grosso se si possiede qualcosa di magico in casa e di
certo non crederanno a ciò che mi è accaduto, stento a crederci perfino io!
Devo farlo sparire!” Così decise di nasconderlo insieme ai soldi in un buco
sotto un barile nel retro, dove teneva le provviste. Dopo che ce lo ebbe gettato
e coperto con una trave di legno e la botte di vino, si sentì un po’ sollevato,
pensando che adesso il suo segreto era al sicuro. Tornò al bancone ad aspettare
i clienti.
“Se ne arriva un altro
strano” pensò mentre si sedette “lo caccio fuori e appendo un cartello con
scritto in modo ben chiaro: vietato l’ingresso agli stranieri.”
Verso le dieci cominciarono
ad arrivare i pastori e la vita di Arvel riprese a essere normale. Anche se non
sarebbe rimasta così ancora molto.