Qualcosa di diabolico.

di thepassenger_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


I suoi occhi hanno qualcosa di diabolico, una scintilla tetra che li fa risplendere anche sotto le penetranti luci al neon della metro. Seduto in fondo, con le spalle appoggiate al finestrino, le ginocchia piegate sul sedile di fronte a sé, in un equilibrio instabile. Dondola ritmicamente la testa, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, in ascolto; li riapre poco dopo, di scatto, fissandoli su ogni persona seduta in quel vagone.

Eccoli, appunto. Lame sottili che ti trafiggono, lasciandoti immobile mentre il gelo si espande dentro le vene. Perché nessuno sembra notare il suo sguardo?

Fisso il finestrino di fronte a me, mentre mura nere si susseguono veloci, intervallate da luci d’emergenza. Le porte si aprono alla fermata, la folla si accumula sulla linea gialla per entrare, bloccando le persone in uscita, che sbuffando e sgomitando si fanno largo in quell’ammasso di pendolari stanchi.

Le frasi delle pagine che ho davanti non hanno senso: provo invano a rileggerle. Una sensazione strana mi pervade, mentre mi volto verso il fondo del vagone: mi sta osservando.

Un tremito mi scuote, facendomi sussultare, mentre l’anziano signore seduto alla mia sinistra avvicina il giornale al viso, riparandomi da quegli occhi. Quanto manca alla mia fermata?

Interminabili minuti scorrono sull’orologio, mentre l’aria si fa pesante: troppe anime stipate in uno spazio così piccolo, tutte con lo stesso destino.

L’anziano ripiega il giornale e appende gli occhiali al colletto della camicia, alzandosi per avvicinarsi alle porte scorrevoli, lasciandomi allo scoperto. Percepisco ancora la sua presenza ossessionante, mentre le mani cominciano a tremare leggermente. Il vagone si svuota, i sedili si liberano e l’ansia mi attanaglia.

Perché continua a fissarmi?

Cerco di concentrarmi sulla copertina del libro, sfiorandola con le dita, studiandone anche i dettagli più piccoli, per non pensare. Ripasso i contorni delle figure, affondando il dito nelle lettere bombate del titolo. Alzo lo sguardo sulla copertina della rivista della ragazza seduta di fronte a me, in cui personaggi sconosciuti ammiccano davanti al fotografo che li ha catturati. L’uomo in giacca e cravatta di fianco a lei strizza gli occhi sulle quotazioni di borsa, gettando qualche occhiata alla lettura della vicina. Il ragazzo appoggiato al palo di metallo gioca con la catena dei suoi pantaloni, mentre le enormi cuffie colorate che gli coprono totalmente le orecchie trasmettono il suono pesante di una batteria, che lo invogliano a muovere il piede a ritmo.

Nuova fermata, nuovo gruppo di persone che salgono e scendono. Il posto di fianco a me rimane però vuoto e un brivido mi trafigge la schiena, mentre sento ancora i suoi occhi su di me. Non riesco a voltarmi, quindi mi concentro sulla fantasia a fiorellini bianchi e blu della tappezzeria dei sedili, contandone i petali e le foglie. La musica che risuona nelle cuffie del ragazzo si fa ancora più pesante, così come l’aria, che comincia a mancarmi. Osservo di nuovo l’orologio, mentre la lancetta più lunga mi conferma che sono passati solo due minuti dall’ultima volta che l’ho guardato.

Un piccolo rumore mi distrae, un paio di occhiali che cadono a terra alla mia destra. Li raccolgo, porgendoli alla vecchietta dall’aria simpatica seduta a due posti di distanza da me, che mi ringrazia più volte. Involontariamente osservo il fondo del vagone: ancora lì, immobile, mi studia.

Cerco di sostenere lo sguardo, ma mi trovo a vagare sul profilo del cappuccio che gli nasconde per metà il visto, mentre un sottile filo nero scende dalle orecchie alla tasca dei jeans strappati. Non riesco ad affrontarlo di nuovo, quindi rivolgo nuovamente la mia attenzione al libro.

Forse me lo immagino, ma lascio scorrere il tempo senza pensare, vuoto assoluto nella mente, come i cieli d’estate talmente azzurri e senza nuvole da fare paura. Il cellulare vibra e manda un singhiozzo stanco: scarico. Raddrizzo i manici della borsa, appoggiandoli al petto, stringendola sempre più forte, lasciando l’impronta delle dita sulla morbida pelle nera.

La porta in fondo al vagone si apre, mentre l’odiosa voce del controllore chiede i biglietti. Frugo nella borsa, cercando l’abbonamento incastrato tra il portafogli e le chiavi di casa. La solita sensazione torna più forte di prima e mi ritrovo a fissare ancora quegli occhi spaventosi, mentre la mano allunga il biglietto all’uomo con i baffi. Questa volta insiste, socchiudendo gli occhi e ghignando. I brividi non smettono, le dita fremono ancora.

Vedo il controllore entrare nell’altro vagone, quasi scocciato dal fatto di non aver trovato nessuno senza biglietto. Un bambino sbatte contro le mie ginocchia, mentre la madre si scusa per l’ennesima volta, cercando di tenerlo vicino, con molta fatica.

Una voce metallica conferma che ci stiamo avvicinando alla prossima fermata, ancora così lontana da casa. Poche persone scendono, altrettanto poche ne salgono, ma il sedile di fianco a me rimane vuoto. Comincio ad avvertire un senso di disagio più forte, come se stesse per accadere qualcosa.

Sfoglio le pagine del libro, trovando quella giusta e cercando nuovamente di concentrarmi, ma la mente vaga alla giornata che mi aspetta domani, all’esame finale prima della laurea. Vorrei solo tornare a casa e rilassarmi, ma questo stupido treno sotterraneo sembra andare a rilento, quasi come se tornasse indietro sui propri binari.

Immagino lo sguardo disinteressato del professore. Forse troppo giovane per essere preso sul serio, mentre i colleghi si trascinano dietro anni d’esperienza e di rancori. So già che continuerà a sbloccare il cellulare per controllare l’ora, lanciando occhiate fugaci alla porta e a quello che essa rappresenta. Cercherò di non pensarci. In fondo, devo solo rispondere alle sue domande.

Un uomo dalla giacca nera e le scarpe di vernice a punta mi colpisce con l’ombrello, passando oltre senza nemmeno voltarsi. Ormai chiedere scusa significa ammettere la propria debolezza, quindi evitare di dirlo risulta la scelta migliore.

Il ragazzo con le enormi cuffie colorate ha trovato una compagna di viaggio, vestita esattamente come lui, con le stesse cuffie appese al collo; discutono delle reciproche maglie, complimentandosi per la scelta simile.

Un tenero vecchietto dalla camicia bianca si fa strada aggrappandosi al proprio bastone, cercando di occupare il minimo spazio possibile, sussurrando “Mi scusi” e “Mi dispiace”. Non dà assolutamente l’idea di essere debole: raccoglie i sorrisi di chiunque lo osservi.

Di nuovo le porte si aprono, ancora si chiudono. Le luci d’emergenza scorrono sempre uguali, i fischi durante le curve si fanno quasi sopportabili, la voce gracchiante della fermata è addirittura piacevole.

La stanchezza mi cala addosso, facendomi chiudere gli occhi. Le palpebre pesanti affondano come aghi nella pelle, facendomi trattenere il respiro per qualche secondo. Appoggio la testa al finestrino, cercando un po’ d’aria, senza grandi risultati. Potrei addormentarmi.

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Capitolo 2
*** 2. ***


Accade tutto in pochi secondi. Le luci di emergenza smettono di corrermi davanti, il vagone si ferma di colpo e le luci si spengono, facendo affondare volti e oggetti nell’oscurità più cupa. Un neonato comincia a singhiozzare, esplodendo in un pianto interrotto da singulti. Bisbigli, mormorii e sbuffi riempiono lo spazio che mi circonda, mentre quel senso di disagio non smette di pungermi.

Le voci si fanno più alte, le lamentele più aspre, mentre la voce del conducente, resa meccanica e gracchiante dal vecchio altoparlante, cerca di rassicurare i passeggeri che sarà un’interruzione momentanea, una cosa breve.

Stringo la borsa tra le mani, affondando la schiena nel sedile e cercando di calmare il respiro. Odio i luoghi chiusi, odio il fatto di dover essere schiava degli orari della metro, odio l’eccesso di odori e colori che si ammassano qui dentro.

Eppure ora il colore è uno solo, più scuro che mai. Comincio a rimpiangere le luci di emergenza e il rumore sferragliante del mezzo sulle rotaie.

Un improvviso movimento d’aria mi fa voltare la testa, ma non capisco da dove arrivi. Un secondo e tutto torna come prima, incastrato nel tunnel nero.

Il bimbo continua imperterrito a urlare mentre le anziane signore che rientrano dal mercato spettegolano e gli impiegati sbuffano.

Penso all’appartamento vuoto, al gatto che reclama la sua cena, al ronzio del frigorifero che mi aspettano, mentre gli occhi si abituano gradualmente all’assenza di colore. Li chiudo, appoggiando la testa al finestrino e respirando profondamente, per cacciare quell’agglomerato di tensione e paura che pesa sullo stomaco.

Chissà come starà reagendo lo sconosciuto nel fondo del vagone. Con il buio non può fissare le persone. Nella mente si delinea quella scintilla inquietante, che mi fa tremare nuovamente le mani.

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