I suoi occhi hanno qualcosa di
diabolico, una scintilla
tetra che li fa risplendere anche sotto le penetranti luci al neon
della metro.
Seduto in fondo, con le spalle appoggiate al finestrino, le ginocchia
piegate
sul sedile di fronte a sé, in un equilibrio instabile.
Dondola ritmicamente la
testa, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, in ascolto; li riapre
poco dopo,
di scatto, fissandoli su ogni persona seduta in quel vagone.
Eccoli, appunto. Lame sottili che
ti trafiggono,
lasciandoti immobile mentre il gelo si espande dentro le vene.
Perché nessuno
sembra notare il suo sguardo?
Fisso il finestrino di fronte a
me, mentre mura nere si
susseguono veloci, intervallate da luci d’emergenza. Le porte
si aprono alla
fermata, la folla si accumula sulla linea gialla per entrare, bloccando
le
persone in uscita, che sbuffando e sgomitando si fanno largo in
quell’ammasso
di pendolari stanchi.
Le frasi delle pagine che ho
davanti non hanno senso:
provo invano a rileggerle. Una sensazione strana mi pervade, mentre mi
volto
verso il fondo del vagone: mi sta osservando.
Un tremito mi scuote, facendomi
sussultare, mentre
l’anziano signore seduto alla mia sinistra avvicina il
giornale al viso,
riparandomi da quegli occhi. Quanto manca alla mia fermata?
Interminabili minuti scorrono
sull’orologio, mentre
l’aria si fa pesante: troppe anime stipate in uno spazio
così piccolo, tutte
con lo stesso destino.
L’anziano ripiega il
giornale e appende gli occhiali al
colletto della camicia, alzandosi per avvicinarsi alle porte
scorrevoli,
lasciandomi allo scoperto. Percepisco ancora la sua presenza
ossessionante,
mentre le mani cominciano a tremare leggermente. Il vagone si svuota, i
sedili
si liberano e l’ansia mi attanaglia.
Perché continua a
fissarmi?
Cerco di concentrarmi sulla
copertina del libro,
sfiorandola con le dita, studiandone anche i dettagli più
piccoli, per non
pensare. Ripasso i contorni delle figure, affondando il dito nelle
lettere
bombate del titolo. Alzo lo sguardo sulla copertina della rivista della
ragazza
seduta di fronte a me, in cui personaggi sconosciuti ammiccano davanti
al
fotografo che li ha catturati. L’uomo in giacca e cravatta di
fianco a lei
strizza gli occhi sulle quotazioni di borsa, gettando qualche occhiata
alla
lettura della vicina. Il ragazzo appoggiato al palo di metallo gioca
con la
catena dei suoi pantaloni, mentre le enormi cuffie colorate che gli
coprono
totalmente le orecchie trasmettono il suono pesante di una batteria,
che lo
invogliano a muovere il piede a ritmo.
Nuova fermata, nuovo gruppo di
persone che salgono e
scendono. Il posto di fianco a me rimane però vuoto e un
brivido mi trafigge la
schiena, mentre sento ancora i suoi occhi su di me. Non riesco a
voltarmi,
quindi mi concentro sulla fantasia a fiorellini bianchi e blu della
tappezzeria
dei sedili, contandone i petali e le foglie. La musica che risuona
nelle cuffie
del ragazzo si fa ancora più pesante, così come
l’aria, che comincia a
mancarmi. Osservo di nuovo l’orologio, mentre la lancetta
più lunga mi conferma
che sono passati solo due minuti dall’ultima volta che
l’ho guardato.
Un piccolo rumore mi distrae, un
paio di occhiali che
cadono a terra alla mia destra. Li raccolgo, porgendoli alla vecchietta
dall’aria simpatica seduta a due posti di distanza da me, che
mi ringrazia più
volte. Involontariamente osservo il fondo del vagone: ancora
lì, immobile, mi
studia.
Cerco di sostenere lo sguardo, ma
mi trovo a vagare sul
profilo del cappuccio che gli nasconde per metà il visto,
mentre un sottile
filo nero scende dalle orecchie alla tasca dei jeans strappati. Non
riesco ad
affrontarlo di nuovo, quindi rivolgo nuovamente la mia attenzione al
libro.
Forse me lo immagino, ma lascio
scorrere il tempo senza
pensare, vuoto assoluto nella mente, come i cieli d’estate
talmente azzurri e
senza nuvole da fare paura. Il cellulare vibra e manda un singhiozzo
stanco:
scarico. Raddrizzo i manici della borsa, appoggiandoli al petto,
stringendola
sempre più forte, lasciando l’impronta delle dita
sulla morbida pelle nera.
La porta in fondo al vagone si
apre, mentre l’odiosa voce
del controllore chiede i biglietti. Frugo nella borsa, cercando
l’abbonamento
incastrato tra il portafogli e le chiavi di casa. La solita sensazione
torna
più forte di prima e mi ritrovo a fissare ancora quegli
occhi spaventosi,
mentre la mano allunga il biglietto all’uomo con i baffi.
Questa volta insiste,
socchiudendo gli occhi e ghignando. I brividi non smettono, le dita
fremono
ancora.
Vedo il controllore entrare
nell’altro vagone, quasi
scocciato dal fatto di non aver trovato nessuno senza biglietto. Un
bambino
sbatte contro le mie ginocchia, mentre la madre si scusa per
l’ennesima volta,
cercando di tenerlo vicino, con molta fatica.
Una voce metallica conferma che ci
stiamo avvicinando
alla prossima fermata, ancora così lontana da casa. Poche
persone scendono,
altrettanto poche ne salgono, ma il sedile di fianco a me rimane vuoto.
Comincio ad avvertire un senso di disagio più forte, come se
stesse per
accadere qualcosa.
Sfoglio le pagine del libro,
trovando quella giusta e
cercando nuovamente di concentrarmi, ma la mente vaga alla giornata che
mi
aspetta domani, all’esame finale prima della laurea. Vorrei
solo tornare a casa
e rilassarmi, ma questo stupido treno sotterraneo sembra andare a
rilento,
quasi come se tornasse indietro sui propri binari.
Immagino lo sguardo disinteressato
del professore. Forse
troppo giovane per essere preso sul serio, mentre i colleghi si
trascinano
dietro anni d’esperienza e di rancori. So già che
continuerà a sbloccare il
cellulare per controllare l’ora, lanciando occhiate fugaci
alla porta e a
quello che essa rappresenta. Cercherò di non pensarci. In
fondo, devo solo
rispondere alle sue domande.
Un uomo dalla giacca nera e le
scarpe di vernice a punta
mi colpisce con l’ombrello, passando oltre senza nemmeno
voltarsi. Ormai
chiedere scusa significa ammettere la propria debolezza, quindi evitare
di
dirlo risulta la scelta migliore.
Il ragazzo con le enormi cuffie
colorate ha trovato una
compagna di viaggio, vestita esattamente come lui, con le stesse cuffie
appese
al collo; discutono delle reciproche maglie, complimentandosi per la
scelta
simile.
Un tenero vecchietto dalla camicia
bianca si fa strada
aggrappandosi al proprio bastone, cercando di occupare il minimo spazio
possibile, sussurrando “Mi scusi” e “Mi
dispiace”. Non dà assolutamente l’idea
di essere debole: raccoglie i sorrisi di chiunque lo osservi.
Di nuovo le porte si aprono,
ancora si chiudono. Le luci
d’emergenza scorrono sempre uguali, i fischi durante le curve
si fanno quasi
sopportabili, la voce gracchiante della fermata è
addirittura piacevole.
La stanchezza mi cala addosso,
facendomi chiudere gli
occhi. Le palpebre pesanti affondano come aghi nella pelle, facendomi
trattenere il respiro per qualche secondo. Appoggio la testa al
finestrino,
cercando un po’ d’aria, senza grandi risultati.
Potrei addormentarmi.
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