Sia Maledetta Arles

di Koori_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***







Questa è una storia che parla di tentativi e di fallimenti, di teste dure e automobili in panne in mezzo ai campi.
C’è anche un’avventura, e a volte persino si riesce a ridere un po’. Non è una storia bella, di quelle da raccontare ai nipotini intorno al focolare: probabilmente non la capirebbero. E come dargli torto? Nemmeno io credo di aver compreso appieno il significato di queste bizzare vicende.
Ma magari a voi interessano le storie strane, dove i protagonisti hanno perso la ragione e la ragione stessa si è messa sottosopra, magari a voi interessano le avventure ai limiti della realtà, dove un tramonto può durare una vita e dove la notte s’incendia in vortici di stelle.
In tal caso, signori, questo è proprio il racconto che fa per voi.
Vi chiedo solo un po’ di pazienza, perché narrarvi di questi avvenimenti potrà essere a volte un po’ doloroso per me.
Cercherò di fare del mio meglio e non omettere nulla, nemmeno un istante, nemmeno quando sarò io a fare brutta figura. Solo non stupitevi se leggerete cose impossibili, non credete che vi stia prendendo per il naso.
E’ tutto vero, tutto reale, dalla più insignificante spiga di grano al più impertinente dei tramonti del Sud.
Ed è proprio da un tramonto che voglio incominciare a narrare la nostra storia: quella sera, ad Arles, c’era un bellissimo tramonto…
















 
~ Sia Maledetta Arles ~












Quella sera il cielo era agitato.
Ciuffi di nuvole rosse, sfilacciati e logori, galleggiavano statici in un tramonto surreale, sospesi al di sopra di un arancione elettrico, ai limiti dell’accettabile.
Ogni tanto qualche uccello nero si alzava in volo e attraversava veloce quella tela stracciata, andando a nascondersi nel buio che, quieto come un funambolo, si calava senza fretta dal soffitto del mondo.
Sebbene l’estate fosse ormai agli sgoccioli, l’aria di Arles era ancora calda e tingeva ogni cosa dei colori dell’attesa.
Mi sarebbe piaciuto dipingere quella scena -la piazza, il tramonto, le persone a passeggio-, ma non avevo mai avuto un gran talento in campo artistico, fatta eccezione per qualche surrogato di schizzo fumettistico, e l’unica tavolozza che fossi in grado di usare era quella delle parole.
Scrittrice, questo era il mio mestiere, anche se la paga era misera e le copie vendevano solo in Italia.
Ero ancora una bambina quando decisi che la penna sarebbe stata la mia fonte di sostentamento, e poco sapevo di scadenze, scelte editoriali ed e-mail di rifiuto.
Ero convinta che il mio talento sarebbe stato capace di incantare generazioni, portando alla vita luoghi e persone che altrimenti sarebbero rimasti in eterno intrappolati nella mia immaginazione.
Già mi vedevo a Stoccolma, un bellissimo vestito verde e i capelli raccolti come le star, mentre ritiravo il Nobel per la Letteratura ringraziando parenti e amici per il sostegno.
Ne ero convinta, all’epoca, forte della mia ferrea convinzione di avere per le mani il caso editoriale del secolo, il romanzo che avrebbe fatto la Storia.
Forse avrei fatto meglio ad avere mire più basse, ma si sa, da bambini sembra sempre che sia sufficiente crederci, per ottenere qualcosa.
Il problema, a dirla tutta, è quando continui a crederci anche alla veneranda età di ventisei anni, con la tesi che ti fissa intensamente dallo schermo del portatile e il cameriere che se ne va con i rimasugli del tuo cocktail, mentre dall’icona accanto agli appunti lampeggia allegro il titolo del tuo nuovo romanzo.
Magari stavolta è quella buona.
Magari stavolta qualcuno si prende la briga di tradurti in Inglese, e poi da lì il commercio si apre come un ventaglio…
Nonostante fossi mediamente una persona razionale, quella piccola follia infantile era rimasta radicata in me, aggrappata al mio cuore raggrinzito con le unghie e con i denti.
Lo so, lo so, avrei dovuto già essere felice di avere il mio nome sulla copertina di un libro anche se non ero super famosa. Del resto quanti scrittori vengono bellamente ignorati dalle case editrici, liquidati con un misero e bugiardo “vi faremo sapere”? Io per prima ho sentito quella tiritera almeno un milione di volte, prima che un folle si decidesse a dare un’occhiata ai miei scritti.
Fino a quel momento, dunque, Caterina Montaperti aveva pubblicato due libri e ne stava scrivendo un terzo, nell’infantile quanto vana speranza di fare un salto di qualità.
La trama in realtà era appena abbozzata e stavo cercando di inquadrare i personaggi nello schema dei capitoli, ma, come al solito, mi sembrava un’idea geniale, e l’euforia mi aveva spinta ad ordinare ben due giri al banco, ignorando il fatto che sarei dovuta tornare a casa in macchina e che i poliziotti francesi non erano permissivi come quelli italiani.
Fu quando le zanzare iniziarono a prendere un po’ troppa confidenza con lo schermo del mio pc che decisi che forse era giunto il momento di sospendere.
Avrei fatto un’ultima passeggiata in paese e poi avrei continuato a scrivere a casa, ossia il piccolo monolocale a dieci minuti da centro che mi aveva affittato la mia ex prof di Francese.
Lasciai la mancia al cameriere e feci scivolare il portatile all’interno della mia gigantesca e orrenda borsa gialla, l’unica abbastanza capiente da poter contenere pc, librazzo da seicento pagine, quaderno con gli appunti e le varie amenità che si possono trovare generalmente nelle borse delle donne.
Nonostante il sole fosse ormai calato sulla linea dell’orizzonte, il cielo era ancora chiaro e striato di sangue.
Un cielo superbo che avrebbe di certo fatto la gioia di qualche Impressionista, ma che sembrava in qualche modo star trattenendo il respiro.
Stava aspettando. Cosa o chi, nessuno avrebbe potuto dirlo.
Fu il vibracall del mio cellulare a infrangere la poesia di quell’istante come un vetro fracassato da una mazza da baseball.
Forse può sembrare una descrizione un po’ esagerata, ma non sono mai stata in grado di trovare espressione che meglio si addica alle improvvise e fugaci incursioni di mio padre nella mia vita.
- Pronto? Ciao, papà! –
Dato di fatto: per quanto tu possa odiare un uomo, non riuscirai mai a cancellarlo del tutto dalla tua vita.
Specialmente se l’uomo in questione ha contribuito a metterti al mondo.
La voce di mio padre sembrava allegra, come ogni volta, del resto.
- Ciao Cate! Come te la passi? Non indovinerai mai dove sono! –
Curiosa, abboccai all’amo come un’idiota.
- Dove? – gli diedi corda procedendo tranquilla verso la macchina.
Potevo immaginare alla perfezione il viso di mio padre tendersi in una smorfia di trionfo, mentre si apprestava a comunicarmi la grande notizia.
- Sono in Nuova Zelanda! Proprio dove volevi andare tu da bambina, ricordi? –
Eccola lì, l’ennesima doccia fredda.
Tutto era incominciato con l’Egitto, quando avevo sedici anni.
I miei avevano divorziato l’anno della mia seconda media, e da quel giorno mio padre aveva sempre fatto del suo meglio per ricordarmi quanto la vita lontano da casa fosse fenomenale.
Non che non mi abbia mai voluto bene, credo che un tempo, molti anni fa, mi fosse sinceramente affezionato, ma dalla faccenda del divorzio aveva incominciato a riversare su di me l’odio che provava nei confronti di mia madre, fino a rinfacciarmi la mia stessa esistenza.
Quando la mamma si era presentata da lui con le parcelle dello psicologo il caro Nicola aveva drasticamente cambiato tattica.
C’era un modo più semplice e meno invasivo per farmi soffrire, e tramite me far soffrire mia madre: tagliarmi fuori dalla sua vita.
Così aveva incominciato a viaggiare, cosa da lui sempre odiata, visitando senza di me tutti i luoghi su cui avevo fantasticato da bambina.
Mi aveva telefonato dall’Egitto, ricordandomi quanto avessi sognato per anni visitare le piramidi ed era andato avanti così fino a quel giorno, con la telefonata dalla Nuova Zelanda.
- Già, magnifico. Resterai ancora a lungo? – domandai, l’entusiasmo smorzato dalla notizia.
Sentii mio padre sospirare dall’altro capo della linea.
- Beh, ci fermiamo un paio di settimane… Sai, c’è così tanto da vedere… -
Non riuscii a trattenermi, fu più forte di me.
- Un paio di settimane?! Ma papà! Giovedì prossimo ho l’intervista in TV, mi avevi promesso che saresti stato a casa a vederla! –
E io che ancora mi ostinavo a credere alle sue promesse, alle sue lacrime di coccodrillo. Stupida.
- Ah sì? E’ già giovedì? Pazienza, Cate, la guarderò su youtube… La caricano su youtube, vero? –
Avrei voluto mandarlo a quel paese, ma inspiegabilmente mi trattenni.
Per la prima volta in tutta la mia vita avrei avuto uno spazietto in televisione dove poter parlare dei miei libri e della mia amata Letteratura, ed ero emozionatissima. Era un programma rivolto ai giovani, niente di particolarmente importante, eppure l’occasione mi aveva fatto sentire affermata per la prima volta.
- Papà… Ma la diretta… - mugolai.
- Oh, Cate, smettila! Tanto, per sentirti parlare di libri! Insomma, una ragazza della tua età dovrebbe smetterla di pensare a queste stronzate e trovarsi qualcuno con cui andare a letto! – mi rimproverò.
Sempre la solita tiritera: i libri sono inutili, la fantasia è solo per i bambini e i ritardati, il mio compito di graziosa fanciulla era soddisfare le voglie del primo mentecatto di turno. Meglio se ricco, così avrei potuto fare la bella vita a spese altrui come papà e le sue ricche compagne mi insegavano.
Qualsiasi persona assennata consiglierebbe vivamente di rassegnarmi e tagliare tutti i ponti con quest’uomo, ma lui era sempre stato la mia debolezza e nonostante fossi ben consapevole della mia ingenuità, sotto sotto, continuavo a sperare in un cambiamento.
- Oh, adesso devo andare… Ciao Cate, divertiti! – e, rapido e molesto come era arrivato, se ne andò, riagganciando e piombandomi nel silenzio.
Rimasi al buio, la tastiera del cellulare bloccata e le chiavi della macchina nell’altra mano, mentre le nubi ormai esangui cedevano il passo alla notte.
Ero un’idiota.
Tutte le sante volte ci cascavo, sempre allo stesso modo.
Allaccia la cintura e accesi il quadro, aspettando che l’amichevole borbottio del motore mi ricordasse che potevo partire, poi mi mossi pigramente lungo la strada, il cuore strizzato come una spugna sporca e il desiderio di vivere sotto i piedi.
Ero logorata da quella situazione, dalla mediocrità della mia vita, dalla mia incapacità di cambiare le cose, e più ci pensavo più mi sentivo inutile e fallita.
A ventisei anni di età pensavo già come un vecchio.
Forse mio padre aveva ragione, forse ero davvero un immenso fallimento: dopotutto la scrittura non era stata sufficiente a mantenermi ed ero sempre immersa fino al collo in mille lavori diversi, barcamenandomi a fatica fra i corsi all’Università e la vita della studentessa fuori sede.
Sospinta da questi pensieri miserabili, lasciai che la macchina mi portasse dove voleva, ritrovandomi a vagare ai venti all’ora fra i campi di grano.
Quella sera non c’era la luna, e le stelle scalfivano appena la spessa coltre della notte.
I fanali della macchina, come i fasci di luce di due fari gemelli, illuminavano appena il sentiero sterrato di fronte a me, mentre attorno regnava la quiete; avevo la radio accesa, ma il volume era così basso che il cantare dei grilli copriva senza difficoltà il ciarlare dello speaker.
Poi, all’improvviso, accadde.
Qualcosa sbucò da un sentiero laterale e non riuscii a frenare in tempo. Inchiodai di colpo, mentre una sagoma scura si accasciava di fronte a me e, terrorizzata, tiravo il freno a mano.
Balzai giù dalla macchina pregando tutti gli dei di tutte le religioni affinchè ciò che avevo colpito non fosse morto e, tremante di panico, mi ritrovai a soccorrere un uomo con indosso un pastrano scuro e consunto dall’uso.
- Dio mio, si sente bene? – domandai in Francese mentre cercavo di voltarlo e di sorreggergli il capo nella luce accecante dei fanali.
Respirava, buon segno.
Solo allora, quando lo sconosciuto riuscì a voltarsi su un fianco e mi rivolse l’occhiata spaesata di un bambino che si è perso, mi resi conto della catastrofe.
Capelli rossi, occhi chiari, naso di una certa importanza.
Conoscevo quel viso, lo avrebbe riconosciuto praticamente chiunque.
- Oh, merda… - sussurrai.
Avevo appena investito Vincent Van Gogh.
 

















 
Note

Salve a tutti!
Sono Koori-chan e questo è un delirio.
Era già da un bel po' che mi ronzava in testa l'idea di scrivere qualcosa di relativo a Vincent Van Gogh, probabilmente il mio artista preferito e indubbiamente una delle figure storiche che mi affascinano maggiormente.
Sarà dura, lo so, perchè il caro Vincent ha una psiche complessa e non riducibile a semplice follia, quindi vi chiedo in ginocchio sui ceci di segnalarmi qualsiasi tipo di incorrettezza nella trattazione del suo personaggio.
Per il resto spero davvero che questo primo capitolo abbia stuzzicato la vostra fantasia e sarei davvero felice di sentire i vostri pareri, anche negativi, l'importante è migliorarsi! ~
Con questo vi lascio e vi ringrazio per essere giunti fin qui! <3

Kisses,
Koori-chan

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***






Capitolo II~








Ricorderò sempre il rumore dei grilli.
Più delle luci, più dei respiri.
Quella notte, immersa nel nulla delle campagne di Arles, il frinire dei grilli mi sembrava il più frastornante dei suoni.
Fagocitava ogni cosa: il borbottio del motore, la luce sottile delle stelle, le spighe che trattenevano il respiro. Per un singolo quanto eterno momento mi parve di essere caduta in un sogno di quelli assurdi, di quelli che, al risveglio, si mutano in una sfuggevole sensazione, poco più che un leggero prurito in fondo alla coscienza.
Era troppo assurdo perché fosse vero, troppo.
Cercai di mantenere la calma e non saltare a conclusioni affrettate.
Dopotutto non era completamente impossibile che esistesse qualcuno di identico a Van Gogh. Certo, la faccenda diventava più improbabile quando tale individuo si ritrovava a vagabondare per i campi della Provenza proprio dove il grande artista era solito recarsi.
Trassi un profondo respiro, gli occhi sgranati dell’uomo ancora piantati nei miei.
- Si sente bene? – ripetei nuovamente, questa volta più lentamente.
Annuì piano, nello sguardo smarrito ancora lo stesso velo di panico della prima occhiata.
- Sì… credo di sì… - fu un sussurro, una frase balbettata a fior di labbra, eppure il mio cuore sussultò.
La sua voce era leggermente roca, eppure risultava delicata, un contrasto che per un istante mi fece mancare l’aria nei polmoni.
Sorrisi appena, tranquillizzata dall’idea di non aver ucciso nessuno, poi lo aiutai a mettersi seduto.
- Per fortuna… - sospirai.
- Sono davvero desolata, ero sovrappensiero e non l’ho vista sbucare e… - ma lo sconosciuto mi zittì poggiando delicatamente una mano sul mio avambraccio.
Nella luce accecante dei fanali puntati proprio contro di noi mi accorsi con una nota di panico misto a eccitazione che le sue dita erano sporche di quella che a un occhio distratto sarebbe parsa tempera gialla.
No, non poteva essere.
Dovevo cercare di restare lucida e evitare di fantasticare, dopotutto mi trovavo sempre in mezzo al nulla in compagnia di un perfetto sconosciuto, non era poi così saggio abbassare la guardia a quel modo.
E poi, insomma, cosa mai poteva farci un uomo normale in mezzo ai campi in piena notte?
Deglutii cercando di non pensare all’eventualità che si trattasse di un vagabondo o un ubriacone o entrambe le cose e rimasi a dir poco sbigottita dalla domanda che mi porse.
Mi si rivolse con gentilezza, quasi con timore, e per un momento rimasi senza parole.
- Chiedo scusa… Non vorrei sembrare indecoroso, ma… Dove ci troviamo? –
So di aver inarcato forse un po’ troppo le sopracciglia, perché il malcapitato parve pentito della sua domanda, ma prima che potesse anche solo formulare un altro pensiero di senso compiuto, mi affrettai a rispondere.
- Ad Arles. Nei campi appena fuori la città. Si è perso? – mi resi conto troppo tardi della stupidità della domanda, ma il mio interlocutore parve non farci caso.
Anziché notare la mia abissale mancanza di senso comune, infatti, rivolse la sua attenzione alla macchina e trattenne a stento un grido.
- Santo Cielo, che cosa…? – borbottò, sconvolto.
Evidentemente non aveva ancora metabolizzato di essere stato investito…
- Sì, io… Davvero, sono mortificata, capirò se vorrà sporgere denuncia… - ma con un brivido ghiacciato mi accorsi che non era stato l’urto inaspettato a sconvolgerlo, bensì la natura di ciò che lo aveva colpito di sorpresa.
Sospinta dal mio gene vagante della pazzia, abbandonai quel briciolo di buonsenso che mi era rimasto e azzardai la domanda che in realtà fremevo di porre fin da quado l’avevo guardato negli occhi per la prima volta.
- Mi scusi, potrei sapere con chi sto parlando? – domandai, priva di qualsivoglia educazione.
Dopotutto ero io quella che l’aveva investito, avrei anche potuto sforzarmi di essere un po’ più gentile.
Ma ancora una volta lo sconosciuto non sembrò badare alle mie scarse abilità di socializzazione e rispose senza indugio.
- Mi chiamo Vincent Van Gogh, sono un pittore. – si presentò con il più caldo dei sorrisi.
Sarei disposta a dare tutti i miei averi pur di poter vedere l’espressione che attraversò il mio volto a quelle parole.
Forse sorrisi, forse spalancai la mascella, forse addirittura emisi qualche verso strozzato.
Non ricordo, e di sicuro non vi badai quando fu il momento.
So che mi portai le mani al volto, a coprire naso e bocca, per chiudere gli occhi in cerca di un barlume di senso in tutto quello.
Come era possibile? Avevo forse viaggiato nel tempo? O era stato lui a ritrovarsi magicamente nel ventunesimo secolo?
Deglutii e cercai di sembrare convincente, mentre già nella mia testa si accalcavano sgomitando le trame per almeno dieci romanzi diversi.
- Io sono Caterina Montaperti… - avrei voluto aggiungere “scrittrice” alla mia presentazione, ma mettere i miei miseri e scontati lavoretti sullo stesso piano dell’arte di uno dei più grandi pittori che la Storia abbia mai visto mi faceva sentire stupida e insignificante.
- Io… Io credo che entrambi ci siamo cacciati in un bel pasticcio, Signor Van Gogh… - balbettai, mentre le stelle si muovevano pigramente nella pece della volta celeste e noi ce ne stavamo seduti in mezzo alla polvere dello sterrato come due bambini nel cortile della scuola.
L’artista inarcò un sopracciglio per incentivarmi a proseguire, e non attesi un momento di più.
- So che le sembrerà assurdo, ma è la verità. Ecco, vede… Io sono nata nel millenovecentottantotto. –
Di nuovo i grilli invasero la nostra coscienza in un grido ossessivo, sinistro e disturbante.
Van Gogh –perché diamine, quello era proprio Van Gogh!- decise finalmente di alzarsi in piedi e, con aria smarrita, si diede qualche pacca sui pantaloni per togliere la polvere.
- Nel millenovecentottantotto? Fra… fra cent’anni? – balbettò, sconvolto.
- Così sembrerebbe… - ribattei facendo spallucce, di nuovo in piedi pure io.
Trassi un profondo sospiro e mi passai nuovamente la mano sul volto; tutto quello non aveva senso.
Come potevo aver appena investitio Vincent Van Gogh?!
- Coraggio, ci sarà sicuramente una spiegazione razionale a tutto ciò. Deve esserci una spiegazione razionale. – esalai,  alla disperata ricerca di una risposta che potesse giungere come la manna dal cielo dai meandri più reconditi della mia mente.
Niente, tutto quello a cui riuscivo a pensare erano gli occhi dell’uomo in piedi di fronte a me.
Tornando a rivolgere la mia attenzione a quelle iridi chiare, mi accorsi che continuavano a lanciare occhiate diffidenti alla mia automobile.
Dopo qualche momento si azzardò a riprendere la parola, questa volta la voce un po’ più ferma di prima.
- Devo aver di nuovo bevuto troppo. – sentenziò come se fosse la cosa più normale del mondo.
Annuii appena e incrociai le braccia al petto.
- Sì, è esattamente quello che stavo pensando di me stessa. – replicai.
- Ma evidentemente l’alcool non c’entra niente. – aggiunsi.
L’uomo si irrigidì e alzò appena la voce.
- Non vorrete dire che ho… viaggiato nel tempo o simili sciocchezze?! – sbraitò, già sulla difensiva.
- Lei vede altre spiegazioni? – sbottai io, nonostante fossi scettica quanto lui.
- Sono finito in un racconto di Maupassant… - borbottò, passandosi una mano fra i corti capelli rossicci.
Quella considerazione afflitta mi fece sorridere.
- D’accordo. Riflettiamo. Lei ne viene dal milleottocentottantotto. Io da un secolo avanti. Io so di essere reale, lei sa di essere reale. Quindi bisogna arrendersi all’evidenza che è effettivamente successo qualcosa che non sarebbe dovuto succedere. – organizzai mentalmente quanto scoperto fino a quel momento.
- E come facciamo a sapere cosa è successo, di preciso? – chiese, come se io avessi potuto saperne di più.
Scossi la testa e strinsi le labbra.
- Onestamente non ne ho idea. Dovremo indagare. – conclusi rassegnata.
Van Gogh non parve della stessa idea.
- Indagare? Signorina, io devo tornare a casa! Io…! –
- Lo so, lo so! – lo interruppi stizzita.
- Ma non possiamo fare niente finchè non ci capiamo qualcosa! Senta, so che è assurdo, ma credo sia il caso che venga con me. E’ notte fonda e non penso che abbia con sé degli Euro o una carta di credito per pagarsi una stanza in Hotel, ragion per cui questa notte potrà dormire da me. Domani, quando saremo riposati, decideremo il da farsi! – ordinai, volitiva.
Quando la mia voce si fu dissolta nel buio della notte rimasi sorpresa di me stessa.
Mai, in tutta la mia vita, avevo preso decisioni a quela velocità.
Sono sempre stata una ragazza abbastanza timida e insicura, e l’autorità non ha mai fatto per me. Quando da piccoli si giocava tutti insieme nel cortile della scuola ero sempre ben felice di non essere il capo e non dover prendere decisioni. Espormi mi ha sempre fatto una gran paura.
Eppure, quell’assurda notte di fine Agosto, non avevo avuto nessun timore nel drizzare la schiena e fare la mia scelta.
Il pittore abbassò lo sguardo sulla targa della macchina, senza tuttavia sembrare veramente interessato. Aveva un nonsoché di triste nell’espressione, quasi si fosse sentito di troppo.
- Non voglio essere un peso, signorina. Non voglio recarvi disturbo… -
Senza aprire bocca mi avvicinai lentamente a lui e gli posi delicatamente una mano sulla spalla, sospingendolo piano verso la portiera e facendolo sedere in macchina.
- Non si preoccupi, le macchine sono veicoli comuni nel ventunesimo secolo! Allacci la cintura, mi raccomando! –
Presi posto dal lato del conducente e chiusi la portiera con un colpo secco, facendolo sobbalzare, poi partii in retromarcia fino ad una piazzola dove riuscii a fare manovra per tornare verso la città.
Le spighe frusciavano quiete attorno a noi e pian pianino anche il vocìo dei grilli scemava, mentre le prime luci della città scivolavano ai fianchi della macchina.
Van Gogh se ne stava rigido e terrorizzato seduto al mio fianco e ogni tanto si lasciava sfuggire qualche esclamazione di fronte ai semafori o ai cartelloni pubblicitari.
Chissà come doveva sembrargli cambiata Arles…
Mi chiedevo a cosa stesse pensando, se avesse paura, se fosse emozionato. Dopotutto ritrovarsi catapultati in un secolo futuro doveva fare una discreta impressione…
Poi, però, un’altra cosapevolezza fece capolino nel mio cuore, assieme a un pizzico di paura.
Tutti, anche i bambini, sapevano che Vincent Van Gogh non era mai stato un individuo dalla psiche stabile.
Gli erano state diagnosticate migliaia di malattie mentali diverse, dal bipolarsimo all’epilessia, e in ogni caso l’idea di ospitare in casa una persona simile non era fra le più tranquillizzanti.
E se lo stress del presunto viaggio nel tempo avesse dovuto farlo impazzire? E se avesse cercato di farmi del male?
Cercai di non pensarci. Dopotutto era evidente che non si trattava di un uomo malvagio, i suoi occhi erano puri e buoni come quelli di un bambino.
Quando arrivammo in vista di casa, rallentai fino a fermare la macchina. Il parcheggio che avevo occupato quel pomeriggio era ancora vuoto, e mi sistemai nuovamente lì.
Raccolsi la mia borsa gigantesca dal sedile posteriore e aiutai il mio passeggero a liberarsi dalla cintura di sicurezza per poi accompagnarlo fino al portone.
Raspai nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa, mentre il pittore mi guardava pieno di curiosità.
- Ci sarà un po’ di disordine… Beh, veramente un po’ tanto disordine. E che vivendo sola, sa… - feci, alla ricerca di una scusa per il macello che regnava sovrano nel piccolo appartamento.
- Non preoccupatevi, non può essere peggio della mia stanza… - sorrise gentile.
Non riuscii a impedirmi di curvare le labbra verso l’alto, salendo le scale a passo sostenuto.
Vincent Van Gogh, il pittore più grande di tutti i tempi, stava chiacchierando con me del più e del meno.
Era incredibile.
Aprii la porta e lo precedetti all’interno del monolocale, abbandonando la borsa su una sedia e dirigendomi ad aprire la finestra.
- E’ molto piccolo, lo so, ma gli affitti ad Arles costano una fucilata, mi sono dovuta accontentare… - spiegai, sperando che non notasse l’eccitazione acquattata nella mia voce.
Solo a quel punto mi voltai per vedere cosa ne pensasse e mi accorsi della catastrofe che stava piombando su di noi.
Sopra alla televisione, sulla parete di fronte alla porta d’ingresso, se ne stava una stampa di “Mare a Saintes-Maries-de-la-Mer”, in basso a sinistra, in un rosso guizzante, la firma dell’autore.
Quello, sbigottito, si voltò verso di me in cerca di spiegazioni.
Cate, pensai, questo è davvero un gran casino.




















 
Note

Io lo sapevo che questa storia non dovevo nemmeno incominciarla!
Comunque salve a tutti e benvenuti al secondo capitolo, dove in realtà non succede niente di particolare se non che la nostra protagonista ha raccattato nei campi un pittore famoso morto cent'anni prima. xD
La prossima volta che mi viene in mente di scrivere qualcosa su Van Gogh picchiatemi.
Santo cielo, giuro che non ho mai faticato tanto per mettere insieme un paio di battute di circostanza senza temere di andare OOC... T.T
In ogni caso il nostro caro Vincent è rimasto un pochino sconvolto, mentre il lato scettico e quello fantasioso di Cate fanno a pugni in cerca di spiegazioni. E adesso? Come farà la ragazza a spiegargli che è diventato uno dei più grandi pittori di tutti i tempi? E poi, sarà saggio dirgli proprio tutto?

Ps: una piccola precisazione linguistica di scarsa se non nulla importanza.
In teoria i dialoghi fra Vincent e Caterina avvengono tutti in Francese. In questa lingua, per esprimere rispetto, o semplicemente fra sconosciuti, si usa la seconda persona plurale, ossia il "vous", a differenza del "lei" Italiano, quindi non dovrebbe vedersi la differenza fra il registro che usa Caterina e quello di Van Gogh. Ho voluto però mantenere questa leggera diversità in Italiano per rimarcare la provenienza dei personaggi da due secoli diversi. V.V

Un grazie di cuore a chi ha recensito e messo la storia fra le seguite/preferite!!! <3
A presto! -spero xD-

Kisses,
Koori-chan

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