No Excuses

di Sam Vega
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to Montréal ***
Capitolo 2: *** Les Habs ***
Capitolo 3: *** Family - Part 1 ***
Capitolo 4: *** Family - Part 2 ***
Capitolo 5: *** Awakenings ***
Capitolo 6: *** Challenges ***
Capitolo 7: *** Torches & Goals ***



Capitolo 1
*** Welcome to Montréal ***








 
A Lyra, somma beta e complice
Con la speranza che prima o poi riesca a vedere una partita per intero senza addormentarsi tra primo e secondo tempo.
A Emily e Agnes,
Che ci sopportano nei nostri quotidiani deliri, tanto da arrivare a capire come funzionano il fuorigioco e il power play (forse...)
Ai pattinomuniti vari ed eventuali,
Costante fonte di ispirazione con il loro immenso disagio.






1st. Period. "Welcome to Montréal"






La luce filtrava appena da una sudicia finestrella quadrata posta in alto, troppo lontana per essere raggiunta e troppo piccola per essere attraversata. Beffarda si stagliava sul muro scalcinato, dove fili di ragnatele oscillavano lenti, mostrandogli a fatica uno spicchio di cielo livido.
Il fascio biancastro oltrepassava quel velo grigio opaco e illuminava lo stanzone lungo e stretto quel poco che bastava per lasciargli indovinare i contorni delle piastrelle, un tempo bianche, ma ormai spezzate negli angoli a mostrare la calce sottostante o macchiate di verde e marrone dove lacqua fuoriusciva imperterrita da un rubinetto rotto da chissà quanti anni.
Le gocce si schiantavano a terra in un ticchettio snervante e acuto. Era un suono costante, che gli era ormai entrato nella testa, scavandolo dentro fino al cervello, e imprimendosi in modo indelebile nella memoria. Cera un pesante odore di muffa che gli si insinuava nelle narici e laria tipicamente gelida e umida dei luoghi che non vengono mai davvero raggiunti dal sole. Gli entrava nei polmoni e lo faceva rabbrividire, quasi fosse capace di cristallizzarsi dentro il suo corpo e lacerarlo dallinterno. Lo avvolgeva e lo lasciava tramortito, anestetizzato, come se il dolore che sentiva addosso e che gli bruciava sotto la pelle fosse ridotto solo a un eco lontano, che sarebbe tornato a esplodere solo quando avrebbe messo piede fuori da lì.
Era come stare in una cella dincubazione, lontano da tutto. Percepiva la fredda e rigida consistenza del muro alle proprie spalle ghiacciargli la schiena, e paradossalmente dare sollievo alla pelle martoriata e livida. Le gambe, nude e graffiate, se ne stavano malamente allungate sul pavimento inondato dacqua insaponata mescolata a minuscoli rivoli di sangue, che dilagavano in sinuosi e lenti ghirigori, prima di sparire inghiottiti dal tubo di scarico.
Non riusciva a muoversi né a emettere un misero suono o un gemito. Non riusciva più neanche a piangere o arrabbiarsi, a reagire. Ma non avrebbe neppure scelto come via di fuga il farla finita come tanti prima di lui, dimostrando di essere il perfetto, debole vigliacco quale tutti si aspettavano che fosse. Il suo orgoglio laveva in parte condotto lì; lo stesso che per poco non laveva ucciso e che allo stesso tempo gli aveva impedito ogni giorno di scegliere quella strada per liberarsi.
L’aveva condannato e salvato, e lui pregava continuamente affinché potesse tenerlo ancora lontano dal baratro, ancorato a un appiglio, a qualsiasi cosa che potesse dargli un motivo valido per riaprire gli occhi ogni giorno e continuare a respirare e sopravvivere in quel mondo.
Ma nel momento in cui uno spiraglio di luce si aprì improvvisamente nello stanzone, abbassò le palpebre e pregò che il buio lo inghiottisse una volta per tutte.
                                            
 
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22 Agosto 2009
                                                               
Sergej aprì gli occhi di scatto, sollevandosi con i gomiti puntati su uno spoglio materasso, senza lenzuola né copriletto. Sbatté più volte le palpebre e si guardò intorno col respiro affannato, la gola e le labbra fastidiosamente riarse e la fronte madida del sudore freddo di chi è appena tornato da un lungo e tortuoso viaggio in un incubo del passato.
Gli occhi chiari si posarono sulla finestra aperta dinanzi al lui, che dava su un panorama mozzafiato della città da cui provenivano il tepore di un vento caldo d’estate e la luce accecante del mattino ormai inoltrato. Schermò il viso con una mano per proteggersi da quel fastidioso bagliore che invadeva la stanza, così diverso dall’inquietante penombra onirica da cui era appena risalito e, dopo aver stropicciato le palpebre, si liberò finalmente di quel gelido sentore d’angoscia, assimilando la consapevolezza d’essere al sicuro nel suo nuovo appartamento a Montréal.
Si mise seduto sul candido materasso che odorava di nuovo, ricordandosi come si era lasciato andare al sonno la sera precedente, senza neanche avere la forza di sistemarlo almeno con un paio di lenzuola e un cuscino, ormai stremato dalla fine del trasloco. Avrebbe potuto pagare qualcuno per farlo al suo posto così da evitare di spezzarsi la schiena, ma era talmente riservato e geloso delle sue cose che non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarsi, figuriamoci di toccarle e magari anche curiosare.
Osservò l’ammasso di scatoloni stipati in un angolo e si lasciò ricadere a peso morto, sbuffando all’idea degli altri mucchi altrettanto grandi che lo aspettavano sparsi per ogni stanza della casa.
La mano si fece strada strisciando alla ricerca del telecomando, allungandosi verso una scatola ancora sigillata dal nastro adesivo posta al fianco del letto e momentaneamente adibita a comodino. Quando le sue dita riuscirono ad afferrare l’oggetto, l’ombra di un sorriso trionfante diede forma alle sue labbra, ma la sua espressione mutò radicalmente dopo qualche secondo dall’accensione dello schermo LCD, tramutandosi in una smorfia contrariata nata dalla realizzazione di essersi incappato in una trasmissione sportiva di cui era inconsapevole protagonista, assieme alla sua inaspettata cessione.
I due conduttori se ne stavano seduti composti, dietro l’elegante scrivania in vetro scuro, discutendo l’argomento con altri opinionisti presenti in studio schierati in contrapposte ragioni mentre, alle loro spalle, un grosso schermo trasmetteva alcune foto e sequenze significative dell’ultimo campionato di hockey su ghiaccio, conclusosi da qualche mese.

“Io non credo sia stata una vera sorpresa la cessione in sé. I Washington Capitals avevano già avanzato da tempo l’ipotesi. Nevskij è seriamente ingestibile, per quanto talentuoso. È come giocare con una bomba inesplosa in campo” la voce di uno degli opinionisti arrivò chiara alle orecchie di Sergej, che storse il naso nel sentir pronunciare il suo cognome accostato a quel poco elogiante paragone.

“Quello che davvero mi sorprende è la proposta dei Canadiens. Avevano sì, necessità di qualcuno che spingesse in attacco e desse man forte a Weiss e Dryden, ma questa più che una spinta è una vera e propria corsa suicida.”

“Io invece non l’ho ancora ben inquadrato” intervenne l’uomo a fianco, guadagnandosi le occhiate stranite degli altri presenti, e con cui decise immediatamente di spiegarsi.

“Nel senso, vedo anch’io come gioca. È terribilmente aggressivo, perde la testa con niente ed è troppo individualista. Il più delle volte il dischetto va in rete quando passa dal suo bastone, ma c’è davvero troppa rabbia e nervosismo nelle sue azioni, ed è eccessivamente egoista nel gioco.”

“Be’, questo mi sembra più che ovvio e assodato da intere stagioni ormai, quindi?” gli rispose uno dei conduttori, probabilmente cercando di capire dove volesse andare a parare. “Giocare con un uomo che segna tante volte quante sono le ammonizioni collezionate, i falli fischiati o peggio, le espulsioni, non so quanto possa essere utile.”

“I Capitals non se la sono vista poi così brutta quest’anno, mi pare.”

“Certo, ma vogliamo ricordare di quante risse è stato protagonista? Delle multe alla squadra e di come questo ha avuto ripercussioni negli spogliatoi? Nevskij non sembra essere in grado di integrarsi con i suoi compagni.”

“È proprio di questo che volevo parlare” dichiarò allora l’opinionista, provocando l’ennesima contrazione di sopracciglia sia in studio, che in Sergej stesso.

“I Canadiens, nonostante gli ultimi mesi non propriamente idilliaci, sono un gruppo piuttosto affiatato. Sono ben equilibrati, ma peccano in un attacco poco incisivo. Mi domando se sia possibile inglobare in quella cerchia tanto unita anche Nevskij.”

“Certo, facile come tentare di addomesticare una bestia selvatica” lo derise uno, guadagnandosi il consenso di un paio di commentatori, ma l’altro non parve darsi per vinto “Non sto dicendo sia facile, anzi!” replicò immediatamente. “Sto solo dicendo che se questo dovesse succedere, e probabilmente è in questo che i Canadiens sperano, oltre ad avere una difesa pressoché perfetta, avrebbero finalmente anche il tridente d’attacco che hanno sempre sognato. Una buona difesa è fondamentale, ma senza goal le partite non si vincono. Nevskij potrebbe essere la loro soluzione.”

“Potrebbe, certo” convenne immediatamente uno dei due conduttori, “e sarebbe semplicemente fantastico assistere ad un avvenimento del genere. Considero Nevskij una delle più grandi promesse dell’hockey, ma temo possa bruciarsi troppo in fretta.”

“In che senso?”

“Nevskij è come una Supernova spiegò allora, catturando l’attenzione di tutti. “La sua ascesa in America ha avuto quella stessa potenza. È letteralmente esploso, ma tutti sanno che dopo quel terribile fragore e bagliore, c’è solo la fine. Temo finirà per consumarsi e spegnersi troppo presto.”

Sergej non ascoltò il resto.
Dopo quella dichiarazione che somigliava fin troppo a una sentenza definitiva, premette con rabbia i pulsanti del telecomando, scorrendo rapidamente i canali, senza neanche davvero notare le immagini trasmesse.
Non aveva mai sopportato i giornalisti e la loro supponenza. Credevano sempre di sapere tutto, di poter comprendere, accusare e parlare a sproposito. Spesso gli avevano affibbiato storie completamente inventate, parole mai dette e relazioni mai esistite. Erano andati a curiosare nel suo passato, passando in rassegna ogni suo comportamento, talvolta provando perfino a psicanalizzarlo.
Si sentiva perennemente sotto esame, alla stregua di una minuscola formica inquadrata nella lente d’ingrandimento di un bambino dispettoso, che prima o poi gli avrebbe fatto convogliare troppa luce addosso e l’avrebbe portato a bruciare fino a consumarsi del tutto.
Era vero: il suo gioco non era proprio dei più leggeri, ma l’hockey era uno degli sport di contatto per antonomasia e se gli altri temevano di farsi male, che si dedicassero al balletto o ad un qualsiasi altro hobby in cui non rischiavano di rompersi neanche un’unghia.
Era stanco di quel mondo, dell’essere un personaggio pubblico sotto il costante giudizio di gente che neanche sapeva che faccia avesse, ma decisamente brava a sputare velenose sentenze.
L’unica cosa che aveva sempre desiderato era quella di poter sfrecciare sulla lastra di ghiaccio e lì, su quella superficie splendidamente candida e lucida, eliminare ogni pensiero, sfogare la rabbia nel colpire il dischetto, liberarsi di ogni angoscia esultando per il goal segnato. La semplice voglia di poter giocare e dimenticare tutto il resto, lasciando che i contorni del campo sfumassero fino a cancellare tutto ciò che esisteva oltre quelle barriere di plexiglas.
Sergej Aleksandrovič Nevskij altro non voleva che essere lasciato in pace, con indosso i suoi pattini e le protezioni, un bastone stretto tra le mani e il puck1 a schizzare come impazzito sul rettangolo di ghiaccio su cui si esibiva.
Non gli interessavano quelle stronzate sullo spirito di squadra, il cameratismo sportivo o la costruzione di un gioco altruista. Ciò che contava era lo spettacolo e che il dischetto facesse breccia nella difesa avversaria fino a centrare la porta; salire in alto ed essere il migliore, e non gli importava proprio un cazzo di niente se avrebbe fatto la fine di una Supernova. Quello che era davvero necessario era che la sua esplosione fosse così accecante e fragorosa da restare impressa per sempre nella memoria di chiunque... e un gran bel vaffanculo a tutto il resto.
A soli ventiquattro anni, in fondo, era già stufo di troppe cose, fatta ovviamente eccezione per il suo amato hockey.
Avrebbe voluto giocare fino alla fine dei suoi giorni, se gli fosse stato possibile e se solo essere annoverato tra i migliori giocatori dell’NHL2 non avesse significato anche essere perennemente sotto lo scrutinio di quei dannati parassiti meglio conosciuti come giornalisti.
Era stanco, e ogni volta che era finalmente solo si chiedeva se non potesse esserci un modo per distaccarsi completamente da quella realtà e farvi ritorno solo al momento di varcare la soglia del campo di gioco, per poi tornare nel proprio limbo, protetto e lontano da tutto.
Ci pensò il trillo acuto del cellulare, perso chissà dove tra la miriade di cianfrusaglie sparse per la stanza, a ricordargli immediatamente che questo non era possibile, oltre che a farlo sbuffare di rassegnazione, già conscio dell’identità della persona all’altro capo del ricevitore.
Si sollevò a fatica dal letto e prese a frugare di malavoglia tra gli scatoloni, fino a individuarne la sagoma sommersa tra i vestiti lanciati in un angolo la sera precedente.

«Ehi» mugugnò, senza neanche controllare il display prima di rispondere. Tre sole persone potevano chiamarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Due di queste erano probabilmente impegnate a cenare visto il fuso orario con la sua madre patria. La restante invece, in quel momento ospite della capitale francese, rispondeva al nome di Irina Aleksandrovna Nevskij, al secolo, la sua gemella.

«Finalmente!» la sentì esclamare, con una punta d’esasperazione. «Ma dove diavolo eri?!»

Sergej sollevò un angolo della bocca nell’accenno di un sorriso, per poi biascicare una giustificazione più o meno veritiera: «Scusa, dormivo.»

Lei emise uno sbuffo contrariato. «Sei già nella nuova casa?»

«Sì, sono arrivato ieri sera.»

«Avevi detto che mi avresti chiamata!» la sentì protestare mentre, senza ascoltare il resto dei suoi classici borbottii, si distendeva di nuovo supino sul materasso, fissando lo sguardo sul soffitto imbiancato di fresco.

«Era tardi» provò a spiegarsi, interrompendo la sua filippica e una smorfia di eloquente disappunto nacque sul suo viso, «e poi volevo lasciarti ai festeggiamenti con quello che tu ti ostini a chiamare ‘fidanzato’.»

«Non è stato niente di che» rispose lei, ridacchiando appena per l’ostinata contrarietà che Sergej continuava a mostrare nei confronti di quella relazione. «Dì piuttosto che te ne sei dimenticato.»

«Te l’ho detto, era tardi.»

«Da te, non da me. Esiste una cosa che si chiama ‘fuso orario’, te l’hanno mai detto?»

«Dove sei?» le domandò, tentando nuovamente di porre fine all’inutile tentativo di farlo sentire in colpa.

«All'aeroporto.»

«Tra quanto arrivi?»

«Saranno più o meno sette ore di volo. Dovrei essere lì nel tardo pomeriggio» si soffermò per un attimo, probabilmente per controllare gli orari sullo schermo, ed aggiunse: «L’aereo dovrebbe atterrare alle cinque e mezza.»

«Ti vengo a prendere» si propose subito lui. Per quanto scostante ed insofferente fosse con il resto del mondo che tentava un più o meno intimo approccio con lui, il richiamo del legame con la sorella era sempre stato troppo forte perché potesse fingersi sordo. Irina non si era mai arresa all’improvvisa barriera che lui aveva innalzato per isolarsi da tutti e, anche se non aveva mai davvero compreso le sue motivazioni, si era comunque ricavata il posto che le spettava nella sua vita.
Forse un giorno le avrebbe detto ogni cosa. Si sarebbero rintanati sotto la coperta, sistemata a mo’ di tenda come quando erano bambini, ed avrebbero parlato. Forse...

«No, lascia stare» ribatté però lei, strappandolo via dai suoi pensieri e lasciandolo interdetto. «Hai qualcosa d’importante da fare oggi, no?»

Sergej roteò gli occhi. Il tono assunto dalla sorella aveva chiaramente lasciato trasparire l’ansia che da sempre l’assaliva quando si trattava di lui. A volte pensava che avesse preso fin troppo seriamente il ruolo di madre che era stata costretta ad intraprendere. «È solo una stupida presentazione» la rassicurò perciò, senza nascondere l’insofferenza nella sua voce.

«È importante, Serëža4» gli disse, calcando l’intonazione su quel nomignolo e facendo nascere sulle sue labbra un sorriso sincero. «Cerca di non essere il solito stronzo.»

«Mi auguro che per quando sarai qui, quella noia sia già finita.»

«Hai firmato un contratto» gli ricordò ancora lei, con la medesima voce autoritaria, e gli fu impossibile trattenere un mugugno scocciato.

«Lo so.»

«Non combinare casini.»

Sergej si massaggiò le palpebre e fece schioccare la lingua. Sua sorella gli mancava ed era seriamente felice di rivederla, ma era altrettanto appurato che Irina sapeva essere una vera piaga quando ci si metteva.
«Ci proverò» borbottò allora, semplicemente per farla contenta. La sentì sospirare per l’esasperazione, dato che lo conosceva troppo bene.

«Devo staccare. Ci sentiamo più tardi» dichiarò, sovrastando l’eco del messaggio emesso dagli altoparlanti, che invitavano i passeggeri a dirigersi verso l’imbarco per il volo per Montréal.

«Ok» replicò lui semplicemente, incapace di aggiungere un sincero “mi manchi” a quelle due lettere, e sostituendolo invece con uno sterile “ciao”, prima di riattaccare e restare qualche secondo con lo sguardo fisso nel vuoto.

Una mano andò a far scorrere le dita tra i capelli lisci, forse ormai un po’ troppo lunghi, di un castano così chiaro da sembrare nastri di sabbia bagnata. Ci giocherellò un po’ distrattamente e andò a ritroso con la mente nei ricordi, alla volta in cui, quando era ancora un bambino e abitava in Russia, un vecchio pittore che dipingeva per strada per guadagnare qualche spicciolo l’aveva invitato ad avvicinarsi per farsi ritrarre e gli aveva detto che, quella tonalità di castano, prendeva curiosamente il nome di “ombra”.
Sergej all’epoca non ci aveva fatto poi così tanto caso, ma nel tempo quella specie di strana profezia si era come avverata nella sua vita, proprio come una sagoma scura. C’erano fin troppe zone buie dentro di lui, posti in cui aveva perfino paura di avventurarsi, temendo di essere colpito dalla vertigine e di cadere, riaffondando ancora una volta giù.
Eppure quel quadro lo conservava ancora. Non aveva mai smesso di portarlo con sé, ovunque andasse, incapace di separarsi da quella che un tempo era stata la sua immagine; tanto che qualche volta si ritrovava a chiedersi che fine avesse fatto il vecchio artista dallo sguardo troppo profondo e scuro, rabbrividendo per la sciocca idea che questo fosse stato in grado di vedere dentro di lui e in ciò che lo aspettava nel futuro.
Si riscosse come per svegliarsi da un brutto sogno, portando una mano a stropicciarsi la faccia, quasi volesse scorticarsi via di dosso quei pensieri, sollevandosi a fatica dal letto e dirigendosi verso il bagno.
Non era proprio tempo di ripensare al passato, non era il momento giusto per rimuginare su cose che avrebbe dovuto relegare nel fondo della sua mente, nascoste dal buio, molto tempo fa.
C’era la sua vita che continuava a scorrere inesorabile, e lui non poteva perdere tutti quei momenti per guardarsi indietro. Doveva solo inseguirla a perdifiato e afferrarla al volo, una volta per tutte.
 
 
****** 
 

Il dischetto nero rimbalzò con uno schianto contro una delle barriere, schizzò veloce indietro e preciso al mittente, che lo colpì nuovamente con il bastone ricurvo, per direzionarlo nello stesso, identico punto, come se avesse mirato a un bersaglio immaginario.
Un altro colpo e un successivo rimbalzo, e poi ancora e ancora, come un automa che eseguiva in un ciclo continuo la sequenza perfetta, senza mai calare di ritmo.

«Ehi, Sean» si sentì chiamare. Sollevò lo sguardo e mancò di colpire il puck che saettava nella propria direzione. «Hai intenzione di continuare ancora per molto?»

Il ragazzo sorrise al compagno di squadra, pattinando tranquillo verso l’altro lato della superficie di ghiaccio sintetico per recuperare il dischetto e avviarsi poi all’uscita del campo d’allenamento. Raggiunse il resto della squadra pesticciando con i pattini e si sedette scomposto sulla panca per toglierli.

«È mai possibile che tu non riesca a star lontano dal campo, neanche quando siamo qui in via ufficiosa?» gli rivolse un finto rimprovero Jan, l’energumeno biondo e slavato che rivestiva il ruolo di suo capitano.

Sean si rinfilò le scarpe e sistemò i pantaloni lisciandoli un paio di volte con entrambe le mani. «Lo sai come sono fatto!» ribatté poi, rivolgendogli uno dei suoi soliti sorrisi disarmanti e solari. «È il richiamo del ghiaccio!»

Jan scosse la testa e gli si sedette accanto, per poi rifilargli una pacca sulla spalla. «Te lo do io, ‘il richiamo del ghiaccio’, deficiente. Se ti fai male, son cazzi amari!»

«Non è che al nostro Sean trema il culo all’idea di trovarsi davanti la ‘Supernova’?» s’intromise Kyle ridacchiando riferendosi al novello compagno di squadra con l’ultimo nomignolo che gli era stato affibbiato dai giornalisti. «Paura che ti soffi il posto?»

«Ehi, marmocchio» l’apostrofò lui, facendo leva sul fatto che Kyle fosse effettivamente il più piccolo della squadra, sia per quanto riguardava l’anagrafe che per altezza e corporatura. «Qui l’unico che rischia di scaldare bene la panca, sei tu, considerando che ricopre il tuo stesso ruolo. Peccato tu sia troppo impegnato a starnazzare come una ragazzina innamorata, per rendertene conto.»

«Stai scherzando? Hai presente chi è appena entrato in squadra?!»

Sean sollevò una delle sopracciglia e sospirò: «Come volevasi dimostrare, stai fangirlando come una mocciosa.»

«Ha vinto anche quest’anno il premio come capocannoniere del campionato! Nonostante non abbia giocato tutte le partite per via di squalifiche ed espulsioni! Sai che vuol dire questo?»

«Sì, che potrebbe essere un vero problema se non si decide a imparare a restare in campo per una partita intera, senza attentare alla vita di qualcuno» gli rispose Sean ridacchiando, «e sappi che stai cominciando a preoccuparmi!»

Kyle s’imbronciò e gli rivolse un’occhiata piena di biasimo, come se stesse parlando con un perfetto ignorante. «Non capisci un bel niente» borbottò poi, incrociando le braccia al petto.

«Io invece mi auguro che questa cotta ti passi presto, principessina» lo riprese il capitano, condendo la sua affermazione con uno sbuffo rassegnato. «Non mi pare proprio che gli calzi lo stereotipo del principe azzurro senza macchia e senza paura.»

«Fottetevi» ringhiò il più piccolo in risposta, aggrottando le sopracciglia scure come la pece. «Non capite un accidenti di niente!»

«Che cos’ha la signorina, qui?» e stavolta fu Boris a parlare, col suo tipico accento russo che, nonostante i tanti anni trascorsi da quando era approdato in America, non aveva mai perso completamente. Continuava a calcare troppo il tono in alcune occasioni ed esprimersi con quella sua voce profonda e un po’ nasale. «Com’è che ti agiti tanto?»

«Kyle e il suo spropositato amore per Nevskij» spiegò Jan ridendo apertamente. «Non gli è ancora passata la fase da ragazzina in preda a un attacco ormonale!»

«Di nuovo, ‘fanculo!» replicò il suddetto accusato, prima di voltarsi verso Boris e chiedere: «Tu comunque dovresti conoscerlo, no? Avete giocato entrambi per il Lokomotiv Jaroslavl’5

«Già, è vero. Dicci un po’ qualcosa» convenne il capitano e questo scrollò semplicemente le ampie spalle.

«Proveniamo entrambi da lì, sì, ma non so molto. Quando è entrato a far parte della prima divisione, io ero già partito per l’America e non abbiamo mai giocato insieme neanche in nazionale, per un motivo o per un altro. Dirigenti e allenatori, comunque, già parlavano di lui all’epoca, ma non negli stessi termini di adesso.»

Sean inarcò le sopracciglia. «In che senso?»

«Che io ricordi, non ho mai sentito nessuno lamentarsi del fatto che fosse troppo violento, falloso e individualista, anzi! Alla Lokomotiv tutti non facevano che parlare del suo gioco pulito e fluido» si strinse nelle spalle e arricciò le labbra, con l’aria di chi non sa spiegarsi qualcosa in alcun modo. «C’è da dire che allora era poco più di un ragazzino. Probabilmente col tempo si è dato a un altro tipo di gioco.»

«Sì, alla ‘triturazione delle ossa’» commentò allora Sean, con una smorfia. «Ringrazio di non averlo mai dovuto affrontare. Avrei seriamente temuto per le mie povere gambe.»

«Be’, poco male» intervenne Jan, sospirando. «Quello non dovrebbe più essere un nostro problema adesso... o almeno spero.»

«Ehi, ragazzi!» li chiamò una matricola, un novellino facente parte delle giovanili di cui ricordavano a malapena il nome e che, come tanti altri suoi compagni, aveva insistito per assistere all’arrivo di Sergej Nevskij e alla sua presentazione ufficiosa alla squadra. «Pare che stia arrivando!»

«Oddio, non riesco a crederci!» esclamò allora Kyle, irrigidendosi immediatamente e piantando lo sguardo verso la porta principale. «La Supernova sta arrivando davvero!»
Fece appena in tempo a terminare la frase, che l’ennesima e poco gentile pacca arrivò a stampare le dita del capitano sulla sua nuca.

«E piantala!» lo riprese poi questo, grugnendo e fulminandolo con lo sguardo, dando vita a un siparietto fin troppo comune, che fece scoppiare a ridere sia Boris che Sean.

Tra le proteste e i borbottii del più piccolo della squadra, abbandonarono il bordo del campo e si avviarono verso l’atrio per raggiungere il resto dei compagni, tutti lì pronti ad assistere all’arrivo di questa tanto chiacchierata Supernova.

Sean non aveva mai parlato di persona a quel ragazzo dall’espressione perennemente glaciale, pronta a incendiarsi e tramutarsi in una spaventosamente rabbiosa e decisa ogni qual volta si trovava a varcare la soglia di quella lastra nivea e ghiacciata.
Aveva osservato le sue prodezze in campo mentre affrontava e travolgeva i suoi avversari, e studiato il suo modo di giocare e d’interagire con i compagni. Si era anche stupito per i continui scatti d’ira che coglievano Sergej o per la facilità con cui neutralizzava chiunque, ma nonostante avessero in comune l’età e l’ovvia passione per l’hockey – oltre la determinazione con cui ricoprivano il proprio ruolo di attaccanti – era chiaro più di ogni altra cosa che non avrebbero potuto essere più diversi.
Sean, nonostante la maturità costruita durante gli anni trascorsi come atleta professionista, per certi versi era un eterno bambino. Prendeva spesso gli affari con poca serietà ed era sempre pronto a scherzare, sdrammatizzare e socializzare con tutti. Sergej invece, sembrava non aver neanche mai vissuto la propria infanzia. C’era qualcosa nell’ombra perennemente adagiata sul suo viso e in quegli occhi vacui, che paradossalmente suggerivano fosse nato già adulto, come un triste automa creato da qualcun altro per un suo capriccio.
Doveva ammettere con se stesso di essere piuttosto curioso di fare la conoscenza di quel campione tanto discusso e controverso, ma di essere anche ansioso per il suo arrivo. Non tanto perché temeva che il novello componente dei Canadiens gli “rubasse” il posto nella rosa, quanto più per il fatto di non riuscire a interagire con lui, di fallire proprio come era successo a tutti gli altri giocatori che si erano avvicendati al suo fianco.
Avevano bisogno di uno come Sergej in squadra e tutti ne erano perfettamente consapevoli, ma non erano neanche degli illusi e ben conoscevano la fama che da sempre aveva preceduto l’irascibile campione arrivato dalla Russia.
Sean in fondo temeva che il nuovo acquisto potesse gettare la propria ombra su tutta la squadra e romperne irrimediabilmente l’equilibrio faticosamente conquistato. Paventava che la sua presenza riuscisse a minarne i rapporti, soprattutto quelli meno solidi, che comunque si ergevano su un sano e reciproco rispetto.
Con un sospiro appena accennato quindi, s’infilò le mani nelle tasche dei jeans e si appoggiò alla parete tinteggiata di blu, bianco e rosso, i colori dei Montréal Canadiens. Jan gli fu immediatamente accanto.

«Preoccupato?» esordì questo, con un mezzo sorriso, lasciandogli intendere che quella sensazione fosse pienamente condivisa.

Sean prese un respiro profondo e sollevò le spalle. «Un po’.»

«Forse non riusciremo mai a coinvolgerlo nella parte ‘familiare’ della squadra, ma almeno mi auguro di riuscire a instaurare una sottospecie di rapporto, per creare qualche profitto nel campionato» commentò il capitano, facendolo sorridere per l’aggettivo attribuito a una cerchia ristretta molto legata a livello affettivo, all’interno della prima divisione, di cui facevano entrambi parte. In fondo era proprio così che Sean si sentiva quando era in compagnia dello stesso Jan, Boris, Kyle e pochissimi altri ancora: era come avere una seconda famiglia con cui comunicare perfettamente, anche all’interno dello stadio, qualcuno su cui poter sempre contare, con cui sapeva di poter parlare di tutto e a cui aveva confessato ogni cosa... più o meno.

«La vedo dura» rispose e sollevò di scatto gli occhi verdi, quando sentì il rombo di una di un’auto fare il proprio ingresso nel garage dello stadio, «ma almeno proviamoci» aggiunse infine, con la voce ridotta quasi a un sussurro inudibile e lo sguardo inchiodato verso la direzione in cui un potente ruggito si era sopito.


 
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Ed eccoci qua, alla fine del primo capitolo.

Non ci sorprendiamo se a questo punto sarete un po’ confuse/i, perché è completamente normale, ma vi assicuriamo che andrà meglio. Abbiamo testato i primi capitoli su persone che, di Hockey, sanno giusto che è praticato in qualche parte molto fredda del mondo e nulla di più, e se ce l’hanno fatta queste persone – ogni riferimento è puramente casuale… Emily, Agnes, se vi sentite chiamate in causa, vuol dire che avete la coda di paglia – può farcela chiunque.

Questo malsano progetto è iniziato mooolto tempo fa, scaturito dall’incontrollabile passione che ci ha travolto per quello che non è solo uno sport, ma un credo… e mai vi capiterà di conoscere personalmente un fan di una qualsiasi squadra di hockey, di un qualsivoglia campionato, capirete perché.

Non vogliamo aggiungere molto altro, perché le spiegazioni arriveranno con i prossimi capitoli, assieme a uno schema dei vari personaggi perché sì, lo sappiamo, sono davvero tanti, e quelli incontrati finora non sono neanche tutti.

A chiunque sia stato capace di arrivare fino alla fine senza addormentarsi, vogliamo fare i nostri più sentiti ringraziamenti. Se avete voglia di saperne di più o di assistere a deliri nosense, questi sono i nostri contatti FB: Sam Vega e Sid Revo, e QUI, c’è il disagiato gruppo che ci ospita.

 
1    “Puck” è il nome tecnico per definire il dischetto di gomma nero con cui si gioca.
2    Acronimo di “National Hockey League”, ovvero la lega professionistica canadese ed americana di hockey su ghiaccio.
4    È il soprannome russo usato per Sergej. In genere, come tutti i soprannomi del resto, denota una certa confidenza.
5    Squadra di hockey di Jaroslavl’, città della Russia vicino Mosca.

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Capitolo 2
*** Les Habs ***


 



2nd Period. "Les Habs" 





Era trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui la sua mente gli aveva riproposto immagini della sua terra natia. Ricordi perfetti, nitidi e mai svaniti, neanche smangiucchiati o scoloriti, come invece sarebbero state una sfilza di vecchie foto sciupate dal tempo.
Nella sua testa tutto era incredibilmente calibrato. Le luci candide e accecanti, e i giorni dove la neve scendeva copiosa a imbiancare ogni cosa e dove cielo e terra andavano ad abbracciarsi e confondersi sulla linea dell’orizzonte, i dettagli di quel grigio metallico che ornavano le strade spesso ricoperte da una patina di ghiaccio o i vicoli inghiottiti dall’ombra. I mesi di completa luce, con le notti bianche, e quelli invece in cui il sole non riusciva che a mostrare solo a fatica i propri raggi, regalando appena un lieve assaggio del suo caratteristico e giallo splendore.
Ricordava perfino le pieghe sfumate delle aurore boreali, che dal blu schiarivano fino all’azzurro più vivo, passando poi ad amalgamarsi con pennellate di verde, talvolta di rosso e di viola. Si stagliavano nel manto notturno come pezzi di soffice stoffa, nastri abbandonati a comporre gli strani archi di uno spettacolo ogni volta ammaliante e unico, anche per chi, come lui, aveva avuto la fortuna di considerarle care compagne nelle notti gelide dell’inverno.
La sua Russia era tutta lì, nel fondo dei suoi occhi, in ogni più piccolo e insignificante particolare, quasi li avesse appena aperti su quel panorama pallido.
Ben quattro anni si erano invece susseguiti dall’ultima volta in cui aveva messo piede in quell’enorme landa. Aveva persino ringraziato il cielo per quel piccolo infortunio di un paio d’anni prima, che gli aveva precluso i campionati Mondiali tenutesi proprio tra Mosca e Mytišči.
Non era stato poi così male: aveva finto un po’ quel dolore al ginocchio e si vergognava al solo pensiero della vigliaccata commessa, ma gli si strozzava il respiro anche solo a provare d’immaginare di farvi ritorno. Un grumo d’aria che si formava nei polmoni e sembrava squarciarglieli, dilagando a dismisura.
Eppure, paradossalmente, gli mancava.
In ogni fibra del suo essere, in ogni sua cellula, sentiva il richiamo di quel posto lontano miglia e miglia da Montréal.
Non era certo per la mancata visita alla capitale russa, anzi... quel posto lo aveva sempre disgustato. E non era neanche per Jaroslavl’, la città dove aveva vissuto per gli ultimi anni prima di approdare in America, e a cui doveva il suo primo, vero incontro con l’hockey e l’inizio di quell’amore che non l’aveva mai abbandonato.
Il suo pensiero volava invece ad Archangel’sk, la fredda cittadina che sorgeva in uno dei punti più a nord del mastodontico e vecchio territorio sovietico, così inospitale nei mesi invernali, quando la Dvina – il fiume che la attraversava nel cuore – rallentava la sua corsa verso il Mar Bianco fino a cristallizzarsi allo scorrere del tempo, tramutandosi in una lunga e sinuosa lingua di ghiaccio.
Era quella città che da sempre sentiva come “casa”, i cui bordi venivano inghiottiti da una natura ancora incontaminata, troppo simile ai luoghi incantati delle fiabe che lo avevano cullato da bambino.
Archangel’sk, fatta di colori sbiaditi, di rocce e ghiaccio a circondarla, e dove perfino il mare su cui si affacciava si trasformava in una vasta pianura bianca che si estendeva a perdita d’occhio verso il Polo.
Gli sembrava di sentirla ancora addosso quell’aria gelida, come se fosse ormai parte integrante del suo essere. Il freddo secco che soffiava e sembrava capace di trapassargli la pelle e le ossa, di trafiggerlo da parte a parte e invaderlo, per riempire anche lui di quelle cristalline stalattiti che ornavano ogni tetto ed ogni finestra, e rilucevano sotto i deboli fasci di luce.
Se si concentrava poi, poteva quasi udire i tipici suoni provenienti dal caotico porto: dalle voci dei marinai, agli ingranaggi metallici arrugginiti dalla salsedine che stridevano tra loro, e alle casse di legno ricolme, accatastate l’una sull’altra con schianti secchi.
L’odore di pesce fresco che andava ad amalgamarsi alla brezza marina e si spingeva con le nuvole nell’entroterra, come se il mare volesse abbracciare quella cittadina con i suoi profumi; come se, durante le sue abituali passeggiate lungo il molo a godere di quello spettacolo unico, quello stesso Mar Bianco che da sempre ammirava volesse portarlo via con sé e avvolgerlo nella stretta delle sue onde scure.
Archangel’sk era sempre lì, pronta a irrompere nella sua mente in ogni momento, a invadere i suoi sogni e lasciargli quell’ormai abituale sentore di nostalgia che lo afferrava e si annodava attorno al suo torace. Lo stritolava un po’, gli svuotava i polmoni e lo stomaco, gli gelava le ossa come le rigide temperature della sua città e poi, proprio come quelle, lentamente lo lasciava andare svanendo a poco a poco, per dargli un po’ di pace e lasciarlo a realtà più miti.
Archangel’sk non lo avrebbe mai abbandonato, così come non l’avrebbe fatto la struggente voglia di tornare a calpestare il malridotto asfalto crepato dal ghiaccio. Ma non lo abbandonavano neanche i suoi doveri, gli impegni presi e l’indomabile voglia di continuare a giocare a hockey, che l’aveva portato a sbarcare prima nella “terra di stelle e strisce”, poi in Canada.
E ora che era lì, in quella città enorme, moderna e viva, completamente diversa da quella natia che pareva essere costantemente aggrappata al passato, non poteva far altro che chiudere ancora una volta sul fondo della propria mente le sue origini e andare avanti.
Già, doveva farlo, anche quando avrebbe di gran lunga preferito scappare, gettandosi come un pazzo in mezzo al traffico. Proprio come in quel momento in cui, non appena le ruote della sua spider si erano fermate, attendendo l’apertura dei cancelli, una decina di flash erano sopraggiunti ad abbagliarlo, nonostante la protezione degli occhiali da sole.
Chiuse gli occhi e respirò a fondo, ripetendosi come un mantra che no, non poteva affatto farli volare tutti in aria come birilli, neanche quando si spalmavano letteralmente sul cofano perfettamente lucidato per ottenere uno scatto migliore. Per questo si limitò a stringere con più forza il pomello del cambio, per scaricare quella snervante frustrazione, e a far rombare il motore come monito a togliersi celermente di torno, prima che i suoi buoni propositi venissero meno e si decidesse ad asfaltarli tutti.
Per loro fortuna però, i giornalisti parvero intendere immediatamente e si scostarono di fretta – pur continuando a scattare con foga – e lo lasciarono sfilare via, badando a non oltrepassare i cancelli.
Al sicuro da fotocamere, telecamere e domande invadenti, Sergej si rilassò per un attimo sul sedile in pelle, respirando a fondo e mantenendo ben salde le mani sul volante.
Quella era decisamente una delle cose che odiava dell’hockey: cambiare squadra significava ricominciare tutto da capo, ma non per quanto riguardava rapporti o amicizie, piuttosto il contrario. Doveva nuovamente mettere in chiaro il suo essere restio a qualunque forma di cameratismo di squadra e pregare che nessuno dei suoi nuovi compagni fosse tanto insistente dal non volersi arrendere a una sua prima, gelida occhiata; doveva nuovamente sottolineare quanto non desiderasse affatto alcun tipo di noioso rapporto, se non quel minimo – purtroppo – indispensabile per poter giocare.
Voleva semplicemente essere lasciato in pace. Poteva comunque svolgere il suo ruolo anche senza patetiche cenette di squadra tra una partita e l’altra o qualunque altro programma avessero in mente. Nel momento in cui udì un incerto picchiettare sul finestrino laterale, cominciò però a intuire che forse non avrebbe avuto vita facile e che le sue speranze non sarebbero state immediatamente soddisfatte.
Nell’aprire gli occhi difatti, incrociò lo sguardo con quello che doveva essere un inserviente del campo d’allenamento: un uomo sulla sessantina, dai capelli appena sfumati di grigio sulle tempie e le rughe d’espressione piuttosto accennate, che lo fissava come se volesse sincerarsi che stesse bene. Fece quindi un cenno con la testa perché questo si scostasse e, seppur di malavoglia, sfilò le chiavi dal cruscotto e aprì la portiera.
Prima o poi avrebbe comunque dovuto affrontare quella tortura.

«Salve, signor Nevskij» lo salutò immediatamente questo, abbozzando un sorriso. Era più che evidente che una parte di lui provava qualcosa di molto simile al disagio nel trovarselo davanti, e non solo perché lo superava in altezza di almeno una spanna, «e benvenuto. Spero che quelli là fuori non l’abbiano importunata» commentò poi, riferendosi al gruppetto di giornalisti e fotografi che ancora non avevano abbandonato la loro postazione.

«Nessun problema» si limitò a sospirare in risposta, sforzandosi d’ignorare quel fastidioso “click” in lontananza.

«Venga, l’accompagno all’entrata» gli sorrise e non aspettò una risposta né un cenno da parte sua, prima di avviarsi.

Sergej si passò una mano tra i capelli, cercando di dare una parvenza di senso a quell’esplosione di ciuffi e, dopo essersi sincerato di aver chiuso la macchina, prese a seguirlo con passo blando, sperando che tutte le conversazioni che avrebbe dovuto sostenere dì lì in seguito si riducessero drasticamente al minimo. Niente di più sbagliato, ovviamente.

«Allora, signor Nevskij» esordì difatti l’uomo, voltandosi appena per guardarlo, «mi auguro si trovi bene qui. Montréal è una gran bella città, un po’ freddina d’inverno, ma per un russo non dovrebbe essere chissà quale novità» si lasciò andare a una breve risata e poi aggiunse: «Anche Boris... mi scusi, volevo dire il signor Volkov, è russo come lei ed è uno dei pochi che non si lamenta mai.»

Poi si voltò di nuovo, come se si aspettasse una risposta o un commento da lui, e Sergej cominciò a percepire l’imminente arrivo di un’emicrania che l’avrebbe tormentato per il resto del giorno.
Decise comunque di concedergli un altro cenno, affiancato da un mugugno scarsamente interpretabile, nella speranza che questo gettasse la spugna ma, per l’ennesima volta in pochi minuti, contò proprio sulla cosa sbagliata.

«Sa, questa è una squadra piuttosto affiatata. Sono più che certo che i ragazzi sapranno accoglierla e vedrà, fin da subito si sentirà come a casa.»

«Mh» fu il solo suono che uscì dalle labbra di Sergej e quasi sospirò di sollievo quando riuscì a vedere chiaramente la porta a vetro scorrevole dell’entrata. Tra sopportare il cicaleccio fastidioso e interminabile di quell’inserviente e il gettarsi in pasto alla marea di persone che se ne stavano lì davanti a fissarlo come un alieno, la seconda opzione risultava il male minore, e questo la diceva lunga sul livello di esasperazione a cui era arrivato.

«Be’, eccoci arrivati» commentò ancora l’ovvio il logorroico inserviente, rallentando di un poco il passo, quasi volesse trattenersi per qualche altro istante in quella conversazione privata, seppur fosse evidentemente a senso unico.

Sergej però, senza saperselo spiegare, rallentò con lui. In realtà non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quel tipo – di sbarazzarsi di tutti loro per poter tornarsene a casa – ma le sue gambe decisero per proprio conto di muoversi più lentamente e attendere quell’ultima frase sospesa su quelle labbra.
Restò a osservarlo attraverso le lenti scure a goccia dei suoi occhiali, finché questo gli rivolse uno strano sorriso, come se fosse appena diventato consapevole di qualcosa che a lui, evidentemente, sfuggiva.

«Buona fortuna, Serge» gli disse semplicemente infine.

Sergej aggrottò la fronte per quello strano nomignolo: la storpiatura del proprio nome, con una netta pronuncia francese, non gli era piaciuta affatto, come il resto di quell’uomo, d’altronde.
Non ebbe però il tempo di replicare – e comunque, in fin dei conti, non l’avrebbe neanche fatto – quando la voce entusiasta di un’altra persona arrivò a conquistare la sua attenzione: «Eccoti, finalmente! Eravamo tutti in trepidante attesa.»

Il tempo appena sufficiente perché i suoi occhi mettessero a fuoco l’occhialuta presenza di uno dei manager della squadra, Richard Green, che una sua fastidiosa pacca arrivò a schiantarsi su una delle sue spalle. Gesto che, ovviamente, si sarebbe ampiamente risparmiato.

«Scusate» si sforzò di rispondere, come se qualcuno gliele stesse strappando una a una, quelle lettere. Una fastidiosa pinza che martoriava la sua lingua a ogni suono emesso, «sono rimasto un po’ bloccato nel traffico.»

«Figurati, non preoccuparti» gli rispose questo, continuando a mantenere il proprio braccio a circondargli le spalle. «Vieni dentro. Meglio se le conoscenze le facciamo lontano da flash di cui non abbiamo proprio bisogno.»

Sergej chiuse nuovamente gli occhi, in quello che si poteva definire quasi un tic, un gesto incondizionato che eseguiva ogni volta in cui si trovava a fronteggiare situazioni poco gradite e doveva imporsi in qualche modo di restare calmo.

«Siamo tutti giocatori della National Hockey League» commentò poi lentamente, ben sapendo di avere gli occhi di tutti puntati addosso, «e so benissimo chi sono. Sarebbe un po’ improbabile il contrario. Non credo di aver bisogno di presentazioni.»

In realtà, non avrebbe voluto suonare così supponente, né usare proprio quelle parole. Il suo voleva essere un semplice appunto per far notare l’inutilità della cosa, soprattutto considerando che non sarebbe stato difficile per lui elencare il nome e cognome di ognuno di loro, con tanto di definizione del ruolo e che, per contro, nessuno lì presente avrebbe certo avuto bisogno di essere erudito sulle sue credenziali anagrafiche.
Semplicemente, quei pensieri gli erano sfuggiti senza che se ne rendesse conto, tramutandosi in parole. Spesso si ritrovava a dar la colpa di quegli inconvenienti al suo essere tanto restio all’intavolare una conversazione degna di tale nome, con un qualsivoglia soggetto pensante. Si divertiva quasi a supporre di aver disimparato a filtrare ciò che non poteva essere pronunciato... proprio lui poi, che per anni era stato attento anche a non fiatare troppo rumorosamente, per paura di infastidire qualcuno.

«Oh» sentì comunque pronunciare in replica, in un tono che non avrebbe saputo definire se “sconcertato” o “infastidito”. Forse un mix di entrambi. «Capisco, ma i ragazzi ci tenevano comunque a conoscerti. Sai, per rompere il ghiaccio.»

I suoi occhi a quel punto puntarono il nutrito gruppo rimasto a osservarlo e, passandoli su ognuno, con suo enorme sollievo, si rese immediatamente conto della venatura d’astio che era andata a formarsi negli sguardi della maggior parte dei presenti.
Alla fine dei conti, pur non essendo stata una mossa studiata o desiderata, non c’era voluta poi tutta la fatica che temeva perché capissero l’antifona; perché comprendessero che la sua permanenza in quella squadra dipendeva esclusivamente dal suo ruolo sul campo ghiacciato e nulla di più. Non gli importava affatto fare una buona impressione come persona, in fondo. Quel che contava era esclusivamente il risultato alla fine della partita e che il suo nome proseguisse nella sua scalata alla gloria, simpatico o meno che fosse.
Quando però arrivò a concludere quel sondaggio visivo, si rese conto di un paio di particolari che decisamente stonavano nello stato d’animo del gruppo. Fra tutte quelle occhiate decisamente infastidite, fintamente indifferenti o deluse, c’erano un paio di occhi limpidi e sicuri che lo fissavano con una chiara espressione di sfida, dall’alto della propria esperienza e saggezza.
Ørjan Bäckström – per tutti “Jan”, nonché suo nuovo capitano – continuava a osservarlo con l’accenno di un sorriso soddisfatto a piegargli le labbra, quasi si stesse trattenendo a sento dallo scoppiargli a ridere in faccia.
Se ne stava appoggiato al muro a braccia conserte, con quelle iridi cerulee e pungenti fisse su di lui. Lo guardava vagamente interessato, neanche fosse un animale nella gabbia di uno zoo, in attesa di qualcosa, di vederlo fare o borbottare altro, o forse, in attesa di vederlo esplodere come quella Supernova a cui l’avevano associato.
Come se non bastasse poi, di fianco a lui e parecchi centimetri più in basso, stava un ragazzetto moro, dai capelli decisamente più disordinati dei suoi e le pupille dilatate in un’inconfondibile, quasi esagerata ammirazione nei suoi confronti, come se non avesse minimamente udito la sua antipatica uscita.
Ecco, lui lo esaminava davvero neanche fosse una strana stella, così luminosa da non riuscire a interrompere quel suo inquietante scrutare in ogni minimo dettaglio, e tutta quell’immotivata stima non fece che metterlo più a disagio di quanto già non fosse.
Quello strano ragazzino rispondeva al nome di Kyle Jacques Delon e, nonostante i loro sguardi si stessero incrociando già da un pezzo e che probabilmente il suo arrivo in squadra gli avrebbe precluso un bel po’ di minuti sul campo, lui continuava ad ammirarlo con quell’inquietante purezza di chi vede per la prima volta, in carne e ossa, uno dei suoi idoli.
Sergej, per un attimo, si era sentito vacillare davanti a quella devota attenzione, posto di fronte allo scoglio di un esame che, già lo sapeva, avrebbe fallito nel disperato tentativo di superarlo.
Quando quegli occhi avessero finalmente visto e compreso cosa si celava sotto la letale eleganza e forza con cui le sue gambe si muovevano sul campo, quando l’impertinente curiosità che scaturiva da quello sguardo sarebbe arrivata a grattare con insistenza la superficie dietro cui proteggeva tutto se stesso e avrebbe scorto il marcio accumulato e dilagato nel fondo del suo essere, allora quella stima sarebbe sfumata via. La triste disillusione l’avrebbe sostituita e quegli occhi puri gli avrebbero rivolto solo un’occhiata carica di delusione e amarezza.
In fondo il suo naturale talento e il suo sconfinato amore per l’hockey erano sempre stati la sua croce e la sua salvezza. Gli davano la forza di restare ancorato con i piedi alla realtà, di resistere al tumore d’incubi e ricordi che lo mangiava da dentro, ma lo teneva anche costantemente al centro dell’accecante isola di luce emessa da quel faro chiamato “fama”. Lo costringeva a essere circondato da persone, a una convivenza forzata anche con sagome di cui non conosceva alcun tratto ma che, per contro, potevano scoprire qualsiasi cosa di lui e additarlo e condannarlo in ogni momento. Potevano innalzarlo tra quelle stelle a cui una parte di sé sentiva e voleva appartenere e, l’istante successivo, trasformarsi in nemici e boia di cui non sapeva assolutamente niente e lasciarlo schiantare giù, al suolo, con un botto tanto forte che gli avrebbe spezzato le ossa e da cui non sarebbe più riuscito a risollevarsi.
Mantenere le distanze da chiunque diventava allora una necessità, un compromesso per salvarsi dalla terra che tremava sotto i suoi piedi, in modo costante, per rammentargli in ogni momento che il piedistallo su cui si ergeva non era e non sarebbe mai stato abbastanza solido. Fare terra bruciata e impedire al resto del mondo di avvicinarlo era l’unico patto possibile per far sì che nessuno riuscisse a raggiungere quei brandelli infetti della sua anima.
Niente e nessuno sarebbe arrivato tanto a fondo dal riesumare fatti e memorie che dovevano restare sepolte. Niente e nessuno, tanto meno un paio di occhioni innocenti e densi di venerazione, a cui rivolse un’occhiata neanche poco celatamente ostile, prima di saturare i propri polmoni con un profondo respiro per far dissipare quel momentaneo, viscido panico da cui era stato avvolto, e ricomporre la gelida patina dietro cui da ormai troppo tempo era abituato a nascondersi.

«Ok» biascicò poi semplicemente, con un tono venato di una fatica che non era scaturita tanto dall’insofferenza del dover spendere il proprio tempo in quel contesto, ma dallo sforzo di mantenere impeccabile la propria preziosa facciata.
Quella sofferta risposta però sembrò bastare almeno per Richard che, dopo essersi sistemato gli occhiali con la punta dell’indice in un gesto che sapeva di tic nervoso, lo affiancò con un sorriso per scortarlo oltre le porte scorrevoli del Complexe Sportif Bell, seguito dal resto del gruppo.
 
 
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Suo fratello l’avrebbe ucciso.
Non esisteva alcuna possibilità, né una misera scusa, che potesse dissuaderlo dall’usarlo come bersaglio umano.
Probabilmente l’avrebbe strangolato, oppure l’avrebbe finito a colpi di bastone per poi seppellire il suo cadavere nel retro dell’edificio, o magari l’avrebbe avvolto in un sacco nero, legato a un masso e gettato nel fiume di San Lorenzo, dove probabilmente nessuno l’avrebbe mai più ritrovato.
Insomma, di modus operandi per mandarlo all’altro mondo ne aveva tra cui scegliere. L’unica costante tra i vari scenari restava quindi la sua morte per quell’ennesimo ritardo che Wayne non gli avrebbe perdonato.
Era morto.
Imbottigliato nel traffico e morto.
Cole Dryden batté il palmo sul volante. Un colpo frustrato dopo aver lanciato un’altra occhiata all’orario sul display ed essere letteralmente sbiancato nel realizzare che il suo ritardo ammontava a una quarantina di minuti abbondanti.
Sbuffò e continuò a tamburellare con le dita, per la smania di trovare un modo per tirarsi fuori da quel macello, quando si decise ad afferrare il cellulare e tentare una chiamata al proprio capitano. Non che Jan potesse effettivamente fare qualcosa per toglierlo da quell’impiccio, ma aveva bisogno di inveire contro qualcuno, di urlare la sua agitazione e magari, nel frattempo, scoprire anche quante minacce di morte avesse già avanzato Wayne nei suoi confronti.
Avviò la chiamata ed esultò per un istante quando la stramaledettissima fila in cui si era andato a impilare si mosse un poco. Non mancavano che un centinaio di metri perché lui potesse finalmente raggiungere l’uscita e imboccare la strada che l’avrebbe condotto al campo, ma quella manciata d’asfalto sembrava non voler finire mai.
Ci sarebbe invecchiato su quell’autostrada, e anche se sarebbe stata comunque una sorte migliore di quella di affrontare l’ira di suo fratello, non avrebbe potuto immaginare una fine più indegna, triste e banale di quella.
Sbuffò annoiato e appoggiò la testa al finestrino, quando Jan si decise a rispondere: «Dove diavolo ti sei cacciato? Muoviti, che hai ancora qualche possibilità di salvezza.»

Cole aggrottò la fronte. «Eh? Non c’è ancora una taglia ad incombere sulla mia testa?»

«Tuo fratello non è ancora arrivato. Pare sia bloccato in autostrada perché deve esserci stato un incidente o qualcosa del genere» gli spiegò, facendogli tirare un enorme sospiro di sollievo. «Magari, se ti dai una mossa, possiamo anche provare a fingere che tu non sia in uno schifoso ritardo come al solito.»

«Sono incastrato in questo macello anch’io! Non è colpa mia!»

«Stando a te, non è mai colpa tua.»

«Ti sembra davvero questo il momento in cui rimbeccarmi?» grugnì in risposta. Non bastava Wayne a strigliarlo un giorno sì e l’altro pure. Perfino Jan pareva avere una predilezione per farlo. «Mi manca poco all’uscita. Se solo si decidessero a premere sull’acceleratore! Perché diavolo non mi sono comprato un elicottero?!»

«Perché hai paura di volare» fu la sarcastica risposta del suo capitano, «ed è il mio braccio che stritoli, o quello di Sean, ogni volta che dobbiamo prendere un aereo.»

«Ah-ah. Molto divertente, Cap» borbottò, ingranando la marcia per avanzare a passo d’uomo, quel tanto che gli era sufficiente per sopraggiungere all’agognata uscita per Brossard. «Piuttosto, parlando di cose serie, prime impressioni su Nevskij? È già arrivato, no?»

«Sì. Un ghiacciolo.»

Cole ridacchiò per quella sentenza tanto secca. Tutti sapevano che non sarebbe stato affatto facile, ma doveva ammettere che una minuscola parte di sé aveva sempre preferito restare su una previsione cautamente ottimistica.
I giornali, i commentatori, i bollettini delle precedenti stagioni non gli davano grandi motivazioni in cui sperare e a cui potersi aggrappare ma, come Jan, aveva prediletto la politica del “non giudicare”, o almeno di non farlo prima di trovarsi faccia a faccia con quel russo tanto chiacchierato. In fondo si augurava di riuscire a gettare una più o meno decente base per un futuro rapporto e poco importava che tutto il mondo dell’NHL avesse già dato per naufragato il loro tentativo.
Per questo, nell’udire quella risposta, non seppe davvero come incassare la notizia.
Jan non era certo il tipo da indorare la pillola ed era sempre stato piuttosto franco, senza tanti fronzoli e giri di parole ad abbellire le proprie opinioni, ma c’era anche da dire che quello era il loro primo “scontro” con la scorza dura di Nevskij, quindi non necessariamente si sarebbe rivelato un completo fiasco.

«È andata così male?»

«È sempre Sergej Nevskij, Cole» ribatté lui, e lo immaginò scrollare le ampie spalle, com’era solito fare quando non aveva una vera e propria risposta da dare. «Non è che le notizie arrivate finora sul suo conto fossero completamente inventate. Non potevamo aspettarci un abbraccio collettivo e un pianto di commozione, come per una vecchia e grande famigliola felice che si riunisce. Non contavo di andare a cogliere margherite per i campi a braccetto con lui.»

«Dio, che immagine disgustosa» mugolò con una smorfia schifata. «Gli altri che dicono?»

«Mah, niente di che. Non ho parlato con tutti, ma Xavier, Boris e Jayden la pensano esattamente come me. Non si aspettavano poi molto da questo primo incontro. Carter ha già iniziato a borbottare e ringhiare, Michael è troppo interessato ai suoi capelli per prestare attenzione e Kyle farà molto presto una brutta fine se non la pianta di starnazzare come una mocciosetta in preda a un attacco ormonale.»

Cole scoppiò a ridere nell’udire gli improperi che Jan aveva lanciato nei confronti dell’impertinente ragazzino del gruppo, già pregustandosi l’esaurimento nervoso che presto avrebbe colpito il capitano nel vano tentativo di placare quell’insana adorazione che Kyle pareva avere nei confronti del nuovo arrivato.
Era certo che gli avrebbe causato un bel po’ di guai, specie per la consapevolezza che avevano riguardo a Nevskij e alla sua, più volte esternata, reticenza nell’instaurare veri e propri rapporti con i suoi compagni di squadra.
In tutto ciò, c’era però anche il parere di un’altra persona che gli premeva conoscere, quella di un altro dei suoi migliori amici, nonché instancabile compagno di linea[i], che avrebbe dovuto condividere la propria presenza sul campo con quella decisamente ingombrante del russo.

«Impressioni dal nostro Revolver?» gli chiese difatti, chiamando Sean con quel soprannome che giornalisti e fan avevano adottato proprio dopo che lui stesso l’aveva battezzato in quel modo durante un’intervista, in seguito a quella che probabilmente era stata la sua migliore partita della stagione.

«Sean è preoccupato. Più di quanto pensassi, a dire il vero. Lo sai com’è. Lui è quello che più ne risente dell’umore e dello stato della squadra. Quando le cose non vanno non carbura.»

«Staremo a vedere» sospirò allora, con un po’ di rassegnazione.

Ciò che aveva detto Jan era vero: Sean si dimostrava estremamente emotivo, recettivo e vulnerabile verso i problemi all’interno della squadra. Sergej, per contro, sembrava non essere interessato a un bel niente. A una prima impressione pareva quindi impossibile trovare una valida combinazione per quelle due personalità, eppure non avevano altra scelta. Quei due avrebbero dovuto collaborare in un modo o nell’altro, e che gli piacesse o meno poco importava.
Come se non bastasse a rendere problematiche le cose poi, molto probabilmente sarebbe toccato a lui fare da tramite, stando in mezzo a quei due fuochi.
Un altro profondo sospiro si levò dalle sue labbra, come muto commento a quella consapevolezza che si era fatta strada nella sua testa, mentre i contorni dell’enorme edificio squadrato del Bell Sports Complex si facevano sempre più netti e visibili.

«Sono quasi ai cancelli» mormorò pertanto, avvistando il gruppo di giornalisti appostati all’esterno. «Ci vediamo dentro.»

«Muoviti, disastro» lo apostrofò invece Jan, prima di riagganciare e lasciarlo in balia di macchine fotografiche e microfoni ventolati davanti al parabrezza e ai finestrini.

Ci vollero una manciata di minuti perché i cancelli riuscissero ad aprirsi, e altrettanti ancora perché il suo SUV potesse avanzare e superarli senza investire nessuno. Oltrepassata quella “barriera umana”, Cole parcheggiò in malo modo il bestione scuro di cui andava tanto orgoglioso, occupando quelli che erano almeno due o tre posteggi, e si precipitò di corsa all’interno dell’edificio.
Superarne l’atrio e trovarlo così innaturalmente vuoto gli fece uno strano effetto. In genere quel posto era gremito di fan nei giorni in cui era loro concesso di assistere agli allenamenti della propria squadra, e altrettante erano le presenze quando il centro sportivo veniva semplicemente aperto al pubblico.
Quello però era un evento particolare, un incontro riservato a pochi, e Cole si rese immediatamente conto dell’atmosfera tesa che regnava fra quelle mura, nel momento in cui raggiunse l’ampio bar centrale dove si erano dati appuntamento.
Tutta la squadra era lì, assieme a qualche prospect[ii] e alla maggior parte dei dirigenti, ma tra tutti, una sola persona spiccava davvero.
Leggere di lui sui notiziari od osservarlo sugli highlights delle partite, vederlo dalla panchina a sfilare sulla lastra di ghiaccio e affrontare e scartare come se niente fosse un’altra linea della propria squadra – per quanto frustrante fosse – era un conto, trovarselo davanti in quella situazione, con tutta quell’inquietante aura che gli era stata cucita addosso a filo doppio negli anni, era decisamente un altro paio di maniche.
Sergej era di poco più basso di lui eppure, per il modo in cui lo stava fissando – impassibile e col mento lievemente sollevato – sembrava sovrastarlo come un’austera montagna.
Le voci poco elogianti che si rincorrevano sul suo conto gli parvero improvvisamente molto più reali, tangibili, soprattutto per quella sua chiara espressione di totale insofferenza, per altro ulteriormente accentuata dal modo in cui, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, a malapena simulava interesse per la conversazione in cui Gerard Jodoin, assistente allenatore, e Martin Murreau, direttore dello sviluppo dei giocatori, cercavano inutilmente di coinvolgerlo. Nonostante le domande di cortesia che gli venivano rivolte difatti, il massimo che avevano ricevuto i due uomini erano stati un paio di cenni d’assenso col capo e qualche parola messa in fila per comporre la risposta più breve possibile. Lo sguardo del russo si posava svogliatamente sui loro volti solo quando sentiva nominare il proprio nome, ma finiva inevitabilmente per tornare sul grande orologio di metallo che ticchettava su una delle pareti del bar, come se sperasse che, fissando le lancette nere, il tempo potesse scorrere più velocemente liberandolo da quell’impegno così sgradito.
Nonostante tutto, Cole si decise comunque a raggiungere il trio e, posando le braccia sulle spalle dei due connazionali, rese noto il suo arrivo.

«Martin, Jerry, vedo che non avete perso tempo a tormentare il nuovo acquisto con le vostre strategie!»

«E io vedo come certe abitudini sono dure a morire» replicò l’assistente allenatore. «Tu, non dovevi essere qui quasi un’ora fa?»

«Se arrivassi puntuale non potrei più sorprenderti con le mie entrate trionfali! E si sa che, senza un po’ di sorpresa, la fiamma dell’amore si spegne» ammiccò sollevando le sopracciglia, per poi arricciare le labbra e fingersi seriamente intenzionato a valutare la cosa, «e poi, senza il tuo amore mi troverei a fare come minimo un centinaio di flessioni in più al giorno e…»

Un sonoro scappellotto gli impedì di completare la frase.

«Ahia! Non sapevo ti piacessero le cose violente! E comunque, calma, tigre, che mi stai facendo fare brutta figura» brontolò, rivolgendo un’occhiata di sfuggita verso Sergej che, per la prima volta da quando era arrivato, si era degnato di rivolgergli uno sguardo che durasse più di un paio di secondi scarsi. Approfittando di quella sua inusuale attenzione, gli porse la mano e disse: «Ad ogni modo, io sono Cole Dryden.»

«Lo so» rispose secco l’altro, squadrando quella mano tesa in modo indecifrabile prima di stringerla con scarsa convinzione. «Ci siamo scontrati la scorsa stagione.»

«Da avversari a probabili compagni di linea, allora!» esclamò Cole, tentando un nuovo approccio, a cui corrispose solo un freddo cenno d’assenso da parte dell’altro.

Spiazzato dall’assenza di una vera e propria risposta, si strofinò poi la mano sui corti capelli castani, gesto così abituale per lui, che i compagni di squadra lo rimarcavano sempre nel dilettarsi in qualche sua ridicola imitazione. Quello che gli altri non sapevano però, era che in realtà quel gesto altro non era che un modo per esorcizzare il nervosismo e l’insicurezza che si celava dietro alla sua perenne facciata spavalda.
A dispetto di quello che dicevano le malelingue infatti, condividere il DNA con una delle grandi leggende dell’hockey non l’aveva aiutato nella carriera, ma anzi, lo aveva sempre ostacolato. Qualsiasi sforzo da fare, per Cole doveva essere doppio, per convincere gli altri e se stesso di meritarsi quel posto, e di non essere lì solo in qualità di fratello minore di Wayne Dryden. Per questo motivo aveva sviluppato un carattere tenace e grintoso – fin troppo, secondo il parere di buona parte dei giornalisti sportivi – che sul campo si sfogava in una rissosità sempre in bilico tra la correttezza e il fallo, e fuori in battutine ironiche degne di un quindicenne con un’ostentata ricerca di attenzione.
Era sempre quindi troppo impegnato a camuffare la sua battaglia personale contro se stesso e il suo non essere mai abbastanza, perché qualcuno potesse davvero metterlo in soggezione, e, generalmente, le persone che riuscivano nell’impresa potevano essere contate sulle dita di una mano. Tuttavia, da cinque minuti a quella parte, Sergej era ufficialmente entrato in quel gruppo a pieno titolo, e non sembrava intenzionato a esserne escluso tanto facilmente.
Cole tentò comunque di ignorare quella fastidiosa sensazione, convincendosi che parte di quella freddezza fosse dovuta ai pregiudizi che erano stati instillati in lui dalle voci che giravano sul nuovo compagno di squadra, e ritentò un approccio che, secondo la sua bizzarra psicologia, sarebbe dovuto risultare amichevole: «Tra l’altro, scusa per quel pugno durante l’ultima partita. Ma sai come si dice, no? Prendi la boxe, aggiungi il ghiaccio e avrai l’hockey!»

Martin e Jerry ridacchiarono nervosamente, a differenza del nuovo arrivato che sembrò quasi non registrare la battuta, ancora impegnato a fissare imperterrito l’orologio. Cole però, aveva ormai preso il silenzio dell’altro come una sfida personale che solo la sua parlantina avrebbe potuto vincere, quindi proseguì: «Allora, come ti pare Montréal finora?»

«Stessi palazzoni che a Washington, solo più a nord» mormorò glaciale Sergej, evidentemente stanco di rispondere a una domanda che dovevano avergli fatto centinaia di volte. Probabilmente per lui le città nordamericane si assomigliavano tutte, e di certo non in maniera positiva. Grattacieli su grattacieli, e appena fuori, autostrade su autostrade. Dalla sua espressione era poi chiaro che confidava nel fatto che quella risposta secca lo avrebbe finalmente fatto tacere, non sapendo quanto in realtà Cole stesso sperasse nell’apparizione magica di una qualsiasi bevanda alcolica che gli avrebbe permesso di riprendersi da quella conversazione.

«Dryden!»

“Dio benedica l’abitante della terra di Narnia” pensò sollevato Cole, mentre si congedava velocemente dagli altri tre, e si affrettava a raggiungere l’artefice della propria salvezza nonché colui che rispondeva al nome di Jayden Price: osannato primo portiere dei Montréal Canadiens, dai riflessi portentosi, che non venivano dimostrati solo sul campo da gioco, ma anche lontano dal ghiaccio, sia nel dilettarsi in gare di shots a cui Cole lo sfidava che nello schivare abilmente i ceffoni che prontamente arrivavano da parte di esponenti del gentil sesso, ogni volta che, dopo le suddette gare, decideva di sfoggiare quelle che lui definiva “frasi dall’effetto assicurato”. A onor del vero, un effetto l’ottenevano sempre... peccato che questo fosse ben lontano da quello sperato.

«Tieni, mi sa che ti serve per scaldarti dopo il freddo che avrai preso a stare accanto a quel muro di ghiaccio» rise quello, porgendogli un bicchiere di vino. «Per poco non svenivi per ipotermia, e io non avrei saputo dove trovare un San Bernardo per recuperarti!»

«Cristo, faccio dialoghi più costruttivi con il vetro della mia doccia! E no» interruppe prontamente l’amico, «ogni riferimento a fatti che potrebbero essere avvenuti dopo un paio di mojito di troppo è puramente casuale. E sono ancora fermamente convinto del fatto che tu stia mentendo sul mio aver dichiarato amore alla mia doccia il mese scorso!»

«Qualsiasi cosa ti faccia preservare la tua dignità, amico! Tanto io so qual è la verità, considerando che è toccato a me riportare il tuo culo a casa.»

Jayden però non fece in tempo ad aggiungere altro, che il dorso della mano di Cole andò a sbattere contro il suo stomaco, lasciandolo momentaneamente senza fiato.

«Manesco come al solito?»

«Io invece ti sento un po’ cambiato! Messo su qualche chiletto? Il mio schiaffetto ha fatto un bello schiocco contro il tuo stomaco. Fa’ sentire qua quanta ciccia hai messo su!» esclamò in risposta, prendendo a pizzicotti il torso del povero Jay, che cercava contemporaneamente di difendersi dai suoi attacchi e di salvare il prezioso contenuto del proprio bicchiere.

«Io ti salvo in pieno stile principe azzurro a cavallo e tu mi ricompensi riempiendomi di lividi. Mi congratulo per la tua integrità ed etica sportiva, Dryden!»

Cole fece per rispondere a tono, come in ogni loro infinita diatriba, quando l’arrivo del tanto atteso allenatore li fece zittire all’istante. Wayne Dryden fece il suo ingresso nel bar, togliendosi gli occhiali da sole e rivolgendo un distratto cenno generale. Passò spavaldo in mezzo a lui e Jayden, tirando uno scappellotto sulla nuca di entrambi, e proseguì senza battere ciglio verso il resto del gruppo, salutando con vigorose strette di mano i dirigenti, e con amichevoli pacche sulle spalle un paio di giocatori e i suoi colleghi allenatori.

«Molto bene» prese allora la parola Marc Durant, il general manager che da anni ormai gestiva le fila dei Montréal Canadiens. «Visto che adesso ci siamo proprio tutti, penso che potremmo cominciare a parlare di cose serie.»

«E non si tratta di un aumento ai vostri stipendi» intervenne Richard, col risultato di ottenere scherzosi mugugni di disapprovazione e qualche risata.

«Be’ no. Direi proprio di no!» proseguì l’altro, scorrendo i suoi occhi chiari e gentili su tutti i componenti di quella squadra che aveva da sempre dimostrato di amare con tutto se stesso, fino ad arrivare a incrociare quelli apatici dell’ultimo, enigmatico arrivato.

«Vorrei innanzitutto rinnovare il mio benvenuto a Sergej, prezioso acquisto per la prossima stagione. Sono più che certo che la sua presenza apporterà un enorme contributo a questo gruppo già ben assortito e affiatato, e sono altrettanto convinto e fiducioso che troverà il proprio posto tra di voi.»

Gli rivolse un sorriso sincero, forse nella speranza di poterlo esortare a dire qualcosa, ma ottenne in risposta nient’altro che un ennesimo e sterile cenno con la testa, quasi gli costasse un’immensa fatica starsene lì impalato in mezzo ad altra gente.
Non che Cole si fosse aspettato grandi reazioni da quel – come l’aveva definito Jan – “ghiacciolo” russo, ma notare la sua insistente sociopatia e il fastidio che evidentemente provava nell’essere interpellato e messo al centro dell’attenzione, gli fece accendere un campanello d’allarme e l’irrefrenabile desiderio di afferrarlo per le spalle e dargli una sacrosanta scrollata, anche solo per sincerarsi che fosse almeno in grado di cambiare espressione.
In definitiva, quella era l’ennesima conferma che non sarebbe stato affatto facile interagire con quel tipo, ma Marc, probabilmente grazie alla sua esperienza nel trattare con giocatori di ogni tipo, glissò sull’atteggiamento di Sergej e proseguì con il suo “sproloquio”, come se nulla fosse.

«Non vorrei tediarvi a lungo con i soliti discorsi infiniti e filosofici. Sapete tutti quanto tenga a questa squadra, quanto vorrei mantenere alto l’onore di questo nome, che ormai da quasi cento anni fa parte del mondo dell’hockey. I Montréal Canadiens sono parte integrante della storia di questo sport, ma mi piacerebbe che questo non appartenesse solo al passato. Vorrei sinceramente che voi continuaste a scrivere quella storia, aggiungendovi quello per cui siamo tutti qui oggi. La gloria, la vittoria, i risultati...» si soffermò per un breve istante e, con un sospiro quasi sognante, sorrise, «... e perché no, anche una Stanley Cup[iii] che manca da Montréal da troppo tempo.»

Qualcuno dei presenti a quella dichiarazione annuì con veemenza, soprattutto tra quei giocatori più giovani che proprio non riuscivano a fare a meno di trattenere il fomento e l’entusiasmo dato dall’essere assieme ai componenti più importanti dei Canadiens, affamati com’erano di sogni, fama e discorsi motivanti come quello.
Cole sorrise di rimando a quell’innocente e genuino fervore che gli era a sua volta appartenuto quando era poco più di una matricola davanti a quel mondo di sfavillanti promesse. Un fervore che, in fondo al suo animo, ancora continuava ad alimentare il desiderio mai svanito di innalzare il premio più ambito.
Spostò poi lo sguardo sino a incontrare quelli altrettanto infervorati di Jayden e Kyle, che a stento si trattenevano dal mettersi a gridare, e quello calmo e sicuro dell’incrollabile capitano. Passò sull’espressione placidamente rilassata di Xavier, sul sorriso grintoso di Boris che lo affiancava, e su quello splendidamente genuino e solare di Sean, che sembrava sempre capace di trarre energia vitale dall’esaltazione delle persone.
Guardò a uno a uno i componenti di quella che davvero poteva definirsi una famiglia; compagni di quella che, per certi versi, poteva considerarsi una vera e propria scalata alla gloria. Un’unica nota stonata alla fine, l’elemento che si differenziava in modo netto dal resto, il gelo totale che pervadeva gli occhi di Sergej Nevskij.

«Non sarà facile» riprese poi all’improvviso il manager, e quelle parole lo riportarono alla realtà, facendolo scrollare e dissuadendolo ancora una volta dalla voglia di sbatacchiare il suo nuovo compagno. «Non lo è mai, ma, come ogni stagione, punto tutto su di voi. Sono certo che ve la saprete cavare. Ho piena fiducia nelle vostre capacità e so che non mi deluderete» si soffermò ancora una volta, allargando le braccia con un sospiro, e infine aggiunse: «Sono davvero fiero di voi, ragazzi. So che anche l’anno scorso ci avete messo il cuore, l’anima, la mente...»

«Le ossa» mormorò Jayden in un sussurro all’orecchio di Cole, ma tornò immediatamente al suo posto, immobile come un soldatino, quando si rese conto che Wayne lo stava fissando con un’aria che non prometteva nulla di buono.

«... e che avete combattuto a testa alta in ogni partita, facendovi onore...»

«Avrei giusto un paio di partite con cui contestare questo discorso. Tipo quella volta in cui...»

«Jayden» sibilò l’allenatore, in un tono decisamente poco amichevole, e lui tornò a tramutarsi in una perfetta statua di sale. Una versione anche migliore di quella offerta da Nevskij.

«Insomma, che dirvi di più, ragazzi? Ancora una volta sono felice di avervi in questa squadra. E sono ancora più orgoglioso di avere qui al mio fianco la leggenda dell’hockey, un uomo che, sono certo, saprà finalmente condurvi alla gloria che meritate.»

Terminato il suo discorso, il general manager annuì con convinzione per le sue stesse parole, lasciando stampata sulla faccia dei presenti un’espressione un po’ confusa, prima di voltarsi verso l’allenatore ed esortarlo a parlare.

«Wow» commentò Wayne, prendendo la parola con un po’ d’incertezza. «Marc, direi che Leonida dovrebbe venire a lezione da te, su come fare un’arringa alle truppe! Ma vi prego di trattenere i vostri spiriti battaglieri per qualche minuto, evitando magari di saltare sul bancone urlando 'Questa è Montréal'!»

A quelle parole, nella sala si levò un coro di risate, sovrastate dal disperato lamento di Kyle, che non si perdonava il non aver pensato prima a quella geniale citazione.
«Farò il più in fretta possibile» proseguì quindi il coach mentre si spegnevano gli ultimi accenni di risa, «perché so che state tutti scalpitando per andarvene, visto che vedrete questo posto abbastanza durante la stagione. Pertanto vi dirò solo che mi dispiace per voi, ma non l’avete scampata neanche quest’anno. Sarete di nuovo alle mie direttive e sono sicuro che qualcuno se ne pentirà. Soprattutto chi arriverà in ritardo

Pronunciò questa ultima frase volgendo lo sguardo a Jayden e Cole stesso che, resisi conto dell’attenzione rivolta a loro, si scambiarono occhiate fintamente sbalordite.

«Perché guarda noi, coach?» chiese con sguardo innocente Price.

«Infatti, non capisco questa insinuazione. Ero qua puntuale oggi… io!» continuò lui, il secondo chiamato in causa da quella poco amichevole occhiata.

«Se proprio devi mentire, abbi almeno un po’ di astuzia nel coprire le tue tracce, Cole» rispose, sospirando con esasperazione, Wayne. «Parcheggeresti il tuo prezioso catamarano in quel modo solo se si trattasse di una questione di vita o di morte!»

«Dannazione!» esclamò l’altro in risposta, tra le risate degli altri presenti, mentre Jayden cercava di consolarlo con una cameratesca pacca sulle spalle.

«Ad ogni modo» riprese suo fratello, tornando a rivolgersi anche al resto dei presenti, «concordo con Marc nel dire che non ho dubbi sul fatto che andrete tutti d’accordo. Anche perché, in caso contrario, so per certo che René apprezzerebbe una mano nel pulire gli spogliatoi dopo il vostro passaggio. Quindi, bando alle ciance, divertitevi stasera finché siete in tempo, perché ho in mente grandi progetti per voi. Grazie!» concluse infine, congedando i giocatori, che si espressero in una breve ovazione.

Ancora intento ad applaudire, Cole notò come a quelle parole Sergej avesse finalmente mostrato un’espressione diversa rispetto a quella mantenuta lungo tutto l’incontro. Sembrava quasi avesse un mostro alle calcagna per quanto in fretta si era staccato dal muro a cui si era appoggiato in precedenza, troppo svogliato persino per reggersi in piedi senza sostegno alcuno. Con un passo spedito, più simile a una vera e propria fuga, aveva poi raggiunto la metà della sala, quando una mano si era protesa ad afferrare il suo braccio, bloccandolo.

«Sergej, potresti restare un attimo? Vorrei scambiare due parole con te» gli si rivolse con un sorriso cordiale Wayne. «Sbrigo solo un paio di faccende con coloro che ci mettono i soldi per mandare avanti la baracca. Tra mezz’ora nel mio ufficio?»

Nell’udire quelle parole, Cole non riuscì a trattenere un sorriso sornione. Sapeva bene quanto quello sguardo amichevole da parte di suo fratello potesse invece nascondere molto di più.
La Supernova e le sue maniere avevano trovato pane per i loro denti.
E non gli sarebbe affatto piaciuto.


 
[i] “Linea” sta per “linea d’attacco”. Nell’Hockey, in base alle necessità durante le partite, alle strategie, ma soprattutto all’affiatamento dimostrato, i vari giocatori vengono divisi in quattro gruppi di tre componenti ciascuno, due ali e un centrale. Si formano così quattro linee: prima, seconda, terza e quarta, ovviamente in ordine di importanza per prestazioni e per la quantità di tempo in cui dovranno restare in campo. Generalmente, la prima linea è quella che ottiene più “ice-time”, ovvero più minuti da giocare dei sessanta totali, ed è generalmente composta dagli attaccanti migliori.
[ii] I prospect sono giocatori delle leghe junior o universitarie che vengono selezionati dalle squadre durante gli NHL Entry Drafts. Quando vengono selezionati, i loro diritti passano alla squadra che li ha scelti, anche se non necessariamente giocano per quel club immediatamente, in quanto possono essere comunque mandati in altre leghe o alla squadra AHL (American Hockey League) affiliata. In parole povere, sono quelli che probabilmente diventeranno futuri giocatori di quella squadra.
[iii] La “Stanley Cup” è il trofeo della NHL vinto ogni anno dalla squadra vincitrice dei playoffs. È uno dei trofei sportivi più ambiti, visto che particolarmente difficile da vincere data la struttura del campionato.
 
 





 

Ok, lo sappiamo.

A chiunque sia abbastanza coraggioso da seguire questa storia, dobbiamo già chiedere perdono per il ritardo che abbiamo avuto nel pubblicare questo secondo capitolo.

A nostra discolpa possiamo dire che avevamo preventivato di pubblicare un capitolo ogni due settimane, perché siamo abbastanza incasinate, e volevamo abbastanza tempo per fare tutto e sistemare e modificare giusto quelle settordici volte ogni singolo paragrafo. L’infinita dannazione di essere due petulanti puntigliose. 

Nonostante ciò però, abbiamo appurato che il Dio dell’Hockey probabilmente ci odia, perché esattamente un paio di giorni dopo la pubblicazione del primo capitolo una delle due ha ricevuto la definitiva conferma di aver trovato un lavoro, l’altra è stata gentilmente sommersa da altre consegne per l’università, come se non ci fossero già abbastanza impedimenti.

Ecco spiegato il perché di queste tre settimane d’attesa. Motivo per cui, ci teniamo fin da ora a specificare che gli aggiornamenti varieranno tra le due alle tre settimane.

Detto questo, siamo abbastanza dispiaciute se qualcuno di voi aveva avanzato speranze su una storia almeno seria. In realtà, era partita pressoché come tale, poi sono nati Cole e Jayden e… be’, ecco, come avete già potuto constatare da queste righe su di loro, non sono esattamente l’apoteosi della serietà. Diciamo pure che la loro missione principale è rovinare ogni momento di serietà, tranne sporadiche e disagiate occasioni. 

Almeno non vi verrà la depressione per colpa di quel concentrato di sociopatia che è Sergej!

Stupidaggini a parte, desolate di comunicarvi che i personaggi non sono finiti, perciò posteremo presto – sia qui, in qualche modo, che sul gruppo di Facebook: QUI  – una lista di personaggi, con caratteristiche e una loro mini descrizione, tanto per non farvi perdere ogni 3x2 su chi è imparentato con chi, chi gioca o giocava con chi e chi proviene da dove e blablabla…

Nel caso in cui ci sia tra voi qualche appassionato di hockey, credo che parecchi nomi risultino in qualche modo familiare. In effetti, questa storia è nata come una sorta di tributo. 

Grazie a chiunque ha avuto il coraggio di arrivare fin qui e non mollare a metà capitolo per colpa degli istinti omicidi verso il carciofo.

Sam e Sid 



 


 
 

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Capitolo 3
*** Family - Part 1 ***


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3rd Period. “Family – Part 1”
 
 
 
 
Il Bell Sports Complex era ripiombato nel silenzio da quando quelli che,  di lì in avanti sarebbero stati i compagni di squadra, se n’erano andati, lasciandolo finalmente solo e in pace, immerso nel placido vuoto di quell’edificio immenso.
Respirò a fondo, dando un’ultima occhiata veloce alla finestra che dava sul parcheggio e a quella decina d’insistenti giornalisti che ancora non si erano dati per vinti, e se ne restavano incollati alla loro postazione dietro ai cancelli.
Si appoggiò per un attimo con la testa al vetro, sbuffando per l'esasperazione, e chiuse gli occhi immaginando di essere al sicuro nel suo nuovo appartamento, all’ultimo piano di un palazzo che l’avrebbe tenuto lontano da occhi indiscreti e scocciatori vari. Avrebbe letteralmente pagato oro per la possibilità di teletrasportarsi là, in mezzo agli scatoloni che non aveva minimamente voglia di disfare, ma il suo nuovo allenatore aveva ben pensato che non fosse abbastanza, che dovesse ancora sopportare di essere messo sotto esame prima di poter correre alla sicurezza della sua solitudine. Solitudine che, per altro, presto sarebbe stata nuovamente interrotta dall’arrivo di Irina.
‘Tra mezz’ora nel mio ufficio’ gli aveva detto qualche minuto prima, bloccando la sua fuga. ‘Sbrigo solo un paio di faccende con coloro che ci mettono i soldi per mandare avanti la baracca.’
Non gli aveva neanche lasciato il tempo di replicare, probabilmente perché non c’era modo di dire “no” a Wayne Dryden. Per questo si era ritrovato in quel corridoio, ad aspettare che la sua riluttanza nel dover affrontare chissà quale conversazione si decidesse a placarsi e a lasciargli la speranza e la possibilità di chiudere velocemente anche con quella grana improvvisa e andarsene.
Gettò l’ennesima occhiata all’orologio e avanzò dentro di sé la preghiera che la faccenda si risolvesse in un paio di minuti al massimo; mosse dei passi fiacchi e bussò alla porta. Due tocchi morbidi, un po’ svogliati, probabilmente udibili dall’altra parte solo perché in quella stanza regnava un silenzio perfetto.
Un mugugno indistinto si fece udire oltre la soglia e interpretare come un invito a entrare. Abbassò quindi la maniglia così da poter aprire la propria visuale su una stanza piuttosto ampia, moderna e fredda, decisamente impersonale per un tipo come Wayne, che di personalità, invece, sembrava averne fin troppa.
 
«Cosa doveva dirmi, coach?» domandò immediatamente, senza frasi di circostanza in mezzo.
 
Wayne gli fece cenno di attendere mentre scrutava fin nell’ultima nota un documento che lo stava facendo corrucciare. Mangiucchiò per un po’ il cappuccio della semplice penna blu da due soldi – all’antipodo delle Mont Blanc che per contro amavano sfoggiare tutti gli altri – finché finalmente sollevò gli occhi cerulei su di lui e gli sorrise.
 
«Prego, accomodati» lo invitò, indicandogli una delle sedie, e Sergej a quel punto ebbe la certezza che quella chiacchierata si sarebbe protratta per un periodo più lungo di quanto fosse disposto a tollerare.
 
Sforzandosi comunque di nascondere l’insofferenza, prese posto sul morbido cuscino di pelle nera e attese in silenzio che Wayne iniziasse a parlare. Questo però non prese immediatamente la parola, continuando invece a fissarlo e a sorridergli in modo enigmatico. Sembrava perfettamente a suo agio, tranquillo come se fosse sul punto di disquisire sul tempo o di offrigli una tazza di tè, biscotti e, perché no, anche un’improbabile fetta di torta fatta con le sue mani. Pareva che la conversazione per cui l’aveva convocato non avesse alcuno scopo preciso, eppure Sergej sentiva di non potersi rilassare altrettanto. Era come se qualcosa, nascosta da qualche parte nel profondo, lo stesse mettendo all’erta.
 
«Allora» esordì infine con tutta la calma del mondo, andandosi ad appoggiare placidamente allo schienale della poltrona e congiungendo le mani sulla pancia, «davvero non immagini perché ti abbia convocato?»
 
«No» fu la sua risposta secca, a cui il bizzarro allenatore fece seguire un lieve guizzo delle sopracciglia, prima di appoggiare l’estremità della penna a picchiettare sulle labbra.
 
Wayne prese poi un lungo respiro e piegò la testa di lato, quasi volesse squadrarlo meglio da un’altra angolazione, per scovare qualche dettaglio che fino ad allora era riuscito a sfuggirgli. «Perché sei qui, in questa squadra, Sergej?»
 
«Per giocare, immagino.»
 
«Oh sì, certo. Quello mi pare più che ovvio» ridacchiò, prima di risistemarsi sulla poltrona. «Mi riferivo al perché, secondo una tua opinione, i Canadiens hanno scelto proprio te.»
 
«Non mi è dato sapere quali sono le vere motivazioni che li hanno portati a scegliermi. Posso solo immaginare che avessero bisogno di un attaccante.»
 
Le labbra sottili dell’allenatore si arricciarono nell’espressione di chi ha appena ricevuto una risposta non completamente soddisfacente. Per un attimo Sergej ebbe la sensazione di essere tornato tra i banchi di scuola, davanti a un professore metodico e puntiglioso che amava scavare per raccogliere significati nascosti tra le parole.
 
«Ne abbiamo di attaccanti e anche molto validi. Penso tu lo sappia» mormorò poi difatti, tornando a fissarlo con quello sguardo suddiviso tra lo scetticismo e l’aspettativa per chissà quale risposta da parte sua. Di nuovo si sentiva fastidiosamente sovrastato da un’immaginaria lente d’ingrandimento, sospesa proprio sopra la sua testa.
 
«Evidentemente non sono abbastanza» tentò allora, arrancando nel tentativo di comprendere cosa potessero cercare quegli occhi chiari nella sua faccia.
 
«No, infatti. Non lo sono, ma con questo non hai comunque risposto alla mia domanda.»
 
«Glielo dico con tutta sincerità: io non la capisco» ribatté Sergej, con una chiara nota di frustrato disappunto nella voce. Era già stanco di quel giochetto. «Ho firmato un contratto. Giocherò fino alla sua scadenza e a quel punto si vedrà. È questo ciò che sono chiamato a fare. Non so perché hanno scelto proprio me, ma l’hanno fatto. A me non serve sapere altro.»
 
L’altro restò in silenzio per qualche secondo ancora, immobile come una statua e senza mai interrompere quella sua irritante “radiografia”. Lo guardava come se, a poco a poco, stesse riuscendo a leggere i suoi pensieri da ogni suo più insignificante movimento. Sembrava pieno di strane consapevolezze, empio di un’incrollabile sicurezza che Sergej non avrebbe mai raggiunto, neanche tra un milione di anni.
Si sentiva a disagio come mai prima d’ora sotto quello sguardo pungente e acuto, molto più che davanti a decine di flash che lo accecavano e altrettanti microfoni che venivano spinti verso le sue labbra per captare anche il minimo suono, o intrappolato dal continuo e soffocante susseguirsi di domande.
Wayne Dryden a volte dava la sensazione di essere di un altro pianeta, di appartenere a una categoria decisamente distinta dalle altre e anni luce da quella delle persone comuni. Trovarsi davanti a lui era come raffrontarsi con un pezzo di storia: una pietra miliare dell’hockey e dello sport in generale. Lui apparteneva ai “grandi”, alle vere stelle del firmamento sportivo e, per quanto fosse consapevole del proprio smisurato talento, perfino uno come Sergej – perennemente freddo e composto, quanto letale su quella lastra di ghiaccio – riusciva a sentirsi inadeguato, imperfetto; uno sciocco ragazzino che pattina e considera quello sport come un passatempo.
Dinnanzi a quegli occhi limpidi e sicuri, perfino la “Supernova” non poteva far a meno di percepire un gusto amaro sulla lingua: il sapore acre e la sensazione di essere solo una nullità, un frammento minuscolo che brilla di luce fioca. Dinnanzi a Wayne Dryden e a tutta la leggenda che ruotava attorno a quel nome, Sergej si sentiva un perfetto nessuno e quasi impallidiva al pensiero di dover essere giudicato da quell’uomo, una delle poche persone al mondo per cui nutriva un certo rispetto e una buona dose di ammirazione.
Da un tempo lontano che neanche riusciva a ricordare, tornò ad avvertire sui propri palmi quella fastidiosa e umidiccia patina di sudore, e il cuore era risalito dalla sua consueta posizione fino alla gola, dove aveva preso a pulsare come un forsennato, così forte che avrebbe potuto giurare che l’allenatore potesse vederlo premere e sformargli la pelle all’altezza della giugulare.
Prese quindi un respiro profondo per calmarsi e ricomporre quella sua classica espressione d’indifferenza a cui aveva abituato il resto del mondo, e Wayne dovette interpretarlo come un sintomo d’impazienza e fastidio perché, dopo aver arricciato le labbra, chiaramente nell’intento di trattenere un sorriso, riprese a parlare: «I Canadiens avevano bisogno di potenziare la propria linea d’attacco, di trovare qualcuno adatto a pattinare assieme a Cole e Sean, ma mai, alla dirigenza, si sarebbero sognati di metterti sotto contratto. Sono stato io a fare pressioni perché ti offrissero un contratto e non è stata una cosa semplice. Ci sono riuscito solo minacciando di andarmene.»
 
Quelle parole lo lasciarono interdetto. Se prima era confuso, da quel momento ebbe perfino il dubbio di non aver compreso bene il vero significato di quelle affermazioni. In fondo l’inglese non era la sua lingua natia, quindi poteva capitare che qualche parola sfuggisse alla sua comprensione, ma era anche vero che erano anni che si esprimeva in russo solo in rare eccezioni, preferendogli sempre e per forza di cose quell’inglese un po’ strascicato che aveva assimilato nella capitale statunitense. Pertanto le possibilità che effettivamente le sue orecchie non avessero registrato bene il messaggio si riducevano drasticamente. In più l’altro, con la sua espressione velatamente divertita dal modo in cui si era irrigidito sulla poltrona, dava a intendere che no, non aveva affatto interpretato male quelle frasi.
 
«Be’, grazie, ma...» mormorò confuso, con la voce che gli era ritornata incerta, ridotta a un sussurro. Quella situazione gli sembrava ogni secondo più assurda.
 
«Non devi ringraziarmi» replicò nuovamente Wayne, sempre caratterizzato da quella sua espressione indecifrabile, e lui aggrottò la fronte.
 
«Continuo a non capire a dove dovrebbe portare questa conversazione.»
 
«Sempre allo stesso motivo, Sergej. Al perché sei qui.»
 
«Se la risposta ‘per giocare’ non è sufficiente, allora me lo dica lei. Ha detto che alla dirigenza non erano molto entusiasti della sua proposta. Perché allora ha insistito tanto, rischiando anche di perdere la carica?»
 
«Sono un tipo a cui piace scommettere. E scommettere pesante» affermò con una scrollata di spalle, come se quelle parole fossero state la chiave per chiarirgli tutto il resto. «A volte, per ottenere dei risultati, si deve essere disposti a rischiare, e a rischiare grosso. Ed è questo che credo che tu sia, Sergej. Un rischio, una scommessa, un enigma continuo. Nessuno sa mai quanto poter fare affidamento su di te. È come giocare una partita a poker e io so per certo che se potessi contare davvero sul tuo talento avrei il campionato in tasca. In tanti prima di me ci hanno provato a gestirti e non gli è andata particolarmente bene. Com’è che ti chiamano?» si soffermò per un attimo, accigliandosi nel tentare di ricordare, finché un sorriso soddisfatto spuntò sulle sue labbra. «Ah, sì! Il ‘Coach Killer’. Davvero carino.»
 
«Uno dei tanti nomignoli» ribatté caustico Sergej, e Wayne ridacchiò divertito.
 
«Ma ammetterai che è piuttosto azzeccato. Quanti ne hai fatti licenziare? Quanti allenatori hanno cambiato ai Capitals pur di trovare qualcuno che riuscisse a comunicare con te e non cederti per nulla al mondo? Li hai portati al delirio e alla resa, Sergej.»
 
«So come si sono svolte le cose in questi anni. C’ero anch’io» sibilò ormai spazientito da quelle poco velate accuse, «ma continuo a non capire perché mi sta dicendo tutto questo, e soprattutto, se sa che tipo di ‘rischio’ è avermi in squadra, se sa che questo potrebbe costarle il posto, perché ha insistito per avermi?»
 
«Perché non verrò tagliato fuori» gli rispose, ancora una volta esprimendosi come se la loro fosse la conversazione più comune del mondo. La naturalezza con cui Wayne gli teneva testa e riusciva a confonderlo lo mandavano in bestia. «Vedi, alla fine dello scorso campionato mi sono fatto una promessa. Voglio vincere almeno il campionato e voglio riportare a Montréal la Stanley Cup. ‘Nessuna scusa’, per me non è solo una scritta sopra la porta degli spogliatoi, ma una regola secondo cui vivere. Quindi se dovessi fallire me ne andrei comunque. Niente compromessi, o tutto o niente.»
 
Per l’ennesima volta lo lasciò senza parole, così come aveva fatto per tutto il tempo da quando aveva varcato la soglia di quell’ufficio. A quel che pareva, non era solo in grado di zittire folle intere di tifosi dentro gli stadi con le sue “magie” sul campo di gioco, era anche un osso duro nel trattare come allenatore.
 
«Che?» fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare in risposta, prima che l’altro arrivasse a interromperlo e a chiarirgli una volta per tutte il motivo della sua convocazione.
 
«Voglio vincere, Sergej. Per questo ti ho voluto in questa squadra. Perché per quanto rischioso sia, tu rappresenti la possibilità più concreta che ho di riuscirci. Ecco perché sei qui. Ed ecco perché ho bisogno di sapere se sei con me o no» chiarì deciso l’uomo, per poi rivolgergli un ghigno furbo, quasi di sfida. «A ‘giocare a hockey’ sono buoni tutti. Figuriamoci, da queste parti i bambini imparano a pattinare ancora prima di camminare. Vincere è un’altra cosa. Sei qui per aiutarmi a vincere.»
 
«Credevo fosse scontato.»
 
«No. Non lo è. Non con te» replicò allora schietto, prima di prendersi un lungo e profondo respiro. «Ti ho osservato in questi anni e mi sono sempre chiesto perché un talento come il tuo si perda dietro a stronzate come un gioco egoista, duro, falloso, ingestibile, a volte perfino pigro. Sembra quasi che tu voglia essere in qualunque altro posto meno che sul campo.»
 
«E si è dato una risposta?»
 
«Vorrei fossi tu a darmela.»
 
«È il mio modo di giocare» mormorò Sergej, scrollando le spalle e Wayne si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito.
 
«Balle. Ti ho visto sul campo anche prima del tuo arrivo alla NHL.»
 
«Le persone cambiano.»
 
«Senti, non pretendo di sapere quali motivi ti abbiano trasformato nel cazzone intrattabile e viziato quale sei, ma mi aspetto che tu faccia qualcosa per questa squadra. Qualcosa di concreto
 
«Lei vuole vincere, no? Be’, anch’io. Quindi siamo d’accordo» fu la risposta secca di Sergej, affiancata a una semplice scrollata di spalle.
 
Wayne restò a squadrarlo in silenzio per qualche secondo, con le labbra piegate ancora in uno strano sorrisetto, quasi non riuscisse neanche a trattenere la voglia di sondare le proprie aspettative e metterlo alla prova. Gli fece poi un cenno d’assenso con la testa e finalmente lo congedò a suo modo: «Ci vediamo domattina in palestra. Vedremo se sei davvero una stella o solo un’altra meteora.»
 
 
******
 
 
Non sapeva spiegarsi razionalmente il perché, ma quella presentazione ufficiosa aveva lasciato un vago senso d’inquietudine ad aleggiare nella sua mente, e a Sean tutto ciò non piaceva affatto. Nemmeno la mezz’ora passata a bordo della sua auto, guidando tra il traffico cittadino era riuscita a calmarlo. In squadra tutti sapevano di come lui fosse il primo a risentire degli squilibri interni, ma arrivare addirittura a essere sconvolto per un misero incontro informale gli sembrava un tantino esagerato. Aveva provato in tutti i modi a rilassarsi, sfoderando anche il suo segreto asso nella manica: ascoltare “Princes of the Universe” a tutto volume cercando di tenere il passo con gli acuti di Freddie Mercury, ma nulla aveva funzionato. Nella sua mente continuavano a riproporsi incessantemente le immagini del pomeriggio: il nervosismo che Jan cercava di nascondere dal resto dei compagni, l’imbarazzo di Richard, persino il fallimento della fenomenale parlantina di Cole. Quegli occhi spenti e glaciali continuavano a balenare nei suoi pensieri, accompagnati dall’espressione a metà tra l’annoiato e lo scontroso, che indicava chiaramente come Nevskij avrebbe preferito essere da qualsiasi altra parte del mondo piuttosto che nel centro sportivo, e questo, di certo, non era di buon auspicio per la stagione che sarebbe iniziata di lì a breve.
Immerso com’era tra i pensieri, a malapena si accorse di aver raggiunto il suo condominio quando, aspettando che si aprisse la porta che conduceva ai garage, un insistente bussare sul suo finestrino lo fece sobbalzare. Voltandosi si trovò davanti la Signora Adeland, simpatica vecchina proprietaria dell’appartamento sopra al suo. Una persona adorabile, se non fosse stato per il suo non altrettanto adorabile pinscher nano il cui scopo primario nella vita sembrava essere quello di abbaiare il più forte possibile ogni qualvolta lo vedesse. Difatti anche in quella occasione, come da manuale, il piccolo Tommy cominciò a sfoggiare la sua capacità polmonare, incurante dei vani tentativi della padrona di farlo tacere.
 
«Mi dispiace, caro» si scusò con un’espressione desolata la Signora Adeland. «Non capisco perché faccia così, di solito è un cucciolo così adorabile!»
 
«Non si preoccupi» la rassicurò Sean, mentre abbassava il finestrino. «Ormai sono abituato, e poi non mi da’ fastidio. Le ricordo che con cinque fratelli, il livello di rumore è circa lo stesso» scherzò.
 
«Che caro ragazzo che sei» lo elogiò lei, guardandolo con lo stesso amorevole sguardo che rivolgeva ai suoi nipotini. «Ad ogni modo, volevo solo augurarti buona fortuna per l’inizio della stagione.»
 
«Grazie» rispose l’altro dopo un momento di esitazione. «Non la facevo un’appassionata di hockey» disse poi, dando voce ai suoi dubbi.
 
«Infatti non lo sono» ridacchiò la donna mentre si opponeva a Tommy che continuava a tirare il guinzaglio, decisamente scontento per il contrattempo che si era frapposto tra lui e la sua passeggiata serale. «Sai com’è, a forza di sentir mio marito urlare dietro ai commentatori sportivi ho imparato qualcosa anch’io!»
 
Sean rise, immaginandosi la scena che si svolgeva ogni sera nel salotto di casa Adeland, e sentì finalmente quel senso di oppressione allentarsi.
 
«Purtroppo il toronter che è in lui si ostina a non voler sparire, nonostante gli anni ormai trascorsi qui. Sarà un mese che mugugna qualcosa su un fuoriclasse che avete rubato ai suoi amati Leafs» riprese la donna, mantenendo la gioviale espressione che la contraddistingueva.
 
Con quell’allusione però, la Signora Adeland aveva inconsapevolmente riportato a galla quell’inquietudine che era riuscito con fatica ad accantonare, facendola riemergere con forza
«Ho detto qualcosa di sbagliato, caro?» gli domandò quindi preoccupata la donna, quando probabilmente si rese conto del suo turbamento.
 
«No, Signora, si figuri» cercò di rassicurarla Sean con scarsi risultati. «Vorrei poter rassicurare il Signor Adeland, ma se mio padre mi sentisse dire qualcosa di positivo sui Leafs mi diserederebbe all’istante! Ora, mi scusi, ma devo proprio scappare. Buona passeggiata!» si congedò, e mentre la donna si allontanava, rialzò il finestrino e imboccò la porta del suo garage, pregando perché quel costante brutto presentimento non fosse altro che una sciocca paranoia, e che il delicato equilibrio della squadra, faticosamente conquistato negli anni, non sarebbe stato messo a repentaglio da un unico giocatore viziato.
 
Una volta sceso dalla macchina, si avviò in ascensore verso il suo appartamento, tastando le tasche alla ricerca delle chiavi. Aprì il portone di legno scuro, ed entrò nel salotto, togliendosi le scarpe e riponendole ordinatamente sotto il mobile all’entrata. Era un’abitudine che aveva fin da bambino, e che probabilmente non avrebbe perso mai. Anche se abitava da solo ormai da qualche anno, se lasciava le cose in disordine percepiva uno strano formicolio alla nuca, lo stesso che avvertiva quando sua madre lo sorprendeva a fare qualche marachella da bambino e restava a osservarlo in silenzio, aspettando il momento migliore per rendere nota la sua presenza e sgridarlo a dovere.
Entrò quindi in cucina, dove si diresse immediatamente verso il frigo e afferrò una bottiglietta d’acqua. Cominciò a sorseggiarla mentre con scarsa attenzione controllava i messaggi e le notifiche ricevute mentre stava guidando, ridendo per l’ennesima idiozia postata da Jay su qualche social network. Una volta finito di leggere, si diresse verso la sua camera e si lanciò a peso morto sul letto, beandosi del profumo di bucato che emanava la leggera coperta bianca e nera. Ma di nuovo si ritrovò nuovamente a riesaminare i particolari del pomeriggio.
Sean era sempre stato caratterizzato da un’empatia fuori dal comune, e aveva la notevole abilità di inquadrare subito le persone, riuscendo a intuirne l’indole e il carattere fin dal primo sguardo. Eppure quel russo aveva qualcosa che gli sfuggiva. Di certo la sua passione per l’hockey doveva essere quantomeno pari a quella di Sean e compagni, altrimenti non si sarebbero potuti spiegare i risultati ottenuti fino a quel momento. In fondo conosceva bene i sacrifici necessari per riuscire a raggiungere i propri sogni e obiettivi. Allo stesso modo però, il suo atteggiamento pigro e svogliato sembrava indicare tutt’altro, e Sean non riusciva a comprendere in alcun modo questa estrema discordanza.
Non potendo smettere di arrovellarsi sul quel “dilemma di un metro e ottantotto” che, a quel che pareva, non aveva la minima intenzione di abbandonare la sua mente, Sean sbatté nervosamente la testa contro il materasso. Si voltò stizzito verso la vetrata che occupava buona parte della parete, sperando di trovare un po’ di pace in quel cielo terso di fine agosto, e si fermò a osservare come quella leggera brezza estiva smuoveva pigramente le chiome degli alberi che ombreggiavano uno dei tanti parchi del quartiere, e come i bambini, che si divertivano a rincorrersi sotto gli sguardi attenti delle madri, fossero incredibilmente silenziosi da quell’altezza.
Le sue riflessioni furono però interrotte da una vibrazione del cellulare. Un messaggio lampeggiava sullo schermo, informandolo che anche un solo minuto di ritardo sarebbe stato severamente punito con il lasciarlo a stomaco vuoto. Alla vista della minaccia, si rialzò di scatto e cominciò a rovistare nell’armadio. Si cambiò al volo, sostituendo la camicia per una maglietta a maniche corte e scese le scale. Appena messo piede fuori dal portone sentì la sua mente cominciare a liberarsi ad ogni passo, concentrandosi solo sull’aria che gli scompigliava i capelli e il battito cardiaco che, risuonando nelle orecchie, andava a fondersi con le note di “Politik”. Non aveva bisogno di prestare attenzione al percorso; i suoi piedi avevano percorso quella strada talmente tante volte che avrebbe potuto percorrerla anche ad occhi chiusi. Si rilassò dunque, lasciandosi guidare solo dal suo istinto, fino a raggiungere una villetta grigia a due piani dal tetto scuro, con un’altalena appesa all’albero e un paio di macchine parcheggiate nel vialetto.
 
«Ehi, Bellosguardo!» interruppe il filo dei suoi pensieri una voce scherzosa.
 
«Ti hanno incollato le scarpe al marciapiede?» proseguì un’altra, simile sia nel timbro che nel tono canzonatorio.
 
Sean staccò finalmente gli occhi dall’ordinato portico illuminato da una vecchia lanterna posta sopra la porta, posandoli senza la minima esitazione sull’acero che troneggiava nel giardino anteriore di quella che era la casa dei suoi genitori, nonché quella in cui aveva trascorso gran parte della sua vita.
 
«Vedo che non avete ancora perso il vizio di arrampicarvi dappertutto, scimmie che non siete altro» rispose a tono il ragazzo, adocchiando le due testoline rosse che spiccavano tra le foglie.
 
«Alex, lo stalking è ancora reato?» domandò uno, ignorando bellamente il fratello maggiore.
 
«Non so, Brendan, però possiamo sempre chiamare la polizia dicendo che un tizio dall’aria sospetta si è fermato davanti a casa nostra» rispose l’altro, sorridendo complice al suo gemello.
 
«Be’, allora non credo sia una cosa saggia andare a vedere ogni partita del suddetto tizio per otto mesi all’anno, no?» replicò Sean, mentre un sorrisetto andava a imprimersi sul suo volto, convinto di averli presi nel sacco almeno una volta.
 
«Ecco, se la metti così…» tentennò Brendan.
 
«Riunione!» lo interruppe prontamente Alex, non volendo darla vinta al fratello maggiore con troppa facilità.
 
I due gemelli si arrampicarono sul ramo più in alto e presero a confabulare. Le mediazioni durarono per qualche minuto e si conclusero con una stretta di mano tra i due bambini, che si guardarono annuendo con fare solenne. Scesero più in basso, trattenendosi sull’ultimo ramo in modo da restare comunque più in alto del fratello maggiore, come se questo potesse farli sembrare imponenti.
 
«Abbiamo deciso che per questa volta saremo gentili» affermò con tono autoritario Alex. «Accetteremo la tua offerta per i biglietti e non chiameremo la polizia.»
 
«Ma in cambio del nostro silenzio» proseguì Brandan, dondolandosi dal ramo, appeso ormai solo per una mano, «scambierai la tua parte di salsicce del barbecue di stasera con le nostre verdure!» terminò poi con un sorrisino soddisfatto, la cui fotocopia era già stampata sul volto del gemello.
 
«Non ci sperare neanche, moccioso!» ringhiò scherzosamente Sean. «E già che ci sei, comincia a scappare!»
 
Il ragazzo non fece nemmeno in tempo a sollevare un piede da terra, che Brendan aveva già preso lo slancio, si era staccato dal ramo e aveva cominciato a correre come un fulmine, per poi andare a sbattere rovinosamente contro la madre che era appena spuntata da dietro l’angolo.
 
«Credo di aver sentito male» pronunciò con un lieve tono minaccioso la signora Weiss. «Mi pare di aver inteso che qualcuno qui stia cercando di mettere su uno scambio illegale, e sapete cosa succede a chi non rispetta la regola delle verdure.»
 
Il sorriso si congelò sulle labbra del bambino, mentre il suo sguardo vagava rapido per il giardino cercando la più efficace via di fuga.
 
«È stato Brendan!» urlò prontamente Alex, calandosi di fretta dall’albero. «Sai che io sono bravo!» E cercò di sfoggiare l’espressione più angelica di cui era capace, mentre gli occhi del gemello lanciavano saette nella sua direzione.
 
«Certo che lo so, tesoro» replicò la signora Weiss. «E so anche che non mi mentiresti mai, ad esempio, per nascondermi il fatto che quel buco nel tuo sorriso viene da una caduta dopo aver mostrato il tuo equilibrio in bici mentre guidavi senza mani.»
 
Nel sentire quelle accuse, Alex chiuse immediatamente le labbra, come a voler far sparire la prova delle sue fallite prodezze da equilibrista.
 
«Ora filate a mettere nel capanno la vostra roba, che sono già inciampata tre volte nella vostra rete da hockey in cortile» ordinò la donna con fare autoritario.
 
Le due identiche teste rosse si avviarono verso il retro della casa, cercando di rendersi, per quanto possibile, invisibili.
 
«Sei un traditore!» bisbigliò arrabbiato Brendan rivolto al fratello una volta che la madre gli aveva voltato le spalle.
 
«Sai che non ti avrei mai abbandonato! Volevo solo testare il nostro piano di fuga dalla lavanderia» tentò di rassicurarlo il gemello, «ma è troppo tempo che mamma non ci manda in punizione lì, e qualcuno doveva sacrificarsi. Sai che sarei venuto a liberarti.»
 
I tentativi di Alex di spiegare la sua geniale strategia però, ebbero come unico risultato uno spintone da parte di Brendan e una risata di Sean, colpito dall’inattaccabile logica del fratello minore, a differenza di sua madre che, ormai fin troppo avvezza ad avere a che fare con quelle due pesti, si limitò a sollevare gli occhi al cielo esasperata, per poi avvicinarlo.
 
«Ciao, tesoro» lo salutò con un caloroso abbraccio, studiandolo con quell’attenzione tipicamente materna che riusciva a creare un senso di protezione e farlo sentire sotto esame allo stesso momento. «Non sarà il caso di andare a tagliarti i capelli?» lo riprese qualche secondo dopo, mentre con una mano cercava di domare il ciuffo scuro che si ostinava a ribellarsi a qualsiasi legge di gravità.
 
«Mamma, dopo ventiquattro anni ancora ti ostini a cercare di pettinarlo?» Sean si voltò verso Eric, suo fratello maggiore, che con il suo tempestivo intervento l’aveva prontamente salvato dalla radiografia che la loro madre gli riservava ogni volta in cui riusciva a trovare anche solo qualche minuto per vederlo. «E poi tanto lo sappiamo che è solo una strategia per far cadere chiunque ai suoi piedi» aggiunse poi con un sorriso sornione.
 
«Non tutti hanno la fortuna di sposarsi con la fidanzatina del liceo, quindi dovrò pure usare le mie armi, no?» rispose a tono, guadagnandosi una buffa linguaccia da quel fratello, ormai trentenne, sposato e persino padre, che non era mai riuscito ad abbandonare del tutto il ragazzino infantile che ancora risiedeva dentro di lui e che ogni tanto prendeva il sopravvento. Soprattutto quando Sean era nei paraggi.
 
Scosse quindi la testa esasperato e, circondando le spalle di sua madre in modo affettuoso con un braccio, raggiunse il giardino sul retro, dove sul patio già troneggiava un lungo tavolo addobbato da una tovaglia a quadri e varie candele che, nascoste dentro a bicchieri di vetro colorato, creavano giochi di luce che andavano a riflettersi sul muro e sugli alberi circostanti. Uno di questi, in particolare, colpiva il seggiolone dove, con la scusa di seguire quel fascio luminoso, il piccolo Dylan pasticciava con l’omogeneizzato che aveva davanti.
 
«Eric, vieni qua e combattici tu con tuo figlio!» esclamò Laura appena si accorse dell’arrivo dei due fratelli.
 
«Una cena che va storta e il figlio diventa automaticamente solo mio. Ah, le meraviglie della genetica!»
 
Sean ridacchiò alla vista del battibecco che si ripeteva tra suo fratello e sua moglie quasi a ogni pasto, invidiando per un attimo la complicità che i due dimostravano in qualsiasi circostanza, e che sottolineava il senso di completezza che l’uno traeva dall’altra.
 
«Tranquilla, Laura. Se non ti dispiace ci penso io alla piccola peste» si offrì volontario, cercando di sollevargli un po’ di responsabilità, sapendo quanto entrambi fossero impegnati da quando alla loro vita si era aggiunta quella piccola peste che rispondeva al nome di Dylan.
 
«Dispiacerci? Tutto tuo il pargolo!» rispose prontamente Eric. «Tesoro, scappiamo prima che venga sommerso di omogeneizzato e si renda conto del colossale errore che ha fatto» aggiunse poi, mentre schivava uno scappellotto che Laura aveva cercato di rifilargli.
 
«Grazie, Sean, tu sì che sei un tesoro. Sono sempre più convinta di aver sposato il fratello sbagliato.»
 
Sean lasciò la coppia a battibeccare e prese il posto di Laura accanto al seggiolone. Appena si accorse della presenza dello zio, Dylan si decise a dimostrare tutta la gioia per il suo arrivo lanciando il cucchiaio di plastica per terra e tendendo le manine paffute verso di lui, cercando di fargli capire quanto fosse stanco di stare seduto e di voler essere preso in braccio. Sean ignorò però la sua supplica, limitandosi a dargli un bacio sulla testa e a recuperare una posata pulita dalla tavola, prima di armarsi di coraggio e imbarcarsi nell’impresa di dar da mangiare al bambino.
Fin dai primi mesi, nutrire Dylan si era dimostrata una battaglia persa in partenza, quando anche il solo avvicinarlo con un piatto sembrava impossibile. Quella repulsione per il cibo aveva fatto più volte dubitare a Eric la sua effettiva paternità: non c’erano molti modi per cui potesse spiegarsi come quel cosino adorabilmente disastroso e schizzinoso potesse essere un risultato dei suoi geni. Proprio lui poi, per cui l’unico modo per farlo smettere di mangiare, era quello drastico di sigillare il frigorifero e chiudere a chiave gli armadietti della dispensa.
 
«Bene, a noi due, peste!» affermò Sean, mentre armato di pazienza e determinazione affondava il cucchiaio nella pappa.
 
Dylan sembrò raccogliere la sfida e rispose con un gorgoglio allegro. La sua espressione però mutò quando vide il cucchiaio avvicinarsi, e lottò con tutte le sue forze per mantenere la bocca serrata. Al quinto tentativo, miseramente fallito come tutti quelli precedenti, Sean si trovò a dover sfoderare l’unica arma che avesse qualche probabilità di successo. Fece con lo sguardo una rapida ricognizione del giardino, assicurandosi che non ci fossero testimoni, e impugnò il cucchiaio per farlo volare intorno al viso di Dylan imitando il rumore di un aereo.
 
«Desiderio di paternità insoddisfatto?» rise una voce proveniente dalla porta.
 
«Chiedimelo appena avrò finito di combattere con lui, Rachel» rispose Sean, rivolto alla sorella.
 
«Accondiscendente come al solito, vedo» commentò allora lei, uscendo sul patio e riferendosi a quel minuscolo e cocciuto bambino che sgambettava senza sosta e non sembrava potersi stancare mai.
 
«Diciamo che di tutte le qualità che poteva ereditare, ha optato per la testardaggine di Eric.»
 
Rachel rise nuovamente, sistemandosi i capelli che la leggera brezza estiva si ostinava a scompigliare.
 
«Come stai?» chiese Sean, mentre riprendeva la lotta.
 
«Zitella come sempre e il mio capo al lavoro è il solito schiavista.»
 
«Tutto nella norma, quindi.»
 
«Sai che sono tradizionalista» rispose lei, annuendo convinta. «E tu?»
 
«Tradizionalista anche io.»
 
«Hockey, hockey e ancora hockey, quindi.»
 
«Non avrei potuto descriverlo meglio» ridacchiò lui. «Dov’è Sarah?» chiese poi, informandosi sull’altra sorella.
 
«A Ottawa per lavoro. O almeno questo è quello che ha detto alla mamma. Io sospetto sia solo con qualche nuovo fidanzato che non vuole presentare a casa per paura di papà» rispose con fare complice Rachel.
 
I due scoppiarono a ridere, ripensando a tutti i vari fidanzatini che erano stati presentati a casa e di cui la metà erano fuggiti a gambe levate dopo il primo incontro con Jackson Weiss. Non che suo padre fosse particolarmente scorbutico, solo che aveva degli standard molto elevati quando si trattava delle sue principesse, e lo rendeva decisamente chiaro agli occhi degli sventurati spasimanti.
Impegnati com’erano nel ricordare alcuni aneddoti, non si resero conto di come le loro risa avessero contagiato anche il piccolo Dylan, che, agitandosi entusiasta sul seggiolone, finì per scaraventare il piatto in aria, ponendo così fine alla sua cena.
Alla vista del disastro, una sconsolata Laura andò a recuperare suo figlio per portarlo in bagno e cercare di ripulirlo dalle innumerevoli macchie giallognole che ricoprivano interamente lui e la tutina, mentre sua suocera faceva nuovamente la sua trionfale comparsa sul portico, portando con sé una ciotola contenente una quantità di insalata che avrebbe potuto sfamare metà del quartiere, e annunciando finalmente che il momento della cena era arrivato.
 
«Eric, vai a chiamare tuo padre. Sean, porta qua l’arrosto, e, Rachel, recupera i gemelli» ordinò con tono perentorio Annemarie, assumendo il ruolo di comandante del suo personalissimo battaglione.
 
«Agli ordini, generale» commentò invece sottovoce Eric, scatenando l’ilarità dei fratelli.
 
Se c’era una cosa che Sean ricordava fin da bambino, era il senso di armonia che caratterizzava la sua famiglia. Non era facile essere in così tanti sotto lo stesso tetto, e in molti erano stati scettici della scelta di Jackson e Annemarie di voler formare una famiglia così numerosa, soprattutto per due ragazzi così giovani. Eppure nonostante le malelingue, i due erano riusciti a destreggiarsi egregiamente tra poppate, battibecchi e impegni scolastici e non, anche se l’impresa si era rivelata alquanto ardua, soprattutto avendo avuto ben quattro figli in sei anni. Più che una famiglia, la loro poteva definirsi un orologio svizzero dagli ingranaggi ben oliati: ogni giorno incastrare tutte le attività era una sfida a cui i due rispondevano con massicce dosi di caffeina e una discreta quantità di pace zen. I ragazzi Weiss sapevano di avere delle regole, e crescere in una famiglia così numerosa gli aveva insegnato il rispetto per queste, senza però cancellare il loro innato entusiasmo e la loro naturale esuberanza.
I due coniugi pensavano ormai di aver raggiunto una stabilità, quando uno scossone era arrivato a rimettere tutto in discussione. Per la precisione i terremoti erano due, e rispondevano al nome di Alex e Brendan. Fu così che, ben quindici anni dopo, i gemelli andarono ad aggiungersi a quel variopinto e decisamente rumoroso quadro che era la famiglia Weiss. Come se non bastassero già sei figli poi, la grande casa bianca in fondo alla strada era diventata il raduno di gran parte dei bambini del quartiere, che facevano la spola tra il giardino e il parco di fronte.
Annemarie, spesso rideva e ci scherzava su, asserendo che, delle famiglie delle pubblicità, loro al massimo avevano la staccionata bianca, considerando il disordine e rumore che al loro numero civico sembrava farla da padrone, ma in molti avrebbero potuto contraddirla. L’atmosfera che permeava in quella casa era unica, e non solo per la sua famiglia. Sembrava come se il giardino fosse circondato da un’aura di armonia e buonumore. Chiunque avesse avuto una giornata storta sapeva di poter contare su qualche membro di quella scanzonata tribù per venir rassicurato e per farsi risollevare il morale.
Ed era esattamente di questo che aveva bisogno Sean: un luogo dove potersi lasciare alle spalle tutti i pensieri e le preoccupazioni che lo stavano tormentando dalla mattina. La serenità di quella cena e la vicinanza con le persone a lui più care aveva avuto un effetto calmante su di lui, cancellando i suoi tormenti come avrebbe fatto un’onda lunga con le scritte lasciate dai bambini sul bagnasciuga.
 
La sera era ormai calata, e i lampioni lungo la strada erano accesi già da tempo quando i Weiss terminarono la loro cena. I gemelli erano sgattaiolati via a combinare qualche disastro e Dylan dormiva da qualche ora nella sua culla in cucina, mentre gli altri componenti della famiglia si godevano la leggera brezza che aveva soffiato per tutta la sera. Le tre donne si erano spostate sul grande dondolo, approfittando della morbidezza dei grandi cuscini blu a righe bianche, e commentavano gli ultimi eventi. Eric e Sean, invece, erano impegnati nel dimostrare la maturità e la saggezza acquisita in rispettivamente trenta e ventiquattro anni di età: numerosi innocenti tovaglioli erano stati sacrificati nella creazione di un arsenale di palline di carta che venivano lanciate in direzione del bicchiere più lontano, cercando di centrarne l’apertura.
 
«Non credete di essere un po’ grandi per questo gioco?» li appuntò con tono severo il padre.
«Mmm… forse» rispose senza porre troppa attenzione alla domanda Eric, mentre con la testa appoggiata al tavolo e con un occhio socchiuso cercava di determinare l’angolo di tiro migliore. Con uno schiocco di dita lanciò la pallina, che mancò di gran lunga il bersaglio.
 
«Bel tiro!» lo sfotté Sean.
 
«Tranquillo, moccioso. Era tutto calcolato!»
 
«Ragazzi, basta» intervenne di nuovo Jackson, alzandosi dalla sua sedia. «Fate per favore spazio al vero campione» disse poi, infilandosi tra i due figli, mentre dal dondolo si sollevava un sospiro di rassegnazione da parte di Annemarie.
 
I partecipanti ignorarono totalmente quell’invocazione di intervento divino e proseguirono imperterriti in quella loro sfida, a cui presto decisero di aumentare difficoltà e spettacolarità, tentando canestri improbabili; dando vita a lanci a occhi chiusi, voltati di spalle e in equilibrio su una gamba sola, tutto fino all’arrivo di una testa riccia e decisamente scompigliata, che apparve al di là della staccionata.
 
«Ciao, famiglia!» urlò questo con voce squillante, facendo voltare tutti.
 
«Ma sei sempre qui? Non hai una casa? Una famiglia? Un frigo?» domandò Sean con finto rimprovero.
 
«Risponderò a tutte e tre le tue domande: , ma ormai ho fatto la strada ed è un peccato tornare indietro, , ma sono noiosi e ancora , ma il vostro è più fornito. E poi quella santa donna di tua madre ha capito che la parola ̔biscotto’ in realtà significa ̔cioccolato e burro’, non ̔cartone camuffato’ come si ostina a credere quella salutista di mia madre!» rispose l’altro ragazzo che rispondeva al nome di Étienne.
 
Dei frequentatori di casa Weiss, lui era sicuramente il più assiduo. Ets era diventato una presenza fissa in quella casa da svariati anni, appropriandosi a tutti gli effetti del titolo di figlio adottivo.
Il tutto era cominciato quando a quattro anni, lui e Sean avevano commesso il gravissimo crimine di bucare accidentalmente la palla di un gruppo di bambini più grandi. Nel momento dello scontro, Étienne si era frapposto tra Sean e gli altri nel tentativo di proteggerlo. Atteggiamento molto coraggioso da parte sua, soprattutto considerando il fatto che non fosse neanche grande la metà degli avversari. La guerra si era poi risolta con una fuga a gambe levate e il loro rifugiarsi nel giardino di casa Weiss, e con la creazione di un legame che si era dimostrato incorruttibile nonostante gli anni trascorsi.
Ets poi, aveva da sempre vantato una personalissima adorazione nei confronti di Annemarie, e Sean per questo spesso sospettava che venisse a trovarlo più per i dolci di sua madre che per la sua compagnia. E quella sera non era di certo un’eccezione. Il ragazzo, difatti, a dimostrazione delle sue teorie, entrò superando il cancelletto di legno e si diresse subito dalla donna per abbracciarla.
 
«Ciao, Annemarie» salutò calorosamente Ets. «Meno male che almeno tu sei contenta di vedermi. Non come quello scellerato di figlio che hai» aggiunse poi, rivolgendogli una smorfia.
 
«C’è rimasto un pezzo di torta di mele sul bancone» rispose lei, senza farsi abbindolare.
 
«Sei sempre la migliore. Vedi perché ti voglio bene?» replicò il ragazzo schioccandole un sonoro bacio sulla guancia prima di dirigersi verso la cucina. Tornò qualche istante dopo con un piatto che conteneva una porzione equivalente a circa un terzo di torta, e non attese nemmeno di sedersi per infilarsi la prima forchettata in bocca.
 
«Galateo, questo sconosciuto» lo rimbeccò Sean.
 
«Disse il principino» rispose l’altro dopo aver deglutito.
 
«Su, ragazzi, non litigate» intervenne Annemarie cercando di fare da paciere. «Io vado a lavare i piatti. Volontari sono ben accetti» aggiunse poi avviandosi verso la cucina.
 
I due ragazzi si guardarono negli occhi, cercando di trovare una scusa plausibile per liberarsi dell’impegno, e scoppiando inevitabilmente a ridere.
 
«Va bene, vado io, bestie che non siete altro» sospirò Rachel, alzandosi, ed Étienne le mandò un bacio volante, a cui lei però rispose solamente fulminandolo con lo sguardo.
 
«Penso di dover affinare le mie tecniche di arruffianamento con tua sorella» affermò diretto a Sean.
 
«Lo penso anch’io.»
 
«Ad ogni modo, pronto per stasera? Ho grandi piani per noi» replicò con fare convinto, enfatizzando il concetto inforchettando un altro pezzo di torta.
 
«Non posso fare tardi, domani ho l’allenamento»
 
«Uh che barba, è vero che comincia il preseason» sospirò Ets. «Nessuna chance che tu decida di tornare a essere divertente e farti retrocedere nelle giovanili, così da poter far baldoria con me?» aggiunse mentre con espressione supplichevole cercava di smuoverlo a pietà.
 
«Nemmeno una» sentenziò prontamente.
 
La menzione al campionato e alla squadra diede nuova forza alle sue preoccupazioni, che bucarono quella coperta di serenità che era riuscito a far calare da quando era arrivato a casa. L’altalena emozionale che aveva caratterizzato la sua intera giornata si era ripresentata, e la cosa non passò inosservata.
 
«Ehi, cos’è quel muso lungo?» domando Étienne mentre con sguardo attento lo scrutava. «Mmm... probabilmente hai solo bisogno di una buona e sana sco...»
 
Un sonoro scappellotto da parte di Sean impedì a Ets di portare a termine la frase, ma non senza aver scatenato la curiosità dei gemelli, che erano riapparsi in cortile da qualche istante e gli si erano avvicinati.
 
«Di cos’è che hai bisogno, Sean?» chiese tempestivo Brendan.
 
«Guarda che se è dentro casa, io non mi alzo a prenderla, eh!» aggiunse pragmatico Alex.
 
«Tranquilli, ragazzi, niente» li tranquillizzò Sean. «Ets, sei un cretino!» aggiunse poi, fulminando con lo sguardo l’amico.
 
«Ehi, io sto solo cercando di farli crescere con meno paturnie del loro fratello, e non mi riferisco a Eric!»
 
Sean alzò gli occhi al cielo, chiedendo l’intercessione di qualcuno ai piani alti affinché ricevesse la pazienza necessaria a non strangolare il suo migliore amico. «Mia madre avrebbe dovuto impegnarsi di più nell’insegnarmi a non frequentare cattive compagnie.»
 
«Su, stasera usciamo, così la pianti di rimuginare sul dramma del giorno, qualunque esso sia» replicò l’altro, palesemente ignorando il suo commento. «Gel finito al supermercato o indecisione su quale gusto di Gatorade portare domani all’allenamento? Sono incerto su quale tra questi sia il tuo dilemma attuale» aggiunse poi, tamburellando con l’indice sul mento con fare pensoso.
 
«Mamma, noi ce ne andiamo» urlò Sean mentre tirava uno spintone a Ets.
 
Lei si affacciò dalla porta, asciugandosi le mani sul grembiule. «Va bene, tesoro. In bocca al lupo per domani e non fare tardi, mi raccomando.»
                                                                     
«Tranquilla, Annemarie, ci penso io a lui» sorrise sornione Ets, posando una mano sulla spalla di Sean.
 
«È proprio quello che mi preoccupa!»
 
Ets la guardò con faccia fintamente sconvolta. «Ma… dopo tutto quello che abbiamo passato insieme hai così poca fiducia in me? Basta, me ne vado, e questa volta è per sempre
 
Emessa la sua plateale sentenza, Étienne si voltò e si avviò lungo il vialetto trascinandosi dietro Sean per un braccio.
 
«Quindi ti aspetto domenica per cena?» gli domandò Annemarie.
 
«Ovvio!» rispose il ragazzo proseguendo per la sua strada senza scomporsi minimamente.
 
 
******
 
 
 
Ebbene sì, questa volta siamo state pressoché puntuali con l’aggiornamento! Un applauso a noi!
Questo capitolo originariamente prevedeva un’altra parte ma, vedendo che superava le venticinque pagine, abbiamo deciso di tagliarlo a metà per non bombardarvi di troppe, nuove informazioni.

Sappiamo che non è successo un granché finora ma, come abbiamo detto in precedenza, abbiamo bisogno di un altro paio di capitoli prima di ingranare con la storia. Volevamo presentavi prima in modo esaustivo “ambiente” e “personaggi”. Speriamo di non aver annoiato nessuno!
Il prossimo, dato che è praticamente pronto, dovrebbe arrivare tra una settimana o una decina di giorni al massimo, dopo di che riprenderemo con la normale tempistica – speriamo! – delle due settimane.
Ringraziamo chiunque abbia avuto tempo di leggere questo delirio, recensirlo, metterlo tra le seguite, preferite, ricordate e quant’altro. Ci auguriamo continui a piacervi e, per chi non avesse niente di meglio da fare, rinnoviamo l’invito a entrare nel gruppo che ci ospita: Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.
 
Alla prossima,
Sam e Sid.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Family - Part 2 ***


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4th Period. “Families – Part II”
 
 
 
 
Se c’era un posto che l’aveva sempre incuriosito, fin da bambino, quello era sicuramente l’aeroporto di una grande città con tutto il suo perenne movimento.
La prima volta che vi aveva messo piede non aveva neanche dieci anni. Era stato nell’occasione in cui aveva detto addio alla sua bella Archagel’sk per approdare nella ben più grande Jaroslavl’ e ricominciare una nuova vita, lontano da quei paesaggi che avrebbe ricordato sempre con nostalgia.
Quel giorno di tanti anni fa però, non aveva neanche fatto in tempo a rattristarsi per la partenza, perché era rimasto affascinato da quel caotico via vai di persone e da quell’amalgamarsi di emozioni diverse, talvolta contrapposte: la tristezza di un saluto, la gioia di un ritorno o l’aspettativa prima di una partenza.
Era tutto così bizzarro e nuovo agli occhi del bambino che era, che spesso la manina di sua sorella, perennemente stretta alla sua, era stata costretta a strattonarlo per non lasciarlo indietro.
Quando poi erano atterrati a Jaroslavl’ quel senso di stupore si era accentuato. Una città più grande e un aeroporto più esteso, caotico, ammaliante, così tanto che, per i primi tempi, aveva supplicato suo padre ad accompagnarcelo più volte. Ricordava ancora di come si appostava nella sala d’attesa con i palmi, il naso e la fronte schiacciati contro il vetro, e osservava anche per ore quei bestioni con le ali che si sollevavano in aria, o scrutava con la curiosità che solo un bambino può avere tutta quella gente che sedeva in attesa del proprio volo.
Col passare degli anni poi, quella strana passione aveva fatto il suo corso e lasciato il posto all’hockey. Aveva smesso di trascinare suo padre a trascorrere intere domeniche all’aeroporto, ma incantarsi nell’osservare la scia bianca degli aerei era un piccolo vizio che non aveva mai perso e che continuava a rincuorarlo; a fargli provare ancora quello strano e affascinante senso di libertà che sentiva da bambino.
Infine, per forza di cose, quegli edifici che ai suoi occhi continuavano a restare strani e a esercitare una particolare suggestione erano diventati una costante nella sua vita. Per via del suo amato hockey era costretto ad addentrarsi in quel dedalo di persone, cartelli, negozi... caos insomma, e a trascorrerci molto più tempo di quello che avrebbe anche solo sognato o immaginato tanti anni prima.
In definitiva, ne aveva visti parecchi di aeroporti in tutta la sua vita, ma il Trudeau di Montréal, che sorgeva proprio nell’isola che ospitava la città, gli era piaciuto fin da subito, anche se non sapeva spiegarsene il perché.
Gli piacevano quelle enormi vetrate che gli consentivano di osservare come un tempo le partenze degli aerei, la sobria scritta verde che capeggiava sulla sommità dello stabile e, per una volta tanto, non era neanche così infastidito dall’essere immerso tra le persone.
Per questo motivo, quando quel pomeriggio di Agosto approdò nuovamente a Dorval[i], scese dalla sua Maserati, e si concesse il lusso di farsi avvolgere da quell’atmosfera elettrica.
Superò poi le porte scorrevoli correndo solo per l’ansia di un terribile ritardo e si avviò verso la zona degli arrivi, compiendo una lunga gimcana tra persone e trolley. Quando però riuscì a raggiungere il suo obbiettivo, lo sbarco da Parigi era già terminato da almeno mezz’ora, lasciando il posto a un altro fiume di persone provenienti da chissà dove.
Si allungò sulle punte nonostante la sua imponente altezza per guardare in ogni angolo dell’enorme sala, finché qualcuno arrivò a picchiettare sulla sua schiena. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che la persona alle sue spalle altri non era che Irina, perché per quanto non avesse mai creduto a tutte le strane dicerie che coinvolgevano i gemelli, una cosa doveva ammetterla: lui sapeva sempre quando si trattava di lei.
 
«Qualcuno è un po’ in ritardo» gli disse scherzando, accogliendolo con uno di quei suoi particolari sorrisi che sembravano coinvolgere anche gli occhi, così identici ai suoi nel colore e nelle sfumature, eppure maledettamente diversi nelle espressioni. «L’incontro deve essere stato più interessante del previsto.»
 
«Ciao, Ira» ribatté Sergej, ignorando completamente le sue insinuazioni e protendendosi per stringerla in un abbraccio. C’era in fondo qualcosa che riusciva ancora a fare, sebbene chiunque non facesse altro che definirlo un ghiacciolo o un pupazzo senza un minimo di coscienza. Rifugiarsi nell’affetto di sua sorella, così come quando erano piccoli, era quel qualcosa di cui continuava ad avere bisogno, anche se non l’avrebbe mai ammesso apertamente.
 
«Come stai, fratellino?» chiese lei, aggrappandosi al suo collo per farsi sollevare, e facendo valere la sua “anzianità di qualche secondo” per chiamarlo con quel vezzeggiativo.
 
Sergej le rispose con una veloce scrollata di spalle. Restò qualche secondo a godersi quell’abbraccio, poi la lasciò scivolare nuovamente a terra e afferrò il trolley oversize che si era portata dietro. «Hai messo le ruote all’armadio?»
 
«Lo stretto necessario per restare qui fino a Dicembre. E ho tutta l’intenzione di concedermi gratificanti giornate di shopping!»
 
Una lieve smorfia gli si disegnò sul volto. «Sicuramente non con me.»
 
«Come sarebbe? Non intendi trascorrere del tempo con tua sorella?»
 
«Ti vedrò comunque ogni sera e ogni mattina, per più di tre mesi. Mi sembra un tempo sufficiente.»
 
Irina cercò di spintonarlo, fingendosi offesa, con scarsi risultati. «Sto cominciando a chiedermi perché sono venuta a trovarti.»
 
«Se è per questo me lo chiedo anch’io» convenne, prima di aggiungere, notando l’espressione non propriamente soddisfatta della sorella: «Nel senso, non sei mai passata a trovarmi tanto a lungo. Mi da’ da pensare che ci sia dell’altro...»
 
Lei scrollò le spalle, mettendo il broncio. Curiosamente, quelli erano i gesti in cui la loro somiglianza si accentuava. «Avevo solo voglia di cambiare aria per un po’.»
 
«Problemi col francese
 
«No!»
 
Sergej le lanciò un’occhiata in tralice attraverso le lenti colorate e sollevò un sopracciglio. «La mia non era una domanda.»
 
«Piantala di leggermi nella mente! E comunque in realtà no, non ho davvero problemi con lui» mugugnò, arricciandosi all’indice uno dei ciuffi castani che era sfuggito alla stretta dell’elastico, «ma non ho voglia di parlarne. Ho solo voglia di godermi la compagnia del mio fratellino!» intrecciò le dita alla sua mano e riacquistò la sua giovialità come se niente fosse. «Allora, dove mi porti di bello?»
 
L’accenno di un sorriso nacque sulle sue labbra, prima di essere sostituito e nascosto da uno sbuffo fintamente esasperato. «Adesso a casa a portare questa roba, poi vedremo
 
Superarono la soglia dell’edificio, abbandonando l’aria condizionata per farsi accogliere dal caldo che, a dispetto del sopraggiungere della sera, non era ancora disposto a svanire da quella giornata. Passeggiarono in silenzio, continuando a tenersi per mano, fino a raggiungere la spider bordeaux, e alla cui vista, Irina emise un fischio d’approvazione. «E questa?»
 
«L’ho presa ieri, appena arrivato. Non avevo voglia di aspettare che mi inviassero l’altra da Washington.»
 
«E da quando ti sei trasformato in un fighetto che osa con questi colori?»
 
Sergej sbuffò ancora una volta, imprecando per far entrare quel transatlantico con le ruote nel bagagliaio. «Era disponibile da subito, ma se avessi saputo che saresti arrivata con questo coso avrei preso un pick up!»
 
«Ma non ti stanchi mai di brontolare e di essere incazzato col mondo?»
La lotta contro il trolley venne interrotta per qualche secondo, giusto il tempo per fermarsi e rivolgerle un’altra occhiataccia, poi riprese a pieno regime, provando a incastrarla in ogni modo senza alcun risultato.
 
«Sei pronta ad abbandonare il tuo bagaglio qui? In fondo capita a un sacco di gente di perderli durante il viaggio.»
 
«Se quello era un tentativo di battuta, non sei stato affatto divertente» replicò Irina, puntandosi entrambe le mani sui fianchi, e mostrandogli quello sguardo deciso che l’aveva sempre caratterizzata. Anche quando era sul piede di guerra gli assomigliava sempre un po’ di più.
 
«Vuoi tornare in taxi?» sibilò lui, utilizzando quel suo tipico tono glaciale. La voce gli si abbassò un po’ di più e perfino lo sguardo partecipò a rendere più incisive le sue parole, accentuando il taglio secco e allungato degli occhi.
Irina aveva sempre detestato quella sua caratteristica. La metteva a disagio e diceva sempre che lo faceva sembrare cattivo. Glielo ripeteva ogni volta, imbronciandosi come una bambina che è appena stata sgridata e, di tanto in tanto, Sergej aveva perfino creduto che forse, in quelle sue accuse, si nascondesse un triste fondo di verità.
 
«No» borbottò lei in risposta, mettendo su proprio quell’espressione che aveva preventivato, «e smettila di guardarmi in quel modo.»
 
Roteò gli occhi chiari fingendosi annoiato e racimolò quel poco di pazienza che gli era rimasta per ritentare la sua lotta contro quel dannato trolley. Quando però quelle sue esagerate dimensioni mostrarono per l’ennesima volta come fosse fisicamente impossibile farlo entrare in quel ristretto bagagliaio, si arrese a chiamare e pagare un taxi perché lo trasportasse al posto della sua spider.
Salirono poi in macchina e Irina riuscì a vincere anche la battaglia per convincerlo ad abbassare la cappotta, così che potesse godersi ogni dettaglio del suo arrivo a Montréal, mentre sfrecciavano attraverso le strade di quella città in direzione di Town Mount Royal[ii].
L’appartamento di Sergej si trovava all’ultimo piano di una palazzina piuttosto nuova, di mattoni rossi a vista e circondata dal verde di quei parchi che parevano costellare l’intera zona. Era un quartiere tranquillo, di quelli per famiglie, dove il tempo sembrava scorrere più placidamente e lasciare la possibilità di fermarsi a godere di un attimo di pace, lontano dalla fretta e il caos che pulsavano nel centro di Montréal.
Attesero di recuperare il trolley dal taxi e si lasciarono trasportare dall’ascensore fino alla sua nuova casa, dove Irina si bloccò sulla soglia, con l’aria da chi è stato letteralmente rapito dall’evidente pregiato parquet scuro che andava in perfetto contrasto con il bianco, l’acciaio e i dettagli in vetro del resto dell’ampio soggiorno.
 
La sentì emettere l’ennesimo fischio d’approvazione, prima di guardarlo di traverso con uno dei suoi soliti sorrisetti e ironizzare: «Un appartamentino intimo. Giusto quei duecento metri quadri di cui ogni essere umano ha bisogno! Vedo che l’hai personalizzata parecchio, poi» indicò le scatole ammassate in un angolo, ancora perfettamente intatte e aggiunse: «Questa è un’opera moderna? Che strano concetto di arte che hanno qua a Montréal!»
 
Sergej scosse la testa. «La pianti?»
 
«Scusa fratellino, non volevo offendere il tuo indiscutibile gusto. Ma toglimi una curiosità, quanto ti viene a costare quest’astronave?»
 
«Il mio stipendio dice che posso. Tanto basta» le rispose con una scrollata di spalle, mentre trascinava la valigia verso una delle due camere dell’appartamento, seguito immediatamente dalla sorella che continuava a saltellare da una parte all’altra in un guizzo di entusiasmo.
 
«Spaccone» l’apostrofò, prima di avvicinarsi a una delle grandi vetrate e soffermarsi nell’osservare il panorama. «Comunque comincio a chiedermi perché non ho mai imparato a giocare a hockey.»
 
«Perché non ne sei capace.»
 
«Ah già, è vero! A me è toccata l’intelligenza e la bellezza, a te la bravura negli sport.»
 
«La tua stanza è di là. Prego» sibilò Sergej, appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta e rivolgendole un’occhiata torva. Sua sorella era probabilmente la persona con cui aveva maturato il legame più saldo e stretto, che spesso andava anche oltre la sua comprensione, ma c’erano momenti in cui sapeva essere piuttosto irritante e con un’insopportabile e imbarazzante diarrea verbale che la possedeva per la maggior parte del tempo.
 
«È un modo più elegante per mandarmi a...»
 
«Muoviti!» esclamò allora e la vide schizzare come un grillo a sistemare il resto delle sue cose.
 
«Pure una camera degli ospiti e un terrazzo da paura. Potrei farci l’abitudine, sai? Potrei venire a trovarti più spesso.»
 
«Preferisci mangiare qui o fuori?»

Irina si affacciò dalla soglia della sua camera e lo squadrò contrita. «Stai deliberatamente ignorando le mie parole nella speranza che me ne dimentichi?»
 
«No, Ira» sospirò lui. Sua sorella era una vera fatica da gestire. «Ti ho chiesto dove vuoi mangiare.»
 
«Ciò non toglie che mi stai ignorando.»
 
«Puoi venire e andare quando ti pare. Non c’è bisogno che te lo ripeta ogni volta» borbottò allora, sollevando gli occhi verso l’alto e provando quasi un fastidioso disagio nel dover ripetere quella confessione che già altre volte le aveva fatto. Ammettere di aver bisogno di lei non era così facile, ma nonostante l’esasperazione con cui l’aveva detto, Irina sembrò comunque felice delle sue parole e gli si avvicinò per abbracciarlo.
 
«Preferisco mangiare qui per stasera. Non ho voglia di dividerti con il resto del mondo.»
 
Un mezzo sorriso si dipinse sulle sue labbra nel sentirsi stringere. «Ordina quello che vuoi. Lì c’è il telefono.»
 
«Ma non hai niente in casa?»
 
«Sono arrivato ieri e la maggior parte del tempo la trascorrerò comunque fuori.»
 
«Se ti sentisse la nonna le prenderebbe un infarto» rise lei, prima di fargli una domanda che avrebbe evitato volentieri: «A proposito, hai chiamato a casa?»
 
Sergej deglutì a vuoto e spostò lo sguardo a fissarsi in un punto a caso. Ovunque, pur di non guardarla in faccia. «Per cosa?»
 
«Per avvertire che è andato bene il trasloco, per raccontare di Montréal» Irina interruppe il loro abbraccio e tornò a fissarlo con una sfumatura di rabbia negli occhi chiari, «e poi, hai davvero bisogno di un motivo specifico per telefonare alla tua famiglia? Dima chiede di te ogni volta che lo sento. Pensa che tu ce l’abbia con lui.»
 
Già, Dima; Dmitrij, l’altra persona che si spartiva il suo cuore assieme a lei in due metà perfette. Il loro fratellino, che più cresceva e più sembrava trasformarsi in una sua copia, ancora capace di riservare un gran sorriso per il mondo e per la propria vita.
Gli mancava ogni giorno. Aveva nostalgia dei tempi in cui lo seguiva ovunque, come un petulante animaletto, e passava interi pomeriggi seduto sulle gradinate che circondavano la pista di ghiaccio solo per restare ad ammirarlo durante i suoi allenamenti. La sua voce poi, era quella che riusciva a sentire più chiaramente nei tre periodi che scandivano le partite: forte, squillante e concitata. Urlava il suo nome con tutto il fiato che aveva e gli dava la carica di cui aveva bisogno anche quando era letteralmente a pezzi e trovava il modo di pattinare solo per forza d’abitudine.
Dmitrij l’aveva sempre guardato come il suo eroe, il fratello maggiore da imitare in tutto e per tutto, l’esempio da seguire e adulare, senza neanche immaginare quanto in realtà fosse Sergej ad aggrapparsi al ricordo che aveva di quel ragazzino vivace.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, e anche se era lontano così tanti chilometri da non saperli neanche realizzare, continuava a sperare di riuscire a proteggerlo da qualsiasi cosa e regalargli la miglior vita possibile, perché potesse diventare tutto ciò che aveva sempre desiderato.
Quindi no, non aveva certo bisogno di un motivo preciso per telefonare alla sua famiglia. E allo stesso tempo ne aveva milioni, di motivi. Primo fra tutti il bisogno di sentire ancora la voce di Dima, che anche a quella distanza, sembrava essere in grado di sanare almeno temporaneamente ogni sua paura e incertezza.
Eppure, nonostante questo, premere su quel dannato pulsante verde e far partire la chiamata sembrava essere la cosa più complicata di questo mondo.
C’erano troppe cose che non poteva cancellare o ignorare, ad aspettarlo dietro a quella cornetta. Parole non dette, altre mai perdonate. Situazioni mai risolte, senza dubbio già arrivate e cementate a un punto di rottura che non sarebbe mai più riuscito a riparare. E probabilmente, in parte, neanche l’avrebbe voluto...
 
«Non ce l’ho con lui» mormorò allora con un nodo alla gola. Una confessione a metà che nascondeva milioni di “perché” a cui non poteva dare risposta.
 
«E allora chiamalo.»
 
«L’ho fatto.»
 
«Quando?»
 
«Non lo so. Non me lo ricordo» biascicò appena, messo alle strette. «Credo una settimana fa. Non di più.»
 
«Serëženka» lo chiamò lei, utilizzando quel nomignolo che in situazioni normali, nella loro lingua, avrebbe denotato solo un’estrema confidenza e affetto, ma che in quel momento suonava molto più come un rimprovero.
 
«Mh?»
 
«Quand’è che sei diventato così stronzo?» gli chiese poi, lasciandolo per un attimo interdetto. «Credo di non ricordarlo più. A volte mi chiedo se il Sergej di prima non sia altro che frutto nella mia immaginazione.»
 
Aggrottò la fronte e, punto sul vivo, trovò finalmente il coraggio di guardarla negli occhi. «Stai reagendo peggio di quel che credevo al jetlag.»
 
«Sto parlando sul serio.»
 
Sergej si passò una mano sulla faccia con aria stanca, andando poi a scompigliarsi i capelli nello strofinarci più volte le dita, come se volesse grattare via un pensiero dalla sua testa. Si morse le labbra e sospirò: «Lo chiamiamo domani insieme.»
 
«Guarda che non devi fare un favore a nessuno!»
 
«Non mi va di sentirlo triste perché non posso andare a trovarlo!» sbottò infine, facendola sobbalzare per la sorpresa.
 
«Sono anni che non ti vede, se non su uno schermo. È normale che faccia così! E per di più, papà sembra sempre terribilmente occupato per accompagnarlo qua.»
 
«Lo so» soffiò, svuotandosi velocemente della rabbia e della frustrazione che l’avevano riempito. «Tu non puoi portarlo con te quando tornerai da Mosca? Ci sono le vacanze.»
 
«E poi che facciamo? Gli facciamo riprendere un aereo da solo?»
 
«Io alla sua età lo facevo.»
 
«Parli come un vecchio, lo sai? ‘Io alla sua età lo facevo’» lo scimmiottò, facendogli riacquistare quella sua perenne espressione contrariata. «Dima è a malapena uscito da Jaroslavl’.»
 
«Se vuole davvero giocare a hockey, significa che dovrà abituarsi alla svelta.»
 
«Quando fai così sembri proprio tuo padre. Despota come lui!»
 
«Pensala come ti pare» si arrese infine Sergej, già stufo di quella discussione, e mettendovi fine nel modo più veloce che conosceva: andandosene, «io vado a fare una doccia.»
 
Senza neanche voltarsi a osservare la reazione di sua sorella, si richiuse la porta del bagno alle spalle, e con quella, anche i pensieri e i ricordi che Irina aveva risvegliato.
 
 
******
 
 
 
Il legno scuro del tavolino era ricoperto di tracce circolari lasciate dalla condensa dei loro bicchieri. I sottobicchieri che il cameriere si era premurato di sistemare come protezione avevano avuto vita breve, a causa del pessimo vizio di Ets di torturare e stracciare qualsiasi pezzo di carta presente nell’arco di cinque metri, sempre troppo preso dalla foga dei sui racconti.
Il pub scelto da Étienne per quella sera aveva un’aria piuttosto anonima. Pareva uno di quelli un po’ retrò, principalmente in legno e senza fronzoli ad abbellire. Gli ricordava uno di quei classici pub britannici visti in qualche film o serie tv, un po’ sfigato e, a giudicare dalle facce dei pochi presenti, anche un po’ malfamato. Sembrava uno di quei locali in cui la gente non andava con l’intenzione di trascorrere una serata in compagnia di qualcuno, se non dei propri pensieri e di un bicchiere di whiskey, o gin, o qualsiasi altro alcolico in grado di annebbiare la mente in breve tempo.
Nessuno prestava attenzione, se non per se stessi, il contenuto del proprio bicchiere e i propri crucci; e a Sean non poteva andar meglio.  
Essere un giocatore famoso aveva i suoi pregi, ma inevitabilmente portava anche delle conseguenze. Specialmente in una città come Montréal, era praticamente impossibile non essere riconosciuto ed essere fermato non appena metteva il naso fuori di casa, e spesso, per questo motivo, giornalisti e altri giocatori gli avevano chiesto se questa mancanza di anonimato non fosse un peso per lui; se il veder costantemente invasa la propria privacy non fosse altro che un fardello estenuante.
La risposta standard e ormai automatica era che era nato e cresciuto lì e non avrebbe scambiato la sua città, e i suoi abitanti a volte troppo appassionati, per nulla al mondo. Ad onor del vero però, per quanto sincera, quella sua risposta era solo una parte del motivo. L’altra era seduta dall’altro lato del tavolo: la sua ancora alla normalità, che tamburellava le dita distrattamente sul bordo del bicchiere, mentre i riccioli castani si muovevano seguendo la testa, e ondeggiavano al ritmo della canzone suonata dalla band. Ets, che paradossalmente era la costante più drammaticamente incasinata della sua vita, rappresentava assieme alla sua famiglia anche il suo rifugio sicuro e, durante le loro uscite – o, per meglio dire, nelle occasioni in cui si premurava di trascinarlo ovunque desiderasse senza concedergli possibilità di replica – si appellava spesso al “Sacro Snobbismo Musicale”, unica religione da lui riconosciuta, per rifiutarsi categoricamente di entrare in qualsiasi locale con più di dieci clienti. “Troppo mainstream”, diceva.
In realtà, Sean aveva sempre avuto il sospetto che il suo migliore amico usasse quella scusa per farlo respirare un po’ lontano dai propri impegni, da ciò che comportava essere un giocatore di hockey famoso; per avere l’occasione di farsi una pinta, come due amici qualunque, ignorando il caos che li circondava da quando era diventato un professionista a tutti gli effetti, e il tempo da trascorrere insieme, spensierati, si era drasticamente ridotto.
Il fatto che quel soggetto disastrato e tragicamente snob che gli sedeva davanti non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, era un’altra storia.
 
«Qualcuno dia del caffè a quel povero cantante, o si addormenterà in piedi molto presto» esclamò di colpo Ets, portandosi la birra alle labbra.
 
«Tredici minuti e ventisette secondi» replicò Sean guardandosi l’orologio. «Ci hai messo molto più del previsto a criticare quei poveretti.»
 
«Poveretti loro? Poveretto io!» replicò l’altro con fare sconvolto. «E se poi addormentandosi da una botta al microfono e lo rompe, io domani come faccio a suonare?»
 
«Come se servisse un microfono per farsi sentire qua dentro. Ci sono tre gatti; il quarto ha deciso che era troppo vuoto come locale e se n’è andato.»
 
«Ehi! È così solo perché nessuno nel pieno delle sue facoltà mentali verrebbe a sentire questa specie di Noel Gallagher con la narcolessia. E poi un’atmosfera del genere rende il concerto più intimo, si ha un rapporto più diretto con il pubblico e…»
 
«Balle! Balle, balle, balle! E dimmi, ‘Signor rapporto diretto con il pubblico’, una volta che la tua band diventerà famosa, come farai a fare lo snob come adesso?» lo sfotté lui, per poi proseguire con fare solenne «Li vedo già i titoli dei blog: Étienne Smith, un tempo paladino della musica underground, corrotto dalle etichette discografiche.»
 
«Ti sto ignorando» rispose, girandosi di lato e con il palmo aperto sospeso a mezz’aria tra loro, come per creare un divisorio.
 
«È una domanda seria! Cederai al lato oscuro o rimarrai per sempre il mancato quinto membro dei The Kooks?»
«Ah ah, vedo che sei in vena comica stasera. Forse è colpa dell’alcol… ah no, qualcuno qui è talmente sfigato che nella sua ultima sera di libertà beve limonata» commentò sarcastico. «Che poi, chi la beve più la limonata? Oltre a te e alle arzille ottantenni che vivono nel tuo palazzo, intendo.»
 
«Non tornare a casa ubriaco ogni sera è un’esperienza piacevole. Dovresti provarlo ogni tanto» replicò a tono Sean.
 
«E privarti dei miei messaggi sgrammaticati? Giammai!»
 
«Fidati che ne farei volentieri a meno. Anche se poi avrei meno cose compromettenti con cui ricattarti.»
 
«Ti ignoro, di nuovo» sbuffò Ets, finendo a grandi sorsate la sua pinta. «Piuttosto, sbrigati a bere, che qualcuno qui ha bisogno del suo riposo di bellezza. E io ho bisogno di ossigeno.»
 
«Ti rendi conto che dire che vai a prendere una boccata d’aria per poi fumare per strada è una contraddizione notevole?»
 
Come risposta ottenne solamente una scrollata di spalle da parte di Ets, che, dopo aver lasciato un paio di banconote di mancia sul tavolino, si avviò verso la porta dai vetri colorati. Sean si affrettò a seguirlo, trovandolo sull’uscio impegnato a maledire il vento che continuava a sabotare il suo accendino. Alzò dunque le mani, accostandole a quella dell’amico per parare la fiamma, che finalmente riuscì a raggiungere la punta della sigaretta. Un lungo tiro carico di soddisfazione, ed Ets alzò lo sguardo e gli sorrise, strizzando gli occhi come era solito fare. Si incamminarono poi, e gli unici rumori che li accompagnavano erano lo sfrecciare delle macchine sulla strada e il rotolio del sasso che Sean si divertiva a calciare sovrappensiero.
 
«Piantala!» esclamò deciso Ets, spezzando così il loro silenzio.
 
«Di fare che?» Sean si fermò sorpreso, e il sasso cadde al di là del marciapiede.
 
«Di rimuginare. Mi stai disturbando» replicò serafico. «Tanto, qualsiasi cosa sia, non credo ci sia nulla tu possa fare stasera.»
 
«Che ne sai?» rispose Sean, piccato dal tono non tanto brusco, quanto annoiato dell’altro.
 
«Ti conosco da vent’anni, serve altro?» proseguì Ets, senza curarsi di rallentare il passo, e costringendo dunque Sean ad affrettarsi per affiancarlo nuovamente. «So anche che qualsiasi cosa sia dovresti smettere di preoccupartene. Se è fuori dalla tua portata è inutile crucciartene, dato che non puoi farci nulla; e se così non fosse non credo tu possa comunque farci qualcosa a mezzanotte. E poi sei Sean Weiss, cazzo! L’incarnazione del principe azzurro Disney, così perfetto da non scordarsi nemmeno il cavallo bianco parcheggiato in doppia fila!»
 
A quella similitudine, Sean non riuscì a trattenere una risata spensierata.
Perché Ets era quello. Aveva sempre potuto contare sulla sua famiglia per avere un po’ di conforto e qualcuno che lo capisse, ma loro spesso non comprendevano a pieno quello di cui aveva bisogno. Ed era lì che entrava in gioco Ets, che con le sue battute dissacranti e l’ironia pungente rimetteva tutto in prospettiva.
Approcciavano la vita in modi diametralmente opposti, loro due. Lui analizzava le situazioni nel minimo dettaglio, finendo spesso per ingigantirle a dismisura. L’altro, al contrario, aveva fatto del “Don't worry be happy” uno stile di vita. Non che questo facesse di lui una persona superficiale e menefreghista, anzi. Semplicemente aveva deciso che la calvizie a meno di settant'anni era assolutamente inconcepibile, e che non avrebbe sacrificato i suoi riccioli per lo stress.
 
«Ti prego» ricominciò di colpo Ets, con tono vagamente preoccupato, «non metterti a cantare però, che poi attiri quella sgallettata di Aurora, e non credo di poter sopportare i suoi acuti a quest’ora.»
 
Sean lo azzittì stringendogli un braccio intorno al collo, mentre con l’altra mano andava a scompigliargli i riccioli. «Ma se io sono Filippo, tu chi sei? Fauna, Flora o Serenella?»
 
«Io?» domandò Ets fingendosi offeso. «Io sono chiaramente il migliore lì dentro e unico personaggio degno di nota: il menestrello che si sbronza sotto al tavolo!» si rispose serafico, prima di estrarre dalla tasca del giubbotto di pelle le chiavi della macchina e, giocherellando distrattamente con il vetro levigato che decorava il suo portachiavi, aggiunse: «Ora monta in macchina, belloccio! Ti riporto al tuo castello.»
 
 
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Irina lanciò l’ennesima occhiata alla porta scorrevole del bagno che si ostinava a restare chiusa. Suo fratello era là dentro, avvolto in un’improbabile cortina di vapore da una mezz’ora abbondante, e non dava segno di volerne riemergere molto presto.
Una parte di sé avrebbe tanto voluto afferrare uno dei preziosi bastoni da hockey di Sergej e fracassarlo contro il vetro satinato che li separava, così da poterne approfittare anche per dimostrargli che, a dispetto delle sue continue prese in giro, quando voleva, sapeva perfettamente impugnare uno di quei cosi ricurvi e farne un uso impeccabile. Ad esempio, dopo la porta, avrebbe potuto direzionare un secondo schianto a quella sua testa dura. Forse il carbonio l’avrebbe avuta vinta contro di lui.
Già, perché niente sembrava poterla spuntare con Sergej. Niente pareva esser capace di superare quell’odiosa barriera che improvvisamente si era costruito attorno e, ogni giorno di più, Irina si chiedeva come poter affrontare e resistere all’impulso di urlargli contro o vomitargli addosso la rabbia che le provocava nel sentirlo così distante.
Se provava a ricordare e collocare da qualche parte l’arrivo di quell’iceberg vivente che aveva preso il posto e le sembianze del suo gemello, le sue memorie si sfocavano in quel percorso a ritroso negli anni e si consumavano fino a diventare stralci confusi a cui non sapeva dare un ordine logico e corretto.
Sergej – il suo Serëžen’ka – non era sempre stato così, di quello era certa. C’erano pagine di memoria che raccontavano di un ragazzino spensierato, col sorriso più bello che avesse mai visto e gli occhi buoni, azzurro pallido, come il cielo all’alba nella loro città natia. Ricordava ancora l’entusiasmo, l’aria un po’ trasognata eppure determinata, di quello che all’epoca era poco più di un bambino, ma che già sembrava avere un futuro segnato tra le stelle dell’hockey.
La mente di Irina rinveniva immagini di quel fratello che ghignava spavaldo per un goal segnato, che festeggiava con i compagni e che un po’ si pavoneggiava per le sue gesta al tavolo della cena che vedeva tutta la famiglia riunita. Ripensava a quanto, a quei tempi, si sentiva divisa tra l’orgoglio per quel talentuoso gemello con cui aveva condiviso tutta la vita e il bisogno di lasciarsi cullare un po’ dall’invidia, soprattutto per quel padre che si mostrava ogni volta così fiero e ascoltava completamente rapito i racconti di Sergej. C’erano difatti occhiate cariche d’amore e aspettativa che Aleksandr Nevskij aveva sempre riservato solo e soltanto per il figlio maggiore e per le sue prodezze sulla pista di ghiaccio.
Poi, all’improvviso, qualcosa era irrimediabilmente cambiato. Senza riuscire a spiegarsene il motivo, Sergej non era stato più lo stesso.
Era diventato irrequieto, il sorriso era via via scomparso da quelle labbra, come se nel crescere sentisse di non aver più diritto a quella fanciullesca spensieratezza che fino a qualche anno prima l’aveva sempre contraddistinto. Poco tempo dopo poi, aveva afferrato la prima occasione per andarsene dalla Russia, senza neanche guardarsi indietro, in una partenza che aveva avuto tanto il sapore di una fuga; di un’evasione da chissà cosa.
Sergej era infine approdato in America e, probabilmente, durante quel lungo volo, si erano perse le ultime tracce del ragazzino che era stato.
Talvolta era stata tentata dalla voglia di parlargli, di provare ad accennare all’argomento e capire perché. Ma lui liquidava ogni sua curiosità mostrandosi scocciato, roteando gli occhi al cielo e uscendosene con una di quelle sue battutine secche, su quanto lei fosse paranoica e petulante o sul fatto che non avesse più dieci anni e che “le persone cambiano”.
Alla fine dei conti comunque, sapeva che in cuor suo non si sarebbe mai abituata a quella sua scostante presenza, alla sua apparente allergia al dimostrare affetto per le persone, al suo ostinato rifugiarsi nella solitudine, eppure si era ritrovata ad accettarlo in qualche modo. Per amore di suo fratello e per permettersi di stargli accanto, solo di tanto in tanto, come poco prima, si azzardava a riprendere il discorso e ad attaccarlo su quegli argomenti che sembravano metterlo così tanto in difficoltà.
Incursioni battagliere le sue, che in genere però non duravano più di una manciata di minuti: il tempo che impiegava il gelo di suo fratello a ghiacciare la sua rabbia e a metterla a tacere.
Non che i loro litigi fossero mai durati più di una giornata. Sergej, anche quando erano bambini, aveva l’innata capacità di imbambolarla e farle dimenticare il motivo per cui ce l’aveva tanto con lui. Per contro invece, farlo arrabbiare davvero, un tempo, sembrava essere semplicemente impossibile.
Sua nonna li prendeva sempre un po’ in giro per questo. Diceva che il loro essere gemelli li rendeva molto più simili all’essere le due parti di una sola persona. Litigare per loro era come arrabbiarsi con se stessi: non poteva durare.
Le cose però negli anni erano cambiate di un poco: Sergej aveva imparato ad arrabbiarsi, anzi, pareva essere la cosa che gli riusciva meglio, e lei, per contro, aveva provato a insegnarsi a essere paziente e a mordersi la lingua il più delle volte, quando in realtà avrebbe voluto azzannare suo fratello e staccargli la testa.
Non erano più i bambini di un tempo: quelli che si tenevano sempre per mano, quelli che non potevano stare lontano l’uno dall’altra e s’inventavano mondi e giochi a cui solo loro potevano partecipare. Quelli che avevano i loro segreti, che dormivano insieme e che, per chissà quale miracolo, anziché litigare per l’ultima merendina, adottavano il diplomatico modo di dividersela in due metà perfette, che Sergej misurava con precisione clinica.
La verità era che le mancava quel Serëžen’ka, sempre. Anche in quel momento, che non era lontano più di qualche metro e nascosto solo da una porta.
Con l’ennesima occhiataccia diretta a quel vetro, Irina si accucciò sprofondando nei morbidi cuscini del costoso divano che non aveva proprio nulla a che fare con suo fratello. A ben pensarci, quell’intero ed enorme appartamento non aveva niente della personalità del vecchio Sergej, né qualcosa che lo ricordasse. Era bellissimo ma freddo, asettico, impersonale... del resto, come era diventato anche lui.
Sospirò appena e si allungò per afferrare il telecomando della televisione, giusto un attimo prima che quella stessa porta scorrevole, che fino a pochi istanti prima aveva maledetto, si aprisse con uno scatto secco. Le si svuotò lo stomaco nel sentire i passi di Sergej; i suoi piedi nudi che calpestavano il parquet scuro e si avvicinavano piano, quasi svogliatamente.
Le posò una mano sulla testa e le scompigliò un poco la coda in cui i suoi capelli erano raccolti, poi si sporse a osservarla dall’alto, lasciando cadere qualche goccia d’acqua dalle ciocche ancora bagnate.
 
«Che vuoi?» borbottò lei, incassandosi di più nelle spalle come per cercare di nascondersi. «Sono arrabbiata con te.»
 
Sergej sospirò e si sedette sullo schienale del divano. «Tu sei sempre arrabbiata con me.»
 
«Non è vero!»
 
«Sì che lo è. Solo che la maggior parte delle volte fingi che vada tutto bene perché abbiamo poco tempo per stare insieme e non vuoi sprecarlo a litigare. Se credi che non me ne sia mai accorto, allora sei più tonta di quel che credevo.»
 
Irina sollevò gli occhi solo per rivolgergli uno sguardo truce. «Non stai migliorando la tua posizione»
 
«Non ci sto nemmeno provando» rispose prontamente lui, poi afferrò l’elastico che le teneva i capelli e lo sfilò via con attenzione, sequestrandolo. A Sergej in fondo non era mai piaciuto vederli legati.
 
Lo osservò attentamente mentre si sistemava il bottino al polso, per poi fare il giro del divano e sederlesi accanto. Non disse nient’altro, nemmeno un piccolo accenno alla loro discussione. Solo una veloce occhiata e l’ombra di un sorriso a piegargli appena le labbra – un dettaglio che soltanto Irina poteva notare – e si rilassò placidamente sui cuscini, come per sottolineare che, per lui, il loro piccolo litigio era finito e sepolto così.
Irina, in parte, avrebbe preferito ritornare sull’argomento, parlare ancora di ciò che girava in quella testa dura, eppure non disse nulla. Si limitò ad accendere la televisione e a zappingare a caso, barattando il suo silenzio e la sua curiosità per un po’ di pace accanto a suo fratello.
Una musichetta strana e allegra intanto aveva invaso la stanza; il jingle di una pubblicità che non aveva mai sentito, ma che attirò la sua attenzione: «Credo di aver avuto un’illuminazione per la cena di stasera!»
 
Sergej si voltò appena a guardarla, aggrottando la fronte. «Evitami le tue stronzate sulla cucina consapevole, le diete vegane, macrobiotiche e il resto di quella roba.»
 
«Tranquillo, ho già passato anche quella fase» ribatté, allungandosi per afferrare il cordless e memorizzando velocemente il numero impresso sullo schermo su uno sfondo giallo acceso.
 
«Non avevo dubbi...»
 
«Stai mettendo in discussione la mia forza di volontà?!»
 
«Fa’ quella telefonata!»
 
Irina gli rivolse una smorfia, poi digitò velocemente sui tasti e attese l’operatore della rosticceria St.Hubert, continuando a canticchiare. «Salve!» esclamò poi, con fin troppo entusiasmo quando questo rispose, prima di sciorinare una lunga ordinazione: «Sì, vorrei ordinare due porzioni di cosce di pollo con abbondante dose di patatine fritte. Mi raccomando abbondante. Poi mi aggiunge un ‘wrap’, anzi, facciamo due. Ah! E poi anche un’insalatina di pollo! Sì, sì.»
 
«Hai invitato anche il ragazzo delle consegne a cena?» commentò caustico Sergej, mentre lei sventolava la mano nella sua direzione, intimandogli di tacere.
 
«Perfetto! Lo porti al 1320 di Crossaint Lombard. Sì, Town Mount Royal, esatto! A nome di...»
 
«Evita di dirlo» la interruppe lui. «Non ci sono molti ‘Nevskij’ da queste parti.»
 
«Lo porti all’ultimo piano per favore. Sì, sì. Grazie» terminò poi la chiamata e prese a fissare il suo gemello con aria scettica.
 
«Preferirei tenere un profilo basso» spiegò allora lui, senza mancare di sollevare gli occhi al cielo con un’espressione scocciata, come se la sua allergia all’intero genere umano fosse una cosa completamente normale.
 
«Uff, quanto sei noioso. Non capisco come tu faccia ad avere così tanti fan sui social network!»
 
«Sui... che
 
«Social network» ribadì lei, con aria da maestrina, «ma non mi stupisco che tu non sappia cosa sono, considerando che la parola ‘socializzazione’ non rientra nel tuo vocabolario.»
 
«So cosa sono, ma non m’interessa perdere il mio tempo a far sapere all’intero globo i fatti miei. Piuttosto, perché dovrebbe esserci una pagina su di me?»
 
«Una?» Irina scoppiò a ridere. «Non hai idea di quanti sciroccati ci siano a questo mondo che ti idolatrano, nonostante tu sia un antipatico, apocalittico sociopatico!»
 
«Stronzate» si limitò a borbottare Sergej, prima di fissare lo sguardo sulla televisione con un’espressione infastidita e mettere di nuovo fine alla loro piccola diatriba.
 
La mezz’ora seguente la trascorsero in modo più o meno pacifico, con Sergej che evitava come la peste ogni programma sportivo e borbottava qualcosa di incomprensibilmente lamentoso ogni qualvolta in cui incappava in un canale francofono, mentre Irina si tratteneva a stento dallo strappargli il telecomando dalle mani per la pace dei suoi poveri nervi.
All’ennesimo rapido cambio, fu sul punto di sbottare e trovare il modo di mozzargli il pollice. “Carneficina” che comunque riuscì a evitare per miracolo, principalmente perché su quello stramaledetto dito probabilmente verteva un’assicurazione milionaria che non avrebbe mai potuto ripagare, poi perché il campanello aveva emesso un trillo acuto, e aveva quindi designato la sua completa salvezza.
 
«Sì mangia!» esclamò difatti, balzando su dal divano e correndo ad aprire.
 
«Salve!»
 
Il ragazzo all’altro lato della porta sobbalzò per la paura, dopo di che tentò di ricomporsi: «Ecco, avrei una consegna» annunciò infatti, per poi prendere lo scontrino e ripetere l’ordine: «Due porzioni di cosce di pollo, due ‘wrap’ e un’insalata di pollo.»
 
«E l’abbondante dose di patatine?»
 
«C’è anche quella. Sono cinquantaquattro dollari e ottanta.»
 
Irina strabuzzò gli occhi. «Cinquantaquattro
 
«Esatto, ecco qui lo scontrino.»
 
Si voltò indietro con aria supplice, in direzione di Sergej che se ne stava ancora bellamente stravaccato sui cuscini e non sembrava neanche aver sentito la sua conversazione. «Fratellino» lo chiamò allora, «non è che avresti giusto qualche spicciolo?!»
 
Lui scosse la testa esasperato, prima di afferrare il portafoglio poggiato sul tavolino e portare sessanta dollari. «Tieni il resto» disse poi, ma quel ragazzino non mosse neanche un muscolo. Continuava a fissare Sergej con gli occhi spalancati, bianco in faccia e con la bocca lievemente schiusa. A guardarlo bene, sembrava un pesce.
 
«Secondo te è in trance?» chiese lei, osservando attentamente il ragazzo, mentre Sergej gli sventolava le banconote davanti agli occhi nel tentativo di riscuoterlo.
 
«Ah... ecco, io... grazie!» balbettò improvvisamente questo, avvampando di vergogna. Poi accartocciò i dollari nel marsupio e fece per andarsene, portandosi via anche i loro sacchetti.
 
«Potresti lasciarci anche la cena?» domandò allora Sergej, senza riuscire a nascondere un’espressione divertita, e il ragazzo parve schizzare dalla sorpresa.
 
«Oh! Sì, certo! Eccola!» esclamò, tornando indietro quasi di corsa, per poi restare nuovamente impalato sull’uscio. «È stato un piacere! Spero vi servirete ancora da noi!»
 
Irina fece per chiudere la porta ma, nel momento in cui si rese conto che questo non accennava a spostarsi, domandò: «Serve altro?»
 
«No, no! Grazie!» si riscosse nuovamente e indietreggiò, pur con poca convinzione. «Buon appetito!»
 
Sergej e Irina si scambiarono un’occhiata stranita, poi serrarono la porta. Furono però in grado di compiere giusto un paio di passi verso la cucina, prima di sentire un altro trillo del campanello.
Lei tornò ad aprire e, dall’altro lato, trovò ancora ad attenderla il ragazzo delle consegne, rosso fuoco in viso e in evidente imbarazzo.
 
«Salve» mormorò infatti questo, con un tono di voce appena udibile, per poi posare il suo sguardo su Sergej. «Mi scusi se la disturbo ancora, ma lei è... è... chi penso che sia
 
«Ah, non saprei. Dipende da chi pensi che io sia
 
«Serëža, piantala. Lo stai terrorizzando» lo ammonì Irina, notando l’espressione di quel poveretto, che sembrava decisamente sul punto di vomitare al centro esatto dello zerbino. «Tranquillo, è lui. In tutta la sua famigerata antipatia
 
Il ragazzo abbozzò uno strano inchino, poi pronunciò con incerto fervore: «È un onore averla nei Canadiens!»
 
«Sì, me l’hanno detto» commentò caustico il diretto interessato, riferendosi probabilmente a tutte le volte in cui si era sentito ripetere quelle esatte parole, e sforzandosi di rivolgergli un sorriso che sembrava però più un effetto collaterale dovuto a una paralisi improvvisa. «Grazie.»
 
«Le dispiacerebbe autografarmi questo?» fu la borbottata e speranzosa risposta, mentre un pezzo di carta veniva allungato con mani tremanti. «Poi, giuro che la lascerò in pace a godersi la sua cena!»
 
Sergej l’osservò con una strana espressione. Una faccia per cui Irina avrebbe voluto fargli ingoiare la penna che il ragazzo gli aveva prontamente offerto. Per qualche miracolo divino però, si sorprese di scoprire che suo fratello non era ancora diventato un orco, ma sapesse ancora dimostrarsi più o meno gentile e accondiscendente.
 
«A patto che tu tenga la bocca chiusa su dove abito» gli propose difatti, afferrando la biro e il foglietto, per poi vergarci sopra uno scarabocchio inclinato in cui Irina stessa avrebbe faticato a riconoscerne il nome.
 
«Non lo dirò ad anima viva! Promesso!»
 
Quando penna e pezzo di carta vennero restituiti al legittimo proprietario, i suoi occhi assunsero una strana e un po’ inquietante luminosità. Sembrava quasi che avesse appena afferrato un biglietto vincente della lotteria, e a Irina venne spontaneo rivolgergli un sorriso intenerito. Quelle scene le lasciavano sempre una certa allegria addosso e non riusciva proprio a capire come il suo sociopatico gemello potesse esserne così infastidito, oltreché terrorizzato all’idea che qualcuno potesse riconoscerlo.
Si soffermò a osservare Sergej cercando di scorgere nella sua solita espressione indifferente un segno di qualcos’altro che in genere sfuggiva ai più, ma non trovò altro che il solito e abituale niente.
 
Trattenne a stento un sospiro e, quando vennero lasciati di nuovo soli, si sforzò di limitarsi a sistemare la cena sull’ampio bancone dell’altrettanto spaziosa cucina, commentando il tutto solo con un: «Era davvero il tuo autografo o un’offesa criptata quella?»
 
Intanto la programmazione della televisione aveva seguito il suo normale corso.
Suo fratello sollevò una delle sopracciglia e fece per ribattere piccato, quando le parole gli morirono in gola, mentre la sua attenzione andava a catalizzarsi sullo schermo a cristalli liquidi.
Irina si voltò e seguì la stessa direzione. Le immagini trasmesse mostravano la faccia sprezzante e boriosa di un energumeno moro, quasi accecato dai flash e sommerso da almeno una decina di microfoni che premevano per affannarsi alle sue labbra. Doveva essere una dichiarazione importante.
Non ascoltò immediatamente le sue parole, ma non le fu difficile comprendere il perché dell’improvviso interesse di Sergej. In basso a destra, una didascalia parlava chiaro sull’identità di quel tizio.
“Travis Growuer” recitava. “Washington Capitals”.
Suo fratello non le aveva mai parlato molto dei suoi vecchi compagni di squadra, durante la sua permanenza nella capitale statunitense. Non era ovviamente una cosa da lui, dato che li considerava a malapena e sembrava sopportare quella convivenza solo per amore dell’hockey. Per questo motivo difatti, lei aveva fatto una vera e propria conoscenza solo con Aleksej Ivchenko: ex capitano di Sergej e l’unico con cui sembrava aver instaurato un più o meno tradizionale rapporto, se non altro per il fatto che i due avevano già fatto parte della stessa squadra in Russia, a Jaroslavl’.
Nonostante questo però, il nome di quel tizio, dall’aria fastidiosamente sicura di sé e altrettanto altezzosa, non gli suonava poi così nuovo.
Si azzardò quindi ad alzare un po’ il volume della televisione ma, nel momento in cui iniziò ad ascoltare ogni singola parola, si pentì immediatamente di averlo fatto.
 
«Molti di noi pensano che sarà comunque un problema perdere labilità di Sergej nel segnare» affermava quel Travis, rispondendo a una domanda che non era riuscita a sentire, «ma, detto sinceramente, penso che faremo benissimo a meno di lui. Nessuno potrebbe mai mettere in discussione il suo talento, sarebbe da folli, ma ci sarebbe da parlare sulla sua etica.»
«Etica, in che senso?» chiese uno degli intervistatori; un uomo che non poteva vedere, dato che l’inquadratura restava fissa su quel tizio dai riccioli scuri, che sembrava non aver aspettato altro che la possibilità di poter finalmente vomitare tutto il suo astio e il suo disprezzo nei confronti di Sergej.
«Semplicemente il suo modo di comportarsi. Sembra che non gli importi di niente! Che piuttosto vorrebbe solo tornarsene in Russia. Potrebbe essere il miglior giocatore del campionato, ma pare fregarsene. Qualche volta non sapevamo neanche se si sarebbe presentato al campo, alle partite, agli allenamenti» poi scosse la testa e si lasciò andare a uno sbuffo divertito, gesto per cui Irina avrebbe tanto voluto saltare attraverso lo schermo della televisione e fargli saltare tutti i denti. «Preferisco giocare senza compagni di questo tipo, perché non sai mai cosa aspettarti!»
«Intendi quindi che cerano dei veri problemi tra voi compagni di squadra? Che Nevskij era un problema allinterno dello spogliatoio?» fu la domanda successiva, e l’istinto la costrinse a voltarsi verso suo fratello per cercare di capire come stesse reagendo a quell’intervista. A malincuore, fu costretta ad ammettere con se stessa che, anche se Travis si stava comportando in un modo alquanto scorretto, condivideva in parte il suo punto di vista.
Sergej fissava dritto davanti a sé in totale apatia. Aveva perso completamente quella momentanea attenzione da cui era stato colto durante la loro discussione, e da lì, non un guizzo improvviso aveva tradito quella sua maschera di cera; non una minima reazione, né un movimento diverso nello sguardo. Continuava a mangiare tranquillamente, come se stessero mandando in onda la più barbosa delle pubblicità.
«Problemi?» gli altoparlanti rimandarono una risata divertita. «I coach precedenti lhanno sempre lasciato fare, perché portava risultati, ma questa politica è stata la loro rovina. Qui eravamo stanchi dei suoi capricci, dei suoi modi scostanti e del fatto che fosse alla stregua di un cancro nello spogliatoio. Aveva il potere di fare il bello e il cattivo tempo e distruggere lumore di tutti quando non era in giornata. Uno così è decisamente meglio perderlo. È solo frustrante!» arricciò le labbra, poi decise di rincarare la dose: «Non invidio affatto i ragazzi dei Canadiens. Si son presi un bel cancro, davvero. È questo che è.»
 
Innervosita da quelle parole, Irina cambiò canale con foga, ma neanche quello sembrò scuotere Sergej. Pareva davvero totalmente disinteressato.
 
«Dio, ma non ti fa incazzare?!» sbottò allora e lui si limitò semplicemente a spostare lo sguardo gelido su di lei e a innalzare una delle sopracciglia. Motivo per cui dovette specificare: «L’intervista!»
 
«Incazzarmi per cosa?» mormorò Sergej, e lo fece quasi a fatica, come se gli costasse uno spreco inutile di energie, intavolare quella conversazione.
 
«Per quello che ha appena detto! Stava parlando di te, nel caso che tu non te ne fossi accorto!»
 
«E quindi? Che dovrei farci?»
 
A quella risposta Irina non seppe controbattere. Si morse le labbra per zittirsi e scosse la testa, rassegnata. In realtà ci sarebbero state milioni di cose da dire, miliardi di argomentazioni da affrontare e da inculcare in quella testa dura, ma in quel momento niente le sembrò più inutile.
A Sergej, forse, davvero non importava di niente. Affatto.
 
 
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«Dannazione!»
 
Il povero joystick rimbalzò violentemente contro il cuscino del divano, finendo inesorabilmente per rotolare sul morbido tappeto che decorava il pavimento, dove un Jayden furente stava pestando i piedi, reduce dall’ennesima sconfitta.
 
«Hai barato! So che hai barato!» urlò, incapace di accettare l’evidenza dei fatti.
 
«Spiegami come» rispose Cole con un sorrisetto di scherno, sollevando tronfio le braccia al cielo in segno di vittoria.
 
«Non lo so! Ma so che hai barato!» si chinò per raccogliere il controller e asserì: «Voglio la rivincita.»
 
Cole si lasciò sfuggire un mugugno, stiracchiandosi le braccia e portandole dietro la testa. «Io penso che invece mi ritirerò da vincitore e me ne andrò a dormire.»
 
«Dryden, non avrai mica paura?» lo sfidò Jay, avendo improvvisamente recuperato quella sua tipica aria sfrontata.
 
«Ok, ok» replicò, alzando le braccia in segno di resa e recuperando il joystick. Nessuno avrebbe mai potuto insinuare che Cole Dryden era uno che si tirava indietro, fosse stata una rissa in campo o l’ennesima partita alla Playstation, per via di un certo portiere dei Canadiens che non era in grado di digerire una plateale disfatta. «Pensavo che tre sconfitte di fila ti fossero bastate, ma se ti serve la quarta…»
 
«Taci e gioca!» lo zittì l’altro, che nel frattempo aveva già avviato la schermata d’inizio.
 
«Basta che non facciamo le quattro anche stavolta.»
 
«Figurati!» lo rassicurò Jayden. «Domani abbiamo le prove fisiche e se arriviamo tardi è la volta buona che tuo fratello ci uccide entrambi.»
 
«D’accordo, perdente. Questa è l’ultima però, eh» si raccomandò. Invano.
 
 
 
 
[i] Nome popolare dell’aeroporto di Montreal, che deriva dal quartiere dove sorge.
[ii] Quartiere residenziale di Montreal situato nella zona nord ovest dell’isola
 
 
 
 
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Che i capitoli arrivino in ritardo ormai è tradizione, quindi, perché cambiare?
Sì, sappiamo che avevamo detto una settimana, ma tra lavoro, università, drammi familiari ed emicranie varie non siamo riuscire a mantenere la promessa.
E così finalmente avete conosciuto Irina, quella povera disgraziata che ha a che fare con Sergej dal momento in cui è nata, letteralmente. E avete anche scoperto l’esistenza di un terzo Nevskij, meno “impaturniato” del fratello maggiore… mica poco!
Non vogliamo svelare altro sulla russa famigliola per adesso, ma a tempo debito saprete tutto.

 
Un grazie a chiunque abbia avuto il coraggio a seguirci fino a qui, nonostante quattro capitoli di molto nulla. Anche il prossimo capitolo sarà un principalmente introduttivo, tranne che per l’ultima parte, preludio del vero inizio, ma abbiate pazienza, promettiamo che da presto le cose inizieranno a girare. Come abbiamo già detto, sappiamo che ci sono mille personaggi, e ci tenevamo a caratterizzarli e farveli conoscere per bene prima di entrare un po’ più nel vivo della vicenda.
 
Da qui in poi si ricomincia con le pubblicazioni ogni due settimane… o almeno si spera!
Per il resto, grazie a voi per le letture, le recensioni e i commenti su facebook. E a proposito di facebook, vi ricordiamo il gruppo dove ci potete trovare insieme a Lyra Silvertongue, dove la parola d’ordine è disagio e paciocchini!
 
A presto,
 
Sam e Sid

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Capitolo 5
*** Awakenings ***



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5th Period. “Awakenings”
 
 


Un suono fastidiosamente stridulo e acuto prese a echeggiare alla sua destra.
Jan ci mise qualche secondo per realizzare che quell’odioso trillo era reale e non solo presente nel mondo onirico in cui si stava ancora placidamente crogiolando.
Ancora a occhi chiusi, proseguì a tentoni con la mano sulla superficie liscia del comodino, fino a quell’aggeggio infernale che gli stava fracassando i timpani. Diede un colpo secco alla sveglia e restò immobile sul letto, supino, nel tentativo di trovare da qualche parte la forza per alzarsi e abbandonare l’abbraccio delle lenzuola e di sua moglie, ancora addormentata al suo fianco.
Si stropicciò la faccia e controllò come ultima speranza l’effettiva ora sul display. Erano davvero le otto e trenta e non poteva contare di dormire un minuto di più.
Nel frattempo un familiare scalpiccio sul pavimento aveva fatto nascere un lieve sorriso sulle sue labbra. Finse di essere ancora addormentato e attese che uno scricciolo biondo si arrampicasse con un po’ di fatica sul letto e gli si gettasse addosso per svegliarlo.
 
«Sveglia, papà!» strillò sua figlia e lui continuò la sua recita, sobbalzando e facendole credere che quel tuffo a pesce sul suo petto fosse l’effettivo motivo che l’aveva costretto a destarsi.
 
«Lena» la chiamò, stirandosi e protendendosi a pretendere un bacio dalla bambina. «Se papà non avesse te, non saprebbe come fare a svegliarsi ogni mattina.»
 
Quel suo scricciolo, dai capelli lisci e chiari come la luna e gli occhi di un azzurro profondo, gli schioccò un bacio sulla guancia, cercando di emettere più rumore possibile per quella comune credenza dei bambini che “più forte è lo schiocco e più grande è il bacio”.
Jan ricambiò quel gesto d’incondizionato amore e si prese qualche secondo per osservare sua figlia che andava ad accucciarsi nello spazio libero tra lui e sua moglie.
Sofie – la sua Sofi – intanto, si era sistemata di fianco e, nonostante tenesse ancora gli occhi chiusi, aveva l’ombra di un’espressione divertita sulla faccia, a tradire il fatto che comunque aveva sentito tutto.
 
«Ehi, Lena. Guarda la mamma che dormigliona!»
 
«Io non devo andare a rinchiudermi in una palestra a faticare tutto il giorno» rispose questa, socchiudendo appena uno degli occhi chiari.
 
«Comoda la vita, signora Bäckström.»
«Non ne hai idea, signor Bäckström» ribatté in risposta, allungandosi per sfiorargli il braccio. «Esattamente come sarà questo letto quando tu te ne sarai andato e io e Lena potremo godercelo in pace. Vero amore?»
 
La bambina annuì con veemenza. «Papà deve andare in palestra a fare tutte quelle smorfie buffe!»
 
«Molto divertente» sospirò Jan, per poi dedicare un bacio per entrambe le sue donne e scovare finalmente la forza di alzarsi dal letto. «Tesoro, ricordati di dar da mangiare alla tua tartaruga Alexandra» aggiunse poi rivolto alla figlia, prima di avviarsi verso il bagno.
 
Primo, vero allenamento pre stagione, in cui li avrebbero massacrati dopo averli passati al microscopio con le visite mediche. Ma soprattutto, primo allenamento con quella certa persona, dove talento e sociopatia si reincarnavano in egual misura.
Si prospettava una giornatina niente male.
 
 
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Xavier uscì dalla doccia dell’elegante bagno, strofinandosi i capelli castani con l’asciugamano e soffermandosi dinnanzi all’ampio specchio che copriva buona parte della parete, sospeso sopra un mobile in marmo con due moderni lavabi dalla forma curiosa.
Non erano stati una sua scelta; niente, in realtà, lo era stato. Lui non aveva alcun interesse per gli oggetti di design e affini. Se l’intera casa sembrava uscita da una rivista sull’arredamento e il mobilio di lusso, lo doveva solamente alla persona che un tempo era stata “proprietaria” del lavabo accanto e gemello del suo.
Come una sorta di maledizione, nel momento stesso in cui si concesse di lasciarsi andare ai ricordi, con quella che presto avrebbe potuto definitivamente definire “ex moglie”, il telefono prese a squillare.
Con un sospiro stanco sollevò gli occhi verdi sullo specchio, quasi autoconvincendosi che, se avesse osservato con più attenzione, avrebbe trovato ai lati delle palpebre o magari sulla fronte, qualche sottile ruga in più. Tutto comunque, a causa dell’estenuante battaglia legale in cui la donna che un tempo aveva amato più di ogni altra cosa al mondo lo stava trascinando da troppo tempo.
Uscì dal bagno, ma non si diresse al telefono. Lo lasciò trillare come un ossesso finché giunse la segreteria a salvarlo da quel supplizio. Poi, continuando a strofinarsi i capelli e cercando qualcosa da indossare, ascoltò il messaggio concitato che, come ovviamente aveva previsto, era proprio di Lea von Weizsäcker: figlia di facoltosi industriali svizzeri, suo ex amore, madre dei suoi figli, nonché suo attuale peggiore incubo.
 
«Ovviamente, sia mai che tu ti faccia trovare!» iniziò il messaggio, facendo traboccare fin dalla prima sillaba tutta la rabbia e l’acidità di cui era capace. Motivo per cui Xavier inarcò le sopracciglia, quasi sperasse che potesse vederlo e, da quella sua espressione, intendere che lei e il suo insopportabile carattere erano proprio la causa per cui la evitava come la peste. Oltre al fatto che nessuno riusciva a fargli saltare i nervi o causargli un’ulcera precoce come lei.
E pensare che anni prima avrebbe fatto ogni genere di follia pur di averla.
 
«Ti ho chiamato per ricordarti dell’udienza. Vedi di presentarti a orari decenti e di non farci aspettare i tuoi comodi come la volta scorsa. Dio, non hai idea dell’imbarazzo! Se gli appuntamenti vengono fissati a una determinata ora, è perché si deve essere presenti!» proseguì a rimbeccarlo, e Xavier in quel momento si pentì di non averle risposto, anche solo per ricordarle che, se lei avesse preso appuntamenti sincerandosi prima che lui fosse completamente libero e disponibile, forse sarebbe anche potuto arrivare all’orario pattuito.
Questa era un’altra cosa di Lea che proprio non riusciva a digerire: il fatto che pensasse di poter agire come se il mondo le girasse attorno, e che gli impegni di lui non fossero importanti e seri quanto la gestione della sua stupida impresa.
A volte pensava che il motivo per cui il loro matrimonio era giunto al capolinea era che lei non aveva mai capito l’importanza di quello a cui lui aveva dedicato tutta la vita; gli sforzi di ogni giorno, per ciò che non poteva considerarsi “solo un gioco” né tanto meno un “hobby”.
Gli capitava di chiedersi se fosse stata anche colpa sua, se non l’avesse amata abbastanza e l’avesse davvero fatta sentire sempre al secondo posto. Si domandava quali ricordi avesse di lui, se era stato realmente un marito così pessimo e distante. Poi realizzava che non aveva più importanza, e che al punto a cui erano arrivati, non serviva a nulla continuare a rimuginare sul passato e su chi avesse sbagliato cosa.
 
«E poi, ricordati di tenerti libero per questo weekend. Spero che almeno non ti sia scordato che devi fare il padre!» la voce della sua ex moglie lo riportò alla realtà nel nominare i suoi doveri genitoriali. Detestava il modo in cui ne parlava, come se non fosse mai stato in grado di essere un buon padre, quando la realtà era che Lea stessa gli impediva di esserlo, tenendolo sempre troppo emarginato dalla vita dei suoi bambini. «Ho affari da sbrigare fuori dal Canada e, grazie alla tua gentilezza in tribunale, non mi è permesso di portare Noah e Camille con me. Quindi prenditi le tue responsabilità, smettila per un paio di giorni di giocare e occupati di loro. Li porterò da te di mattina, dato che il mio volo è alle dieci. Buona giornata.»
 
Sentire il “bip” che concludeva la chiamata fu un vero sollievo. Qualche altro secondo a sopportare Lea e il suo straparlare e avrebbe lanciato il telefono fuori dalla finestra.
Non ci riusciva proprio a non inveirgli contro di lui ogni volta che doveva contattarlo, a comportarsi in modo civile e a mantenere il tono garbato e a volte un po’ freddo che teneva con il resto del mondo.
Traeva soddisfazione nell’usarlo come capro espiatorio e gettargli addosso ogni colpa per un suo qualsiasi fallimento, primo fra tutti il rapporto con i loro figli.
Camille era ancora troppo piccola per capire davvero. Quando si erano separati aveva appena due anni. Noah invece, intuiva fin troppo bene ciò che stava succedendo tra i suoi genitori e chi era il tizio che aveva preso il posto di suo padre al fianco della madre. Capiva perché Lea non lo accompagnava più alle partite di hockey e anche perché il tempo da trascorrere assieme a Xavier si era drasticamente limitato. Nonostante questo però, Noah sembrava preferire di gran lunga la sua compagnia a quella della madre e del suo nuovo compagno; e la medesima situazione accadeva con Camille, per quanto Xavier stesso non riuscisse a stabilire se fosse una vera e propria preferenza o solo il voler imitare il fratello maggiore in tutto e per tutto.
Qualunque fosse la verità comunque, Lea incolpava lui delle preferenze dei figli e puntava il dito contro ogni suo gesto. Non capiva che il suo essere sempre così arrabbiata, austera e il suo continuo stare addosso a quei due bambini non facevano che allontanarli. Non vedeva come Noah guardava storto il tizio troppo serioso che non aveva mai tempo né attenzioni per lui, con cui sua madre aveva continuato la sua vita; e neanche come Camille si sentisse a disagio, quasi intimorita.
Xavier avrebbe tanto voluto spiegarglielo, soprattutto per sincerarsi che i suoi figli potessero vivere la migliore infanzia possibile, anche quando lui non poteva vederli e assicurarsene di persona. La sua ex moglie non era però disposta ad ascoltarlo, se non attraverso un avvocato, e così era andato avanti per anni stancanti.
A confronto della guerra che stava sostenendo con lei, l’allenamento fisicamente distruttivo che lo aspettava quella mattina non era niente. Anzi, poteva quasi considerarsi una manna dal cielo per sfogarsi.
Finì quindi di vestirsi e di preparare il borsone, quasi contento all’idea di trascorrere un’intera giornata chiuso dentro a una palestra, poi il telefono riprese a squillare.
Non completamente sicuro che non fosse ancora una volta Lea, decise di non rispondere. Quando però l’ennesimo “bip” della segreteria fece partire il messaggio del suo interlocutore, prese a ridacchiare. Jan, il suo capitano, lo conosceva fin troppo bene: «Non sono la tua ex moglie, tranquillo» gli sentì dire infatti. «Sono da te. Muoviti. Ti aspetto qui fuori.»
 
A Xavier a quel punto bastò affacciarsi per un attimo alla finestra, per individuare l’elegante SUV scuro parcheggiato davanti al suo vialetto, dove Jan lo stava aspettando. Gli fece un cenno per comunicargli di aver ricevuto il messaggio e, dopo aver sistemato le ultime cose e afferrato l’ingombrante borsone, uscì di casa per raggiungerlo.
 
«Dormito bene? Hai una faccia» lo accolse questo, abbassandosi appena gli occhiali da sole sul naso per osservarlo meglio, quando Xavier aprì lo sportello.
 
«Dormito, sì. È il risveglio con una telefonata di Lea che mi frega» gli rispose con un sorrisetto ironico. «Non faccio in tempo a ricordarmi chi sono, che ci pensa lei a darmi il buongiorno
 
Jan sollevò le sopracciglia in un’espressione di comprensione, poi ingranò la marcia e s’immise in strada. «Che voleva?»
 
«Come sempre ricordarmi dell’ennesima udienza. E che questo weekend porterà da me Noah e Camille perché lei e il suo impegnatissimo, super diligente e responsabile uomo devono fare un viaggio di lavoro per la sua importantissima impresa» spiegò, con una smorfia. «Niente in contrario a riguardo. Il problema è che non ricordo quando le ho affidato il ruolo di mia segretaria, nonché la facoltà di rendermi la vita un inferno.»
 
«Quando l’hai sposata, la bellezza di otto anni fa!»
 
«Perché non mi hai dato una botta in testa quel giorno?»
 
«Perché ancora non ti conoscevo» ridacchiò il capitano, «e poi, se l’hai fatto e sei arrivato fino in fondo, avrai avuto i tuoi motivi.»
 
«Sì, ero un ragazzino idiota, stordito dai soldi e dal fatto che finalmente potevo farmi baciare le chiappe da quel tiranno di suo padre» confessò allora Xavier, quasi sprofondando nel sedile e posando gli occhi sul panorama della città che scorreva ai lati della via. «Avevo afferrato completamente ogni mio sogno. Non poteva più darmi del ‘ragazzino fallito, senza un obiettivo serio nella testa’.»
 
«Uh. L’ebrezza del ‘vaffanculo, stronzo’.»
 
«Esattamente.»
 
«Solo questo? Sicuro? Non si sposa qualcuno solo per dimostrare a qualcun altro che aveva torto.»
 
«Siamo cambiati. Tutti e due, credo» sospirò. «Lea di sicuro. O forse sono io che sono rimasto sempre lo stesso e a lei non andava più bene. A volte mi resta perfino difficile ricordare cos’è che c’ha fatto tanto perdere la testa. Sembra lontano milioni di anni.»
Jan annuì, poi restò in silenzio per un po’. Guardava con attenzione la strada, ma sembrava rimuginare nell’indecisione di chiedergli qualcosa o tacere. Poi, evidentemente, optò per la prima: «Non te l’ho mai chiesto ma, se potessi tornare indietro e cambiare le cose, lo faresti?»
 
«Non lo so. Forse, per i miei figli» fu il suo primo pensiero e la sua risposta di getto, «ma se dovessi farlo per com’eravamo... be’, non lo so. Non riesco neanche a ricordare davvero com’era.»
 
«Ti offendi se ti dico che non t’invidio per niente?»
 
«No di certo, Jan. Hai una famiglia stupenda e non tutti hanno questa fortuna. Tienitela bella stretta Sofi. Lei che non ha in testa l’obiettivo di staccarti le palle e passarle nel frullatore!»
Alla sua risposta Jan scoppiò a ridere, poi, dal nulla, si voltò verso di lui con un sorrisetto divertito e chiese: «Hai mai pensato di rimetterti in gioco?»
 
«Eh?»
 
«Con qualcun’altra intendo!»
 
«Ripeto, ‘eh?’»
 
«Andiamo, Xavier! Hai trentadue anni, non mille!»
 
«Jan, devo ancora uscire vivo dagli effetti collaterali di un matrimonio. Scusa tanto se non sono così propenso e pronto a gettarmi in un’altra storia!» esclamò allora, aggrottando la fronte e assumendo quasi un’aria terrorizzata all’idea di un’altra donna che potesse contribuire al sua “evirazione psicologica”. «E poi prima ci sono i miei figli. Devo pensare a loro e alla stagione. Non ho ancora troppe occasioni per vincere la Stanley!»
 
«Ti prego, mi sembra di sentir parlare Sean! Tutto hockey, genitori, fratelli e nipoti. Mai una volta che lo si senta o veda divertirsi con qualche ragazza!»
 
«È uno con la testa sulle spalle. Non puoi fargliene una colpa perché tu, alla sua età, pensavi a correre dietro tua moglie anziché al puck!» lo rimbecco, per poi aggiungere: «E ci sono già Jay e Cole che ci pensano, a fare baldoria e stare appresso a ogni gonna. Se quest’anno non si danno una regolata, Wayne li farà neri.»
 
«Già... e poi abbiamo la nuova grana» commentò Jan in risposta, ovviamente in riferimento al nuovo e glaciale arrivato. «Che ne pensi?»
Xavier scrollò le spalle. «Faccio come te. Cerco di non pensarci. Staremo a vedere di cosa è capace questo Nevskij.»
 
«Non è delle capacità che mi preoccupo.»
 
«Lo so, ma non abbiamo comunque altra scelta, se non quella di aspettare e sperare.»
Jan emise uno sbuffo ironico. «Una cosa da niente...»
 
 
******
 
 
I primi raggi di luce filtravano già attraverso lo spiraglio tra le tende chiuse malamente la sera prima, quando allo scattare del minuto la stanza si riempì delle note di “Meet me half way” mescolate al fruscio tipico della radiosveglia che da sempre aveva problemi a trovare la frequenza perfetta. Sean liberò il braccio da sotto il cuscino e, senza tentare nemmeno di aprire gli occhi, diede un pugno all’infernale oggetto con cui litigava ogni mattina da ormai ventiquattro anni. Premette i tasti in modo assolutamente casuale, finché non individuò qualcosa che lo rendesse dell’umore adatto a trovare il coraggio di abbandonare il tepore e la morbidezza delle coperte, e questo di sicuro non era una pessima canzone dei Black Eyed Peas. Lo scroscio ritmico della doccia si interruppe senza che Sean si accorgesse nemmeno del fatto che l’acqua fosse aperta in primo luogo, e dei passi ovattati si avvicinarono, lasciando una scia di impronte lungo il corridoio.
 
«Mattiniero come al solito, vedo» ridacchiò il ragazzo appena apparso sull’uscio della camera.
 
«Ti ricordo che è stata mia madre a dire che sei sempre il benvenuto da noi, non io» mugugnò con la voce ancora impastata dal sonno Sean, riuscendo finalmente a sollevare una palpebra e cercando di mettere a fuoco l’altro. «E se non sbaglio, quello è il mio asciugamano.»
 
«Se vuoi te lo restituisco» rispose con voce fintamente ammiccante Étienne, mentre con una mano cominciava a disfare il nodo che teneva la spessa stoffa marrone annodata sui fianchi.
 
«So che voi finti hippie radical chic del nuovo millennio avete una concezione tutta vostra di ciò che è appropriato, ma rifiuto l’offerta» gli rispose, «e già che ci sei, vedi di tornartene in bagno, perché stai allagando la stanza, e poi tocca a me pulire» aggiunse mentre si girava su un fianco dando le spalle all’amico, sperando così di chiudere la conversazione e tornare a godersi il dormiveglia.
 
 «Che brava donnina di casa che sei diventato. Tua madre sarà così fiera di te!» scherzò Étienne, ottenendo come unica risposta un mugugno e un cenno della mano poco convinto.
Evidentemente non contento della sua mancata reazione, avanzò verso il letto cercando di fare il meno rumore possibile.
 
«Ets… » lo minacciò allora, sospettando già delle sue intenzioni.
Il ragazzo non gli diede tempo di reagire, che saltò sul letto e cominciò a scuotere i riccioli scuri, cercando di bagnarlo il più possibile; Sean si alzò a sedere e si liberò dell’incombente presenza con uno spintone, mandando Ets a gambe all’aria sull’altro lato del letto.
 
«Io cerco di svegliarti per non farti arrivare tardi all’allenamento, evitandoti più tempo in sala pesi e tu mi ringrazi lanciandomi per la stanza!»
 
«No, sono io che ti offro ospitalità a casa mia e tu mi ringrazi tormentandomi! E comunque devo ancora capire perché sei ancora qui e perché puntualmente, ogni volta che usciamo, scrocchi da dormire, visto che lavori a cento metri da casa tua.»
 
«Uh come sei petulante! E non è colpa mia se i miei coinquilini mi impediscono di dormire una notte sì e l’altra pure. Dato che tanto mi tengono sveglio ogni notte, sarebbe almeno gentile invitarmi a unirmi a loro: di certo non mi lamenterei di una cosa a tre una volta ogni tanto» spiegò con la voce più innocente possibile Étienne.
Sean mascherò una risata con uno sbuffo, cercando di non dargli soddisfazione.
 
«Resta il fatto che sei sempre qui a scrocco. Ora levati, che ho ancora mezz’ora prima della sveglia definitiva, e ho intenzione di godermi a pieno ogni minuto che mi resta» dopo di che si tirò il lenzuolo fin sopra alla testa, chiudendo in modo definitivo la conversazione.
Sentì Ets sollevarsi dal letto ridacchiando e vagare per la stanza per recuperare dalla poltrona i jeans e la maglietta che ancora odorava del fumo del locale dove i due avevano passato la serata precedente.
 
Mezz’ora dopo, furono le note di “Use Somebody” a decretare il risveglio definitivo di Sean, che si mise a sedere sul bordo del letto, stropicciandosi con forza il viso ancora intorpidito dal sonno, o meglio, dalla carenza di quest’ultimo.
Sapeva che uscire con Ets era una pessima idea, perché se anche si riprometteva di tornare presto, non riuscivano mai a rincasare prima delle tre del mattino. Con la scusa poi del dover mangiare qualcosa, la serata proseguiva inevitabilmente per almeno un altro paio di ore sul grande divano di pelle nera del salotto di casa sua, cambiando canale alla televisione finché non avessero trovato qualche programma altamente culturale come “Combattimenti tra i Dinosauri”, e mettendo su scommesse dalle poste improbabili su quale creatura preistorica avrebbe vinto sull’altra.
Con uno sbuffo rassegnato, riuscì finalmente a trovare la forza di alzarsi, e si avviò con passo incerto verso il bagno, mentre con una mano si scompigliava i capelli già messi a dura prova dalla notte.
Il potente getto della doccia sembrò rimetterlo in sesto e lavare via almeno un minimo della stanchezza rimasta dalla sera prima. Si vestì velocemente, lottando come al solito contro l’orologio che gli ricordava quale pessima idea fosse stata restare nel letto quei dieci minuti in più. Si diresse a passi rapidi in cucina, alla ricerca delle chiavi, dove si accorse della presenza di sacchetto di carta marrone, accanto al quale un foglio di carta ripiegato spiccava sul marmo scuro del bancone. All’interno della busta, su cui capeggiava il celebre logo di Tim Hortons, trovò una tazza e una ciambella glassata. Divorò quindi il dolce e, mentre gustava il caffè – rigorosamente senza zucchero e con un goccio di latte – aprì il biglietto e cominciò a decifrare la disordinata calligrafia.
 
Considerando che non ho neanche fatto in tempo a infilarmi la maglia che stavi già russando, di sicuro non ti sarai accorto di nulla. Ho preso in prestito le tue chiavi, e ora sono sul chiodo accanto alla porta, come tua madre ha cercato sempre di insegnarti, anche se ha fallito miseramente, visto quanto ci metti ogni volta a trovarle.
Goditi la colazione, e la prossima volta vedi di non lamentarti della mia presenza, perché con quella ciambella mi sono come minimo pagato i prossimi venti soggiorni a casa tua!

Buon allenamento,
-Ets
PS: quando hai finito chiamami.
PPS: Cambia divano perché mi è venuto mal di schiena a metà nottata.”
 
 
******
 
 
Sollevò le palpebre a fatica. Lentamente le ciglia si scollarono tra loro e lo lasciarono tornare a quella realtà di fredda penombra.
Una breve occhiata e, come per ogni risveglio, le braccia della consapevolezza che non fosse tutto uno stupido incubo erano lì, pronte ad accoglierlo.
Era ancora disteso e rannicchiato sul materasso duro, sulla vecchia e scrostata struttura in ferro del letto. La coperta di lana beige e le lenzuola lo avvolgevano come un fagotto e odoravano di detersivo e disinfettante. Dalla finestra poi, riusciva a scorgere il pallido chiarore dell’alba: inconfondibile avviso che era quasi giunta l’ora di abbandonare quel giaciglio.
Si mosse un poco, con cautela, strusciando per allungarsi verso il comodino e afferrare la pezza fradicia di acqua fresca, abbandonata lì dalla sera precedente.
Il labbro gli pulsava ancora, lo zigomo sinistro non poteva neanche lontanamente sfiorarlo, così come il naso. Aveva la faccia ridotta a una zampogna, gli doleva anche di vecchie botte ed era così gonfia che a malapena la sentiva sua.
Abbandonò quello straccio zuppo sulla fronte e si riscosse di un breve brivido, non tanto per il contatto con l’acqua, ma per quell’aria fastidiosamente umida che si posava su ogni cosa come un manto opprimente.
Faceva sempre così dannatamente freddo in Siberia, quasi più che nella sua Archangel’sk. Era un freddo diverso, ti entrava dentro e restava aggrappato alle ossa. Faceva male anche respirare.
Poi, d’improvviso, il silenzio di quella stanza angusta venne rotto dallo schianto di una maniglia abbassata con forza e dalle briciole di ruggine che schizzavano all’apertura di quella porta in ferro malandata.
Non sentì più freddo né dolore, mentre una sagoma nera si affacciava sulla soglia, irriconoscibile per via della luce gialla tremolante alle sue spalle. Non che fosse una cosa rilevante, ma una parte di sé avrebbe voluto sapere a chi apparteneva quella voce. Ricordare chi aveva parlato e inconsapevolmente l’aveva salvato.
«Prepara le valige, ragazzino» gli disse semplicemente. «Domani te ne vai.»
 
Quando Sergej aprì di nuovo gli occhi, il risveglio fu molto meno brusco.
Il buio lo avvolgeva ancora, ma era quasi rassicurante. Una lama di luce brillava sul fondo dell’avvolgibile e il letto su cui era disteso era decisamente più comodo, seppur non fosse solo.
Si stropicciò gli occhi e la faccia, poi si girò su un fianco, prima di borbottare: «Ira, che diavolo ci fai qui?»
 
«Cercherei di dormire, se me lo lasciassi fare» mugugnò lei, rannicchiandosi con noncuranza.
 
Ed eccoci di nuovo. C’erano cose di sua sorella che non sarebbero mai cambiate, neanche tra cent’anni. Una era il suo sonno leggero: bastava il minimo rumore per svegliarla ed era addirittura capace di sostenere una conversazione nel dormiveglia. L’altra invece, era il suo perenne vizio di infilarsi nel suo letto. Era un’abitudine a cui proprio non sapeva rinunciare. Fin da quando erano piccoli, i suoi c’avevano provato in tutti i modi a dividerli, ma la caparbietà di Irina l’aveva sempre spuntata.
Sergej non sapeva spiegarsi il motivo per cui lei si impuntasse così tanto a volergli dormire a fianco, ma quella costante presenza l’aveva sempre rassicurato, nonostante per lui non fosse così necessaria come per Irina.
 
«C’è un letto altrettanto comodo nell’altra stanza» protestò comunque flebilmente, e lei si limitò a girarsi sull’altro fianco e a dargli le spalle. Nel loro linguaggio in genere significava “discorso chiuso”.
Con uno sbuffò si risistemò supino, le braccia incrociate sotto la testa.
La sveglia non era ancora suonata ma, quando diede un’occhiata al quadrante, si rese conto che non mancavano che pochi minuti perché il familiare trillo invadesse la stanza. Spense quindi l’allarme e si concesse un po’ di tempo a crogiolarsi ancora nel groviglio di lenzuola.
 
«Farai tardi» mugugnò allora la sua gemella, con la voce ovattata dalla pressione del cuscino sulla guancia.
 
«Non dovevi dormire?»
 
«Il tuo essere uno stronzo patentato è già un pessimo biglietto da visita» lo rimbeccò lei, riuscendo a malapena a scandire le parole. «Almeno cerca di farti perdonare con la puntualità.»
 
Sergej soffiò scocciato. «Perché invece non pensi a come riempire le tue giornate?»
 
«Mh» mormorò lei, e lui non seppe dire se quel rumore indefinito dovesse avere anche un significato vero e proprio. «Purché tu poi, non riversi il tuo odio per il mondo su di me. Solo perché ti sei preso una lavata di capo.»
 
Roteò gli occhi esasperato, anche se lei non poteva vederlo. Poi si arrese: «Ho capito, mi alzo.»
 
A fatica abbandonò il letto, si passò ancora una volta le mani sulla faccia come a strofinare via il sonno, e decise di prendersi una piccola vendetta contro Irina. Prima di abbandonare la stanza difatti, si premurò di sollevare interamente l’avvolgibile, così che la luce accecante di quel soleggiato giorno d’agosto andasse dritta a colpire la faccia di sua sorella.
 
«Serëža!» lo chiamò lei in un lamentoso mugugno, rifugiandosi disperatamente sotto le lenzuola. «Sei un tale bastardo! Chiudi quel coso
 
«Scusa, Ira. Non posso» dichiarò con totale noncuranza, mentre arraffava qualcosa a caso da indossare dagli scatoloni che occupavano anche gran parte di quella stanza. «Potrei far tardi. Non vorrai certo che mi prenda una ‘lavata di capo’ solo perché non ti vuoi alzare a chiuderlo da sola.»
 
«Perché non ti ho strozzato col cordone ombelicale?! Ho avuto nove dannatissimi mesi per farlo senza essere accusata di fraticidio
 
Sergej si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, ignorando il resto degli improperi incomprensibili che Irina continuava a borbottare con la testa ficcata sotto il cuscino, poi si avviò verso l’enorme bagno con l’intento di darsi un’ultima svegliata con una doccia veloce. Si premurò quindi di preparare il vecchio borsone che “per un puro e sfortunato errore” aveva dimenticato di lasciare nello spogliatoio dei Washington Capitals e, per ultima cosa, si affacciò nuovamente alla soglia della sua stanza per rivolgersi a sua sorella, ancora barricata nel tentativo di rifuggire la luce: «Se esci cerca di non metterti nei casini, né di spendere tutti i tuoi soldi e, se puoi, evita anche di perderti» l’ammonì, con tono volutamente antipatico. Certe volte era quasi divertente farla innervosire. «Se resti in casa, non farti neanche balenare in testa l’idea di frugare tra la mia roba. Ci vediamo stasera.»
 
«Tu cerca solo di non farti ammazzare da uno dei tuoi compagni!» esclamò lei, lanciandogli contro il cuscino e mancandolo di almeno un metro. «Anche se in questo momento darei loro una mano tanto volentieri!»
 
Con un mezzo sorriso stampato sulle labbra Sergej si chiuse la porta dell’appartamento alle spalle e scese di corsa tutte le rampe di scale fino al parcheggio, dove la sua – doveva ammetterlo – appariscente spider lo stava aspettando.
Si mise al volante e, un attimo prima di mettere in moto, venne distratto dal suono che proveniva dal suo cellulare. Non c’erano molte persone che si premuravano di mandargli messaggi di prima mattina e, a meno che non fosse Irina, che non si era ancora stancata di rivolgergli simpatici insulti, poteva appartenere solo a un’altra persona: Aleksej.
Fu infatti il suo nome a comparire sullo schermo. Il suo – ormai ex – capitano, Aleksej Ivchenko, non era riuscito a rinunciare al suo personale e stupido vizio di mandargli “messaggini del buongiorno”.
Buongiorno Stellino” iniziava, e Sergej provò l’immediato impulso di cancellarlo, senza neanche leggere il resto. Da quando in quella trasmissione sportiva gli avevano affibbiato quel “Supernova”, quel idiota di Alyosha non la piantava di chiamarlo a quel modo.
Gli aveva scritto in cirillico. Non per una personale scelta, ma perché quella capra – come spesso Sergej lo chiamava – nonostante abitasse in America e parlasse ogni giorno inglese da almeno un anno in più di lui, non aveva mai imparato a scriverlo. Dimostrazione di questo, erano gli improbabili messaggi che lasciava su Twitter, dove in soli centoquaranta caratteri era capace di massacrare secoli e secoli di cultura, e per cui Irina e tutto il resto del mondo lo sfottevano perennemente. Per anni infatti ci aveva pensato sua sorella a premurarsi di immortalare le castronerie linguistiche di Aleksej e a inviargliele per renderlo partecipe.
Nonostante tutto comunque, in un moto di sopportazione, decise di leggere anche il resto: “Come procedono le cose a Montréal? Mi auguro tu non abbia già fatto saltare i nervi a tutta la squadra. Qui comincia oggi l’inferno in palestra e, per quanto sia più che certo che non sentirò affatto la mancanza del tuo brutto grugno, sarà un po’ strano non vederti in giro dopo tutti questi anni. Fatti sentire ogni tanto. PS: Mi dispiace per l’uscita di Travis. Non farci caso, è solo un coglione. PPS: Sai mica niente, per caso, di un certo borsone che è sparito con tutta la roba dentro?”
Sergej sorrise nel leggere quell’ultima domanda. Sapeva benissimo che era ironica e che non avrebbe mai potuto nascondere ad Aleksej la sua minuscola, infantile vendetta.
Fece poi per inforcare gli occhiali da sole e abbandonare il cellulare sul sedile senza una riposta. Alyosha avrebbe comunque visto che il suo messaggio era stato letto e di certo non si sarebbe aspettato altro. In tutti quegli anni insieme aveva fatto centinaia di lunghe conversazioni unidirezionali, quindi non sarebbe stato niente di diverso dalle loro abitudini. Quando però arrivò ad abbandonare quel gioiellino di tecnologia sulla morbida pelle degli interni, Sergej non fu più così certo di voler lasciare il suo vecchio compagno anche stavolta senza una risposta.
Non l’avrebbe mai ammesso, ma un po’ gli sarebbe mancato non averlo più intorno, perennemente concentrato a punzecchiarlo ogni sacrosanto giorno. Fin dal suo approdo in America, e anche prima, Aleksej era sempre stato al suo fianco. Era una delle poche persone che sapeva prendersi certe confidenze, che riusciva a scuoterlo dal torpore della sua ostinata solitudine, e tenergli a mente che c’erano anche bei ricordi della sua adolescenza in Russia. Non solo incubi.
Doveva confessare che, anche se consapevole della difficoltà della cosa, una parte di sé aveva sempre dato per scontato che sarebbero arrivati insieme, nella stessa squadra, fino alla fine della loro carriera. Alla fine infatti, i tanto osannati “talenti di Jaroslavl’” erano stati separati, e un po’ se ne dispiaceva.
Riaprì quindi il messaggio e digitò una risposta veloce. Non c’era bisogno che scrivesse granché, dato che Alyosha sarebbe stato comunque sorpreso dall’atto stesso.
Tutto bene” scrisse infatti, per poi aggiungere: “Non ho proprio la più pallida idea di che borsone tu stia parlando. Ci vediamo presto, di sicuro sul campo.”
Inviato il testo, lasciò finalmente il cellulare sul sedile e girò la chiave nel quadro. Il motore della spider emise il suo classico rombo, prima di lasciarlo partire alla volta di Brossard.
Le tranquille villette a schiera del quartiere dove aveva scelto di abitare vennero sostituite dai grattacieli che presero a sfilare ai margini dell’ampia strada, mentre per la prima volta, dopo tanto tempo, sentiva di potersi concedere un po’ di tranquillità e pace dai suoi mostri. Quel tanto che bastava almeno per godersi un po’ il suo nuovo inizio e il dolce amaro brusio che percepiva sul fondo del cuore, nel salutare in quel modo Aleksej.
Non era un addio, lo sapeva. Non lo sarebbe mai stato, eppure il sapore era simile, affiancato al frizzante gusto di quella sfida tra loro, che li aspettava e che molto presto li avrebbe visti protagonisti.
Quasi seguisse il filo dei suoi pensieri, lo schermo del cellulare s’illuminò di nuovo. Sergej riuscì a voltarsi giusto in tempo per leggere quelle poche righe.
Ci vediamo sul campo, sì. Ne hai parecchie da scontare, quindi ricordati di tenere la testa alta e gli occhi aperti. In bocca al lupo, Serëža.”
 
 
******
 
 
Una sensazione di umido si fece strada sul volto di Kyle, strappandolo, almeno in parte, dal mondo dei sogni nel quale era profondamente sommerso. Qualcosa di caldo e bagnato stava vagando per la sua faccia e, abbinato al peso sullo sterno, la risposta poteva essere solo una: «Butch!»
 
Kyle allontanò la testa disgustato, mentre il bulldog inglese, interpretando la sua ritirata come una sfida, si impegnava ancora di più a coprire di saliva ogni centimetro a lui accessibile. Davanti a quella scena, una profonda risata riempì la stanza, distraendo il cane, e permettendogli finalmente di aprire gli occhi senza rischiare di essere aggredito nuovamente.
 
«È sempre un piacere venir svegliato da te, Boris» biascicò, mentre cercava di mettere a fuoco l’ambiente circostante.
 
«E per me è sempre un piacere venire a svegliarti» gli sorrise l’altro sornione, mentre con un cenno della mano richiamava a sé il bulldog che, con saltello decisamente poco aggraziato, scese dal letto e si mise a curiosare per la stanza.
 
«E stamattina non ti era venuto in mente niente di meglio che farmi assalire da Butch?» domandò sarcastico Kyle, appoggiandosi su un gomito per sollevare il busto dal materasso e fulminare con lo sguardo il suo coinquilino.
 
«Pensavo l’avresti apprezzato. In fondo sembrate vivere in simbiosi. Comincio a sospettare che consideri te come suo padrone, ormai» rispose il russo, accarezzando la massiccia testa dell’animale.
 
«Sì, ma preferirei che il nostro rapporto rimanesse sul piano puramente platonico, e ritrovarmi la sua lingua in faccia di prima mattina sorpassa di gran lunga questo confine» replicò stizzito.
 
«Dai, muoviti che altrimenti arriviamo in ritardo» Boris si avviò verso la porta con Butch che gli trotterellava al seguito. Raggiunto il corridoio, si affacciò di nuovo sull’uscio, aggiungendo con tono canzonatorio: «E vedi di farti una doccia, che puzzi di cane.»
La sua risata fu però coperta dal tonfo del cuscino lanciato da Kyle, che andò a colpire la porta, tempestivamente usata come scudo.
 
«Questa me la paghi!» urlò prima di lasciarsi andare e gettarsi nuovamente sul materasso.
 
 
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Dall’altro lato della città, un ancora assonnato Jay si stava godendo il tepore del potente getto d’acqua della sua doccia. Immerso nei suoi pensieri allungò il braccio verso la mensola di metallo bianco per raggiungere il bagnoschiuma, quando lo squillante trillo del campanello lo riscosse violentemente. Sobbalzò, lasciando precipitare il barattolo che cadde rovinosamente sul suo piede e, maledicendo colui che lo aveva interrotto, il portiere dei Montréal Canadiens uscì dalla doccia e, dopo essersi avvolto nell’accappatoio, si diresse verso la porta.
 
«Sei sceso dalla piccionaia, finalmente!» esordì, sapendo già chi si sarebbe trovato davanti.
 
«Prima o poi ti riprenderai dallo smacco di non essere riuscito a fregarmi l’appartamento all’ultimo piano» rispose Cole, con tono accondiscendente. «Perché non sei ancora vestito?» aggiunse poi, dopo averlo squadrato da capo a piedi.
 
«Perché non mi sono svegliato, per colpa di qualcuno a caso qui, che mi ha obbligato a giocare fino alle tre con la Play Station» rispose Jay piccato.
 
«Non c’è bisogno che mi ricordi le tue patetiche scenette di ieri sera. Le ho ancora ben impresse nella mente» replicò a tono l’amico. «Com’è che era? Ah, sì! “Dai, dammi la rivincita!”» aggiunse Cole con voce lamentosa mentre cercava di rendergli la sua migliore imitazione, ricevendo come unica risposta uno spintone.
 
«Vado a finire di lavarmi, che è meglio!»
Una volta terminata la doccia e dopo essersi vestito si diresse verso la spaziosa cucina, pregustandosi i cornetti che si era comprato il giorno precedente, come incentivo per svegliarsi in tempo. L’aria permeava di un forte odore di caffè appena fatto, facendogli venire l’acquolina in bocca al pensiero.
 
«Ma allora ogni tanto sei pure utile a qualcosa!» esclamò per rendere manifesta la sua presenza all’altro, troppo impegnato a sfogliare una rivista sdraiato sul divano.
 
«Dovresti solo essere grato per avere l’amico migliore del mondo che ti fa trovare il caffè pronto per quando esci dalla doccia» replicò Cole, «e un buon modo per ringraziarmi sarebbe smettere di comprare i cornetti al miele.»
Lo sportello che stava aprendo si bloccò a metà strada, e Jay rimase per un istante immobile, analizzando nei dettagli quelle parole, sicuro di non aver ben compreso. «Come fai a sapere a che gusto erano i cornetti?»
 
«Sai che non ho mai tempo di fare la spesa, e non avevo nulla per colazione.»
Chiaramente udito il tonfo contro il muro alle sue spalle, Cole sollevò pigramente lo sguardo per posarlo su di lui.
 
«Mi hai mancato di almeno mezzo metro. Meno male che non sei tu quello che deve tirare in porta» disse, tornando poi a rivolgere la sua completa attenzione al giornale.
 
«Se vuoi ritento la fortuna» rispose Jay, già armato di un secondo utensile, e brandendo questa volta una spatola.
Notando però che il vicino di casa non aveva alcuna intenzione di considerarlo, decise di optare per la diplomazia riponendo l’oggetto sul bancone, e si fece forza armandosi di ciotola e corn flakes, rivolgendo di tanto in tanto occhiate di puro odio al suo compagno. Lo osservò come, dopo aver finito di sfogliarlo svogliatamente, lanciò la rivista sul tavolino di vetro di fronte a lui.
 
«Buona la colazione?» lo sfotté poi, mentre si alzava per dirigersi verso lo specchio appeso vicino all’entrata.
 
«Ti ricordo che oltre ai mestoli ho pure i coltelli a portata di mano.»
 
«Ecco, io vista la tua mira, eviterei» rispose prontamente l’altro. «Dimmi che quell’orologio è terribilmente in avanti» aggiunse poi con voce preoccupata, fissando il grande quadrante scuro che troneggiava sulla parete.
 
«No, perché?» biascicò in risposta, continuando imperterrito a masticare i suoi cereali.
 
«Oh cazzo…»
Fece appena in tempo ad appoggiare la scodella, quando si sentì afferrare la maglia da un impanicato Cole che lo trascinò a forza fuori dalla porta e verso il garage. Salirono in macchina, che Jayden non aveva neanche finito di ingoiare l’ultimo boccone, e Dryden partì sgommando.
 
«Questa volta Wayne ci uccide» sospirò con malcelata disperazione Cole. «Ed è tutta colpa tua!» proseguì scandendo ogni parola con un pugno sul suo avambraccio.


«In caso non lo sapessi, la colazione è fondamentale per... »


«Sai cos'altro è fondamentale? » lo interruppe prontamente Cole. «Sopravvivere alle ire di mio fratello!»


«Ehi, non sono io quello che ha perso dieci minuti davanti allo specchio per sistemare un singolo ciuffo!»


«Se proprio devo morire, fammelo almeno fare con classe» si difese, abbassando poi il parasole per controllare nuovamente il risultato finale, probabilmente perché continuare a insultare il traffico non sembrava farlo scorrere più velocemente.
 
 
******
 
 
Di una cosa era assolutamente certo: i suoi nuovi compagni non erano a conoscenza della parola “quiete”, “pace” o di un qualsivoglia sinonimo.
Dopo una giornata distruttiva interamente trascorsa in palestra, avevano ancora la forza di scherzare, rincorrersi tra gli spogliatoi e le docce, proseguire con vendette su vendette, e “vendette delle vendette”. Sembravano più una scolaresca di quattordicenni sotto gli effetti dei primi spinelli, che giocatori appartenenti alla lega di hockey di maggior prestigio.
Una volta rientrato nello spogliatoio dalla palestra infatti, la scena che si era presentata davanti ai suoi occhi, consisteva in un’esplosione di vestiti gettati alla rinfusa qua e là, una bottiglia di bagnoschiuma interamente sacrificata per chissà quale guerra davanti alla soglia che portava alle docce, e infradito che venivano lanciate da una parte all’altra della stanza.
Di una sola cosa era stato grato Sergej: almeno avevano avuto il buongusto e la saggezza di lasciare intatta la sua roba, nell’angolo dove l’aveva posata.
Trascorso il primo attimo di sbigottimento totale comunque, trovò la forza e il coraggio di entrare e lasciarsi ricadere sulla panca, poggiandosi al muro nella speranza di riuscire a recuperare un contatto con le proprie gambe.
Chiuse gli occhi per rilassarsi, cercando di ignorare quel trambusto, quando la voce di Kyle s’innalzò a livelli capaci di sfondargli i timpani: «Siete due coglioni!» aveva difatti gridato, inveendo contro Cole e Jayden. «Dove diavolo avete cacciato la mia roba?!»
 
A quelle accuse, i due chiamati in causa si scambiarono prima uno sguardo falsamente incredulo, poi, toccò a Dryden proseguire la farsa: «Noi? Non abbiamo la più pallida idea di dove sia!»
 
«Ah, certo! Di sicuro il mio borsone non si è magicamente dotato di gambe e se n’è andato a fare un giro!»
 
«Ciò non implica che la colpa sia nostra» replicò allora il tanto osannato portiere dei Canadiens. Probabilmente nessuno dei giornalisti che esaltava le sue doti di estremo senso di responsabilità e serietà sul campo, aveva mai passato neanche un secondo dentro gli spogliatoi in sua compagnia.
 
«Siete quasi in età da pensionamento e già ricominciate con questi banali scherzi da liceali?»
 
«Pensionamento a chi?» grugnì Cole, già pronto ad afferrare Kyle per proseguire quella loro infantile battaglia, quando Jan fece la sua entrata nello spogliatoio, affiancato da Sean.
Gli occhi chiari del capitano si posarono sul disastro che occupava gran parte del pavimento giusto un paio di secondi, prima di risollevarsi a fulminare il trio in questione. «Voi tre» li chiamò poi, «avete già intenzione di facilitare il divertimento a Wayne? Siete già pronti a scontare la vostra stupidaggine in esercizi extra
 
«Sono questi due idioti!» replicò immediatamente il più giovane. «Non è colpa mia se ancora si divertono a nascondermi la roba!»
 
«Un po’ te lo meriti, Kyle» ridacchiò Sean. «Chi è che un paio di mesi fa si divertiva a manomettere le borracce?»
 
«Almeno i miei erano scherzi più intelligenti e costruttivi!»
 
«Costruttivi?!» risposero all’unisono Cole e Jayden, con una sincronia quasi invidiabile. Quei due, sicuramente, passavano fin troppo tempo insieme, e Sergej cominciava a sospettare che, oltre al palazzo, avessero in condivisione anche il cervello.
Comunione cerebrale o meno che fosse, comunque, il vero problema consisteva nel fatto che quel frastornante battibecco si era trasformato in una nuova guerriglia che non sembrava dover finire molto presto.
Si stropicciò la faccia come ogni volta che qualcosa rischiava di minare il già precario equilibrio dei suoi nervi e, augurandosi di non ritrovarsi con un’emicrania, prese dal borsone l’occorrente per la doccia.
 
«È sempre piuttosto sconvolgente la prima volta, ma ti assicuro che ci si fa presto l’abitudine» lo sorprese Jan, sedendoglisi accanto. «Presto le tue orecchie ne saranno immuni.»
 
Sergej annuì, cercando di fingersi almeno un po’ convinto. Molto probabilmente il capitano si era accorto della sua espressione insofferente e, da quel che aveva potuto constatare, non era neanche stato il solo. Anche Sean Weiss – il gioiellino dei Canadiens – l’aveva notato, ma dall’occhiata che gli aveva rivolto, non sembrava affatto così ben disposto a tollerare come Jan.
 
«Lo spero» sospirò poi, tornando a fissare i contendenti della diatriba. Quei tre erano così rumorosi che perfino per lui erano difficili da ignorare.
 
«Tutto bene oggi?» gli chiese e Sergej annuì una seconda volta.
 
Jan era famoso per essere un capitano estremamente attento ai componenti della sua squadra; il collante e il perno attorno a cui girava l’intero gruppo, colui a cui tutti facevano riferimento dopo Wayne. Gli aveva sempre dato la sensazione che somigliasse un po’ a un enorme e rassicurante muro, e non solo perché era veramente imponente come una parete e altrettanto problematico da superare in campo. Lo era per la sua integrità, per quella “C” di capitano dipinta sul cuore che gli calzava a pennello.
Gli ricordava Karel, il suo capitano a Jaroslavl’. Stessa stazza, identici modi di fare permeati di quella moralità e correttezza che Sergej – sprezzante com’era anche all’epoca – aveva trovato sempre un po’ ridicola. Non in senso cattivo, solo che non faceva per lui, così come non lo era la totale imparzialità nel cercare di rapportarsi con i compagni e promuovere una convivenza pacifica sul campo. Lui non ne era proprio mai stato capace e mai lo sarebbe stato – e mai, neanche, per questo motivo, sarebbe diventato capitano – ma era in qualche modo riuscito a rispettarla, proprio per la stima che provava.
Come Karel poi, Jan aveva l’innata capacità di fargli sentire la sua perenne incazzatura con il mondo come il capriccio di un moccioso viziato. Già dal giorno precedente, quando si erano incontrati in veste di compagni di squadra, non era sembrato affatto impressionato dalla sua uscita e dai suoi modi di fare. Non dava l’idea che lo considerasse come un vero problema. E Sergej non sapeva se essere grato o meno di questo.
 
«Vado a farmi una doccia» si costrinse a borbottare e chiudere la breve conversazione. Non per voler mancare di rispetto al suo nuovo capitano, ma perché aveva davvero bisogno di staccare la spina e rilassarsi.
Jan comunque sembrò non prendersela affatto. Mantenne il suo mezzo sorriso anche quando Sergej si sollevò dalla panca e si avviò verso la stanza delle docce.
La tanto agognata pace però non durò molto. Presto anche altri dei suoi compagni arrivarono a rifugiarsi sotto il getto ristoratore di acqua fumante. Carter, Michael, Jean, Jeffrey: tutti nomi conosciuti, a cui avrebbe potuto affiancare senza alcun problema caratteristiche di gioco e una perfetta scheda delle loro prestazioni durante le ultime stagioni. Erano solo quello per Sergej: nient’altro che delle facce affiancate a schemi sportivi da studiare.
In seguito però, anche Sean e Cole lo raggiunsero, e be’, loro no. Non poteva relegarli a semplici fogli pieni di nozioni da conoscere. Probabilmente – anzi, sicuramente – quei due sarebbero stati i suoi nuovi compagni di linea.
Cole avanzò le sue pretese sulla doccia accanto alla sua, Sean invece occupò quella di fronte, e si premurò di riservargli un’altra occhiata non propriamente amichevole. Lo considerava come una minaccia, era chiaro. Non per il suo ruolo, ma per quella squadra che, era risaputo, Sean amava con tutto se stesso, esattamente come l’intera Montréal ricambiava senza sconti quell’adorazione nei confronti del suo diamante.
Sean Weiss era nato e cresciuto a Montréal, tutta la vita dedicata all’hockey e fin da bambino considerato e trattato come una fulgida promessa che non aveva mai deluso le aspettative, ma che, anzi, spesso le aveva ampiamente superate.
Per certi versi la loro strada si era svolta nello stesso, identico modo. Almeno fino a un certo punto...
Quello di Dryden invece, era stato un percorso diverso, che sicuramente gli sarebbe valso sempre corse tortuose. Nascere come il fratello minore di Wayne Dryden non doveva essere stato mai facile, essere poi portati per il suo stesso ruolo, di certo non aveva risparmiato i paragoni dei giornalisti. La sua intera carriera avrebbe potuto essere distrutta anche prima di nascere, lui però pareva essere in grado di gestire le pressioni senza alcun problema, oppure era decisamente abile a nasconderlo.
Cole era una persona incredibilmente carismatica, aggressiva nel gioco e sempre pronto a pattinare alla velocità di un folle pur di supportare i suoi compagni. Era quello che nel gergo sportivo veniva definito un “generoso”, uno di quelli che non si risparmiavano mai e, anche se molto spesso finiva col perdere le staffe e si lasciava coinvolgere in risse sul campo, si era meritato senza ombra di dubbio il colorito soprannome di “Lionheart” da parte del pubblico.
In definitiva quindi, non sarebbe stato affatto male avere a che fare con lui, se solo non fosse stato per quella sua famosa “incontinenza verbale”. Cole non riusciva mai a stare zitto; da quel che ne sapeva, era più forte di lui.
 
«Bel tatuaggio. Piccolo, semplice...» iniziò a blaterare infatti, e dal modo in cui lo faceva, era chiaro che stava disperatamente cercando un modo per attaccare bottone. «Che significa?»
 
A quella domanda comunque, Sergej spostò lo sguardo verso il suo curioso compagno, quasi volesse trasmettergli con una sola occhiata la sua poca disponibilità all’intavolare una conversazione, poi però, dirottò l’attenzione al suo polso sinistro.
A volte quasi dimenticava di averla, quella piccola scritta in cirillico, che si delineava marchiando d’inchiostro nero la pelle poco sotto il palmo. “жить для себя” recitava: “vivere per se stessi”. Peccato che tutti ne avessero sempre tratto le conclusioni sbagliate, e lui non si fosse mai premurato di contestarle e chiarirle.
 
«‘Non sono affari tuoi’» scandì però in risposta, quasi sibilando le parole, anziché darne la reale traduzione. Non era affatto disposto a condividere certi episodi o motivazioni della sua vita. Doveva solo giocare a hockey con quei due, non fargli una panoramica generale di com’erano stati gli anni dalla sua nascita, così che potessero psicanalizzarlo, o peggio, magari provare anche pena per lui.
Avrebbe potuto rispondere con più tatto, certo, ma c’erano punti dolenti per cui proprio non riusciva ad astenersi dal mostrare il lato peggiore e più irascibile di sé. Argomenti che bruciavano ancora e che ogni giorno si sforzava di rimuovere.
Cole parve comunque solo sorpreso da quella sua reazione, Sean invece, scosse la testa e piegò le labbra in un sorriso: uno strano misto di ironica amarezza, quasi che in fondo se lo fosse aspettato, prima di lasciarsi andare a un caustico commento: «Ti si addice molto.»
 
Decisamente no, il suo nuovo compagno di linea non aveva una buona opinione di lui. Non che questo gli importasse, anzi. Per una volta era quasi gratificante avere a che fare con qualcuno che non nascondeva il proprio fastidio dietro finti sorrisi e patetiche pacche sulla spalla, solo perché il suo nome aveva ormai fissa dimora ai posti più alti nelle classifiche dei giocatori, e perché il suo modo di giocare, per quanto criticato fosse, aveva sempre portato risultati.
Sean invece no, non lo sopportava e per di più gli faceva anche il favore di non celarglielo per convenienza. Probabilmente il caro Revolver non avrebbe neanche tentato di farsi piacere Sergej. Era famoso per la sua sincerità, per la sua faccia pulita; la gente a Montréal lo amava per la sua indiscutibile etica e trasparenza, e se quelle erano le premesse, il loro “non-relazionarsi” sarebbe stato comunque uno dei rapporti più sinceri che Sergej avesse mai avuto.
Terminata la doccia, senza che nessuno avesse tentato nuovamente di approcciarglisi, rientrò nello spogliatoio, si rivestì velocemente e controllò che nessun messaggio d’aiuto fosse arrivato da sua sorella. Se Irina era riuscita a trascorrere tutto il tempo della sua assenza senza distruggere niente o combinare qualche guaio, poteva considerarsi un miracolo.
Per questo, quando trovò ben quattro suoi messaggi da leggere, sbiancò letteralmente. Aprì la conversazione, inveendo mentalmente contro quell’aggeggio tecnologico perché secondo i suoi gusti ci stava impiegando troppo tempo, e infine fu felice di tirare un sospiro di sollievo.
 
Mi manchi” diceva il primo, con tanto di emoticon dall’espressione triste ad avvalorare il suo umore.
Mi annoio. Sono così annoiata che, pur di passare il tempo, sarei disposta anche a togliere di mezzo tutti questi scatoloni. Per farlo però, dovrei fare una cosa che tu mi hai categoricamente vietato! Ma non lo faccio per curiosare! È un favore!” a quel secondo messaggio Sergej scosse la testa esasperato. Era disposto anche a scommetterci entrambe le mani, che Irina alla fine non avrebbe resistito alla tentazione, e infatti, quando scese col cursore al terzo, ne ebbe la conferma.
“Credo di aver avuto un’illuminazione su ciò che voglio fare della mia preziosissima vita. Ne parliamo a casa. Intanto allenati a mostrarti entusiasta della mia idea! PS: Sì, ho preso il tuo pc.”
L’ultimo messaggio invece, risaliva a qualche minuto prima: “Mi manchi” ribadiva ancora, per poi aggiungere: “Placherò questo immenso dolore con giusto un paio d’ore nella vasca olimpionica che hai come idromassaggio. Che vita dura, che devo affrontare!”
Sergej fu tentato di ignorarla completamente. Se non fosse stato per il fatto che poi gli avrebbe tenuto il muso, l’avrebbe fatto davvero, ma era troppo stanco per intavolare una discussione a casa, quindi decise di scriverle: “Torno presto. Vorrei dirti di fare come se fossi a casa tua, ma noto che c’hai già pensato da sola.”
Afferrò poi il suo nuovo borsone e, salutando i presenti con uno svogliato cenno della testa, uscì nell’ampio atrio del centro sportivo, pressoché deserto.
Le luci a neon conferivano un’atmosfera strana a quel posto. Nonostante fosse stato costruito da pochi mesi, e quindi praticamente nuovo, era comunque permeato di storia; quell’alone di solennità che chiunque quasi riusciva a palpare quando si trattava dei Montréal Canadiens.
Non era come il Bell Center, abbellito di decine di trofei e stendardi, ricordi e fotografie, ma in qualche modo lasciava comunque trapelare la storia di quella società, come una delle sei fondatrici della lega e detentrice del numero più elevato di Stanley Cup conquistate durante la sua longeva esistenza.
Ciò che l’aveva più colpito però, era quel bagliore che incantava oltre la spessa vetrata: una delle piste di ghiaccio del centro sportivo brillava sotto i faretti. Quella lastra bianca, anche quando era completamente deserta, era sempre stata un richiamo per lui.
Si avvicinò al vetro, poggiando la fronte sulla fredda superficie. Quanto gli mancava pattinare! Non sapeva neanche lui cosa avrebbe dato per la possibilità di fare anche solo un paio di tiri, nonostante sentisse ogni muscolo implorare pietà.
 
«Un gran bell’impianto, eh?» lo sorprese una voce alle spalle. Solo quando si voltò quasi sobbalzando, Sergej riconobbe il loquace inserviente. «A Washington ne avevate uno così bello? Non ho mai avuto il piacere di vederlo.»
 
«Qualcosa del genere. Le piste si somigliano tutte.»
 
«Mi sento di dissentire» replicò l’uomo, avvicinandosi con un sorriso. «Qui a Montréal non c’è niente che somiglia a qualcos’altro. Presto se ne accorgerà.»
 
Sergej si limitò ad annuire. Doveva ammettere che quell’inserviente non aveva tutti i torti. Fin dalla prima volta che aveva messo piede in quella città, anni prima, aveva percepito qualcosa di diverso. Da quelle parti, l’hockey, non era solo uno sport.
 
«Crede che potrei farci un salto?» si ritrovò a chiedere, senza quasi capacitarsi di quando le sue labbra avessero emesso quelle parole.
 
«Dove? In pista?»
 
«Sì, giusto un paio di minuti.»
 
«Nessun problema» affermò complice. «Anche Sean... ehm, intendo il signor Weiss, si toglie questo sfizio di tanto in tanto. Le accendo le luci e vado a prendere le chiavi. Può aspettarmi all’entrata.»
 
Sergej lo osservò per qualche secondo mentre si allontanava. Quell’uomo era davvero curioso e sembrava essere in qualche modo parte integrante e un pilastro di quella società, nonostante ne fosse solo il semplice custode e proprietario dell’impresa di pulizie.
Si avviò quindi verso l’entrata alla pista e attese il suo ritorno. Veloce come Sergej si era aspettato, questo non impiegò che pochi minuti per raggiungerlo, per poi aprirgli la porta e indicargli dove poter trovare tutto l’occorrente.
 
«Le auguro una buona pattinata» gli sorrise, prima di congedarsi e lasciarlo a godersi i preziosi attimi che precedevano ogni scivolato passo sulla lastra di ghiaccio.
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, si prese qualche minuto per guardarsi intorno, dopo di che afferrò un paio di pattini della giusta misura, un bastone e un dischetto. Niente protezioni, per una volta, così come piaceva a lui: libero di sfrecciare senza alcun pensiero, privo di ogni concentrazione che non fosse il semplice compiacersi al singolare sibilo della lama che graffiava il ghiaccio. Ascoltare quel rumore, come unico elemento a rompere un perfetto silenzio, lo rilassava.
Si allacciò velocemente i pattini, quasi smaniando per il bisogno di tornare sul campo dopo mesi di lontananza, e si avviò pesticciando verso l’entrata.
Il primo passo fu quasi una liberazione. Lento, leggero, quasi non volesse neanche sfiorare terra e allo stesso tempo assaporare fino in fondo quella sensazione. Come se volesse percepire ogni millimetro del percorso della lama. Ne seguì un secondo, un terzo più deciso e infiniti altri a prendere velocità.
Fece un giro del campo, il bastone ben stretto tra le mani. Eseguì una veloce virata, così precisa e netta da lasciar sollevare un’ampia onda di frammenti di ghiaccio; un velo bianco che si levava in aria e andava a depositarsi sul fondo dei suoi jeans.
Lasciò cadere il puck al centro esatto della pista e attese giusto il tempo perché questo potesse rimbalzare a terra, per colpirlo e partire con tutta la forza delle sue gambe, dritto verso la porta, schivando avversari immaginari. Uno, due, tre cambi di direzione, un perfetto controllo e, a una manciata di centimetri dal suo obbiettivo, frenò per virare e diede un colpo secco al dischetto mandandolo a insaccarsi nell’angolo in alto a sinistra, con una sicurezza figlia di una precisione quasi maniacale. Udì il cozzare all’intelaiatura della porta: un suono inconfondibile, musica per le sue orecchie, e si fermò per osservare il piccolo disco nero oltre quella linea rossa, che in partita segnava la corsa alla vittoria, con una soddisfazione che poche altre cose riuscivano a dargli.
Si sentì bene, così, come da mesi non riusciva più a fare. La stanchezza di quell’intera giornata era sempre presente a premere sui suoi muscoli, ma per Sergej non esisteva sensazione migliore di quella che spremere ogni singola goccia della sua forza su un campo da hockey. Poteva anche svenirci sul ghiaccio e non gli sarebbe importato affatto.
La lontananza da quella pista era sempre stata la peggiore delle torture, e finalmente, in quel momento, sentì di essere tornato a casa.
 
 
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Wayne si appoggiò allo schienale della morbida poltrona con uno sbuffo.
Documenti, schemi e dati non avevano mai fatto per lui, ma da quando aveva accettato il suo ruolo di allenatore ai Canadiens, tutti sembravano quasi provarci gusto nel sommergerlo tra le scartoffie.
Lanciò una fugace occhiata al plico di fogli che ancora lo aspettava sulla scrivania ed emise un mugugno insofferente. Ai suoi tempi, quando era ancora un giocatore, non era poi così sicuro che i suoi, di allenatori, dovessero sottoporsi a quelle torture. Non ricordava che ci fossero così tanti dati sui componenti della squadra da raccogliere e controllare. Quindici anni prima, le cose andavano più “a braccio”.
Sollevò stancamente una mano e afferrò il primo foglio con poca convinzione. Conteneva con minuziosa precisione e ordine tutti i risultati relativi alle prove di resistenza sostenute dai ragazzi quella stessa mattina, e doveva ammettere di esserci andato piuttosto pesante.
Come al solito, anche da quei numeri, suo fratello e Jayden si dimostravano procastinatori di professione e laureati in pigrizia e chiacchiere da bar. Cole d’altronde, ne aveva dato prova fin da bambino, quando s’inventava improbabili malattie e dolori temporanei pur di non andare a scuola. Un’immensa paraculaggine la sua, che aveva trovato pieno appoggio nel momento in cui aveva fatto la conoscenza di Jayden, e che era proseguita e proliferata negli anni a origine della salda e incrollabile amicizia che intercorreva tra i due, così come lo era la loro non propriamente adeguata passione per le feste e, appunto, la totale mancanza di serietà durante gli allenamenti.
Spesso si chiedeva come Jayden potesse vantare una scheda personale letteralmente stellare ed essere evidenziato come uno dei portieri più promettenti di tutti i tempi, e altrettanto, come suo fratello fosse in grado di ottenere i propri risultati, pur essendo entrambi un capolavoro di completa e convinta oziosità.
Sbuffò per l’ennesima volta, ripromettendosi di non fargliela passare liscia l’indomani, e proseguì nella lettura, soffermandosi con soddisfazione sui risultati di Sean – il suo piccolo orgoglio – e su quelli di Kyle con altrettanto compiacimento.
C’aveva visto piuttosto bene, due anni prima, quando aveva spinto per la scelta ai Draft di quel ragazzino. Tutti l’avevano guardato un po’ stralunati, perché all’epoca era ancora decisamente troppo minuto per i classici canoni di un giocatore di hockey e neanche troppo alto, eppure Wayne aveva scorto qualcosa in quegli svegli occhi chiari. Aveva una luce particolare e un sorriso grintoso che gli era piaciuto fin da subito, oltre ovviamente alla velocità dimostrata sul campo.
Era una vera scheggia, a cui di rado gli avversari riuscivano a star dietro. Un piccolo missile che compensava la mancata muscolatura e forza con degli scatti che in pochi riuscivano a eguagliare.
Dopo la sua inclusione tra le fila dei Montréal Canadiens, Kyle aveva fatto di tutto per impegnarsi a ripagare la sua fiducia. Aveva lavorato sodo nelle giovanili, più di chiunque altro, meritandosi di tanto in tanto la partecipazione a qualche partita della prima squadra, e non facendo mai rimpiangere la sua scelta. Trascorsi i due anni era finalmente – sia tecnicamente, che fisicamente – pronto per gareggiare con le più grandi stelle della NHL, e Wayne non vedeva l’ora di poter mettere alla prova quel ragazzino che si era pazientemente cresciuto e che, ogni giorno, dimostrava di poter andare sempre più lontano.
Sorrise, già pregustandosi le soddisfazioni e il divertimento che quella stagione sembrava promettere, e scorse ancora con gli occhi lungo la lista.
Jan, come sempre, aveva preso con massima serietà il suo ruolo di capitano e restava sempre il punto di riferimento per tutta la squadra. Xavier, neanche a dirlo, si dimostrava il suo perfetto secondo, così come il veterano russo di quella squadra, Boris, che non deludeva le aspettative sulla sua incrollabile forza e compostezza. Un elemento a dir poco insostituibile della difesa dei Canadiens.
Quando infine i suoi occhi arrivarono a posarsi sul nome dell’altro russo – il loro nuovo acquisto, quello problematico che, a detta dei petulanti giornalisti, lo avrebbe mandato al manicomio – arricciò le labbra pensieroso.
Si ritrovò quasi a sorprendersi di quei risultati che, pur non essendo i migliori di cui aveva sentito parlare, avevano comunque superato le sue aspettative, soprattutto considerando la completa lontananza dal campo e dalla palestra di Sergej durante i mesi estivi, quando il suo tanto chiacchierato “matrimonio” con i Capitals era arrivato al definitivo punto di rottura.
Una veloce occhiata al calendario gli ricordò che mancava meno di un mese alle amichevoli che precedevano l’apertura della stagione vera e propria. Meno di trenta giorni alla possibilità di poter far finalmente scendere in campo una squadra adatta alle sue esigenze, e che poteva consacrarlo anche come allenatore.
Con l’ennesimo sorrisetto impaziente stampato sulla faccia, si stiracchiò la schiena e si decise ad abbandonare i documenti sulla scrivania e uscire dall’ufficio. Se fosse rientrato mostruosamente tardi anche quella sera, la sua compagna di una vita, Janet, lo avrebbe ucciso.
Si avviò per i corridoi del desolato centro sportivo, frugando nelle tasche dei jeans alla ricerca delle chiavi della macchina, quando udì il familiare e adorato rumore di un bastone che colpiva un puck. Aggrottò la fronte stranito nello scorgere delle luci provenienti da uno dei due campi e, nel momento in cui raggiunse l’ampia vetrata, quella precedente sensazione di impazienza ed eccitazione tornò a far vibrare il suo cuore con più forza di prima.
Davanti ai suoi occhi si stava svolgendo una delle migliori manifestazioni di talento a cui avesse mai assistito su una pista da hockey. La tanto acclamata “Supernova” era a pochi passi da lui, che sfogava la sua nostalgia per quella lastra di ghiaccio eseguendo uno “spin-o-rama” assolutamente perfetto.
Wayne seguì con occhi ammaliati l’intero movimento; l’esecuzione di quella tecnica senza una singola sbavatura mentre, con una velocità quasi impensabile, tracciava un cerchio con una rotazione netta e di potenza, prima di lanciare il puck con forza a insaccarsi nella porta.
Era un’arte quella, non concessa a chiunque. Creata quasi quarant’anni prima dall’uomo soprannominato “The Senator”, pietra miliare degli antichi successi dei Montréal Canadiens che, curiosamente, rispondeva al nome di Serge Aubrey Savard.
Dal canto suo, Wayne, non era mai stato quel tipo di persona che credeva nella fortuna, nel destino o chissà cosa. Il suo motto, da sempre, era quel “No Excuse” che aveva fatto dipingere sul muro, a sovrastare la porta d’entrata degli spogliatoi, perché servisse a ricordare ai suoi giocatori che nessuna scusa sarebbe mai stata considerata valida per una partita persa, un goal mancato, o un passaggio sbagliato. Eppure, nel vedere il compimento di quella tecnica da parte di Sergej, in un modo così naturale e pulito che solo Serge Savard stesso era riuscito a raggiungere, si ritrovò a sorridere divertito al pensiero che, forse, ci potesse essere qualcosa di già scritto; una coincidenza che legava quei due nomi così simili, un percorso che doveva essere ripetuto e un posto già prenotato da tempo per Sergej nella “Hall of fame” della NHL.
Ce n’erano stati di avversari duri da battere quando sui campi di hockey era ancora il suo nome a dominare. Wayne aveva dovuto sudare per mantenerlo più in alto possibile, eppure, nel vedere Sergej pattinare, avrebbe dato qualsiasi cosa per lasciare andare un po’ di quegli anni che pesavano sulle sue ampie spalle e potersi permettere di scendere in campo e sfidarlo.
Avrebbe davvero desiderato la presenza di un giocatore come Sergej ai suoi tempi, fatto della stessa pasta e dello stesso indiscutibile talento. Avrebbero fatto fuoco e fiamme, probabilmente si sarebbero detestati, ma non avrebbe potuto provare più rispetto e ammirazione che per qualcuno come lui.
Sentiva quasi formicolare le gambe e le mani, mentre lo osservava. I suoi occhi seguivano l’armonia e la potenza di un suo tiro, l’eleganza e l’irritante facilità con cui avrebbe saputo dribblare un qualsiasi ostacolo, e Wayne avrebbe voluto essere lì, davanti a lui; essere lui stesso quell’avversario ostico da superare.
Il suo corpo però non glielo permetteva più, nonostante la sua mente fosse ancora la stessa che gli aveva concesso di essere il fantasista più acclamato della sua epoca e di quell’intero sport. Conosceva ancora qualche trucco da poter sfruttare, ma contro quel russo all’apice della sua forza, poco avrebbe potuto fare.
Non era più la sua era, Wayne lo sapeva, ma rivedere così tanto del giocatore che era stato anni addietro in Sergej, era una punta di sofferenza e un’iniezione di soddisfazione allo stesso tempo; una sensazione dolce e amara, per la consapevolezza di non poter partecipare più a quel mondo su ghiaccio, se non in veste di allenatore, ma anche nel vedere che ciò che aveva apportato all’hockey aveva influenzato e collaborato a formare quello che, forse, un giorno, l’avrebbe scalzato da ogni suo primato.
A malincuore staccò lo sguardo da quello spettacolo, quando il cellulare prese a vibrare, mostrando sullo schermo il nome della compagna e una sua immagine sorridente. Si sentiva un idiota anche solo a pensarlo, ma si ritrovava a innamorarsi di nuovo di Janet, ogni volta in cui i suoi occhi si posavano su quel sorriso.
 
«Non riesco proprio a capire perché la foto di una donna bellissima sia comparsa sul mio telefono. La conosci per caso?» esordì rispondendo alla chiamata, sforzandosi di mantenere un tono serio.
 
«Sì» replicò secca lei. «È quella che metterà le tue cose fuori dalla porta di casa, se tra cinque minuti non ti vede superare il cancello.»
 
«Facciamo venti minuti?» tentò, aspettandosi da un momento all’altro di sentirla inveire contro di lui.
 
«Wayne! Non dirmi che sei ancora dentro a quell’ufficio!»
 
«No. Conta qualcosa se sono nell’atrio?»
 
«Ti minaccerei di chiedere il divorzio se solo fossimo sposati!»
 
«Facciamo un patto» propose allora, cercando di riportare la conversazione su una posizione a suo favore. «Tu adesso ti cambi e ti fai trovare pronta. Io ti passo a prendere e andiamo a cena fuori, soli io e te. E mi perdoni.»
 
«Questa è corruzione, Dryden. Ti stai allenando con me per comprare poi anche gli arbitri?»
 
«Chissà, probabile. Almeno sta funzionando?»
 
«Forse» la sentì mugugnare con poca convinzione, data dalla sua rinomata testardaggine del non volergliela mai dare vinta. «Muoviti, però.»
 
«Agli ordini, Hockin!» esclamò, chiamandola per cognome, per quella sciocca e buffa fissazione che aveva la sua compagna, di voler sempre rimarcare la sua indipendenza. Essere sentimentalmente legata a lui, non doveva essere mai stato troppo facile per un’orgogliosa come Janet, soprattutto per quel suo ostinato desiderio di non voler essere etichettata come “la donna di”, ma di conservare intatta la sua identità. E probabilmente era stata quella sua forza, la determinazione e, perché no, anche la sua testa dura, che l’avevano fatto innamorare ormai più di venticinque anni prima.
Fu quindi per quello stesso amore che, quando concluse la telefonata, si costrinse a ignorare i familiari rumori che provenivano dalla pista di ghiaccio, e si avviò verso l’uscita per correre a farsi “perdonare”.
 
«A domani, René» salutò poi con un sorriso l’inserviente, soffermandosi davanti alle porte scorrevoli.
 
«Riesce sempre a fare tardi qua dentro, eh!» gli rispose questo ridendo. «A domani.»
Wayne scosse la testa e fece per uscire, poi però, si attardò per qualche altro istante. «Ah, René. Avrei un favore da chiederti. Non spegnere ancora le luci. So che devi tornare a casa, ma dovresti farmi questo piccolo piacere» si voltò ancora una volta a osservare da lontano le vetrate che circondavano il campo d’allenamento e ammise: «Sarebbe un vero peccato interrompere quello spettacolo.»
 
«Non si preoccupi. Lo so.»
 
«Grazie» mormorò sincero, e uscì in quella fresca serata di inizio Settembre.



 
******
 
Peperepèèèèèèèèèè!! 
Anche questa volta, chiaramente con i nostri soliti tempi biblici, è arrivato il capitolo!
Non penso ci sia molto da dire: Sergej è il solito carciofo e Ets, Cole e Jay i soliti pagliacci. Ma che ci volete fare, purtroppo sono usciti così, e così ce li teniamo. 
Non stiamo ad annoiarvi oltre, e vi ricordiamo che, per reclami ed infamate, potete trovarci nel gruppo. Ricordatevi solo che mercoledì iniziano i playoff, e non siamo responsabili né per la quantità di post che ci saranno e né delle nostre reazioni ai risultati.

A presto, e Go Habs Go

Sam & Sid 

 

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Capitolo 6
*** Challenges ***


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6th Period. “Challenges”
 


 
«Andiamo Jayden, non mollare! Forza bello, ancora un ultimo sforzo!»

Jayden si aggrappò con più forza al manubrio, le mani che bruciavano, così come i polmoni, e le nocche che sbiancavano per lo sforzo.

«Ultimi dieci secondi!» urlò Larry, uno degli allenatori, e lui accontentò le sue richieste supplicando le sue gambe per una pedalata in più. «Dai! Dai! Cinque e… stop!»

Stop. La parolina magica per porre finalmente fine a quella tortura che odiava con tutto se stesso. Dannate cyclette, dannati allenamenti prestagione e dannati test fisici. Doveva restare nel suo paesino in British Columbia dimenticato da Dio, Zeus, Vishnu, e tutta l’allegra combriccola di divinità, a fare il contadino e passare le sue giornate a guidare un trattore, con tanto di cappello di paglia e filo d’erba in bocca.
Altro che portiere di hockey e NHL. Balle di fieno, la fattoria e i campi da coltivare! Una versione canadese del Clark Kent di “Smallville”, ma senza superpoteri.

«Respira e continua a pedalare piano. Respira, Jayden.»

«Lo farei» annaspò, «se solo avessi ancora i polmoni.»

Una pacca non propriamente gentile gli arrivò sulla schiena, a togliergli quel poco fiato che gli era rimasto. «Piantala di fare il melodrammatico.»

«Fossi in te non avrei molto da ridere, considerando che sei il prossimo, Dryden.»

Cole gli rivolse un sorrisetto compiaciuto e si appoggiò con le spalle al muro. «Si da’ il caso che il sottoscritto non abbia trascorso l’estate a vagabondare per le praterie di Narnia come te, Heidi

«Non ci sono le praterie intorno a casa mia, deficiente. Le tue concezioni geografiche lasciano un tantino a desiderare, e lo sapresti se fossi venuto a trovarmi almeno una volta in tutti questi anni.»

«No, grazie» replicò prontamente l’altro, appropriandosi del suo Gatorade, confermando nuovamente la sua naturale inclinazione all’essere uno scroccone di professione, e scolandosene almeno metà. «Preferisco frequentare posti con tracce di vita umana.»

«E per ‘tracce di vita umana’ intende ‘vita umana che possa servirgli da bere’» intervenne Sean, avvicinandosi ai due, con il suo classico sorriso smagliante che, inspiegabilmente, riusciva a mantenere anche dopo ore di massacro in palestra. Quel dannato sembrava essere sempre fresco come una rosa. «Non è colpa tua, Jay, se questo animale cittadino non viene a trovarti. È che le tue mucche non hanno ancora imparato a produrre tequila.»

«Ah, ah. Sempre più divertente, principino» lo rimbeccò Cole passandogli un braccio sulle spalle, in un malcelato tentativo di strozzarlo. Diedero così inizio a un’improbabile sfida di wrestling, prima che Wayne, puntuale come sempre, tornasse a ricordargli che quella era una palestra e non un circo.

«Com’è che, come mi volto, voi tre state facendo di tutto tranne allenarvi?»

«Io sono sulla cyclette!» si scusò prontamente Jayden, guadagnandosi un’occhiataccia dai suoi due compagni di nullafacenza.

«Esatto Jayden, cyclette. Il che presuppone che tu debba muovere quelle gambe per ottenere qualcosa. Non è una moto» gli rispose secco, facendo scoppiare Sean e Cole in una risata immediatamente soffocata. «Invece che dilettarvi in inutili chiacchiere da bar, dovreste prendere esempio da Jan o da Sergej, e lavorare

A quella raccomandazione, gli occhi di Jayden si spostarono di riflesso sui due nominati: il primo era seriamente impegnato con uno dei tanti attrezzi della palestra per potenziare le braccia. Non che ne avesse davvero bisogno, ma il loro capitano era conosciuto per la sua quasi ossessione al voler essere sempre al cento per cento.
Jan era sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad abbandonare la pista di ghiaccio, anche durante i riscaldamenti che precedevano la partita; quello che s’impegnava sempre più duramente e che manteneva un’invidiabile costanza nel suo gioco. Era un modello da seguire per tanti e incarnava ciò che Jayden aveva, fin da bambino, immaginato dovesse essere il capitano adatto a guidare una squadra. La sua squadra.
Non avrebbe forse neanche accettato un capitano meno carismatico, responsabile, capace o… capitano, appunto, di Jan.
Se da una parte della palestra poteva però assistere al disciplinato comportamento di “Sua Capitanosità” Ørjan Bäckström, dall’altra poteva osservare un individuo il cui senso di responsabilità veniva costantemente messo in dubbio da chiunque, mentre quello di appartenenza alla squadra, surclassato dalla sua sete di fama personale.
Era un rinomato e ostinato individualismo quello di Sergej, che però non gli impediva di allenarsi come un pazzo, in perfetto silenzio. Un po’ come se Terminator e Ivan Drago si fossero dati alla procreazione: definirlo inquietante, era poco.

«Svegliati, Jay» lo richiamò all’attenzione Sean, strizzandogli il naso tra il pollice e l’indice per strapazzarlo un po’. «Abbandona la desolazione delle Terre di Mordor che è la tua testa e torna con noi.»

Jayden finse un’espressione scocciata, rivolgendo una smorfia al compagno di squadra, e si decise ad abbandonare la cyclette, pur mantenendo una certa attenzione rivolta al taciturno russo e al fatto che, nella sua foga, sembrasse seriamente intenzionato a prendere il volo con il vogatore.
Dal suo arrivo, pochi giorni prima, non aveva avuto molte occasioni per parlargli e conoscerlo meglio. Sergej aveva l’innato talento di far cadere in un imbarazzante e ridicolo silenzio qualsiasi tipo di conversazione, come se ogni argomento esistente al mondo non suscitasse in lui il più vago interesse. Inoltre doveva anche ammettere che, per spirito di autoconservazione – probabilmente ereditato dal suo essere per metà Nativo, ergo, una “specie a rischio estinzione” – non si era sforzato minimamente di comunicare.
Non che Jayden non fosse curioso di conoscerlo e sapere qualcosa in più sul suo conto, anzi. Quando lo avevano informato del suo imminente arrivo ai Canadiens, il drink che stava bevendo gli era andato di traverso – e se lo ricordava bene, perché far passare la tequila dal naso era sempre una pessima idea. Si immaginava già sul campo, con quel mostro di talento finalmente dalla sua parte, anziché contro, a farlo sudare in modo indecente sotto le protezioni da portiere perché, nonostante il suo di talento, quel dannato russo aveva sempre reso un vero inferno i sessanta minuti di gioco dei loro scontri.
Tuttavia, a dispetto del fatto che non fosse riuscito a trattenersi dal fantasticare su come le sue performance potessero migliorare grazie a un tipo come Sergej Nevskij a bersagliarlo di tiri durante gli allenamenti, aveva preferito restare in disparte rispetto ai suoi compagni e lasciarlo in pace, a respirare. A volte gli sembrava che quello strambo individuo gli fosse quasi grato per la sua “indifferenza”. Non gli aveva mai detto niente, in realtà, ma almeno gli risparmiava quelle occhiate taglienti chiaramente scocciate e insofferenti di norma riservate agli altri, che sembravano promettere una morte cruenta tipica dei film sul KGB e sulla mafia russa.
In fondo lo capiva.
Capiva che non dovesse essere una passeggiata ritrovarsi improvvisamente in un posto diverso, con persone pressoché sconosciute, se non per gli articoli di cui erano protagonisti sui giornali o le trasmissioni sportive, o perché si erano trovati faccia a faccia in alcune occasioni, sotto maglie di diversi colori. Capiva la difficoltà dell’essere sommerso di domande da chiunque e quella del trascinarsi dietro anche tante invidie per quel suo bagaglio tecnico fuori dal comune, soprattutto se affiancato da un caratterino tutt’altro che facile da gestire.
Sergej Nevskij non era la persona più accomodante con cui aver a che fare, ma non si sentiva di biasimarlo in tutto e per tutto, soprattutto per l’insofferenza che dimostrava nell’essere bersagliato dai giornalisti. Lui che, per proprio conto, non poteva vantare certo un buon rapporto con loro.
Impegnato com’era a rimuginare sulle odiose interviste a cui presto sarebbe stato costretto, non si era neanche reso conto che Sergej aveva smesso di vogare per ricambiare il suo sguardo fisso, con uno piuttosto stranito.
Si riscosse quindi dai suoi pensieri e decise che il modo migliore di ignorare la cosa fosse dilettarsi in una delle sue attività preferite lì a Brossard. Qualcosa che Cole sembrava aver già intrapreso: torturare Sean.

«Sempre così precisino, barba rasata, capello in ordine e sorriso smagliante!» lo sentì canzonare, mentre gli strizzava di proposito una delle guance, neanche fosse stato un bambino dell’asilo.

«Sono assolutamente certo che in qualche parte del mondo esiste un’associazione di arzille cinquantenni il cui scopo principale è quello di averti come genero!» aggiunse lui ridendo, dandogli manforte, mentre il povero malcapitato, sottoposto quotidianamente a quel supplizio, si limitò a roteare gli occhi al cielo e a scacciare la mano di Cole schiaffeggiandola.

«E io sono assolutamente certo che qui a Montréal c’è invece un club di baristi che ideano strategie per accalappiarvi come clienti fissi. Un paio di serate con voi e non avrebbero problemi a pagare il college dei loro figli e qualcosa potrebbe restare anche per i nipoti» rispose poi a tono, ridendo.

«Fatemi capire» arrivò improvvisa la voce di Wayne, in una sfumatura che non prometteva assolutamente niente di buono. «Quale parte del ‘non perdete tempo in inutili chiacchiere da bar e lavorate’ non vi è chiara?»

Colti di nuovo in contropiede dall'ennesimo rimprovero e alquanto preoccupati per le conseguenze che ne sarebbero potute derivare, presero la comune e muta decisione di rimandare a più tardi i loro battibecchi e tornare alle loro sevizie fisiche.
Jayden si distese sulla panca e osservò la barra già carica di pesi, a cui uno dei trainer si premurò di aggiungerne altri. L’afferrò con entrambe le mani in una salda presa e, mentre tentava un primo sollevamento pregando di non finirne schiacciato, si ritrovò a pensare che sì, la versione di un Clark Kent canadese ma senza super poteri gli calzava a pennello, e gli sembrava anche molto meno faticosa della realtà che stava vivendo e sudando.
 
 
******
 
 
Gli ultimi vocalizzi di Brandon Flowers gli stavano ancora rimbombando nelle orecchie, quando Sean raggiunse il portone del suo palazzo dopo essersi concesso l’abituale corsa mattutina.
Si fermò un attimo per riprendere fiato e per godersi quei luminosi raggi di sole che preannunciavano una giornata ancora decisamente calda per la sua Montréal. Si schermò gli occhi nel tentativo di rivolgere un’altra occhiata alle sagome del quel tranquillo quartiere e, nel riconoscere il passo rilassato di uno dei suoi mattinieri vicini, accennò un saluto.
Cominciò a rovistare in tasca cercando le chiavi di casa, quando la sua ricerca venne interrotta dalla vibrazione del suo cellulare.

«Pronto, Wayne?»

«Quanto vorrei che anche mio fratello potesse rispondermi con la tua stessa velocità e lucidità a quest’ora del mattino.»

«Se ti sei perso Cole, mi dispiace deluderti, ma non è da queste parti.»

Sentì uno sbuffò ironico dall’altra parte del ricevitore. «No, figurati. So esattamente dove si trova in questo momento: nel mondo dei sogni senza alcuna intenzione di svegliarsi. In realtà cercavo te.»

Sean aggrottò la fronte stranito. «Me?»

«Già. Alle undici in punto c’è una conferenza a Brossard, per Kyle e per Sergej. Avrei bisogno di te.»

«Per cosa?»

«Montréal ti ama, i giornalisti anche. Non si può dire la stessa cosa di Sergej, quindi ho bisogno di te come cuscinetto di salvataggio.» rispose senza esitazioni, confermando così la sua tanto rinomata schiettezza. Wayne non aveva mai avuto bisogno di giri di parole, non era uno che conosceva vergogna, e probabilmente doveva essersi perso anche il tatto da qualche parte.

«In pratica, mi stai dicendo che vuoi che presenzi alla conferenza per mandarmi al macello, nel caso in cui il russo scateni una crisi diplomatica con la sua famosa socievolezza?»

Wayne si lasciò sfuggire una risata. «Non ti piace per niente, eh?»

«Dovrebbe?» commentò caustico. Era ovvio, dal tono, che la sua fosse una domanda retorica a cui entrambi conoscevano a priori la risposta.

«Lo so, lo so. Ma dovresti comunque farmi questo piccolo favore.»
Sean sospirò. «D’accordo, ma lo faccio solo per Kyle. È la sua prima conferenza e non vorrei che si tramutasse in un’esperienza traumatica.»

«Sapevo di poter contare su di te!» gongolò l’allenatore, prima di riattaccare, e a Sean, quella frase, suonò tanto come l’essersi appena scavato la fossa da solo ed esserci balzato dentro con entrambi i piedi.
 

Quando giunse al parcheggio del centro sportivo a Brossard, trovò la Maserati fiammante di Sergej già lì, senza però il suo proprietario, mentre un altro SUV marcato Jaguar si sistemava tra le strisce di fianco al suo posto.

«Ehi, Boris» salutò Sean, mentre questo scendeva dall’imponente auto. «Che ci fai qui?»

«Accompagno il mio bambino» scherzò, indicando Kyle che, letteralmente bianco in faccia, si separava dal comodo sedile in pelle con movimenti a scatti, quasi fosse diventato un tronco di legno. «Sembra che qualcuno sia un tantino nervoso per la sua prima conferenza.»

«Fottiti, Boris» grugnì il ragazzino, rivolgendo poi un’occhiata disperata a Sean, con quei suoi occhioni grandi e limpidi, che lo facevano sembrare anche più giovane di quanto già non fosse.

«Stai tranquillo» tentò di rassicurarlo Sean. «Non ti mangiano. E poi, non offenderti, ma la maggior parte delle attenzioni saranno dirette verso tutt’altra parte. E quel tipo di attenzioni, non le augurerei a nessuno.»

Boris gli scompigliò i capelli e gli circondò le spalle con fare protettivo. «Proprio così, nano. Saranno tutti troppo impegnati a provocare Sergej, per metterti sotto pressione. Vedrai che andrà bene.»

Kyle si sforzò di accennare un sorriso e l’imponente difensore russo gli diede una seconda amichevole scrollata, come per volerlo aiutare a scuotersi via di dosso ogni traccia di timore.
Boris si era davvero preso a cuore quel ragazzino, così come Sean e tutto il resto della squadra e della società. Lo aveva accolto in casa, offrendosi subito per non lasciarlo da solo in una città totalmente sconosciuta, dalla parte opposta dell’immenso territorio canadese rispetto a quella natia, e per mantenere poi la promessa fatta alle due genitrici di Kyle, di tenere d’occhio il loro bambino.
Sean sapeva che, per Boris e per la fidanzata, nel periodo in cui Kyle aveva fatto avanti e indietro tra la prima squadra di Montréal e le giovanili a Hamilton, era diventato una sorta di figlioccio adottivo, tanto che si era quasi ritrovato a trascinarlo con sé in Russia durante le vacanze, per arrivare addirittura a sentirne la mancanza nei giorni in cui non gli era più “tra i piedi”.
Per quanto non volesse ammetterlo e si lamentasse continuamente del fatto che fosse innegabilmente disordinato, pigro e un vero uragano, il piccolo canadese aveva conquistato il cuore di quella montagna russa, e ciò veniva costantemente dimostrato da piccoli gesti come quello, e dalla mania di Boris di volerlo sempre difendere e proteggere per quanto possibile.
Sean riuscì a trattenersi a stento dal sorridere intenerito nel vedere come, neanche in quel momento, i due compagni riuscissero a evitare di punzecchiarsi per tutto il tragitto. Una volta arrivati a destinazione però, quell’attimo di spensieratezza venne interrotto da una semplice occhiata alla sala incredibilmente gremita di giornalisti, e dalla presenza di Sergej che, chiaramente, non era affatto di buonumore e non s’impegnava minimamente per nasconderlo.
Se ne stava accoccolato su una delle sedie di plastica, le braccia conserte e la fronte aggrottata mentre fissava il vuoto, ascoltando chissà quale canzone dall’iPod. Non sembrava neanche essersi accorto del loro arrivo, tanto era concentrato. A Sean venne spontaneo chiedersi che razza di musica potesse piacergli, ma le sue supposizioni ebbero vita breve: giusto un paio di secondi, prima che Wayne li raggiungesse.

«Ottimo» esordì sorridendo, e solo in quel momento, Sergej sembrò risvegliarsi dal suo trance. «Vedo che ci siamo già tutti. Direi che intanto possiamo sistemarci dentro.»

A quelle parole, Kyle lanciò un’occhiata terrorizzata all’imponente coinquilino, quasi si aspettasse di vederlo sacrificarsi in pasto a microfoni e telecamere al posto suo. L’altro russo invece, mantenne la sua perfetta faccia di bronzo e si limitò ad alzarsi e a seguire Wayne, concedendo loro giusto uno sterile cenno vagamente simile a un saluto.

«Secondo voi, se piazzo un cartonato sulla sedia al mio posto, si accorgeranno della differenza?» mugugnò Kyle, sbirciando oltre la soglia, ben aggrappato allo stipite della porta.

«Avanti, nano. Vai» lo incitò Boris. «Piantala con questa lagna e cerca di non balbettare. Non farmi fare figuracce.»

«Ehi, chi sei? Mia madre?»

«Neghi l’evidenza?» replicò immediatamente, inarcando le sopracciglia. «Anche se preferirei essere ‘tuo padre’. Di madri ne hai già due, non ti bastano?»

«Già, peccato che siano esattamente noiose e bacchettone come te!»

«Coraggio, sarà veloce e indolore. Se fai il bravo, più tardi ti compro un gelato.»

«Non sei divertente!»

«La volete piantare voi due?» intervenne a quel punto Sean, sedando una conversazione che si sarebbe certamente trasformata in un’altra di quelle battaglie che allietavano le giornate trascorse a Brossard. «E tu, staccati da quella porta ed entra dentro.»

«Posso fingere di non capire le domande?»

«Considerando che sei canadese, per di più per metà del Québec? No» rispose secco, pur non riuscendo a trattenersi dal ridacchiare per il modo in cui Kyle lo stava fissando: di nuovo con quello sguardo sperso, lo stesso con cui sicuramente, fin da bambino, doveva esser riuscito a ingannare e ottenere parecchi sconti o regali. Quando sfoderava quell’espressione era davvero difficile negargli qualcosa, ma Sean, per sua sfortuna, da anni aveva a che fare con soggetti ben peggiori – come quei due gemelli pestiferi che gli infestavano casa – e pertanto non si lasciò imbambolare. Gli circondò le spalle con un braccio, per poi spingerlo a entrare nell’ampia sala.
Quando fece il suo ingresso, alcuni occhi, che prima erano costantemente puntati su Sergej, gli prestarono attenzione. Riconobbe alcuni dei giornalisti veterani che gli sorrisero, altri invece, sorpresi forse dalla sua presenza, si affrettarono ad appuntarsi qualcosa sui taccuini o sui cellulari.

«Rilassati» sussurrò poi all’orecchio di Kyle, quando lo sentì irrigidire le spalle. «Non sono poi così tanti come sembrano.»

«Stai scherzando? Vuoi che mi metta a contarli?»

«Fissa un punto a caso e rispondi. Puoi anche non guardarli in faccia, se ti aiuta.»

Il ragazzino sospirò e prese posto su una delle cinque sedie messe a disposizione, lasciandone una libera per lui, al fianco di Sergej. Con un po’ di riluttanza – e la convinzione che, in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto farsela passare per il bene della squadra – si lasciò ricadere sulla seduta di plastica e sistemò il microfono. Solo in quel momento, si rese conto che il suo nuovo e taciturno compagno lo stava fissando in tralice, con quei suoi particolari occhi taglienti.
L’incrociarsi dei loro sguardi non durò che una manciata di secondi, prima che Sergej tornasse a fissare il proprio altrove, ma quell’irrisorio attimo bastò a Sean per convincerlo a soffermarsi di più a osservare quello strano individuo che gli sedeva accanto. Doveva ammettere con se stesso di esserne incuriosito, perché si dimostrava così diverso da lui, e altrettanto da quella bestia che sembrava prendere il sopravvento sulla sua solita apatia e si manifestava mentre graffiava la superficie di ghiaccio con i pattini.
Sergej sul campo era completamente diverso, talvolta era quasi inquietante la rabbiosa determinazione con cui pareva esplodere con quel suo gioco semplicemente geniale. Non era veloce come Kyle, né poteva vantare la potenza spesso distruttiva di Cole; forse non era così preciso nei tiri come Sean stesso aveva dimostrato di essere, e che gli erano valsi quel buffo nome di “Revolver”, eppure aveva qualcosa di diverso da chiunque. Aveva una visione di gioco completamente sua; un fantasista ineguagliabile con un’abilità nel controllo del dischetto invidiabile, tanto che, spesso, i commentatori, si divertivano a disquisire e avanzare ipotesi sul fatto che potesse esserci della colla o almeno una calamita a tenere attaccato quel dannato puck al bastone di Sergej.
Giravano innumerevoli leggende attorno a quel russo apparentemente inavvicinabile, alcune delle quali avevano preceduto perfino il suo approdo in America, mesi prima della cerimonia dei Draft[1] a cui avevano partecipato entrambi. Il nome di Sergej rimbalzava da un club all’altro come la pallina di un caleidoscopico flipper. Tutti avevano un commento per quel diciottenne spaventosamente promettente. Sean riusciva ancora a ricostruire i dettagli di quell’emozionante giornata; poteva ripercorrere il momento in cui il manager dei Washington Capitals aveva preso la parola e scandito con sicurezza quel “Sergej Nevskij” come la prima e assoluta scelta tra gli innumerevoli ragazzi che attendevano di udire il loro nome, per essere accolti in una delle trenta squadre della NHL; poteva richiamare l’immagine dello sprezzante sorriso disegnatosi sulla quella faccia che ancora conservava qualche traccia dell’adolescenza, nel momento in cui si era alzato in piedi per mostrarsi agli occhi dell’intero stadio, pieno di orgoglio per sé stesso e con una spavalderia che solo un ragazzino appena maggiorenne, con un mostruoso talento come il suo, poteva avere.
Il primo ricordo che Sean aveva di Sergej era quello: di un ragazzo che pareva brillare di luce propria, sul tetto di quel loro mondo che era l’hockey. Ricordava di come l’aveva guardato e ammirato per la sicurezza che riusciva a trasmettere anche solo da un semplice sguardo, di come era salito sul palco e si era lasciato abbagliare dai flash quasi non avesse fatto altro nella vita che ergersi sul piedistallo più alto senza paura alcuna o un minimo senso di vertigine; quasi fosse semplicemente nato per essere il migliore.
Il giovane Sean dell’epoca si era lasciato colpire da quella sua aura particolare. Aveva seguito l’ascesa di quel suo tanto acclamato coetaneo con le gambe che tremavano per il desiderio di materializzarsi all’istante su un campo da hockey, e la folle impazienza di poterlo finalmente sfidare apertamente. Era stata una botta d’adrenalina quella, che aveva raggiunto il suo apice nel momento in cui anche il suo nome era stato pronunciato. Il terzo a guadagnarsi la possibilità di accedere all’Olimpo dell’hockey e, per di più, nell’unica squadra che avesse sempre desiderato: i Montréal Canadiens.
Più di sei lunghi anni erano trascorsi da quel giorno, assieme ad altrettante stagioni ed emozioni. Molte cose erano rimaste immutate – e il talento di Sergej era certamente una di quelle costanti – eppure, nell’osservarlo con attenzione, Sean non riusciva a scorgere che una flebile traccia di quel ragazzetto dall’ego spropositato ed esplosivo che aveva incrociato per la prima volta la propria strada con la sua.
Nel guardarlo in quel momento, seduto al suo fianco e chiaramente annoiato, Sergej sembrava più il riflesso scolorito e consumato di quello che si era dimostrato sei anni addietro. Pareva più composto di colori sbiaditi, tonalità tenui che si alternavano sulla sua figura: opache, spente, come quelle di un’uggiosa giornata d’inverno, grigia e sommersa tra la nebbia.
Quegli occhi non troppo grandi, affilati sui lati, come disegnati da una distratta linea che li sfumava appena verso le tempie in quella tipica conformazione dei nativi della sua terra, avevano ciglia scure e iridi di un grigio azzurro polveroso; acciaio opaco stretto in una fine corona color ardesia. La luce che un tempo vi fiammeggiava dentro, completamente affievolita.
Il naso proporzionato e dritto come un fuso scendeva giù fino a quelle morbide labbra: l’unica cosa di lui apparentemente non spigolosa. Erano di un tenue e delicato rosa, come quelle di un bambino, pressoché simmetriche, se non fosse stato per quella lieve sporgenza centrale sulla parte superiore, che gli conferiva ancora più pienezza e un’espressione perennemente imbronciata o stufa.
Il Sergej ventiquattrenne conservava ancora quell’aria altezzosa, ma andava a circondarsi e ornarsi di noia e non più di quella luminosa e determinata ambizione che il giorno dei Draft sembrava essere quasi palpabile, e, allo stesso modo, pareva non trovarsi più così tanto a suo agio con la stampa o nello stare al centro dell’attenzione.
La parte curiosa di Sean avrebbe quasi preferito restare a fare supposizioni e scovare risposte – e perdersi in quel viso che, una volta superato il fastidio per la personalità a cui era associato, era maledettamente bello da osservare – ma Wayne pensò bene di ricordargli i loro doveri e il motivo per cui li aveva trascinati lì, posando le mani sulle loro spalle per conquistare l’attenzione di entrambi.

«Pronti per il teatrino?» chiese, con un sorriso d’incoraggiamento, che andò a rivolgere soprattutto a Kyle.

«Odio i giornalisti» fu la replica scocciata di Sergej; la voce scura e profonda a malapena udibile in quel suo sussurro.

«Anch’io, ma è anche grazie alla loro poco gradita attenzione che abbiamo uno stipendio a sei cifre. Per qualche minuto potresti anche fingere, no?»

«Sì.»

Wayne strinse la presa sulla sua spalla, poi si azzardò a rifilargli una lieve pacca sulla nuca, prima di sedersi al suo posto. «Cerca di non essere troppo stronzo.»

A quel buffo monito, gli occhi di Sergej guizzarono con un po’ di sorpresa verso l’allenatore. Probabilmente, il nuovo arrivato non aveva ancora fatto l’abitudine a quei suoi modi spicci e forse, per uno così avvezzo a essere trattato quasi con una sorta di timore reverenziale come lui, non sarebbe mai stato troppo facile interagire con un allenatore del genere.
Il loro singolare coach però, non sembrò neanche far caso alla reazione del novello acquisto, e si limitò a sistemare il proprio microfono, a scambiare qualche parola con Marc, il manager della squadra, e infine rivolgersi ai trepidanti giornalisti accomodati dinnanzi a loro: «Buonasera signori. Non credo ci sia molto da spiegare sul motivo per cui siamo qui, dato che i vostri giornali non parlano d’altro da settimane. Quindi direi di iniziare col presentarvi ufficialmente innanzi tutto Kyle Jacques Delon» e indicò il suo giovane compagno, irrigiditosi d’improvviso sulla sedia, col chiaro intento di sviare per quanto possibile, l’attenzione dal succulento boccone principale di quella conferenza, «la nostra nuova, promettente matricola.»

Il povero Kyle – come del resto Sean si era aspettato – stirò le labbra in un sorriso nervoso e lanciò un’immediata occhiata verso la porta d’uscita dove Boris, nascosto dal resto della sala, gli fece un cenno d’incoraggiamento.
Intanto, le prime mani avevano iniziato a sollevarsi da parte dei giornalisti, e Marc prese a indicare chi per primo poteva rivolgere le sue domande a quel ragazzino terrorizzato. Dopo i primi minuti in evidente imbarazzo però, Kyle riuscì a conquistare i favori e le simpatie di tutti, con i suoi grandi sorrisi disarmanti e quell’inclinazione più che naturale a rendersi un perfetto pagliaccio in ogni situazione. Raccontò episodi divertenti della sua permanenza a Hamilton e ripercorse il suo lungo e faticoso tragitto dai Draft al momento in cui, finalmente, Wayne e Marc gli avevano ufficialmente comunicato che poteva trasferire interamente tutte le sue cose a casa di Boris, a Montréal.
Quando era arrivato il suo turno di parlare poi, Sean aveva sentito quella placida atmosfera incrinarsi un po’ sotto il peso delle critiche avanzate da alcuni. Ad ogni modo, sia lui che Wayne, erano riusciti a dribblare ogni intoppo senza troppi problemi, mantenendo il tutto su toni perfettamente rilassati.
Nonostante la loro piccola vittoria però, nulla potevano fare sul momento peggiore di quella mattinata che stava per giungere, e ne erano ben consapevoli. Con una breve occhiata a Sergej difatti, Marc si prese un momento per schiarirsi la voce, poi avvicinò le labbra al microfono e disse: «Bene, passando all’altro motivo per cui siete qui. Come ormai tutti sapete, il qui presente Sergej Nevskij è entrato ufficialmente a far parte dei Montréal Canadiens, con un contratto che, almeno per adesso, si protrarrà per tutta la prossima stagione» si soffermò per un istante, poi si decise a terminare: «Qualcuno ha delle domande da fargli?»

Wayne gli lanciò un’occhiata scettica, come per voler sottolineare l’inutilità di quella richiesta, mentre le mani della maggior parte dei presenti si allungavano con foga per potersi assicurare la possibilità di parlare.
Marc, quasi impallidito all’idea di quel che si sarebbe scatenato di lì a poco, indicò a caso tra il gruppo di giornalisti e più di uno di questi iniziò a mitragliare di domande Sergej, tanto che, per la prima volta, Sean provò un po’ di pena per lui.

«Uno alla volta, per favore. Non è un mercato, Cristo» intervenne Wayne, con poca grazia e senza nascondere il proprio fastidio. A dispetto dei suoi metodi poco diplomatici però, riuscì a ottenere il suo scopo.

Il primo degli intervistatori autorizzato a parlare proseguì diretto al nocciolo: «Sergej, questo tuo arrivo ai Canadiens ci ha sorpreso tutti. Che tirava brutta aria tra te e i Capitals era risaputo già da qualche tempo, ma cosa puoi dirci di più a riguardo?»

Sean fece guizzare lo sguardo verso il suo nuovo compagno di squadra per sondarne le reazioni. Aveva immaginato di scorgere del fastidio nelle sue espressioni, ma non trovò che l’ormai familiare sguardo disinteressato; gli occhi pressoché vacui, mentre biascicava a fatica una sorta di replica: «L’ha appena detto lei, tutto quello che c’è da dire.»

«In che senso? Può darci qualche dettaglio in più?»

« Non c’erano più le condizioni per tenermi in squadra.»

«Sì, certo. Ma esattamente cosa le è stato detto? Che spiegazione le hanno dato?»
Sergej, a quell’insistenza, roteò gli occhi. «Devo davvero ripetere le stesse, identiche cose con cui state riempendo i giornali da un anno a questa parte, sul mio conto?»

Quel primo intervistatore restò interdetto dalla sua risposta chiaramente evasiva e scocciata, ma un secondo arrivò immediatamente a rimpiazzare il suo collega: «Com’è stato il cambiamento di squadra? Hai giocato solo per i Capitals negli ultimi anni, da quando sei arrivato nella NHL, quindi come ti sei sentito?»

«Non è la prima volta che cambio squadra e l’hockey è sempre lo stesso» mormorò allora Sergej con una scrollata di spalle, senza neanche guardare in faccia il suo interlocutore. «Suppongo solo di dovermi adattare al nuovo ritmo.»

«Tu e Ivchenko eravate ottimi compagni di squadra e credo anche amici. Vi sentite ancora?»

«Sì, mi ha inviato un messaggio questa mattina per augurarmi buona fortuna.»

«Per cosa?»

L’accenno di un sorriso ironico nacque sulle sue labbra, lasciando piegare appena uno degli angoli della bocca. «Sapeva di questa intervista.»

«Come ti trovi con i tuoi nuovi compagni? I ragazzi dei Canadiens sono conosciuti e rinomati per il loro affiatamento. Pensi sarà difficile per te integrarti?»

«Sono arrivato da un paio di settimane» rispose a un terzo giornalista, anche stavolta con l’attenzione rivolta a chissà cosa. «Sono stato presentato a tutta la squadra e mi sono allenato con loro. Il resto si vedrà poi.»

«Hai letto o sentito ciò che Travis Grouwer ha dichiarato nella sua ultima intervista, dopo la tua partenza?»

Per la prima volta, da quando le domande avevano iniziato a travolgerlo, Sean vide Sergej sollevare lo sguardo alla ricerca della persona che aveva formulato l’ultima. Inchiodò i suoi occhi gelidi su di lui e quasi lo fece sobbalzare, prima di pronunciare in modo secco: «No.»

«Be’, è un po’ strano questo. È stata riportata da ogni giornale sportivo e...»

«Non leggo i giornali. Se posso li evito» tentò di liquidarlo velocemente, ma questo non parve darsi per vinto.

«Ha detto che qualche volta non sapeva neanche se poterti considerare un compagno di squadra. Che era impossibile instaurare un rapporto con te, che eri considerato alla stregua di un cancro nello spogliatoio perché mettevi a disagio tutti col tuo modo di fare e...»

«Basta così. Vi prego di non continuare l’intervista su questi toni e su questi argomenti» s’intromise a quel punto il General Manager, sforzandosi di risultare il più garbato possibile. Qualcun altro però, dal fondo della sala, non era del suo stesso avviso e decise di ritentare sullo stesso argomento.

«Sergej cosa pensi delle accuse di Grouwer?»

«Sinceramente, non penso niente. Non dobbiamo più condividere lo spogliatoio, quindi non mi riguarda.»

«Che tipo di rapporto avevi con Grouwer?»

«Giocavamo nella stessa squadra.»

«Questo che significa? Ci sono mai stati screzi tra di voi o...»

A quelle insistenze, Marc si sollevò dalla sedia e rinnovò il suo monito. Stavolta con meno cortesia: «Ho detto basta così, per favore. Non costringetemi a chiudere qui l’intervista.»

Nella sala dilagò un silenzio imbarazzato, ma quella parvenza di tregua non durò che pochi secondi: «Hai ricevuto dure critiche negli ultimi tempi. C’è chi ha addirittura pronosticato il declino della tua carriera. Come intendi rispondere a queste accuse?»

«In realtà, io non intendo rispondere a nessuna accusa.»

«Davvero non vuoi commentare? Non vuoi rispondere o difenderti?»

«Hanno solo espresso la loro opinione» mormorò Sergej con l’ennesima scrollata di spalle, ma era evidente a tutti, oltre che agli occhi di Sean, che quella domanda l’aveva infastidito molto più di tutte quelle richieste a riguardo dell’infelice intervista di Grouwer o sulla definitiva fine della sua collaborazione con i Capitals.

«Mi permetto di rispondere io al suo posto» prese la parola Wayne con fermezza, sorprendendo i presenti e mettendo tutti a tacere. In genere non era quel tipo di persona e allenatore che difendeva a spada tratta i propri giocatori, ma più quello che li obbligava a prendersi le proprie responsabilità e fronteggiare per proprio conto i problemi con la stampa e con i fan. In quell’occasione però, parve voler fare un’eccezione alla sua regola, per sottrarre il suo nuovo pupillo a un raffronto che, forse, non riteneva giusto. «La carriera di Sergej è ben lontana dall’essere in declino. Siamo molto onorati di averlo nella nostra squadra e siamo fiduciosi per un suo importante contributo durante la prossima stagione. Confidiamo nel suo talento e nella possibilità di creare un ottimo affiatamento con il resto dei suoi compagni. Adesso, se volete scusarci, dovremmo andare a lavorare proprio su questo.»

Terminato il suo discorso, scuro in volto, fece cenno ai tecnici di staccare immediatamente l’alimentazione ai microfoni, poi, invitò tutti e tre i giocatori a uscire sbrigativamente dalla sala, come se non volesse arrischiarsi a sentire altri spiacevoli commenti.
Raggiunto nuovamente il corridoio, Kyle si affrettò a sgattaiolare da Boris per pavoneggiarsi un po’. Sean invece, decise di rallentare il passo per affiancare il proprio allenatore e Sergej, notando come nessuno dei due sembrava esser intenzionato ad avanzare considerazioni sulla conferenza.

«Molto bene» sospirò Wayne, con un’aria piuttosto contrita, «e anche questa è andata, più o meno. Ci vediamo qui domani mattina. Per oggi vi lascio giornata libera.»

«E vai!» esclamò Kyle, trattenendosi a stento dal mettersi a saltellare, prima di rivolgersi al suo russo coinquilino: «Ehi, tu sei in debito di un’immensa coppa gelato.»

«Non ricordo di aver pronunciato la parola ‘coppa’, né tantomeno ‘immensa’.»

«Piantala di fare il tirchio e andiamo!» lo mise a tacere, afferrandolo con entrambe le mani per uno dei possenti avambracci e sforzandosi di trascinarlo fuori. Peccato che Boris fosse almeno il doppio del piccolo canadese e decisamente molto più forte.
Sean scoppiò a ridere, nel notare la faccia dell’imponente difensore che squadrava con un’espressione perplessa i vani tentativi di Kyle di spostarlo, dopo di che, si decise a salutare Wayne e avviarsi verso l’uscita, in una scena agli antipodi tra il gelido silenzio di Sergej e il continuo battibeccare degli altri due suoi compagni.

Durante quel tragitto si concesse di spiare il suo taciturno compagno di squadra: gli lanciò un’occhiata di sottecchi, stando attento a non farsi sorprendere. Osservò la sua espressione completamente indifferente alle buffe scenette che gli altri due presenti stavano offrendo pochi passi davanti a lui, scorgendo su quel volto il solito e distaccato niente.
Non sembrava dispiaciuto, né arrabbiato o ferito. Per quel che ne sapeva di lui, quella era la sua abituale espressione ma, senza sapersene spiegare il perché, Sean decise di cogliere quell’occasione e di provare a intavolare una conversazione con Sergej che potesse portarli da qualche parte. O, almeno, a ciò che di più simile a un rapporto esisteva, per una sana convivenza nella medesima squadra:

«Ehi, non prendertela» iniziò, con un po’ d’incertezza. «Quelli blaterano, spesso a sproposito, ma è il loro lavoro. A volte lo fanno anche apposta per farti innervosire» fermò il suo straparlare per un momento – la vicinanza di Cole gli faceva davvero male – e attese una replica o almeno un cenno da parte dell’altro che, però, non arrivò. Si schiarì quindi la voce, non certo di volersi dare già per vinto, e riprese: «Vedrai che tra poco l’intervista di Grouwer finirà nel dimenticatoio come tutto il resto e...»

«Senti...» sospirò Sergej interrompendolo. Si voltò per guardarlo in faccia per la prima volta, come se solo in quel momento si fosse reso conto della sua presenza. Si fermarono a metà del corridoio, lasciando proseguire Boris e Kyle. «Risparmiami queste stronzate. Nessuno ti ha chiesto niente» continuò, con voce piatta e fastidiosamente annoiata, prima di lasciarsi andare a uno sbuffo sprezzante, quasi cattivo «E poi, che vuoi saperne tu, che sei il principino amato da tutti?»

Sean restò in silenzio. Non trovò parole per replicare a quella domanda a cui, chiaramente, Sergej non cercava affatto risposta.
Si limitò a fissarlo in quella sua aria arrogante, quasi di biasimo, finché non fu proprio lui a mettere fine a quell’imbarazzante situazione, semplicemente riprendendo il suo percorso e allontanandosi verso l’uscita.
Sean seguì con lo sguardo i suoi passi flemmatici e la figura slanciata che avanzava con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Si concesse poi un profondo respiro per calmarsi e svuotare la mente, pur rendendosi conto che non avrebbe saputo neanche quantificare la sua improvvisa voglia di prenderlo a pugni.
 
 
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Kyle poggiò la fronte sulla superficie fredda del finestrino, nel tentativo di scorgere quanto più gli era possibile della capitale canadese che si estendeva sotto di loro. Nel giro di qualche minuto sarebbero finalmente atterrati a Ottawa.
Non che quella fosse la prima volta in cui vi metteva piede o che partecipava a una trasferta con la squadra. Già dalle giovanili si era abituato a esser sballottato qua e là per il Nord America.
Quella volta però, era diverso. Era solo la prima partita del Preseason[2], certo, ma era anche la sua prima partita da membro ufficiale della rosa dei Canadiens. Non esattamente una cosa da tutti i giorni.
Colto dai uno dei suoi attacchi d’ansia in piena regola, prese a tamburellare contro il seggiolino davanti e, come c’era da aspettarsi, scatenò l’immediata ira di Jayden: «Nano, giuro che te le stacco quelle gambette graciline.»

«Non posso. Sto per avere un infarto.»

«E io ti assicuro che avrai una morte ben più lunga e dolorosa, se non la pianti all’istante.»

Con uno sbuffo esasperato si arrese a sedersi in modo più composto e frugò nelle tasche dei pantaloni eleganti per trovare il cellulare.
Non che potesse farci granché. Se Cole lo avesse visto anche solo fissare lo schermo, probabilmente si sarebbe strappato la cintura di dosso in barba a tutti i protocolli di sicurezza e lo avrebbe aggredito, con gli occhi iniettati di sangue per le sue paranoie e la sua ridicola paura degli aerei. Era talmente terrorizzato di volare, che aveva impedito a chiunque in squadra di anche solo toccare il proprio cellulare, convinto che le onde potessero interferire con il velivolo.
Sospirò profondamente, rigirandosi il telefono tra le mani, per il semplice bisogno di fare qualcosa, finché non decise che ammazzare il tempo che lo separava dall’arrivo al Canadian Tire Center[3], valeva il rischio di incorrere anche nell’ira di Cole.
Sbloccò la tastiera, con l’idea di immortalare la stupida espressione di Boris, addormentato di fianco a lui, quando si accorse di un promemoria sul calendario: un minuscolo pallino rosso gli ricordava che l’indomani, il loro capitano avrebbe compiuto trent’anni, e di certo non potevano farsi sfuggire quell’occasione per far baldoria.

«Kyle, giuro che ti ammazzo» grugnì Jayden, quando prese a scuotere il suo poggiatesta come un forsennato.

«E girati idiota, invece di lamentarti! Non posso staccare il seggiolino.»

«Cosa diavolo vuoi?»

«Jan.»

Jayden gli rivolse un’occhiata perplessa, poi si voltò verso il loro capitano bellamente rilassato qualche fila più avanti. «È là, chiamalo se vuoi.»

«No!» esclamò, facendogli poi segno di abbassare la voce, per poi indicare lo schermo del suo telefono e mimargli, con scarsi risultati, il motivo per il quale l’aveva fatto voltare.

Jay per contro gli rimandò solo un’espressione decisamente perplessa, al limite col preoccupato. «Nano, ma ti sei preso qualcosa?»

«Dio, quanto sei ottuso! Jan. Compleanno. Domani.»

«Oh…» mormorò, prendendo lentamente coscienza delle sue intenzioni, «e noi non vogliamo che il nostro capitano affronti la sua progressiva decadenza verso la vecchiaia senza il nostro sostegno» si voltò poi a tirare un pugno sull’avambraccio di Cole e sorrise beffardo: «Ehi Mister Paranoia, penserai dopo a come non vomitare. Abbiamo una cosa più importante da organizzare.»
 
 
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Sean socchiuse gli occhi, incerto se voler scoprire o meno l’esito di quel tiro avversario. Serrò i denti e tirò un sospiro di sollievo, quando sentì lo schiocco secco del puck che andava a colpire uno dei pali della porta. Quella contro gli Ottawa Senators non era una partita ufficiale ma, amichevole o meno che fosse, essere letteralmente asfaltati dagli avversari non era mai piacevole.
La maggior parte della rosa ufficiale[4] dei Canadiens aveva trascorso gran parte dei primi due tempi di gioco in panchina; Sean stesso aveva a malapena messo piede in campo, ed era più che ovvio che Wayne avesse preso quella giornata senza un minimo di spirito competitivo, col solo scopo di lasciare un po’ di spazio ad alcune matricole.
Eppure, leggere quel “quattro a uno” ben impresso sullo schermo sopra le loro teste, nonostante tutte le attenuanti del caso, era comunque troppo imbarazzante. Suo padre l’aveva spesso rimproverato per questo: non sapeva perdere. Non aveva mai saputo farlo, neanche da bambino. E, a giudicare dalle facce dei presenti su quella panchina, non era l’unico. Jayden, ad esempio, seduto accanto a lui e vestito di tutto punto nella sua uniforme, si era appena lasciato sfuggire una smorfia inorridita per il modo in cui il portiere presente in campo, e suo secondo, era stato spiazzato da un attaccante avversario. Sarebbe stato un altro goal, se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Boris.

«Andiamo ragazzi. Datevi una svegliata!» urlò pertanto, lanciando un’altra occhiata allo schermo in alto e al tempo che scorreva inesorabile, segnando ormai la fine anche di quel disastroso secondo periodo.

«Non penso che una svegliata possa bastare a questo punto» sentì mormorare tra i denti; probabilmente Sergej non si era neanche accorto di aver dato voce ai suoi pensieri.

Si focalizzò nuovamente sul gioco, fissando i giocatori in campo cercare di guadagnare terreno e avvicinarsi alla porta avversaria. Eppure, nonostante i tentativi, sembravano non riuscire a oltrepassare la linea blu della difesa avversaria. Facendosi prendere dalla foga della partita e dello svantaggio accumulato, i ragazzi in campo stavano cedendo alla loro inesperienza, prediligendo passaggi affrettati, anziché rallentare il gioco per permettere a qualche compagno di liberarsi.
Per quanto frustrante fosse per lui presenziare come spettatore, Sean era ben consapevole della differenza che correva tra la NHL e le leghe in cui giocavano i prospect[5], e proprio per questo capiva la logica di Wayne e la sua scelta di mandare quei ragazzini in pasto ai leoni per fargli fare le ossa durante le partite del preseason, piuttosto che durante il campionato, senza la pressione delle conseguenze dei loro errori ingenui.
L’arbitrò fischiò per fermare il gioco a causa dell’ennesimo icing[6], e Wayne gridò ai giocatori in campo di tornare verso la panchina, battendo allo stesso tempo sulle spalle di altri cinque per farli scendere in campo. Come si aspettava, Sean non si sentì chiamare, avendo l’allenatore privilegiato altri veterani più avvezzi alla difesa. Si limitò quindi a osservarli mentre saltavano oltre la barriera, per poi prendere posizione attorno e al centro del cerchio di ingaggio[7], attendendo che l’arbitro lasciasse cadere il puck, e spintonando gli avversari cercando di guadagnare anche un singolo millimetro di vantaggio. Prima ancora che il dischetto toccasse il ghiaccio, schizzarono in avanti, i bastoni che sbattevano l’uno contro l’altro cercando di guadagnarne il possesso. Il centrale riuscì ad appropriarsi del puck, passandolo all’indietro a una delle ali, che rapido cominciò a pattinare verso la zona opposta del campo. Gli altri lo seguirono a ruota, cercando di ostacolare gli attaccanti avversari e guadagnare spazio. L’ala, un ragazzino draftato quell’anno e con una gestione del puck davvero invidiabile per la sua età, sapendo di essere da solo in zona avversaria, provò a schivare uno dei difensori dei Senators e a sviarlo con una mossa che Sean sapeva aver sfruttato più di una volta, con successo, nella lega Junior. La NHL era però qualcosa di ben diverso, e il difensore di Ottawa riuscì a leggere facilmente la giocata, costringendolo a rimanere all’esterno della porta, sul perimetro del campo, obbligandolo quindi a lanciare da un angolo da cui era pressoché impossibile segnare. Il portiere avversario afferrò col guanto il puck senza un’esitazione, bloccando così il gioco e facendo sfumare anche quell’opportunità di recupero. Nonostante tutto, però, quella piccola astuzia aveva permesso loro di ottenere un face off [8] in zona offensiva, e il gioco sarebbe dunque ripreso a pochi metri dalla porta avversaria.
Istintivamente, Sergej fece per alzarsi, probabilmente sicuro che sarebbe arrivato il suo turno. Dopotutto, Sean stesso riconosceva che un attaccante puro come lui era perfetto per una situazione simile, dove il suo istinto e la fantasia nel gioco avrebbero portato a un goal quasi certo. Eppure il ragazzo non fece nemmeno in tempo ad afferrare il suo bastone che la voce di Wayne lo fermò, chiamando invece al suo posto, il nome di altri cinque giocatori. Sean lo vide voltarsi verso il coach con aria sorpresa, come sconvolto dall’essere stato fermato. Alzò la mano con un gesto di stizza, quasi volesse chiederne il perché, ma ottenne solo uno sguardo duro e una scrollata di capo come risposta da parte di Wayne. Si riaccasciò perciò sulla panca, lo sguardo gelido e fisso sulla barriera che lo separava dal campo su cui non aveva messo piede per tutto il secondo periodo. Sean fermò a osservarlo, curioso di vedere la sua reazione a quello che lui avrebbe considerato un affronto. Il profilo dritto e già duro per natura, certamente non era addolcito dalla mascella contratta e dallo sguardo affilato che rivolgeva al vuoto. La sua concentrazione, tuttavia, non gli impedì comunque di notare come i Canadiens fossero riusciti a farsi fregare nuovamente il puck. Sean lo vide alzare lo sguardo quando davanti a loro saettarono gli attaccanti dei Senators, che, essendo riusciti a impostare un attacco “due contro uno[9]”, si avvicinavano alla porta scambiandosi continuamente il puck. Questo confuse il portiere degli Habs, che aspettandosi un tiro dal giocatore alla sua destra, si fece trovare fuori posizione, lasciando la porta aperta al secondo attaccante, che riuscì facilmente a segnare. La lampada rossa sopra alla traversa si illuminò, mentre la sirena informava gli spettatori del goal appena subito, il quinto, per l’esattezza. Fu in quell’esatto momento che Sean, per la prima volta, vide il gelo sparire dagli occhi del compagno di squadra, sostituito da rabbia mista al senso d’impotenza per essere bloccato su quella panchina. Quell’ammasso di emozioni non sarebbe potuto essere contenuto a lungo, e difatti, ne fece le spese una delle borracce abbandonate lungo la barriera. Sergej l’afferrò e la lanciò per terra, sibilando insulti nella sua lingua madre.

«Ehi, imbecille!» lo apostrofò Sean, afferrando poi uno degli asciugamani per pulire dalla visiera gli schizzi di Gatorade che erano arrivati fino a lui.

«Imbecilli sono quelli che stanno giocando ora» gli rispose con tono di sfida l’altro. «E loro non sono i soli con scelte discutibili» rincarò la dose, girandosi poi nuovamente verso il campo, e facendo dunque capire che per lui il discorso era finito.

Sean era sempre andato fiero del suo sangue freddo e di come generalmente fosse il paciere della situazione, ma aveva raggiunto da un pezzo il suo limite di sopportazione a causa del comportamento scontroso, egoista e menefreghista del russo che gli sedeva accanto.
Lo afferrò per una spalla, e lo costrinse a girarsi per fronteggiarlo. «Non penso di aver capito bene…» sibilò tra i denti, cercando di trattenere tutti gli insulti che aveva celato in quei giorni e che rischiavano di uscire in quel momento.

«Hai capito benissimo» fu l’ennesima risposta di Sergej con tono glaciale. «Se ti accontenti di fare da reggibastone per quei quattro bambocci buon per te, ma io sono qui per giocare.»
Non contento però della reazione, lo fissò con quel suo sguardo felino, le sottili labbra sollevate in un angolo, cercando un punto debole, un nervo scoperto a cui colpirlo. «O forse, ti accontenti perché sai di non essere in grado di raggiungere livelli più alti…»

Sean non fece in tempo a rispondere che una voce evitò che la situazione sfuggisse di mano a entrambi.

«Pensavo di allenare una squadra di professionisti, non di fare il maestro di asilo» tuonò Wayne. «Ora, non m’interessa chi ha rubato il pennarello a chi, ma piantatela di blaterare e concentratevi sul gioco.»

Sergej tornò a rivolgere la propria attenzione al campo, la sua espressione ormai nuovamente quella di sempre, come se nulla fosse accaduto, e questo non fece altro che far andare ancora più fuori di testa Sean. Altro che reggere i bastoni, li avrebbe volentieri spaccati sul groppone di quell’idiota.
Un fischio acuto li informò di come anche il secondo periodo fosse ormai finito, e Sean, senza attendere un secondo di troppo, si avviò a passi decisi verso lo spogliatoio, sforzandosi di lasciarsi indietro quel russo e il suo ego spropositato.
 
 
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«Jay, no

Il monito di Xavier cadde nel vuoto, sovrastato dal botto del tappo della bottiglia che andava a schiantarsi sul basso soffitto dell’aereo e rimbalzava come impazzito. Lo champagne prese a fuoriuscire in quella tipica schiuma biancastra, agitato dallo sciabordare di Jayden e dalla sua fenomenale idea.

«Che ti avevo detto?» lo riprese di nuovo Xavier, mentre l’altro si fissava i pantaloni e le scarpe, completamente fradici. «Sei il solito cretino.»

«Da’ qua» intervenne poi Cole, strappando l’ormai innocua – e pressoché vuota – bottiglia dalle mani dell’amico per riempire il suo bicchiere. «Quanta roba sprecata.»

Jan scosse la testa e sorrise dei suoi compagni di squadra che, come sempre, dimostravano la loro naturale indole di pagliacci. Avevano piantato su tutto quel casino solo per festeggiare il suo compleanno e, in qualità di capitano, avrebbe dovuto riprenderli per mancanza di serietà ed etica e per non essere rimasti concentrati solo sulla partita, benché fosse solo un’amichevole. Vedere quelle espressioni rilassate e sorridenti però, era un toccasana per lui; godersi quei momenti senza alcuna pressione addosso era una fortuna e un privilegio a cui avrebbero dovuto rinunciare per un po’, motivo per cui non si sentì affatto in dovere di recitare la parte di capitano coscienzioso e dire ‘no’ a quello che era almeno il quinto – o era già al sesto? – brindisi.

«Molto bene, signori» lo distrasse Sean dai suoi pensieri, pronunciando quelle parole con un sorrisetto alcolico stampato sulla faccia e gli occhi illuminati da una patina di, appunto, ubriachezza. «Allora, chi è il miglior capitano del mondo?»

«Steven Croose!» esclamò Kyle, le cui condizioni erano anche più precarie, guadagnandosi una poco gentile pacca sulla nuca da quello che era stato ormai eletto a suo “padre adottivo”.

«Va’ a dormire, nano» gli intimò poi Boris. «Non lo reggi l’alcool. Sei troppo piccolo per queste cose.»

«Almeno io, bevo!»

«E infatti, non dovresti farlo» gli rispose a tono, cercando di imitare la sua voce un po’ impastata.

«Un russo che non beve. Certo che non ci sono più certezze nella vita!» intervenne con fare sconsolato Jay, prima di versarsi l’ennesimo bicchiere per consolarsi.

«Non ci sono più nemmeno le mezze stagioni, se è per questo» rispose a tono Boris, prima di tornare a rivolgersi alla matricola.
«Oltretutto, ce l’hai l’età per bere?»

Il piccolo della squadra mise su un buffo grugno e si piazzò, facendo valere la sua – poca – imponenza, sotto il naso di Boris. «Ho vent’anni, scellerato di un padre. Mi sorprendo e mi offendo che tu non lo sappia!»

«Sicuro di non aver truccato i documenti? Me lo aspetterei da una zecca petulante come te.»

«Avanti, voi due. Tregua» li riprese Sean, incapace però di frenarsi dal ridere per quella scenetta. Erano un bel po’ di giorni che Jan non lo vedeva così spensierato. Scorgere nuovamente quell’espressione gioviale sulla faccia del loro principino fu un vero sollievo, anche se temeva che le apprensioni sarebbero presto tornate a far loro compagnia. Una di queste per altro, era già lì con loro, su quell’aereo.

A quel pensiero fu istintivo per lui voltarsi a muovere lo sguardo verso il fondo del corridoio dove, accomodato su uno degli ultimi e morbidi sedili e appena illuminato da uno dei piccoli faretti gialli, stava proprio il loro cruccio più imminente. Sergej, auricolari alle orecchie e occhi chiusi per un apparente sonnellino, trascorreva quel loro breve viaggio ignorando chiunque nella sua usuale solitudine.
Jan si lasciò sfuggire un sospiro quasi rassegnato, ripensando allo scatto d’ira che aveva colto quell’enigmatico ragazzo poche ore prima, quando Wayne per l’ennesima volta gli aveva precluso la partecipazione sul campo preferendogli qualche matricola.
Era stata quella, la prima e vera occasione in cui tutti loro avevano fatto la conoscenza di un Sergej diverso da quello apatico e indifferente che si mostrava di solito. Avevano visto la rabbia e la frustrazione che più di un commentatore sportivo aveva affibbiato al loro compagno durante le varie trasmissioni televisive, condannandolo al paragone di una “mina inesplosa in campo” per quel suo carattere irascibile che esplodeva così, d’improvviso, e sembrava poter promettere molti più danni di quelli che sarebbero mai stati capaci di gestire.
Ma dietro ai commenti dei giornalisti, dei suoi ex allenatori ed ex compagni; dietro alle dicerie e le leggende che giravano sul suo conto e le immagini che avevano costruito i fan e gliele avevano modellate addosso, Jan si chiedeva con sempre più insistenza che persona ci si potesse nascondere.
In fondo chi era Sergej? Solo un altro di quei ragazzini cresciuti troppo in fretta che, ancora sul limite dell’adolescenza, erano stati comunque gettati in pasto ai flash e alla stampa, con aspettative troppo grandi da dover soddisfare, pressioni soffocanti e troppi soldi che non sapevano neanche come gestire.
A volte Jan dimenticava che quel serioso ragazzo, che lo guardava un po’ storto con l’altezzosa aria di chi crede di poter beffare il mondo, non aveva che ventiquattro anni. Finiva col confondere la realtà sul campo con quella fuori e col compiere lo stesso madornale errore di quei commentatori sportivi, di vedere solo il giocatore, solo il talentuoso campione che sfrecciava sul ghiaccio e non più il ragazzo che respirava sotto la divisa da hockey e le protezioni, che non sorrideva mai e sembrava voler sparire dietro a quel numero stampato sulla sua schiena.
Non che Sergej fosse mai stato famoso per essere un tipo facile da avvicinare e conoscere, ma Jan poteva chiaramente intuire come la maggior parte delle persone avvicendatesi al suo fianco non avessero visto in lui più di uno strumento per il successo, una macchina perfetta per la corsa alla vittoria. Attirava invidie e odio, un po’ perché quasi sembrava chiederle e cercale, e un po’ perché forse era destinato a riceverle, per pagare il pegno di essere nato sotto una particolare stella; e a Jan, in fondo, faceva una gran pena. Doveva sentirsi molto solo, nello starsene lassù, su quel piedistallo d’inarrivabile talento.
Si attardò ancora un poco a osservarlo da lontano, poi si decise ad avvicinarlo. Non sapeva bene cosa aspettarsi, a parte l’abituale silenzio, ma si convinse a fare almeno un tentativo.

«Ehi, Jan. Dove scappi?» chiese Sean, quando mosse i primi passi lungo il corridoio.

«Abbiamo un brindisi al ‘miglior capitano del mondo’ da fare» lo chiamò anche Jay, prima di rivolgersi a Kyle: «e non è Steven Croose.»

«Torno subito» si scusò con loro, per poi proseguire dritto in quello spazio per lui ristretto, dove zone di luce fioca e ombra si alternavano.

Quando raggiunse il suo obiettivo, si rese conto che parte della sua agguerrita determinazione doveva essersi persa in quel breve tragitto. Non sapeva bene cosa dirgli o chiedergli; sapeva solo di doverlo fare. Poi, segno del destino o meno che fosse, le sue titubanze vennero poste a termine da una piccola turbolenza che gli fece perdere per un attimo l’equilibrio e lo mandò a sbattere contro il sedile.

«Ehi, scusa. Non volevo svegliarti» mentì in parte, quando gli occhi di Sergej si spalancarono e si sollevarono su di lui. La solita scrollata di spalle poi arrivò ad accoglierlo, mentre questo si liberava degli auricolari. Almeno però, si dimostrava più disponibile di quel che aveva anche solo sperato.

«Non stavo dormendo.»

«È che volevo chiederti se ti andava un bicchiere in compagnia» spiegò di getto, ma quando si rese conto che l’altro lo stava fissando un po’ stranito, quasi non riuscisse a registrare il perché di quella situazione, si affrettò ad aggiungere: «Non so però se sei astemio...»

«No, bevo» mormorò in risposta, prima di correggersi, rivelando qualcosa di molto simile a una punta d’imbarazzo nel tono scuro della sua voce. «Cioè, non bevo abitualmente, ma...»

«Sì, sì. Ho capito» lo rassicurò, trattenendosi dal ridere. «I ragazzi hanno avuto l’idea di farmi sentire vecchio e festeggiare il mio compleanno. Vieni a fare un brindisi?»

Sergej deviò lo sguardo sul finestrino, a quel panorama di completa oscurità che non avrebbe potuto dargli nessuna via di fuga. «Ehm, io...»

«Un po’ di distrazioni ogni tanto non sono male» ritentò allora Jan, appoggiandosi al bracciolo del sedile, per fargli intendere che non aveva alcuna intenzione di arrendersi così facilmente. Si prese qualche secondo, poi assunse a pieno titolo la sua veste di capitano – quel compito che ogni giorno svolgeva con amore e devozione – per arrivare diretto al nocciolo della questione e tendere una mano a quello scontroso ragazzino: «Lo so che sei arrabbiato e ti capisco» gli disse e, per la prima volta, Sergej si voltò a guardarlo davvero.
«È frustrante restare a guardare e non poter far niente, quando in realtà vorresti solo scendere in campo. Ma le partite prestagionali sono così, non contano niente. A Wayne piace usarle per testare i bimbi delle giovanili per fargli capire come funzionano le cose nella NHL, senza la pressione delle classifiche. Non mi pare che tu ne abbia bisogno.»

Sergej restò per un po’ in silenzio, arricciò le labbra in una strana smorfia di disappunto e riprese a fissare il buio oltre il vetro. Per un attimo Jan pensò di aver fatto l’ennesimo e svilente buco nell’acqua, poi però, lo sentì mormorare: «Non sa neanche come potrei giocare.»

«Credimi, lo sa. Tutti lo sanno» sorrise, per poi fare un cenno con la testa, diretto a indicare una parte della squadra poco distante da loro. «Prova a chiederlo a Kyle. Saprebbe descriverti ogni tuo goal delle passate stagioni. Probabilmente ti direbbe cose che neanche tu hai mai notato.»

«Kyle» gli fece eco, mormorando quel nome come se non fosse che un piccolo pensiero sfuggito alla sua mente. L’ombra di un sorriso parve piegargli le labbra solo per un attimo; uno così breve che Jan non fu neanche poi così certo di aver visto bene. «Quel ragazzino sa il fatto suo.»

Da parte sua avrebbe voluto approfondire quell’argomento, forzare un po’ la conversazione per vedere se l’avrebbe portato da qualche parte. Alla fine dei conti però, decise di accontentarsi di quel poco e fingere di non aver sentito quel commento che, forse, Sergej non si era reso neanche conto di aver pronunciato. Non era ancora quello il momento di fargli pressione. Ne aveva già fin troppe da gestire e un’incazzatura da manuale contro Wayne da farsi passare, e alla svelta.

«Allora?» riprese il discorso, riconquistando la sua attenzione. «Ti va quel bicchiere?»

Sergej lo squadrò ancora con quei suoi occhi affilati, come se stesse prendendo tempo per varare la proposta e considerarne i pro e i contro,come se immaginasse che ci fosse qualcosa sotto. Quel ragazzino non si fidava proprio di nessuno, probabilmente neanche di se stesso.
Poi, con suo enorme sollievo, sembrò addolcire un po’ quella sua faccia di bronzo per concedergli una piccola vittoria. Annuì con la testa, pur senza guardarlo negli occhi e con poca convinzione, e si alzò per seguirlo da tutti gli altri.
Se Jan avesse avuto una macchina fotografica, l’avrebbe certamente usata per immortalare le espressioni incredule e decisamente stupide di quelli che erano i suoi più cari compagni di squadra. Boris e Kyle avevano improvvisamente cessato i loro battibecchi, Xavier, invece, lo fissava corrucciato, quasi cercasse di rivolgergli col pensiero una domanda che doveva più o meno comporsi come un: “che diavolo gli hai detto?”. Sean, dal canto suo, era letteralmente sbigottito e alternava il suo sguardo tra lui e Sergej. Quei fanali verdi che aveva al posto degli occhi erano colmi di una sorpresa che non gli aveva mai visto prima. Non da meno erano le facce allucinate di Cole e Jayden che, impegnati com’erano a fissarli, si stavano dimenticando dell’ennesima bottiglia aperta e del fatto che ne stessero versando il contenuto in un bicchiere che, nel giro di qualche secondo, sarebbe straboccato.
Come da previsione difatti, lo champagne raggiunse e superò l’orlo, versandosi nuovamente sulle preziose scarpe di Cole.

«Cazzo, Jayden!» esclamò di fatti questo, osservando con orrore il suo ultimo acquisto. Quel ragazzo aveva un serio problema con lo shopping. «Le mie scarpe! Allora, o lo fai apposta oppure sei deficiente sul serio!»

«Be’ dai. Almeno adesso sono pulite» gli rispose l’artefice di quel disastro, guadagnandosi un’occhiata poco rassicurante da parte del compagno.

«Ringrazia che sta per iniziare la stagione, altrimenti le avrei usate per pestarti!»

Al cominciare di quell’ennesima diatriba che sembrava promettere di protrarsi per un bel po’, Jan si abbandonò a un altro dei suoi esasperati sospiri e rivolse una smorfia ironicamente costernata a Sergej, quasi volesse rassicurarlo ancora una volta che, prima o poi, c’avrebbe davvero fatto l’abitudine a tutta quella confusione. Dopo di che, prese uno dei bicchieri e glielo porse con un sorriso sincero, augurandosi con tutto il cuore che da quel momento potesse nascere anche qualcos’altro, oltre le solite e sciocche discussioni.
Qualcosa di buono.
 
 
******
 
 
Vabbé, penso che a questo punto l'avete capito che la puntualità non è esattamente il nostro cavallo di battaglia.
Siamo a dir poco un caso disperato, ma tra impegni vari, virus misteriosi beccati in compagnia e diverse stupidaggini, siamo finalmente riuscite a pubblicare, con l'aiuto della nostra beta ufficiale che, oltre a bacchettarci a dovere, fa pure azione di pressing!
Altre stupidaggini a parte, almeno possiamo dire che il prossimo capitolo è quasi completo. Non vorremmo gufarcela, ma FORSE, al prossimo giro pubblicheremo in tempi socialmente accettabili!
Detto questo vogliamo ringraziare come sempre tutte le persone che hanno avuto la pazienza di leggere fin qui questo branco di disagiati e chi ha avuto il coraggio di approdare nel nostro gruppo (QUI) e farci compagnia in quella landa di disagio.
Le cose cominciano (?) finalmente a muoversi in questo capitolo (più o meno), e non manca davvero piú molto all'azione.
Non c'è granché da aggiungere a questo capitolo, se non che per i reclami contro Sergej potete contattare la nostra beta, Lyra, o il torturatore ufficiale di corte Relena (storia lunga, non fate domande. Annuite e sorridete. Ci farete molto felici!)
Per il resto, se ci sono domande noi siamo qui apposta per chiarire dubbi hockeistici o meno che siano!
Speriamo sia stato un capitolo di vostro gradimento e, per chiunque voglia scambiare anche solo due chiacchiere, qui i nostri profili FB!
Grazie ancora a chiunque abbia letto, inserito la storia nelle preferite, seguite, ricordate, nei cassetti, nel cesto dei panni sporchi, insomma dove vi pare, e ovviamente a chi ha recensito!
Un bacione e alla prossima,
Sam e Sid.
 
 
 
 
[1] Cerimonia durante la quale le trenta squadre della NHL a turno selezionano i giocatori delle leghe minori e universitarie tra i 18 e i 20 anni. Una volta scelti, i diritti dei giocatori passano in mano alle squadre, che possono decidere se farli giocare per loro, per la loro squadra minore o rimandarli nelle leghe junior e universitarie.
[2] Prima dell’inizio della stagione vera e propria, le squadre giocano un paio di partite tra di loro, che non influiscono sulla classifica. Una specie di amichevoli, insomma.
[3] Stadio degli Ottawa Senators.
[4] Lista ufficiale dei giocatori di una squadra.
[5] Giocatori che sono stati draftati da una squadra della NHL ma ancora giocano nelle leghe minori.
[6] Infrazione per cui viene fischiato il fermo gioco. Viene segnalato quando la squadra in difesa lancia il puck da dietro la linea rossa di metà campo fin oltre la linea della porta avversaria avversaria. In questo caso il gioco viene fermato e si ricomincia da accanto alla porta della squadra che era in difesa. In realtà poi esistono varie varianti e casi in cui viene annullato.
[7] Per coloro che non hanno mai visto un campo da hockey, questa è la struttura http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/dd/HockeyRink-Zones.png . I cinque cerchi sono chiamati “cerchi d’ingaggio”, o “face off circles” in inglese. È da qui che viene iniziato o riprende il gioco. Al centro del cerchio si posizionano un giocatore per squadra (generalmente un centrale), pronti a contendersi il puck lasciato cadere dall’arbitro. Intorno al cerchio si posizionano gli altri giocatori, pronti a prendere il puck passato dai giocatori al centro.
[8] Il Face off (qui troverete tutte le immagini del caso o le info che volete: https://www.google.it/search?q=face+off+hockey&es_sm=91&biw=1088&bih=617&source=lnms&sa=X&ei=9C1qVZqfFqv9ywPm6YLgDA&ved=0CAUQ_AUoAA&dpr=2) è appunto l’atto di far ripartire il gioco dopo che è stato interrotto per qualche motivo (generalmente un goal, un icing, un fuorigioco, o qualche altra infrazione). A seconda del motivo e dalla posizione del gioco nel momento in cui la partita è stata interrotta, si ricomincia da un cerchio diverso. In questo caso, essendo il gioco stato fermato per un tiro in porta, si ricomincia da vicino alla porta verso cui il tiro era diretto, dal lato da cui proveniva il tiro. Nel caso di prima dell’icing, si ricomincia da uno dei due cerchi vicini alla porta della squadra che ha commesso l’infrazione, mettendo quindi questa squadra in una posizione di svantaggio.
[9] Schema dove due giocatori avversari avanzano verso la porta e tra loro e il portiere resta solo un difensore che deve cercare di coprire entrambi.
 
 

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Capitolo 7
*** Torches & Goals ***


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7th Period. “Torches & Goals”
 
 


«Nervoso?»
 
A quella domanda, Sergej staccò lo sguardo dal suo spuntino sbocconcellato e lo sollevò sulla gemella appena riemersa da una doccia in cui, a giudicare dalla nuvola di vapore che si levava dalla porta del bagno, doveva aver consumato l’acqua di tutto il palazzo.
 
«Perché dovrei?» sbuffò con sufficienza, pur sapendo che la prova della sua sciocca bugia fosse esattamente sotto il suo naso, in quel piatto che aveva appena toccato e che, in genere, non impiegava che una manciata di minuti per spazzolare completamente.
 
Aveva lo stomaco chiuso dall’ansia: una sensazione che non provava più da molti anni prima di una partita, da quando a Washington aveva fatto l’abitudine e il callo a qualsiasi cosa.
Ricominciare tutto in una città diversa però, con altri compagni, non sembrava essere poi così semplice come aveva fatto credere a tutti. Ora che le cose cominciavano a farsi serie, che i suoi errori e le botte di testa tornavano a incidere sui risultati di una squadra. Ora che non c’era più Alyosha a fargli da balia – per quanto gli costasse ammetterlo – ad arginare il suo caratteraccio e a fungere da airbag tra lui e il mondo di stampa sportiva, tutto sembrava essere decisamente più difficile e, in qualche profonda parte di sé, poteva quasi sentir risuonare un po’ di rimorso, per non essere stato meno scontroso, meno intrattabile – o più semplicemente, come diceva Alyosha, meno “testa di cazzo” – quel minimo che sarebbe bastato a salvargli il posto.
In quei momenti gli ritornava in mente la faccia stanca di Aleksej nell’attimo in cui aveva deciso di informarlo delle voci riguardanti una sua esasperata cessione. Aveva voluto essere il primo a parlargliene, a pregarlo di sforzarsi un po’ per mantenere vive e a galla le possibilità, se ce n’erano, di restare ancora a Washington.
Aveva anche tentato di convincere i dirigenti a rivedere le loro posizioni, anche quando Sergej, per contro, aveva fatto di tutto per farsi detestare, giocando perfino al minimo delle proprie capacità durante gli ultimi playoff disputatisi, mettendo così fine alle sue probabilità di evitare la cessione e a quelle dell’intera squadra di vincere la Stanley Cup.
Aleksej si era arrabbiato talmente tanto in più di un’occasione, che per un momento aveva quasi creduto che potesse prenderlo a pugni. Gli aveva urlato in faccia come un ossesso, rendendo più dure e taglienti le parole della loro lingua. Gli aveva ribadito più volte di essere un idiota ingrato, tutte condite da un’infinita sequela di colorite offese di ampia gamma, e Sergej si era comunque davvero sentito in colpa solo nei confronti di Alyosha, per avergli distrutto quella stagione, per aver reso vani tutti i suoi sforzi e messo fine alla loro comune militanza nella NHL.
Da quando il suo agente gli aveva confermato che la permanenza a Washington era definitivamente al capolinea, Sergej si era ritrovato più volte diviso tra un piacevole senso di liberazione e l’angoscia del dover ricominciare in un’altra città, da solo. Aleksej invece, aveva passato giorni in cui gli aveva a malapena rivolto la parola ma, poco prima del suo trasloco, si era prodigato a escogitare ogni più stupida scusa per trascorrere gli ultimi giorni assieme, in totale tranquillità e lontano da tutte le pressioni che presto sarebbero tornate a travolgerli, l’uno a centinaia di chilometri dall’altro e in veste di avversari.
Se pensava a quella realtà gli pareva quasi naturale afferrare il cellulare e digitare il numero di Alyosha, abituato com’era ad averlo sempre intorno. Rinunciò però quando si rese conto che Irina si era avvicinata e lo squadrava stranita e un po’ infastidita. Probabilmente gli aveva rivolto parola e lui non l’aveva neanche sentita.
 
«Terra chiama Sergej. Mi senti?» 
 
Appunto.
 
« Che?»
 
Sua sorella inarcò le sopracciglia con aria scettica. «Niente, lasciamo perdere. Ti lascio alle tue ‘crisi mistiche pre partita’.»
 
Sergej restò a fissarla un po’ dispiaciuto, mentre si dirigeva la sua stanza con l’asciugamano sistemato sulla testa a mo’ di turbante. Poi il suo sguardo cadde per caso su dei dépliant abbandonati sul tavolino davanti al divano.
 
«Ehi, Ira. Non mi hai ancora detto che intendi fare con quelli
 
Lei si bloccò sulla soglia e si voltò con aria confusa. Quando Sergej indicò l’oggetto della sua frase con un cenno, parve comprendere che “quelli” non erano altro che le miriadi di brochure che si era procurata in quei giorni sulle varie università di Montréal, accennandogli appena la sua idea di proseguire gli studi.
Era di quello che parlava in quel suo messaggio inviatogli settimane prima, ma, tra un impegno e l’altro, Sergej non aveva mai avuto il tempo di ascoltarla davvero e consigliarla come lei avrebbe voluto. Per quanto lui non capisse assolutamente un bel niente dei meccanismi universitari e, a differenza della sua gemella, fosse stato sempre piuttosto allergico ai libri e alla scuola, Irina pareva comunque tenere al ricevere il suo parere più di ogni altro.
Perfino più di quello del suo insopportabile e saccente fidanzato che, per quanto gli venisse da vomitare al solo pensiero di ammetterlo, ne sapeva molto più di lui e sarebbe stato sicuramente una fonte molto più attendibile.
 
«Non so. Ne riparleremo» mormorò lei, evidentemente infastidita.
 
«Ira» la richiamò lui, sospirando e facendole intendere che non aveva affatto voglia di combattere in quel momento con le sue paturnie. «Vuoi parlarmene o no?»
Lei parve pensarci un po’, poi, dopo un’occhiata veloce all’orologio, rispose: «Tra poco devi andare al Bell Centre. Non c’è tempo.»
 
«Esatto, tra poco, non ora» rettificò, avvicinandosi ai dépliant e prendendone uno a caso per squadrarlo. «E comunque il tempo scarseggia sempre e non credo che queste siano decisioni che possono aspettare in eterno.»
 
«Lo fai solo per farti perdonare e deviare l’attenzione dalle mie domande.»
 
«Forse, ma tic tac. I secondi scorrono.»
 
Irina si riavvicinò, per poi strappargli l’opuscolo dalle mani con poca gentilezza. «Te l’ho già detto. Pensavo di proseguire con gli studi. Lo sai, matematica.»
 
«E allora? Dove sta il problema? Fallo e basta, se è quello che vuoi.»
 
«Non so. Significherebbe restare qua per un bel po’.»
 
«Quindi?»
 
«E dovrei parlarne con Gérard.»
 
Nel sentir nominare quel fidanzato che avrebbe decisamente voluto utilizzare come bersaglio umano nei suoi allenamenti, Sergej non riuscì a celare una smorfia di disgusto. «Quello può anche andare a farsi fottere.»
 
«‘Quello’ ha un nome ed è inutile che tu finga di scordartelo ogni volta.»
 
«D’accordo. Allora, ‘Quello che ha un nome’ può andare comunque a farsi fottere.»
 
Irina scosse la testa esasperata, ma non riuscì a trattenere un sorriso. Gli si fece più vicina e gli diede un leggero bacio sulla guancia. «Va’ a preparare il borsone. Ne parliamo un altro giorno.»
 
Sergej mugugnò appena, non propriamente deciso se farsi addolcire o meno dal suo gesto. Una parte di sé sapeva che, per il bene di Irina e per il suo amore, avrebbe dovuto farsi andare a genio chiunque avesse deciso di avere al suo fianco, almeno finché questo l’avesse resa felice. Ma per quanto questa idea fosse ben chiara nella sua testa, non riusciva proprio a farsi andare giù quel francese e, molto probabilmente, non ci sarebbe mai riuscito.
Con uno sbuffo srotolò l’asciugamano che Irina teneva ancora sulla testa e le scompigliò i capelli umidi, per poi borbottare: «Dovresti prepararti.»
 
«Prepararmi per cosa?» lo fissò nuovamente corrucciata. «So che hai un’enorme stima di tua sorella, ma ti ricordo che so a malapena reggermi in piedi sui pattini, quindi non credo che potrò giocare con te. Principalmente perché non hai mai voluto insegnarmi!»
 
«Quello perché sei totalmente, irreparabilmente impedita» le ricordò, per poi scansare al volo un suo pugno diretto alle costole. Dopo di che afferrò il suo portafoglio dal tavolino e ne estrasse un biglietto appena sgualcito. «Se non hai niente di meglio da fare per oggi, puoi venire alla partita. Come spettatrice» si sentì di specificare.
 
«Credi di essere divertente?» borbottò lei, assottigliando lo sguardo per sembrare minacciosa. Un obiettivo ovviamente mancato di anni luce; sua sorella aveva un viso troppo dolce – bello come quello delle fate che popolavano le fiabe che sua nonna gli raccontava quando erano bambini – per avvicinarsi anche solo all’apparire vagamente pericolosa.
 
Sergej le riservò un leggero buffetto sul naso, prima di porgerle il biglietto. «Se vuoi venire, datti una mossa. Altrimenti ti lascio a piedi.»
 
Fece per avviarsi verso la propria stanza per sistemare le ultime cose nel borsone, ma riuscì a compiere giusto un paio di passi, che si sentì circondare dalle braccia di sua sorella.
Le era sempre piaciuto abbracciarlo così in fondo: incrociare gli avambracci sul suo petto e posargli un bacio al centro esatto della schiena, lungo la spina dorsale, prima di abbandonarsi e appoggiare la fronte contro di lui.
A volte gli dava la sensazione che volesse ascoltare ogni suo respiro, il battito del suo cuore, o semplicemente essergli di nuovo abbastanza vicina, così com’erano stati prima di venire al mondo. Altre invece, pareva che lo stesse semplicemente pregando di non lasciarla indietro; che cercasse di aggrapparsi a lui nel tentativo di raggiungerlo in qualche modo, senza rendersi conto che, quello rimasto fermo, immobile, impantanato tra la realtà e il suo passato, era solo e soltanto lui.
 
«Grazie» le sentì sussurrare, e gli venne spontaneo di voltarsi e cingerle le spalle con un braccio per avvicinarla a sé e ricambiare quella stretta, per quanto facesse male e bruciasse la consapevolezza di non poterle dare quel che silenziosamente gli chiedeva da anni: tornare a essere i due ragazzini di un tempo; tornare a essere il fratello che era stato, l’altra parte di quella stessa persona che avevano creduto di essere, e che aveva quasi dimenticato.
Sospirò appena sui suoi capelli nel posarle un veloce bacio sulla testa, quasi se ne vergognasse, poi la lasciò andare e proseguì verso la sua stanza senza aggiungere altro. Nonostante tutto però, quella fastidiosa angoscia in vista della partita si era attenuata.
 
******
 
 
Quando Wayne fece la sua entrata nello spogliatoio, i giocatori erano già tutti presenti e vestiti di tutto punto. La stanza era pervasa solo da un leggero brusio, quasi che nessuno sentisse di poter parlare liberamente, ad alta voce, immersi in un momento solenne.
La quiete prima della tempesta. Così sembrava giusto definirla.
Posò un’occhiata distratta alla sua personale cartelletta abbandonata su uno dei tavolini, contenente i vari schemi che avevano provato durante gli allenamenti e i suoi appunti, ma presto decise che non era il momento per i tecnicismi. Era più che certo che ognuno di loro avesse bene a mente il proprio compito.
Si appoggiò, rilassato, al bordo di quello stesso tavolo; le braccia incrociate al petto a osservare per un attimo le foto commemorative dei più importanti ex giocatori dei Montréal Canadiens, appese a decorare lo spogliatoio e a far comprendere ai giocatori il peso del nome della loro maglia, poi, con un sospiro calmo, prese la parola.
 
«Allora? Li sentite?» domandò, riferendosi al brusio sommesso dei fan, che dagli spalti si facevano udire fin lì. «Sono più di ventunomila persone. Ventunomila persone che sono qui presenti, stasera, per vedervi giocare e vincere. E altrettante, innumerevoli, stanno aspettando la vostra entrata in campo davanti al televisore.»
 
Si fermò per un attimo, a osservarli ad uno ad uno, aspettando perché potessero godere per qualche secondo ancora di quel brusio; affinché gli rimanesse bene impresso nella mente.
 
«Se stasera siete qui, se siete quello che siete oggi, lo dovete anche a loro. Lo dovete anche a ognuno di quei fan che vi supportano, vi criticano a volte, ma che vi permettono anche di vivere il vostro sogno. Non è solo al vostro talento che dovete essere grati. Non è solo per la gloria personale che dovete giocare e vincere, ma per la squadra in primis, e per tutte quelle persone là fuori» un’altra pausa ancora e il suo sguardo corse a Sergej, che lo stava fissando con quei suoi occhi inespressivi e freddi, perché recepisse chiaro e forte il messaggio. «Dovete giocare per guadagnarvi la loro stima, il loro rispetto. Dovete dare il massimo per ottenere il vostro posto nella squadra. Nessuna di queste cose vi spetta di diritto. Né la stima, né il rispetto, e tanto meno i minuti di gioco sul campo. Se avete la possibilità e l’onore di indossare questa maglia e giocare su quel campo, dipende solo e soltanto da voi, dal vostro comportamento e dai vostri risultati. Nessun privilegio è concesso. Nessuna scusa
 
Riuscì a malapena a trattenere un sorriso, quando gli occhi di Sergej si fecero più affilati, lo sguardo più pungente in quella sua espressione rabbiosa, per aver compreso che quelle parole erano esplicitamente riferite a lui e alla loro breve discussione. Sapeva che non avrebbe dovuto tormentarlo per molto con quella storia. Lui per primo avrebbe dovuto lasciar cadere quel loro piccolo screzio e andare avanti, ma voleva anche essere completamente certo che avesse recepito il messaggio, e per quanto talentuoso e necessario fosse per quella squadra, nessuno dei suoi comportamenti viziati ed egoisti sarebbe stato accettato. Il suo talento non sarebbe mai venuto prima della squadra.
 
«Non voglio tediarvi a lungo con le parole. Sapete tutti quanti quello che dovete fare» riprese poi, concludendo quel suo breve discorso e avviandosi verso l’uscita dello spogliatoio. «Vincere non è un’opzione, ragazzi.»
 
 
******
 
 
Jan controllò per l’ennesima volta entrambi i pattini, che i lacci fossero ben stretti, che le protezioni fossero perfettamente al loro posto, in una meticolosa perizia che gli era utile a chiudere fuori il resto del mondo dalla sua mente, mentre tentava di trovare la propria concentrazione.
Ancora pochi minuti e la nuova stagione avrebbe avuto inizio. Solo una manciata di respiri e sarebbero stati di nuovo risucchiati in quel vortice di entusiasmi e mortificazioni, e lacrime di gioia o di rabbia e sudore.
In quei momenti, gli sembrava quasi ieri il giorno in cui aveva vestito per la prima volta quella maglia e in cui si era trovato davanti a quell’enorme scritta sopra lo stipite della porta.
“No Excuses”. Nessuna scusa. A caratteri bianchi e netti sullo sfondo blu. Il monito, il loro motto, a ricordargli sempre che le scuse, ridicole o fondate che fossero, dovevano essere lasciate fuori da quelle mura.
Quelle due semplici parole erano diventate il credo di una vita per Jan e lo erano anche per coloro con cui condivideva lo spogliatoio. Potevano passare ore a battibeccare sulle argomentazioni più idiote, ma se c’era una cosa sulla quale erano d’accordo, era quella: chiunque era chiamato a prendersi le proprie responsabilità, dal primo secondo di gioco della prima partita, fin dopo il fischio finale.
E quel primo attimo stava per arrivare. Nel silenzio che era sceso nello spogliatoio, poteva perfettamente udire il cori dei fan che scandivano il poco tempo d’attesa rimasto.
Aveva il cuore in gola Jan, nonostante tutti gli anni trascorsi, e a quel punto pensava che sarebbe stato sempre così; non si sarebbe mai abituato a quella botta di adrenalina, e sì, anche di paura, nemmeno il giorno della sua ultima partita.
 
«È solo la prima della stagione. Rilassati.»
 
Xavier gli si sedette accanto, dopo aver pronunciato quelle parole; una mano posata sulla sua spalla, come per ricordargli che, in ogni momento, sarebbe stato al suo fianco.
C’erano state occasioni in cui Jan si era chiesto perché non fosse proprio lui a vestire i panni del capitano: Xavier aveva dimostrato molto più sangue freddo di lui in certi momenti, ed era arrivato anche a chiederglielo. Peccato che non avesse mai ricevuto risposta.
In quelle rare volte in cui si azzardava a renderlo partecipe di quei suoi dubbi, Xavier lo guardava come se fosse completamente pazzo e scoppiava a ridere, prima di borbottare che il capitano era Jan, e che lui era solo lì per impedirgli di deragliare.
 
«Voglio vincere, Xav» confessò, consapevole di potersi lasciar sfuggire qualsiasi cosa in sua presenza pur sentendosi un po’ infantile.
 
«Lo so.»
 
«Può essere il nostro anno. Possiamo farcela questa volta.»
 
«Possiamo cavarcela sempre» rettificò Xavier con un sorriso, asserendo a tutte le volte in cui erano arrivati a un ridicolo soffio dal loro obiettivo. «È con la sorte che dobbiamo metterci d’accordo.»
 
«ʻFanculo alla sorte. Io non mi arrendo. Non abbiamo tutta la vita per vincere quella stramaledetta Stanley.»
 
Spostò poi lo sguardo alla porta che li separava dal lungo corridoio alla fine del quale migliaia di fan si stavano godendo la prima parte della cerimonia d’apertura, i bassi di “Seven nation army” che rimbombavano chiari ovunque, per poi tornare a scambiare uno sguardo con Xavier, poi con tutto il resto della squadra.
Sapeva che non c’era bisogno di aggiungere molto altro dopo il discorso di Wayne, che ci sarebbe stato tempo e altre occasioni per le sue paternali e le parole d’incoraggiamento, perciò si limitò ad alzarsi e a dire: «Ci siamo ragazzi. Si va.»
 
In fila e in ordine di numero, come da prassi, si avviarono tutti a percorrere il lungo e spoglio tunnel, ognuno solo dopo aver dato un ultimo sguardo a quel “No Excuses”, fino a fermarsi a qualche metro di distanza dal ghiaccio, dove la musica stava lentamente scemando assieme alle luci colorate, lasciando spazio solo al buio e al boato dei fan.
Lì, oltre la soglia che li separava dalla pista, dall’esatta parte opposta di quell’ovale, Jean Beliveau, pietra miliare dei Montreal Canadiens, li stava aspettando indossando la propria maglia: il numero quattro stampato sulla schiena portato ancora con orgoglio, nonostante i capelli ormai completante bianchi e gli anni a pesare sulle spalle.
Capitano di quella stessa squadra per ben dieci stagioni, era forse il giocatore - e l’uomo - che Jan stimava di più, anche più di Wayne stesso. La “C” che spettava a lui adesso indossare pesava e acquisiva un valore anche maggiore ogni qualvolta si trovava davanti alla persona che aveva guidato i Canadiens durante uno dei decenni più emblematici per la franchigia.
Quando osservava la sua immagine con indosso la propria maglia, non poteva fare a meno di provare a paragonarsi a quello che era considerato un vero eroe in tutta Montréal, e a sperare di valere abbastanza da meritare di ricoprire il suo stesso ruolo.
Non c’era sogno più grande in fondo per Jan, di quello di poter concludere in quella stessa squadra la propria carriera, esattamente dov’era iniziata, e restare poi a godersi ogni partita sugli spalti, da semplice e orgoglioso spettatore, e avere ancora l’onore di stringere quella torcia tra le proprie mani e consegnarla ai futuri giocatori, esattamente come Jean Beliveau stava per fare.
Già, la torcia, un altro dei simboli della squadra. Accesa a ogni cerimonia d’apertura, passava ogni anno dai vecchi leader che avevano fatto la storia di quella squadra, attraverso tutte le mani di coloro che la rappresentavano al momento.
Jan era emozionato esattamente come lo era stato la prima volta in cui aveva avuto l’onore d’impugnarla, e fissava quella fiamma ondeggiante quasi sentisse anche dentro di sé quello stesso calore; come se avesse acceso qualcosa in lui, tanti anni prima, e adesso provasse l’inconfondibile sensazione di appartenerle.
Respirò a fondo, mentre dagli altoparlanti la voce del solito commentatore si faceva sentire chiara nell’iniziare la presentazione.  Ammiccò poi in direzione di Kyle e alla sua espressione terrorizzata ma anche emozionata, e a Sergej, che sembrava completamente assorto nell’ammirare il gioco di luci che lo attendeva sul ghiaccio.
Era la prima volta per entrambi, e Jan sapeva che sarebbe stata memorabile. Potevi amare od odiare i Montréal Canadiens e i suoi fan, ma c’era sempre stato una sorta di timore reverenziale per quel nome o per il Bell Center, loro tempio. Per questo era certo che, comunque sarebbe proseguita la loro carriera, ovunque li avrebbe portati, non avrebbero mai dimenticato la sensazione di stagliarsi al centro di quello stadio.
Nessuno di loro avrebbe mai potuto farlo.
Respirò a fondo una seconda volta e, in quello stesso momento, sulle note di “Fix you”, il tradizionale “Mesdames et messieurs, ladies and gentlemen, accueillons nos Canadiens!”[1] mandò definitivamente lo stadio in visibilio.
 
“Numero tredici” si udì poi, e la folla si levò in un boato tanto fragoroso da far tremare le pareti. “Cole Dryden”.
Senza un attimo di esitazione, Cole sorrise ai compagni e varcò la soglia. Testa alta e gonfio d’orgoglio, pattinò oziosamente verso Jean Beliveau per appropriarsi della torcia, e poi dirigersi verso il centro della pista e sollevarla in alto.
Numero ventisette” fu il secondo nome e la folla si riaccese di rinnovato entusiasmo. “Sean Weiss”.
Con passo sicuro anche Sean varcò quella linea, beandosi delle ovazioni e osservando gli spalti che lo circondavano, gremiti di persone che indossavano la sua stessa maglia. Anche dal buio di quel corridoio, Jan poteva chiaramente percepire l’emozione che lo stava travolgendo; lo sconfinato amore che, fin da bambino, aveva avuto per quella squadra e che gli accendeva gli occhi d’orgoglio, mentre con un sorriso enorme afferrava la torcia dalle mani di Cole e la innalzava a sua volta.
Altri nomi vennero chiamati, altri numeri si susseguirono, uno dopo l’altro, accompagnati da innumerevoli boati e brividi.
Il loro secondo portiere fece la sua entrata e Jayden approfittò di quel momento, prima del suo imminente turno, per voltarsi verso Sergej, rimasto in silenzio fino ad allora, completamente rapito da quella cerimonia, per sorridergli sicuro.
 
«Pronto per lo spettacolo?» si azzardò a dirgli, mentre gli altoparlanti chiamavano quel “numero trentuno” che, per quanto controverso fosse il suo rapporto con stampa e alcuni fan, ricevette una delle ovazioni più sentite da parte del pubblico.
 
Jayden Price aveva tutte le carte in regola per diventare una vera e propria leggenda, in una squadra che, per altro, ne aveva avuti di portieri in passato da rimpiangere e osannare. I paragoni ai quali era sottoposto non erano facili da affrontare, ma lui, nonostante gli scatti d’ira da cui di tanto in tanto si lasciava cogliere e il suo essere esplicitamente restio alle telecamere, sembrava pronto a incassare e parare ogni colpo, esattamente come lo era con i tiri avversari.
Jan capì poi che la domanda di Jayden non cercava risposta, ma solo una minima connessione prima di presenziare su quella lastra di ghiaccio per la prima volta insieme, dalla stessa parte.
Altri nomi e numeri ancora, e fu il turno del piccolo della squadra.
“Numero sessantanove” chiamò il commentatore. “Kyle Delon”
Un secondo d’incertezza, rigido con lo sguardo fisso sulla linea che separava il cemento dal ghiaccio. Un respiro profondo e si lanciò letteralmente per raggiungere la torcia. Non stava nella pelle dall’emozione e si vedeva lontano un miglio.
Qualche secondo di gloria, con gli occhi che brillavano d’emozione e un sorriso enorme, prima che la voce dagli altoparlanti si facesse udire di nuovo con le parole più attese per quella sera tra i fan: “Numero settantasette” e il brusio della folla parve sopirsi per un attimo, prima di esplodere in un’ondata travolgente. “Sergej Nevskij”
Sergej sollevò la testa di scatto. Lo vide prendere un lungo e profondo respiro, prima di solcare il ghiaccio e sollevare la torcia più in alto che poteva, forse in segno di completo rispetto. C’erano cose alle quali neanche lui poteva essere indifferente, e la solenne adorazione che stava attorno a quella maglia e a quella cerimonia era una fra queste.
 
La lunga lista di giocatori era ormai giunta al termine. Solo lui e i suoi vice, Xavier e Boris, erano rimasti ancora celati nel buio di quel corridoio.
Si scambiarono un’occhiata d’intesa, così come succedeva fin dalla prima volta in cui si erano trovati assieme e avevano iniziato a cementare il loro rapporto; con quella grossa responsabilità sulle spalle e quelle lettere così importanti da sfoggiare[2], cucite sulla maglia.
“Numero otto” Boris sorrise loro e, come da tradizione, sollevò il pugno per batterlo con entrambi contemporaneamente, prima di avviarsi a ricevere le acclamazioni del pubblico. “Boris Volkov”
 
«Pronto a vincere?» gli si rivolse poi Xavier con un sorriso, una volta rimasti soli, prima di fare la sua entrata.
«Sempre» mormorò Jan.
 
“Numero diciassette”
 Gli occhi fissi sulla schiena di quello che da anni vestiva i panni del suo secondo e del suo migliori amico; quel diciassette bianco e quel “Weber” che gli davano sempre la sicurezza di cui aveva bisogno per svolgere il suo compito.
 
“Numero sei. Il capitano. Ørjan Bäckström.”
Jan chiuse gli occhi per un attimo, respirò a fondo e godé appieno delle urla della gente. Pattinò sicuro verso Xavier e prese la torcia al suo posto, per poi sollevarla in alto e fissare lo sguardo sugli stendardi appesi in alto, sopra la sua testa, e illuminati dai faretti. I nomi e i numeri stampati raccontavano di una gloriosa storia centenaria, ritirati per sempre perché nessuno potesse più indossarli.
Un giorno, si augurò, anche il suo sarebbe stato lassù.
Immortale.
 
******
 
 
Il fischio dell’arbitro arrivò come una manna dal cielo, dopo che erano rimasti incastrati nella loro zona difensiva per quella che a Cole era sembrata un’eternità. Saltò oltre la balaustra e si accasciò sulla panca, cercando di riprendere fiato, mentre allo stesso tempo osservava i suoi compagni far riprendere il gioco al centro del campo. Il puck, colpito dal bastone di uno degli attaccanti, schizzò verso destra, subito seguito dallo sguardo del numero tredici.
Il gioco si stava velocemente dirigendo verso la porta avversaria, ma l’attenzione di Cole era stata altrettanto rapidamente catturata da qualcos’altro: il suo vicino di panca, anziché freddo e impassibile come al solito, aveva il volto disteso, solcato da un sorriso che faceva trapelare una risata interna sommessa.
Cole restò sorpreso, perplesso non solo per il semplice fatto che Sergej stesse mostrando apertamente emozioni positive, quanto per la situazione in sé, che decisamente non appariva ilare come sembrava invece trovarla il nuovo compagno di squadra. Erano ormai al secondo tempo, e nonostante i ripetuti attacchi, la fortuna sembrava non solo averli abbandonati, ma addirittura remargli contro, impedendo loro di sbloccare il risultato.
Sin dal debutto di Sergej con gli Habs e le sue prime alzate di testa, Dryden aveva deciso di ignorarlo, poco interessato a quegli atteggiamenti che lui considerava da primadonna insicura. Se proprio doveva definire l’effetto che il russo aveva su di lui, l’avrebbe descritto come mero opportunismo: sapeva che i Canadiens ne avevano bisogno per rafforzare la squadra, e finché avesse adempiuto al suo ruolo senza minare gli equilibri interni, poteva tenere il broncio quanto voleva. A differenza di altri suoi compagni, lui non sentiva quell’attrazione quasi magnetica nei confronti del russo.
Eppure, quel sorriso a mezza bocca lo aveva incuriosito più di quanto lui stesso fosse pronto ad ammettere.
Osservò Sergej girarsi per afferrare una delle borracce allineate dietro la panca e come, nel farlo, voltò il busto verso gli spettatori al di là della barriera di plexiglass. Era durato la frazione di un secondo, ma Cole era assolutamente certo di averlo visto fare l’occhiolino a una ragazza seduta a pochi centimetri da loro.
Non poteva certo dire che il russo non avesse buon gusto: i lunghi capelli castani incorniciavano un viso dalla bellezza quasi eterea, e gli occhi allungati, fissi su Sergej, mostravano un’infinita ammirazione. Di certo non biasimava il suo compagno di squadra per il suo assecondare una ragazza del genere: sarebbe stato davvero ipocrita dal canto suo, visto che più di una volta si era ritrovato ad apprezzare le attenzioni donategli dalla tifoseria femminile.
Tuttavia c’era una nota decisamente stonata in quella circostanza.
Innanzitutto si ricordava bene le varie foto che giravano su Nevskij ai primi tempi ai Capitals, quando, insieme ad Aleksej Ivchenko, si dilettava nel trascorrere l’intera estate su varie barche, circondati da compagnie femminili che sembravano uscite dalle pagine di playboy. Boccoli biondi e push-up non erano esattamente le prime caratteristiche che Cole andava cercando in una ragazza, ma poteva capirne l’attrazione. Tuttavia, dalla breve impressione che si era fatto della spettatrice dietro di loro, non avrebbe potuto immaginare niente di più lontano da quelle ragazze da copertina con cui Sergej sembrava solito trastullarsi.
A rendere la cosa più ancora più curiosa, stava il fatto che i posti immediatamente dietro la panchina erano generalmente occupati solo da fan sfegatati, quelli che sanguinavano bleu, blanc, rouge[3]. E mentre la gente intorno non smetteva nemmeno per un attimo di seguire il gioco, alzandosi in piedi quando il puck si avvicinava alla porta avversaria, e urlando di disappunto quando l’azione si spostava pericolosamente vicino a Jay, lei sembrava comunque restarne praticamente imperturbata, distaccata, quasi.
Il suo punto fisso rimaneva Sergej. Sembrava incantata dalla sua presenza, troppo incredula dall’essere lì, a pochi centimetri da lui, per accorgersi dello scorrere del mondo attorno. I suoi occhi erano rimasti fermi su di lui anche dopo che le attenzioni del suo compagno di squadra si erano dirette nuovamente alle azioni di gioco.
Devozione, ecco la parola che descriveva quello sguardo, quel rapimento totale a cui stava assistendo e che lo stava facendo sentire un estraneo. Gli sembrava di star interrompendo un momento privato, per quanto assurdo fosse, se si considerava il fatto che erano circondati da altre ventimila persone. Quella pungente sensazione si era fatta talmente forte che si ritrovò a distogliere lo sguardo, tornando a fissarlo sul ghiaccio, senza riuscir pienamente a focalizzarlo sull’azione.
Il tocco di Wayne sulla spalla per segnalare la sua prossima entrata in campo arrivò inaspettato, facendolo sobbalzare e impedendogli di terminare il pensiero che lentamente si stava delineando nella sua testa: per quanto detestasse ammetterlo, sperava che prima o poi qualcuno avrebbe guardato anche lui, in quel modo.
Le lanciò un ultimo sguardo e si obbligò a concentrarsi sul gioco, tentando di mettere a tacere verità scomode che non poteva permettersi.
 
 
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Wayne diede una veloce occhiata allo schermo sospeso al centro del campo: il timer avanzava inesorabilmente, senza che fossero ancora riusciti a smuoversi da quel maledetto zero a zero. Il fischio acuto dell’arbitro riportò la sua attenzione alla pista e a quel fallo fischiatogli a favore, che gli avrebbe permesso di giocare per due minuti in vantaggio numerico. Quattro contro cinque, e le probabilità di segnare si facevano un po’ più consistenti.
 
«Cambio di linea» sentenziò con sicurezza, e Sergej, Cole e Sean si voltarono a fissarlo straniti. Le sue decisioni e le strategie spesso potevano sembrare poco vantaggiose o non studiate, ma se c’era una cosa che Wayne aveva imparato in tutti gli anni trascorsi su quelle arene di ghiaccio, quella era certamente osservare e poi reagire in relazione a ciò che silenziosamente i suoi avversari gli suggerivano. «Riprendete fiato per trenta secondi e poi rientrate.»
 
Senza commentare la sua scelta, i tre ragazzi pattinarono velocemente verso la barriera per lasciare il posto a Kyle e altri compagni sul campo, poi si lasciarono ricadere sulla panca, il respiro spezzato dalla fatica, il viso paonazzo e umido di sudore.
Wayne li squadrò con attenzione uno a uno, dopo di che, mentre sulla lastra di ghiaccio si preparavano a riprendere l’azione, chiarificò le sue intenzioni: «Cole, Sean. Voi due rientrate al prossimo fischio. Quando il gioco si fermerà di nuovo, vi scambierete con Jared e Michael per andare a sostenere Kyle» attese che i due recepissero i suoi ordini, poi si rivolse all’altro suo attaccante: «Sergej, tieni ben presente il timer. Allo scattare del primo minuto voglio che tu ti scambi al volo con Jan e vada a rafforzare l’attacco. Ti darò comunque io il segnale preciso. Da quel momento in poi, Cole, dovrai anche prestare attenzione alla difesa con Boris. Ci siamo intesi?»
 
«Intesi» si limitarono a rispondere suo fratello e Sean, mentre il taciturno russo gli rivolse un cenno affermativo con la testa, per poi inchiodare gli occhi sul campo e sul gioco appena riavviato.
 
Il tempo sul display riprese a scorrere e più di cinquanta secondi di quei preziosi minuti volarono via, prima che il fischio dell’arbitro tornasse a echeggiare nell’aria a segnalare un fuorigioco. Le sue direttive vennero eseguite immediatamente, e i numeri tredici ventisette dei Montréal Canadiens ripresero il loro posto, andando a sistemarsi attorno al cerchio d’ingaggio per far ripartire il gioco. Il puck venne rilasciato dal giudice di gara e, nell’esatto momento in cui toccò il ghiaccio, i bastoni guizzarono in quella direzione per conquistarne il possesso.
 
«Jan» chiamò Wayne e, senza che dovesse aggiungere altro, il capitano si avviò verso la panchina, pur mantenendo lo sguardo sempre fisso e attento sul gioco. Sergej, per contro, si alzò come un automa dalla panca – gli occhi che quasi fiammeggiavano dalla smania di tornare a scalfire il ghiaccio – e si preparò a rientrare a far parte dell’azione.
Nel momento stesso in cui Jan oltrepassò la porticina d’uscita dal campo, Sergej scavalcò la balaustra e si lanciò con tutta la forza che aveva nelle gambe verso la metà avversaria dell’arena. Si muoveva con decisione, con una furia talmente impressionante che i suoi pattini sembravano a malapena toccare terra; come se in quei secondi trascorsi a riprendere fiato avesse studiato qualcosa d’incomprensibile per chiunque, e pattinasse con un obiettivo preciso in testa.
Quando Wayne poi, riuscì a scorgere la direzione del puck, capì.
La sua mente fece appena in tempo a realizzare la presenza di quel dischetto che schizzava verso sinistra, che Sergej era già lì, l’estremità del bastone pronta a riceverlo e conquistarlo, e l’espressione decisa di chi ha tutta l’intenzione di travolgere chiunque si fosse azzardato a mettersi tra lui e la porta.
Istintivamente trattenne il fiato, mentre lo osservava avanzare rabbioso e superare l’ultimo difensore come se non fosse stato altro che un innocuo birillo. Spalancò gli occhi, nel momento in cui Sergej ruotò il busto di lato, e si sforzò di non richiuderli e pregare per il meglio, quando lo vide far partire un tiro travolgente verso la porta. Una bomba fulminea, la sua, che andò dritta a insaccarsi nell’angolo in alto a sinistra, lasciando il portiere avversario immobile e incapace di comprendere da dove fosse arrivato quello stramaledetto lancio.
La sirena posta sulla porta prese a illuminarsi, decretando ufficialmente il goal per i Montréal Canadiens, mentre le casse dello stadio facevano rimbombare nell’aria la voce di Bono Vox sulle note di “Vertigo”, affiancate dall’altrettanto frastornante boato del pubblico, che parve risvegliarsi come un’onda di pura adrenalina. Una botta di energia, un’esplosione che si scagliava su di loro attraverso le pareti di plexiglas e li investiva, mentre la Supernova sollevava la testa e innalzava il pugno verso i fan, per bearsi di quelle urla concitate che scandivano il suo nome[4].
 
«Quello sarà su tutti i giornali sportivi domani » ridacchiò Xavier, scuotendo la testa quasi non riuscisse a capacitarsi di ciò a cui aveva appena assistito, e Wayne non poteva certo dargli torto.
 
«Cristo» sentì mormorare in risposta Jan, mentre si asciugava la faccia. «Mi sono a malapena accorto di quando è entrato in campo. Non ho fatto in tempo a sedermi che... ma è umano?»
 
Una parte di lui avrebbe voluto esaltarsi e stupirsi come i suoi due giocatori. Wayne avrebbe preferito di gran lunga notare solo la perfetta esecuzione di quel tiro e godersi la particolare visione di gioco e la scaltrezza che parevano appartenere esclusivamente a Sergej. Il giocatore rodato e osservatore che gli albergava ancora dentro però, aveva notato anche ben altro in quel suo gioco. Ai suoi occhi non era passata inosservata né la rabbia egoistica che l’aveva spinto ad agire né tanto meno il fatto che non si fosse neanche voltato a controllare la posizione dei propri compagni, in modo da poter optare per un passaggio in extremis se si fosse reso conto di non poter concludere la sua azione.
Nella testa di Sergej, nel suo modo egocentrico e individualista di giocare, non era balenata neanche per un singolo istante la possibilità di lasciarsi aiutare dagli altri attaccanti. La sua avara sete di goal l’aveva letteralmente sopraffatto e, ancora una volta, aveva dimostrato di volersi muovere da solo, senza la benché minima fiducia nel resto della squadra.
Wayne continuò a mantenere lo sguardo fisso su di lui e lo seguì attentamente in tutto il suo tragitto fino alla panchina dove, senza troppo entusiasmo, rispettò il rito di battere il pugno con ognuno dei suoi compagni per festeggiare. Attese poi la sua uscita dalla pista, e che si sistemasse seduto di fianco a Jan, prima di commentare atono: «Cerca di ricordarti che non sei da solo in campo.»
 
Sergej si prese qualche secondo per bere e riprendere fiato, poi mormorò, quasi con fastidio: «Ho solo colto un’occasione.»
 
«Ah, lo so. Ma cerca di ricordartelo comunque.»
 
Gli occhi del novello componente dei Canadiens andarono a guizzare verso di lui e, per un momento, Wayne pensò che si sarebbe lasciato andare ancora una volta all’ira e gli avrebbe comunicato anche con le parole quella stessa frustrazione che si poteva leggere chiaramente nella sua espressione, e la rabbia del sentirsi criticato anche quando adempiva perfettamente al suo compito e faceva esattamente ciò che gli avevano sempre chiesto.
Povero, piccolo ragazzino. Doveva essere così difficile per lui sentirsi inadatto, non abbastanza, perfino nell’attimo in cui eseguiva tutto quello che gli era stato insegnato: una tecnica perfetta, un’abilità da manuale senza la benché minima sbavatura, e neanche un pizzico di anima e spirito di squadra.
Avrebbe avuto parecchio da lavorare, per scalfire quella corazza dura e rimodellarla dalle basi. Avrebbe dovuto picchiare fino a far crollare quell’ammasso di stupide convinzioni con cui gli avevano e si era riempito la testa e, probabilmente, nella maggior parte delle occasioni, non sarebbe stato affatto piacevole.
Quella che lo aspettava con Sergej, era di sicuro una delle sfide più dure a cui si fosse mai sottoposto, eppure Wayne sentiva di potercela fare, di avere una qualche possibilità per grattare via l’egoismo che fino ad allora aveva guidato il suo modo di giocare.
A dispetto delle poco lusinghiere previsioni dei giornalisti sul probabile e prossimo declino della sua carriera, lui era assolutamente convinto che potesse esserci ancora molto da fare per salvarlo da quella stessa ingrata fine toccata ad altri in passato. Era pronto a puntare tutto su di lui, a giocarsi quella scommessa fino alla fine, proprio perché Sergej rischiava sì, di essere davvero solo un’altra meteora, ma aveva anche qualcosa di diverso: la Supernova, a differenza dei suoi predecessori, poteva lasciar nascere altro dalla sua esplosione, poteva lasciar generare la stella più luminosa che avessero mai visto in tutto quel firmamento.
Era un gioco che valeva la pena di giocare, fino in fondo. E lui era pronto a farlo.
Dedicò un’ultima veloce occhiata alla sua preziosa “sfida”, quando gli riordinò di rientrare in campo assieme agli altri due componenti di quella triade, e tornò a concentrare la propria attenzione sul campo, a tutti i tasselli di quella squadra che era fiero di poter allenare ogni giorno.
Gli venne quasi da sorridere nel seguire con lo sguardo la traiettoria che stava per intraprendere un’ignara matricola avversaria nell’avanzare verso la porta. La perfetta dimostrazione che spesso, per quanto talentuosi, i nuovi arrivati nella NHL erano spediti in campo e beffati dalla loro stessa inesperienza. La momentanea illusione di poter fare un esordio coi fiocchi veniva difatti spazzata via in un attimo quando, sulla loro strada verso l’agognato momento di gloria, si intromettevano difensori del calibro di Boris che, con una facilità quasi umiliante, stroncavano sul nascere i loro tentativi e servivano su un piatto d’argento un passaggio e un’occasione d’oro per gli attaccanti.
Si sentì poi riempire d’orgoglio quando, quello stesso dischetto, venne perfettamente intercettato da Cole, che lo portò via con sé, in avanti, deciso, potente e veloce come un treno, immediatamente affiancato da Sean in un allineamento esemplare.
Si spinsero sempre più verso la porta, uno scambio veloce di passaggi di una precisione millimetrica e, una volta giunti dinnanzi al portiere, il loro Revolver si dimostrò nuovamente meritevole di quel soprannome e colpì al volo il puck, mandandolo a infilarsi sotto le gambe del portiere a decretare il secondo, prezioso goal dei Canadiens.
Dall’altro lato del campo anche Jayden prese parte ai festeggiamenti, esibendosi in un balletto di dubbio gusto che andò a contagiare anche gran parte delle persone sugli spalti e che, al contempo, fece sospirare Wayne di esasperazione, nel tentativo di nascondere la risata liberatoria a cui avrebbe voluto tanto lasciarsi andare.
Quell’attimo spensierato ebbe però vita breve. La tensione momentaneamente allentata dai due goal realizzati venne rialimentata, quando il dischetto tornò in possesso dei Leafs e portato a superare la metà campo, avvicinandosi progressivamente alla loro porta.
Fu questione di un battito di ciglia, poi il centrale avversario tentò un improvviso tiro dritto verso la rete. Lontano sì, ma abbastanza insidioso e potente da potersi dimostrare un vero problema, se solo davanti a quella linea rossa non fosse stato presente un portiere del calibro di quel loro dinamico trentuno.
Jayden, senza alcuna esitazione, sollevò il braccio e riuscì a bloccare il dischetto con una facilità impressionante. Con lui a proteggere la porta, tutto sembrava possibile.
C’era un motivo preciso per cui lo avevano soprannominato The Wall, e non era solo per i suoi pittoreschi caschi serigrafati come l’omonimo famoso disco che di tanto in tanto amava indossare. Al massimo della sua forma, Jayden Price poteva considerarsi davvero un muro, una barriera pressoché invalicabile, se non per un caso fortuito o un’abilità altrettanto fuori dal comune per il giocatore che gli si parava davanti.
Wayne gli rivolse un cenno con la testa quando incrociò i suoi occhi. Un gesto affermativo per comunicargli un silenzioso elogio, un invito a continuare su quella linea, a giocare come sapeva ed essere una delle colonne portanti di quella squadra su cui tutti facevano affidamento per l’intera durata della partita.
Se solo fosse stato sempre presente in campo come lo era stato in quei minuti trascorsi, se solo Jayden avesse imparato a essere meno incostante, a non lasciarsi influenzare dagli eventi esterni e distaccarsi da ogni cosa al di fuori del campo non appena indossava il casco e poggiava il piede sul ghiaccio; se Sean avesse insegnato a sé stesso a fare lo stesso; se Cole avesse imparato a non scollegare il cervello e a lasciarsi sopraffare dalla rabbia durante le partite e Jan, Boris e Xavier avessero continuato a vestire i panni pilastri su cui tutta la difesa dei Canadiens si poggiava. Se anche Kyle fosse sbocciato come l’attaccante veloce, scattante e imprendibile che Wayne aveva sempre desiderato, e se Sergej, il suo cruccio più grande, si fosse lasciato plasmare da lui per diventare il miglior playmaker del campionato e avesse trascinato con sé l’intera squadra, allora – solo allora – sarebbero stati davvero imbattibili, e quell’agognata Stanley Cup, che mancava da troppi anni a Montréal, sarebbe stata finalmente a portata di mano.
 
******
 
Prima di lasciare il Bell Centre, Wayne si prese ancora un momento per se stesso, per osservare gli spalti completamente vuoti e la pista sfregiata dalle lame dei pattini. Si beò di quel silenzio quasi solenne e posò lo sguardo per l’ennesima volta sullo schermo sospeso, per sorridere di quel “tre a uno” che aveva decretato la vittoria dei Montréal Canadiens sui datati rivali di Toronto, allo scadere dell’ultimo periodo.
La partita era terminata da quasi un’ora, i ragazzi avevano festeggiato per quel primo traguardo, ripreso il ritmo del dover sostenere alcune interviste nell’immediato post match, e assistito allo svuotarsi dello stadio da parte di fan letteralmente estasiati e soddisfatti della loro performance. Come risultato di quella prima giornata e prova generale, in definitiva, Wayne non aveva poi molto di cui lamentarsi nel trarne le somme, ma era ben consapevole che di lì in avanti avrebbe avuto parecchio da lavorare e modellare.
Deciso comunque a godersi quella prima giornata di gloria – se non altro perché i primi due punti del campionato erano stati conquistati contro i detestati Leafs – si lasciò andare a un altro sorrisetto soddisfatto e si addentrò tra i corridoi del Bell Centre, fino a raggiungere gli spogliatoi, da dove si potevano ancora udire gli schiamazzi dei soliti festaioli.
Una parte di sé avrebbe voluto vestire i panni dell’allenatore serioso e spalancare quella porta per intimare ai presenti di mantenere comportamenti almeno decenti, ma non era mai stato proprio quel tipo di persona e conosceva bene l’entusiasmo che travolgeva un giocatore dopo una vittoria. Come se non bastasse poi, a dissuaderlo completamente da quell’intento ci pensò Sergej che, con una faccia esasperata, oltrepassò la soglia evidentemente deciso ad allontanarsi il più in fretta possibile da quel frastornante caos.
Lo vide uscire così di fretta che quasi si scontrarono. Il russo sollevò gli occhi su di lui e lo fissò in uno strano modo: un misto tra fastidio e astio, e anche quello che sembrava essere un gigantesco punto interrogativo, come se percepisse il suo disappunto ma non riuscisse davvero a spiegarsi dove e cosa avesse sbagliato nel suo gioco.
Da perfetto sadico – come lo definiva suo fratello Cole – Wayne decise di far finta di niente e lasciarlo cuocere ancora un po’ nel suo brodo, limitandosi a rivolgergli un cenno di saluto. «Allora, ci vediamo domani pomeriggio. Puntuale.»
 
«A domani» fu la sterile risposta di Sergej, prima di sistemarsi il borsone sulla spalla e avviarsi verso il parcheggio.
 
Wayne scosse la testa per quei modi scostanti, poi prese coraggio e aprì la porta dello spogliatoio, pregando che al suo interno fosse ancora tutto intatto.
 
«Avete intenzione di restare qui a starnazzare ancora per molto?» esordì non appena varcata la soglia, rivolgendosi ai soliti sette che, come al solito, restavano indietro per godersi ogni minuto assieme. Dal capitano, Xavier, Boris e il suo piccolo coinquilino, Sean, Jayden e suo fratello non poteva aspettarsi altro: quei ragazzi erano legati da qualcosa di inspiegabilmente forte. Erano molto più una stramba e particolare famiglia, che semplici compagni di squadra. «Non ce l’avete una casa?»
 
«Commenti post partita, Wayne» spiegò Jan per tutti, mentre riponevano le ultime cose nei borsoni. «Anche se non propriamente tecnici.»
 
«Ah, su questo non avevo dubbi! Sia mai che le vostre discussioni siano su qualcosa di utile.»
 
«A proposito di commenti tecnici invece. Qualcuno qui è un po’ arrugginito, eh?» esclamò Cole, spintonando Jayden fuori dalla porta, per poi avviarsi in gruppo verso il parcheggio coperto. «Ti sei fatto fregare per ben due volte. Se non era per Jan, nella migliore delle ipotesi, sarebbe finita tre a due.»
 
«Provaci tu, a parare con cento chili di attaccante spalmati addosso. Era un goal disonesto!» ribatté l’altro, facendo valere le sue ragioni e rispondendo ai suoi attacchi con una ben assestata pacca sulla nuca. Per quei due, ogni occasione era buona per menare le mani.
 
«Ma pur sempre un goal!»
 
«Come quello che tu non sei riuscito a fare in ben tre tempi» lo derise in risposta Sean, intervenendo in quella piccola diatriba e sorprendendo tutti per quella sua insolita baldanza. Non era solito vantarsi, né tanto meno commentare o infierire sulle prestazioni altrui, ma l’esaltazione dell’essere finalmente tornato in partita dopo mesi di lontananza doveva averlo completamente inebriato.
 
«Ehi, principino. Da dove spunta tutta questa arroganza?» protestò difatti suo fratello, con una faccia stranita, prima di passargli un braccio attorno alle spalle e stringerlo a sé con fare fintamente minaccioso. «Ti ricordo che senza il mio assist, non avresti mai segnato.»
 
«Stronzate» affermò l’altro, prima di liberarsi e raggiungere la sua auto. «Comunque mi devo complimentare con te. Sei riuscito a non farti buttare fuori e non hai neanche picchiato nessuno. Ti stai decidendo ad abbandonare la boxe per darti finalmente all’hockey?»
 
«Lo sai che non ti ricordavo così antipatico?»
Sean non rispose a quell’accusa. Si limitò a sfoderare una smorfia infantile e a fare un veloce cenno di saluto, prima di sistemarsi alla guida. Come tutti sapevano, per lui era tempo di correre all’affollata casa Weiss e rispettare l’abituale rito di commentare con suo padre e il resto della famiglia la partita appena conclusasi.
 
«Lascialo stare, Cole. È solo esaltato per essere tornato in campo. E in grande stile, aggiungerei» commentò Jan, seguendo con lo sguardo la Volvo blu scuro che si allontanava verso l’uscita. «Prima partita e ha già collezionato due goal. Credo che abbia tutta l’intenzione di essere l’idolo dei fan anche quest’anno.»
 
«Ah be’, a questo giro dovrà impegnarsi parecchio» mormorò suo fratello in risposta, per poi andare a indicare con un cenno della testa un’altra auto che si apprestava ad abbandonare il parcheggio: una Maserati rosso fuoco. «Caratterialmente non ci siamo proprio, ma per i risultati... ho la netta sensazione che il caro Sean dovrà vedersela con qualcuno che non ci va poi tanto leggero.»
 
Wayne attardò per un attimo lo sguardo sulla spider fiammante, poi si voltò a salutare anche Boris e Kyle, e infine verso Cole per sorridergli sprezzante. «E tu invece? Che intenzioni hai?»
 
«Io?» replicò questo in risposta, ghignando a sua volta. «Ho tutta l’intenzione di godermi lo spettacolo.»
 
«Te lo do io, lo spettacolo» lo riprese, cercando di assumere un’aria minacciosa. «e cercate di mantenere una certa dignità, voi due» aggiunse dopo, squadrando sia Cole che Jayden mentre si apprestavano a salire in macchina. «Non voglio che domani i soliti e simpatici uccellini vengano a riferirmi che vi siete sbronzati per bene, né vedere le vostre facce verdi. Se vi azzardate a vomitare come l’anno scorso all’allenamento, vi faccio ripulire l’intero pavimento con la lingua. Intesi?»
 
«Sì, coach!» esclamò Cole, chiaramente imitando il tono militare e prendendosi gioco di lui come al solito. Poi, mise in moto il suo prezioso SUV, e si avviò verso casa stonando una qualche canzone assieme a Jay.
 
«Non dovresti dimostrarti così preoccupato nei suoi confronti, né sentirti in colpa per quello che sei stato in passato e rappresenti per l’hockey» mormorò Xavier, dandogli una pacca sulla spalla. «Saprà cavarsela come ha sempre fatto.»
 
«Preoccupato? E per chi?» si finse sorpreso, maledicendo il suo prezioso difensore e vice capitano, per quella sua dannata empatia e l’assurda capacità di leggere le persone. «L’unica cosa che mi preoccupa, è di dover lottare contro quella sua testa dura e di dover coprire le sue sbornie con la stampa.»
 
«Ah be’, certo» rincarò la dose Jan, trattenendo chiaramente a stento una risata. «Ci vediamo domani.»
 
«Ciao» borbottò in risposta, avviandosi a sua volta verso la propria auto e rimuginando sulle parole dei suoi due giocatori.
 
Si prospettava un’altra lunga e faticosa stagione, ne aveva tutto il sapore, eppure Wayne in cuor suo sapeva che sarebbe stata anche grandiosa, per tutta la squadra.
 
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Ci abbiamo messo solo 4 mesi, ma finalmente ce l’abbiamo fatta! Lo so, lo so, siamo pessime con gli aggiornamenti, ma tra vacanze, esami e traslochi abbiamo avuto delle estati abbastanza movimentate.
Finalmente comincia la stagione per i disagiati, ma noi siamo ancora qua, disperate perché mancano ancora 18 giorni.
Se volete condividere con noi la disperazione per la mancanza di hockey, come al solito ci trovate nel nostro gruppo!

Alla Prossima,
 
Sam & Sid
 
 
 
[1] “Signore e signori, accogliamo i nostri Canadiens”. Frase tradizionale con cui gli Habs entrano in campo per ogni partita in casa.
[2] Nell’hockey, il capitano ha una C cucita sulla maglia in alto a sinistra, così come gli assistenti hanno una A
[3] “To bleed Bleu, Blanc, Rouge” è un modo di dire che usano i fan degli Habs per indicare il loro livello di passione per la squadra. Chiaramente deriva dai colori della maglia.
[4] Questo è il goal a cui è ispirata l'azione di Sergej http://www.youtube.com/watch?v=3pdZlsL6_5o
 

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