Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Sam Vega    19/01/2015    4 recensioni
Storia a quattro mani con SidRevo.
“No Excuses”. Nessuna scusa.
Scritto a caratteri cubitali e netti sopra lo stipite della porta. Un monito bianco su sfondo blu, a ricordare che, oltre quella soglia, nessun tipo di giustificazione è accettata. Non per una partita persa, un goal mancato, un passaggio sbagliato.
“No Excuses”. Un mantra che ogni giocatore deve ripetere nella propria testa, da seguire ciecamente ogni secondo trascorso a graffiare la lastra fredda sotto i propri pattini, e per cui abbassare la testa nell’assumersi le proprie responsabilità, senza sconti, come singolo e come squadra, per poi rialzarla e affrontare con orgoglio la successiva sfida.
Due semplici parole e una storia centenaria su cui cementano, fatta di vittorie e sconfitte, imprese al limite dell’impossibile, ed eroi che sfrecciano sul ghiaccio: esempi intoccabili, da ammirare e imitare; da ricordare con una nota nostalgica in bocca e il desiderio bruciante di raggiungerli, lassù sull’Olimpo degli sportivi.
“No Excuses”. Un significato che ti entra sotto la pelle e ti plasma da dentro e lega a filo doppio con chi condivide quel tuo stesso credo, in una squadra dove il logo sulla maglia è più importante del nome scritto sulla schiena.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A






 
A Lyra, somma beta e complice
Con la speranza che prima o poi riesca a vedere una partita per intero senza addormentarsi tra primo e secondo tempo.
A Emily e Agnes,
Che ci sopportano nei nostri quotidiani deliri, tanto da arrivare a capire come funzionano il fuorigioco e il power play (forse...)
Ai pattinomuniti vari ed eventuali,
Costante fonte di ispirazione con il loro immenso disagio.






1st. Period. "Welcome to Montréal"






La luce filtrava appena da una sudicia finestrella quadrata posta in alto, troppo lontana per essere raggiunta e troppo piccola per essere attraversata. Beffarda si stagliava sul muro scalcinato, dove fili di ragnatele oscillavano lenti, mostrandogli a fatica uno spicchio di cielo livido.
Il fascio biancastro oltrepassava quel velo grigio opaco e illuminava lo stanzone lungo e stretto quel poco che bastava per lasciargli indovinare i contorni delle piastrelle, un tempo bianche, ma ormai spezzate negli angoli a mostrare la calce sottostante o macchiate di verde e marrone dove lacqua fuoriusciva imperterrita da un rubinetto rotto da chissà quanti anni.
Le gocce si schiantavano a terra in un ticchettio snervante e acuto. Era un suono costante, che gli era ormai entrato nella testa, scavandolo dentro fino al cervello, e imprimendosi in modo indelebile nella memoria. Cera un pesante odore di muffa che gli si insinuava nelle narici e laria tipicamente gelida e umida dei luoghi che non vengono mai davvero raggiunti dal sole. Gli entrava nei polmoni e lo faceva rabbrividire, quasi fosse capace di cristallizzarsi dentro il suo corpo e lacerarlo dallinterno. Lo avvolgeva e lo lasciava tramortito, anestetizzato, come se il dolore che sentiva addosso e che gli bruciava sotto la pelle fosse ridotto solo a un eco lontano, che sarebbe tornato a esplodere solo quando avrebbe messo piede fuori da lì.
Era come stare in una cella dincubazione, lontano da tutto. Percepiva la fredda e rigida consistenza del muro alle proprie spalle ghiacciargli la schiena, e paradossalmente dare sollievo alla pelle martoriata e livida. Le gambe, nude e graffiate, se ne stavano malamente allungate sul pavimento inondato dacqua insaponata mescolata a minuscoli rivoli di sangue, che dilagavano in sinuosi e lenti ghirigori, prima di sparire inghiottiti dal tubo di scarico.
Non riusciva a muoversi né a emettere un misero suono o un gemito. Non riusciva più neanche a piangere o arrabbiarsi, a reagire. Ma non avrebbe neppure scelto come via di fuga il farla finita come tanti prima di lui, dimostrando di essere il perfetto, debole vigliacco quale tutti si aspettavano che fosse. Il suo orgoglio laveva in parte condotto lì; lo stesso che per poco non laveva ucciso e che allo stesso tempo gli aveva impedito ogni giorno di scegliere quella strada per liberarsi.
L’aveva condannato e salvato, e lui pregava continuamente affinché potesse tenerlo ancora lontano dal baratro, ancorato a un appiglio, a qualsiasi cosa che potesse dargli un motivo valido per riaprire gli occhi ogni giorno e continuare a respirare e sopravvivere in quel mondo.
Ma nel momento in cui uno spiraglio di luce si aprì improvvisamente nello stanzone, abbassò le palpebre e pregò che il buio lo inghiottisse una volta per tutte.
                                            
 
******

 
22 Agosto 2009
                                                               
Sergej aprì gli occhi di scatto, sollevandosi con i gomiti puntati su uno spoglio materasso, senza lenzuola né copriletto. Sbatté più volte le palpebre e si guardò intorno col respiro affannato, la gola e le labbra fastidiosamente riarse e la fronte madida del sudore freddo di chi è appena tornato da un lungo e tortuoso viaggio in un incubo del passato.
Gli occhi chiari si posarono sulla finestra aperta dinanzi al lui, che dava su un panorama mozzafiato della città da cui provenivano il tepore di un vento caldo d’estate e la luce accecante del mattino ormai inoltrato. Schermò il viso con una mano per proteggersi da quel fastidioso bagliore che invadeva la stanza, così diverso dall’inquietante penombra onirica da cui era appena risalito e, dopo aver stropicciato le palpebre, si liberò finalmente di quel gelido sentore d’angoscia, assimilando la consapevolezza d’essere al sicuro nel suo nuovo appartamento a Montréal.
Si mise seduto sul candido materasso che odorava di nuovo, ricordandosi come si era lasciato andare al sonno la sera precedente, senza neanche avere la forza di sistemarlo almeno con un paio di lenzuola e un cuscino, ormai stremato dalla fine del trasloco. Avrebbe potuto pagare qualcuno per farlo al suo posto così da evitare di spezzarsi la schiena, ma era talmente riservato e geloso delle sue cose che non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarsi, figuriamoci di toccarle e magari anche curiosare.
Osservò l’ammasso di scatoloni stipati in un angolo e si lasciò ricadere a peso morto, sbuffando all’idea degli altri mucchi altrettanto grandi che lo aspettavano sparsi per ogni stanza della casa.
La mano si fece strada strisciando alla ricerca del telecomando, allungandosi verso una scatola ancora sigillata dal nastro adesivo posta al fianco del letto e momentaneamente adibita a comodino. Quando le sue dita riuscirono ad afferrare l’oggetto, l’ombra di un sorriso trionfante diede forma alle sue labbra, ma la sua espressione mutò radicalmente dopo qualche secondo dall’accensione dello schermo LCD, tramutandosi in una smorfia contrariata nata dalla realizzazione di essersi incappato in una trasmissione sportiva di cui era inconsapevole protagonista, assieme alla sua inaspettata cessione.
I due conduttori se ne stavano seduti composti, dietro l’elegante scrivania in vetro scuro, discutendo l’argomento con altri opinionisti presenti in studio schierati in contrapposte ragioni mentre, alle loro spalle, un grosso schermo trasmetteva alcune foto e sequenze significative dell’ultimo campionato di hockey su ghiaccio, conclusosi da qualche mese.

“Io non credo sia stata una vera sorpresa la cessione in sé. I Washington Capitals avevano già avanzato da tempo l’ipotesi. Nevskij è seriamente ingestibile, per quanto talentuoso. È come giocare con una bomba inesplosa in campo” la voce di uno degli opinionisti arrivò chiara alle orecchie di Sergej, che storse il naso nel sentir pronunciare il suo cognome accostato a quel poco elogiante paragone.

“Quello che davvero mi sorprende è la proposta dei Canadiens. Avevano sì, necessità di qualcuno che spingesse in attacco e desse man forte a Weiss e Dryden, ma questa più che una spinta è una vera e propria corsa suicida.”

“Io invece non l’ho ancora ben inquadrato” intervenne l’uomo a fianco, guadagnandosi le occhiate stranite degli altri presenti, e con cui decise immediatamente di spiegarsi.

“Nel senso, vedo anch’io come gioca. È terribilmente aggressivo, perde la testa con niente ed è troppo individualista. Il più delle volte il dischetto va in rete quando passa dal suo bastone, ma c’è davvero troppa rabbia e nervosismo nelle sue azioni, ed è eccessivamente egoista nel gioco.”

“Be’, questo mi sembra più che ovvio e assodato da intere stagioni ormai, quindi?” gli rispose uno dei conduttori, probabilmente cercando di capire dove volesse andare a parare. “Giocare con un uomo che segna tante volte quante sono le ammonizioni collezionate, i falli fischiati o peggio, le espulsioni, non so quanto possa essere utile.”

“I Capitals non se la sono vista poi così brutta quest’anno, mi pare.”

“Certo, ma vogliamo ricordare di quante risse è stato protagonista? Delle multe alla squadra e di come questo ha avuto ripercussioni negli spogliatoi? Nevskij non sembra essere in grado di integrarsi con i suoi compagni.”

“È proprio di questo che volevo parlare” dichiarò allora l’opinionista, provocando l’ennesima contrazione di sopracciglia sia in studio, che in Sergej stesso.

“I Canadiens, nonostante gli ultimi mesi non propriamente idilliaci, sono un gruppo piuttosto affiatato. Sono ben equilibrati, ma peccano in un attacco poco incisivo. Mi domando se sia possibile inglobare in quella cerchia tanto unita anche Nevskij.”

“Certo, facile come tentare di addomesticare una bestia selvatica” lo derise uno, guadagnandosi il consenso di un paio di commentatori, ma l’altro non parve darsi per vinto “Non sto dicendo sia facile, anzi!” replicò immediatamente. “Sto solo dicendo che se questo dovesse succedere, e probabilmente è in questo che i Canadiens sperano, oltre ad avere una difesa pressoché perfetta, avrebbero finalmente anche il tridente d’attacco che hanno sempre sognato. Una buona difesa è fondamentale, ma senza goal le partite non si vincono. Nevskij potrebbe essere la loro soluzione.”

“Potrebbe, certo” convenne immediatamente uno dei due conduttori, “e sarebbe semplicemente fantastico assistere ad un avvenimento del genere. Considero Nevskij una delle più grandi promesse dell’hockey, ma temo possa bruciarsi troppo in fretta.”

“In che senso?”

“Nevskij è come una Supernova spiegò allora, catturando l’attenzione di tutti. “La sua ascesa in America ha avuto quella stessa potenza. È letteralmente esploso, ma tutti sanno che dopo quel terribile fragore e bagliore, c’è solo la fine. Temo finirà per consumarsi e spegnersi troppo presto.”

Sergej non ascoltò il resto.
Dopo quella dichiarazione che somigliava fin troppo a una sentenza definitiva, premette con rabbia i pulsanti del telecomando, scorrendo rapidamente i canali, senza neanche davvero notare le immagini trasmesse.
Non aveva mai sopportato i giornalisti e la loro supponenza. Credevano sempre di sapere tutto, di poter comprendere, accusare e parlare a sproposito. Spesso gli avevano affibbiato storie completamente inventate, parole mai dette e relazioni mai esistite. Erano andati a curiosare nel suo passato, passando in rassegna ogni suo comportamento, talvolta provando perfino a psicanalizzarlo.
Si sentiva perennemente sotto esame, alla stregua di una minuscola formica inquadrata nella lente d’ingrandimento di un bambino dispettoso, che prima o poi gli avrebbe fatto convogliare troppa luce addosso e l’avrebbe portato a bruciare fino a consumarsi del tutto.
Era vero: il suo gioco non era proprio dei più leggeri, ma l’hockey era uno degli sport di contatto per antonomasia e se gli altri temevano di farsi male, che si dedicassero al balletto o ad un qualsiasi altro hobby in cui non rischiavano di rompersi neanche un’unghia.
Era stanco di quel mondo, dell’essere un personaggio pubblico sotto il costante giudizio di gente che neanche sapeva che faccia avesse, ma decisamente brava a sputare velenose sentenze.
L’unica cosa che aveva sempre desiderato era quella di poter sfrecciare sulla lastra di ghiaccio e lì, su quella superficie splendidamente candida e lucida, eliminare ogni pensiero, sfogare la rabbia nel colpire il dischetto, liberarsi di ogni angoscia esultando per il goal segnato. La semplice voglia di poter giocare e dimenticare tutto il resto, lasciando che i contorni del campo sfumassero fino a cancellare tutto ciò che esisteva oltre quelle barriere di plexiglas.
Sergej Aleksandrovič Nevskij altro non voleva che essere lasciato in pace, con indosso i suoi pattini e le protezioni, un bastone stretto tra le mani e il puck1 a schizzare come impazzito sul rettangolo di ghiaccio su cui si esibiva.
Non gli interessavano quelle stronzate sullo spirito di squadra, il cameratismo sportivo o la costruzione di un gioco altruista. Ciò che contava era lo spettacolo e che il dischetto facesse breccia nella difesa avversaria fino a centrare la porta; salire in alto ed essere il migliore, e non gli importava proprio un cazzo di niente se avrebbe fatto la fine di una Supernova. Quello che era davvero necessario era che la sua esplosione fosse così accecante e fragorosa da restare impressa per sempre nella memoria di chiunque... e un gran bel vaffanculo a tutto il resto.
A soli ventiquattro anni, in fondo, era già stufo di troppe cose, fatta ovviamente eccezione per il suo amato hockey.
Avrebbe voluto giocare fino alla fine dei suoi giorni, se gli fosse stato possibile e se solo essere annoverato tra i migliori giocatori dell’NHL2 non avesse significato anche essere perennemente sotto lo scrutinio di quei dannati parassiti meglio conosciuti come giornalisti.
Era stanco, e ogni volta che era finalmente solo si chiedeva se non potesse esserci un modo per distaccarsi completamente da quella realtà e farvi ritorno solo al momento di varcare la soglia del campo di gioco, per poi tornare nel proprio limbo, protetto e lontano da tutto.
Ci pensò il trillo acuto del cellulare, perso chissà dove tra la miriade di cianfrusaglie sparse per la stanza, a ricordargli immediatamente che questo non era possibile, oltre che a farlo sbuffare di rassegnazione, già conscio dell’identità della persona all’altro capo del ricevitore.
Si sollevò a fatica dal letto e prese a frugare di malavoglia tra gli scatoloni, fino a individuarne la sagoma sommersa tra i vestiti lanciati in un angolo la sera precedente.

«Ehi» mugugnò, senza neanche controllare il display prima di rispondere. Tre sole persone potevano chiamarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Due di queste erano probabilmente impegnate a cenare visto il fuso orario con la sua madre patria. La restante invece, in quel momento ospite della capitale francese, rispondeva al nome di Irina Aleksandrovna Nevskij, al secolo, la sua gemella.

«Finalmente!» la sentì esclamare, con una punta d’esasperazione. «Ma dove diavolo eri?!»

Sergej sollevò un angolo della bocca nell’accenno di un sorriso, per poi biascicare una giustificazione più o meno veritiera: «Scusa, dormivo.»

Lei emise uno sbuffo contrariato. «Sei già nella nuova casa?»

«Sì, sono arrivato ieri sera.»

«Avevi detto che mi avresti chiamata!» la sentì protestare mentre, senza ascoltare il resto dei suoi classici borbottii, si distendeva di nuovo supino sul materasso, fissando lo sguardo sul soffitto imbiancato di fresco.

«Era tardi» provò a spiegarsi, interrompendo la sua filippica e una smorfia di eloquente disappunto nacque sul suo viso, «e poi volevo lasciarti ai festeggiamenti con quello che tu ti ostini a chiamare ‘fidanzato’.»

«Non è stato niente di che» rispose lei, ridacchiando appena per l’ostinata contrarietà che Sergej continuava a mostrare nei confronti di quella relazione. «Dì piuttosto che te ne sei dimenticato.»

«Te l’ho detto, era tardi.»

«Da te, non da me. Esiste una cosa che si chiama ‘fuso orario’, te l’hanno mai detto?»

«Dove sei?» le domandò, tentando nuovamente di porre fine all’inutile tentativo di farlo sentire in colpa.

«All'aeroporto.»

«Tra quanto arrivi?»

«Saranno più o meno sette ore di volo. Dovrei essere lì nel tardo pomeriggio» si soffermò per un attimo, probabilmente per controllare gli orari sullo schermo, ed aggiunse: «L’aereo dovrebbe atterrare alle cinque e mezza.»

«Ti vengo a prendere» si propose subito lui. Per quanto scostante ed insofferente fosse con il resto del mondo che tentava un più o meno intimo approccio con lui, il richiamo del legame con la sorella era sempre stato troppo forte perché potesse fingersi sordo. Irina non si era mai arresa all’improvvisa barriera che lui aveva innalzato per isolarsi da tutti e, anche se non aveva mai davvero compreso le sue motivazioni, si era comunque ricavata il posto che le spettava nella sua vita.
Forse un giorno le avrebbe detto ogni cosa. Si sarebbero rintanati sotto la coperta, sistemata a mo’ di tenda come quando erano bambini, ed avrebbero parlato. Forse...

«No, lascia stare» ribatté però lei, strappandolo via dai suoi pensieri e lasciandolo interdetto. «Hai qualcosa d’importante da fare oggi, no?»

Sergej roteò gli occhi. Il tono assunto dalla sorella aveva chiaramente lasciato trasparire l’ansia che da sempre l’assaliva quando si trattava di lui. A volte pensava che avesse preso fin troppo seriamente il ruolo di madre che era stata costretta ad intraprendere. «È solo una stupida presentazione» la rassicurò perciò, senza nascondere l’insofferenza nella sua voce.

«È importante, Serëža4» gli disse, calcando l’intonazione su quel nomignolo e facendo nascere sulle sue labbra un sorriso sincero. «Cerca di non essere il solito stronzo.»

«Mi auguro che per quando sarai qui, quella noia sia già finita.»

«Hai firmato un contratto» gli ricordò ancora lei, con la medesima voce autoritaria, e gli fu impossibile trattenere un mugugno scocciato.

«Lo so.»

«Non combinare casini.»

Sergej si massaggiò le palpebre e fece schioccare la lingua. Sua sorella gli mancava ed era seriamente felice di rivederla, ma era altrettanto appurato che Irina sapeva essere una vera piaga quando ci si metteva.
«Ci proverò» borbottò allora, semplicemente per farla contenta. La sentì sospirare per l’esasperazione, dato che lo conosceva troppo bene.

«Devo staccare. Ci sentiamo più tardi» dichiarò, sovrastando l’eco del messaggio emesso dagli altoparlanti, che invitavano i passeggeri a dirigersi verso l’imbarco per il volo per Montréal.

«Ok» replicò lui semplicemente, incapace di aggiungere un sincero “mi manchi” a quelle due lettere, e sostituendolo invece con uno sterile “ciao”, prima di riattaccare e restare qualche secondo con lo sguardo fisso nel vuoto.

Una mano andò a far scorrere le dita tra i capelli lisci, forse ormai un po’ troppo lunghi, di un castano così chiaro da sembrare nastri di sabbia bagnata. Ci giocherellò un po’ distrattamente e andò a ritroso con la mente nei ricordi, alla volta in cui, quando era ancora un bambino e abitava in Russia, un vecchio pittore che dipingeva per strada per guadagnare qualche spicciolo l’aveva invitato ad avvicinarsi per farsi ritrarre e gli aveva detto che, quella tonalità di castano, prendeva curiosamente il nome di “ombra”.
Sergej all’epoca non ci aveva fatto poi così tanto caso, ma nel tempo quella specie di strana profezia si era come avverata nella sua vita, proprio come una sagoma scura. C’erano fin troppe zone buie dentro di lui, posti in cui aveva perfino paura di avventurarsi, temendo di essere colpito dalla vertigine e di cadere, riaffondando ancora una volta giù.
Eppure quel quadro lo conservava ancora. Non aveva mai smesso di portarlo con sé, ovunque andasse, incapace di separarsi da quella che un tempo era stata la sua immagine; tanto che qualche volta si ritrovava a chiedersi che fine avesse fatto il vecchio artista dallo sguardo troppo profondo e scuro, rabbrividendo per la sciocca idea che questo fosse stato in grado di vedere dentro di lui e in ciò che lo aspettava nel futuro.
Si riscosse come per svegliarsi da un brutto sogno, portando una mano a stropicciarsi la faccia, quasi volesse scorticarsi via di dosso quei pensieri, sollevandosi a fatica dal letto e dirigendosi verso il bagno.
Non era proprio tempo di ripensare al passato, non era il momento giusto per rimuginare su cose che avrebbe dovuto relegare nel fondo della sua mente, nascoste dal buio, molto tempo fa.
C’era la sua vita che continuava a scorrere inesorabile, e lui non poteva perdere tutti quei momenti per guardarsi indietro. Doveva solo inseguirla a perdifiato e afferrarla al volo, una volta per tutte.
 
 
****** 
 

Il dischetto nero rimbalzò con uno schianto contro una delle barriere, schizzò veloce indietro e preciso al mittente, che lo colpì nuovamente con il bastone ricurvo, per direzionarlo nello stesso, identico punto, come se avesse mirato a un bersaglio immaginario.
Un altro colpo e un successivo rimbalzo, e poi ancora e ancora, come un automa che eseguiva in un ciclo continuo la sequenza perfetta, senza mai calare di ritmo.

«Ehi, Sean» si sentì chiamare. Sollevò lo sguardo e mancò di colpire il puck che saettava nella propria direzione. «Hai intenzione di continuare ancora per molto?»

Il ragazzo sorrise al compagno di squadra, pattinando tranquillo verso l’altro lato della superficie di ghiaccio sintetico per recuperare il dischetto e avviarsi poi all’uscita del campo d’allenamento. Raggiunse il resto della squadra pesticciando con i pattini e si sedette scomposto sulla panca per toglierli.

«È mai possibile che tu non riesca a star lontano dal campo, neanche quando siamo qui in via ufficiosa?» gli rivolse un finto rimprovero Jan, l’energumeno biondo e slavato che rivestiva il ruolo di suo capitano.

Sean si rinfilò le scarpe e sistemò i pantaloni lisciandoli un paio di volte con entrambe le mani. «Lo sai come sono fatto!» ribatté poi, rivolgendogli uno dei suoi soliti sorrisi disarmanti e solari. «È il richiamo del ghiaccio!»

Jan scosse la testa e gli si sedette accanto, per poi rifilargli una pacca sulla spalla. «Te lo do io, ‘il richiamo del ghiaccio’, deficiente. Se ti fai male, son cazzi amari!»

«Non è che al nostro Sean trema il culo all’idea di trovarsi davanti la ‘Supernova’?» s’intromise Kyle ridacchiando riferendosi al novello compagno di squadra con l’ultimo nomignolo che gli era stato affibbiato dai giornalisti. «Paura che ti soffi il posto?»

«Ehi, marmocchio» l’apostrofò lui, facendo leva sul fatto che Kyle fosse effettivamente il più piccolo della squadra, sia per quanto riguardava l’anagrafe che per altezza e corporatura. «Qui l’unico che rischia di scaldare bene la panca, sei tu, considerando che ricopre il tuo stesso ruolo. Peccato tu sia troppo impegnato a starnazzare come una ragazzina innamorata, per rendertene conto.»

«Stai scherzando? Hai presente chi è appena entrato in squadra?!»

Sean sollevò una delle sopracciglia e sospirò: «Come volevasi dimostrare, stai fangirlando come una mocciosa.»

«Ha vinto anche quest’anno il premio come capocannoniere del campionato! Nonostante non abbia giocato tutte le partite per via di squalifiche ed espulsioni! Sai che vuol dire questo?»

«Sì, che potrebbe essere un vero problema se non si decide a imparare a restare in campo per una partita intera, senza attentare alla vita di qualcuno» gli rispose Sean ridacchiando, «e sappi che stai cominciando a preoccuparmi!»

Kyle s’imbronciò e gli rivolse un’occhiata piena di biasimo, come se stesse parlando con un perfetto ignorante. «Non capisci un bel niente» borbottò poi, incrociando le braccia al petto.

«Io invece mi auguro che questa cotta ti passi presto, principessina» lo riprese il capitano, condendo la sua affermazione con uno sbuffo rassegnato. «Non mi pare proprio che gli calzi lo stereotipo del principe azzurro senza macchia e senza paura.»

«Fottetevi» ringhiò il più piccolo in risposta, aggrottando le sopracciglia scure come la pece. «Non capite un accidenti di niente!»

«Che cos’ha la signorina, qui?» e stavolta fu Boris a parlare, col suo tipico accento russo che, nonostante i tanti anni trascorsi da quando era approdato in America, non aveva mai perso completamente. Continuava a calcare troppo il tono in alcune occasioni ed esprimersi con quella sua voce profonda e un po’ nasale. «Com’è che ti agiti tanto?»

«Kyle e il suo spropositato amore per Nevskij» spiegò Jan ridendo apertamente. «Non gli è ancora passata la fase da ragazzina in preda a un attacco ormonale!»

«Di nuovo, ‘fanculo!» replicò il suddetto accusato, prima di voltarsi verso Boris e chiedere: «Tu comunque dovresti conoscerlo, no? Avete giocato entrambi per il Lokomotiv Jaroslavl’5

«Già, è vero. Dicci un po’ qualcosa» convenne il capitano e questo scrollò semplicemente le ampie spalle.

«Proveniamo entrambi da lì, sì, ma non so molto. Quando è entrato a far parte della prima divisione, io ero già partito per l’America e non abbiamo mai giocato insieme neanche in nazionale, per un motivo o per un altro. Dirigenti e allenatori, comunque, già parlavano di lui all’epoca, ma non negli stessi termini di adesso.»

Sean inarcò le sopracciglia. «In che senso?»

«Che io ricordi, non ho mai sentito nessuno lamentarsi del fatto che fosse troppo violento, falloso e individualista, anzi! Alla Lokomotiv tutti non facevano che parlare del suo gioco pulito e fluido» si strinse nelle spalle e arricciò le labbra, con l’aria di chi non sa spiegarsi qualcosa in alcun modo. «C’è da dire che allora era poco più di un ragazzino. Probabilmente col tempo si è dato a un altro tipo di gioco.»

«Sì, alla ‘triturazione delle ossa’» commentò allora Sean, con una smorfia. «Ringrazio di non averlo mai dovuto affrontare. Avrei seriamente temuto per le mie povere gambe.»

«Be’, poco male» intervenne Jan, sospirando. «Quello non dovrebbe più essere un nostro problema adesso... o almeno spero.»

«Ehi, ragazzi!» li chiamò una matricola, un novellino facente parte delle giovanili di cui ricordavano a malapena il nome e che, come tanti altri suoi compagni, aveva insistito per assistere all’arrivo di Sergej Nevskij e alla sua presentazione ufficiosa alla squadra. «Pare che stia arrivando!»

«Oddio, non riesco a crederci!» esclamò allora Kyle, irrigidendosi immediatamente e piantando lo sguardo verso la porta principale. «La Supernova sta arrivando davvero!»
Fece appena in tempo a terminare la frase, che l’ennesima e poco gentile pacca arrivò a stampare le dita del capitano sulla sua nuca.

«E piantala!» lo riprese poi questo, grugnendo e fulminandolo con lo sguardo, dando vita a un siparietto fin troppo comune, che fece scoppiare a ridere sia Boris che Sean.

Tra le proteste e i borbottii del più piccolo della squadra, abbandonarono il bordo del campo e si avviarono verso l’atrio per raggiungere il resto dei compagni, tutti lì pronti ad assistere all’arrivo di questa tanto chiacchierata Supernova.

Sean non aveva mai parlato di persona a quel ragazzo dall’espressione perennemente glaciale, pronta a incendiarsi e tramutarsi in una spaventosamente rabbiosa e decisa ogni qual volta si trovava a varcare la soglia di quella lastra nivea e ghiacciata.
Aveva osservato le sue prodezze in campo mentre affrontava e travolgeva i suoi avversari, e studiato il suo modo di giocare e d’interagire con i compagni. Si era anche stupito per i continui scatti d’ira che coglievano Sergej o per la facilità con cui neutralizzava chiunque, ma nonostante avessero in comune l’età e l’ovvia passione per l’hockey – oltre la determinazione con cui ricoprivano il proprio ruolo di attaccanti – era chiaro più di ogni altra cosa che non avrebbero potuto essere più diversi.
Sean, nonostante la maturità costruita durante gli anni trascorsi come atleta professionista, per certi versi era un eterno bambino. Prendeva spesso gli affari con poca serietà ed era sempre pronto a scherzare, sdrammatizzare e socializzare con tutti. Sergej invece, sembrava non aver neanche mai vissuto la propria infanzia. C’era qualcosa nell’ombra perennemente adagiata sul suo viso e in quegli occhi vacui, che paradossalmente suggerivano fosse nato già adulto, come un triste automa creato da qualcun altro per un suo capriccio.
Doveva ammettere con se stesso di essere piuttosto curioso di fare la conoscenza di quel campione tanto discusso e controverso, ma di essere anche ansioso per il suo arrivo. Non tanto perché temeva che il novello componente dei Canadiens gli “rubasse” il posto nella rosa, quanto più per il fatto di non riuscire a interagire con lui, di fallire proprio come era successo a tutti gli altri giocatori che si erano avvicendati al suo fianco.
Avevano bisogno di uno come Sergej in squadra e tutti ne erano perfettamente consapevoli, ma non erano neanche degli illusi e ben conoscevano la fama che da sempre aveva preceduto l’irascibile campione arrivato dalla Russia.
Sean in fondo temeva che il nuovo acquisto potesse gettare la propria ombra su tutta la squadra e romperne irrimediabilmente l’equilibrio faticosamente conquistato. Paventava che la sua presenza riuscisse a minarne i rapporti, soprattutto quelli meno solidi, che comunque si ergevano su un sano e reciproco rispetto.
Con un sospiro appena accennato quindi, s’infilò le mani nelle tasche dei jeans e si appoggiò alla parete tinteggiata di blu, bianco e rosso, i colori dei Montréal Canadiens. Jan gli fu immediatamente accanto.

«Preoccupato?» esordì questo, con un mezzo sorriso, lasciandogli intendere che quella sensazione fosse pienamente condivisa.

Sean prese un respiro profondo e sollevò le spalle. «Un po’.»

«Forse non riusciremo mai a coinvolgerlo nella parte ‘familiare’ della squadra, ma almeno mi auguro di riuscire a instaurare una sottospecie di rapporto, per creare qualche profitto nel campionato» commentò il capitano, facendolo sorridere per l’aggettivo attribuito a una cerchia ristretta molto legata a livello affettivo, all’interno della prima divisione, di cui facevano entrambi parte. In fondo era proprio così che Sean si sentiva quando era in compagnia dello stesso Jan, Boris, Kyle e pochissimi altri ancora: era come avere una seconda famiglia con cui comunicare perfettamente, anche all’interno dello stadio, qualcuno su cui poter sempre contare, con cui sapeva di poter parlare di tutto e a cui aveva confessato ogni cosa... più o meno.

«La vedo dura» rispose e sollevò di scatto gli occhi verdi, quando sentì il rombo di una di un’auto fare il proprio ingresso nel garage dello stadio, «ma almeno proviamoci» aggiunse infine, con la voce ridotta quasi a un sussurro inudibile e lo sguardo inchiodato verso la direzione in cui un potente ruggito si era sopito.


 
******
 
 
 

Ed eccoci qua, alla fine del primo capitolo.

Non ci sorprendiamo se a questo punto sarete un po’ confuse/i, perché è completamente normale, ma vi assicuriamo che andrà meglio. Abbiamo testato i primi capitoli su persone che, di Hockey, sanno giusto che è praticato in qualche parte molto fredda del mondo e nulla di più, e se ce l’hanno fatta queste persone – ogni riferimento è puramente casuale… Emily, Agnes, se vi sentite chiamate in causa, vuol dire che avete la coda di paglia – può farcela chiunque.

Questo malsano progetto è iniziato mooolto tempo fa, scaturito dall’incontrollabile passione che ci ha travolto per quello che non è solo uno sport, ma un credo… e mai vi capiterà di conoscere personalmente un fan di una qualsiasi squadra di hockey, di un qualsivoglia campionato, capirete perché.

Non vogliamo aggiungere molto altro, perché le spiegazioni arriveranno con i prossimi capitoli, assieme a uno schema dei vari personaggi perché sì, lo sappiamo, sono davvero tanti, e quelli incontrati finora non sono neanche tutti.

A chiunque sia stato capace di arrivare fino alla fine senza addormentarsi, vogliamo fare i nostri più sentiti ringraziamenti. Se avete voglia di saperne di più o di assistere a deliri nosense, questi sono i nostri contatti FB: Sam Vega e Sid Revo, e QUI, c’è il disagiato gruppo che ci ospita.

 
1    “Puck” è il nome tecnico per definire il dischetto di gomma nero con cui si gioca.
2    Acronimo di “National Hockey League”, ovvero la lega professionistica canadese ed americana di hockey su ghiaccio.
4    È il soprannome russo usato per Sergej. In genere, come tutti i soprannomi del resto, denota una certa confidenza.
5    Squadra di hockey di Jaroslavl’, città della Russia vicino Mosca.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Sam Vega