WHO NEEDS A HEART WHEN THERE'S NO ONE TO LOVE? di Miss Dumbledore (/viewuser.php?uid=118106)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #00 — PROLOGUE ; sepolcri imbiancati. ***
Capitolo 2: *** #01 — THE FIRST TIME; Carne e Verità. ***
Capitolo 3: *** #02 — THE DAY AFTER; Linee di Confine. ***
Capitolo 4: *** #03 — DEAL WITH IT ; Calore e Neve. ***
Capitolo 5: *** #04 – NIGHT THOUGHTS ; Consciamente ed Inconsciamente. ***
Capitolo 6: *** #05 — BALLAST ; Routine. ***
Capitolo 7: *** #06 — AFTERMATH ; Passato e Presente. ***
Capitolo 8: *** #07 — POWDER ; Fantasmi e Orme. ***
Capitolo 1 *** #00 — PROLOGUE ; sepolcri imbiancati. ***
WHO
NEEDS A HEART WHEN
THERE'S NO ONE
TO LOVE?
“Più
un cuore è vuoto e più pesa.”
―Augusta
Amiel-Lapeyre
Una
ragazza ricca e tradita fin troppe volte, sfiduciata e arrabbiata nel
profondo nei confronti degli uomini.
Un
gigolò che si destreggia fra le donne più
facoltose e sole della
città usando il suo charme e il suo corpo come fonte di
guadagno.
Lei
che si sente un involucro vuoto.
Lui
una cosiddetta “puttana di alto bordo”.
Come
si incroceranno le loro strade? Cosa c'entrano i loro mondi l'uno con
l'altro e cosa li ha portati a incrociarsi quando sono solo i soldi
ad accomunarli?
Lei,
non la classica bella ragazza, una bellezza discreta dai lineamenti
particolari.
Lui
affascinante, ferino e decisamente gettonato fra le signore; il
classico uomo da ormone impazzito.
Lei
con un carattere forte e un cuore che sembra essere stato asportato
gli fa una proposta.
Superficialità
e un viaggio interiore intrapreso dalla porta di servizio
s'incrociano per arrivare alla stessa destinazione.
#O
– PROLOGUE ;
sepolcri
imbiancati.
“Il
denaro, del quale si dice tanto male, svolge almeno una funzione
benefica: quella di distrarre dalle miserie del cuore.”
―Henri
Duvernois
Entrò
nel salotto del club, sfacciata imitazione di quelli americani e che
aveva sempre guardato con sdegno pensando che fossero solo un covo di
sepolcri imbiancati che guardavano il mondo con la puzza sotto al
naso dall'alto della loro montagnola di soldi al pari di mosche su
una pila di sterco.
Un
paio di poltrone e due divani messi in circolo attorno ad un tavolino
da caffè, quel salottino era stato arredato per il club del
libro o
le ore del thè delle signore più attempate ed era
pressoché
inutilizzato, soprattutto il mercoledì mattina. Ad
aspettarla seduto
su un divanetto a leggere pigramente il giornale c'era un giovane
uomo di massimo venticinque anni dai capelli neri e scarmigliati
studiatamente, indubbiamente attraente da quello che poteva vedere
attraverso la camicia beige con le maniche arrotolate sugli
avambracci e dei jeans attillati quanto bastava per far vedere i
muscoli in tensione delle cosce delle gambe elegantemente
accavallate. Aveva un bel viso, notò quando si
voltò verso di lei,
probabilmente attirato dal ticchettio dei suoi stivaletti sul
pavimento mentre gli si avvicinava. Aveva una bellezza particolare,
con grandi occhi blu, non azzurri , ma intensi come il mare dove
c'è
l'acqua alta. Il collegamento mentale fu immediato, come quando
andava da piccola con sua madre in spiaggia e guardava l'orizzonte.
Lui
piegò il giornale e lo posò sul divano accanto a
sé alzandosi per
raggiungerla.
«Buongiorno.»
la voce era calda, avvolgente, mentre le porgeva la mano e accennava
un sorriso.
Gli
strinse la mano con sicurezza e lui ricambiò il suo sguardo.
«Salve,
immagino che lei sia Ian..» disse e non aspetto nessun invito
prendendo posto su una poltroncina accanto a lei. La studiò
qualche
istante senza far trasparire nessuna particolare espressione sul
viso.
«Sì
e lei Amelia.» concluse quelle presentazioni al contrario
riprendendo posto sul divano che aveva occupato fino a poco prima,
una delle regole, a quanto le aveva spiegato l'ochetta giuliva di
cinquant'anni ridacchiando che aveva parlato di lui a sproposito alla
festa di beneficenza qualche sera prima sotto un ingente dose di
Martini, la regola era niente cognomi, per questioni di privacy.
Poi,
dopo un altro Martini e chiacchiere inutili in cui le aveva scucito
il nome del baldo giovane, l'aveva accompagnata alla toilette e
mentre lei svuotava la sua vescica le aveva lasciato la pochette in
mano e lei aveva rubato il numero dal super tecnologico cellulare che
le era costato una barca di soldi, ma non sapeva quasi nemmeno usare,
quindi figurarsi mettere un codice per lo sblocco.
Da
avere il numero e seguire l'idea malsana che le vorticava in testa
già da tempo e che quella chiacchierata aveva solo
contribuito a
riportare in superficie il passo era stato breve.
«Dunque,
a quanto ho capito, ha un'offerta per me.» aprì il
discorso
incrociando le mani in grembo l'uomo con tranquillità, in
fondo per
lui era routine questa, no?
«Quattrocento,
una notte intera.» contrattò freddamente, seduta
con naturalezza su
quella poltroncina che sapeva di pelle stantia come se non stesse
contrattando la sua verginità.
«Briciole,
non lavoro un'intera notte per niente.» cercò di
inchiodarla con lo
sguardo magnetico.
Lei
lo studiò per qualche istante, non facendo trasparire
nessuna
emozione se non un certo fastidio.
«Non
sopravvaluto la mia verginità, stia tranquillo, infatti io
parlavo
dell'anticipo.» spiegò con un gesto spazientito
della mano.
«Interessante..
e la cifra finale?» si sistemò meglio sul
divanetto, protendendosi
leggermente verso di lei.
«Altri
400, la mattina dopo.»
“Le
puttane non vengono pagate per fare sesso, ma per andarsene.”
«Mi
sembra un'offerta ragionevole.» annuì.
«Le
condizioni sono semplici: si fa a modo mio, te ne vai la mattina dopo
senza domande e deve rimanere tutto in quella stanza,»
chiarì
rigidamente. «mi sei stato caldamente consigliato, spero non
siano
soldi sprecati.»
Era
passata dalla forma di cortesia al tu senza accorgersene, come non
aveva fatto troppi giri di parole per arrivare a parlare dell'affare
per cui erano entrambi lì e lei aveva saltato scuola. Sua
madre era
stata quasi felice di sapere che “bruciava” con
delle amiche,
forse solo per come le aveva definite, o forse perché le era
sembrato di scorgere un po' della vecchia Amy in quella richiesta.
Sua madre era sempre stata tipa da “se ogni tanto non hai
voglia di
andare a scuola, piuttosto dimmelo che almeno posso
coprirti”. Se
avesse saputo cosa stava facendo sarebbe rabbrividita.
«Non
lo saranno, sono sicuro che ogni lode non sia stata minimamente
gonfiata.» sorrise malizioso.
«Lo
spero.» ribatté secca. «Ah, un'altra
cosa, vorrei ti sottoponessi
a degli esami per le malattie veneree, io prendo la pillola e non ho
intenzione di usare il preservativo;» aggiunse pragmatica
come se
gli stesse chiedendo di passarle il sale. «naturalmente ti
fornirò
i risultati dei miei per garantire la mia buonafede.»
bloccò sul
nascere la risposta dell'uomo davanti a lei porgendogli una busta
gialla che aveva tirato fuori dalla borsa oversize.
«Non
credo comunque che essendo vergine avresti potuto aver contratto
qualcosa di più di una candida.» rispose ironico
prendendo la
busta, la sua espressione sembrava dire “sì, chi
ci crede”. Amy
evitò di farvi caso più di tanto: era stato
così anche quando una
settimana prima l'aveva chiamato dicendogli a chiare lettere che lei
voleva una compagnia accettabile per perdere la verginità e
che
dall'accordo che voleva proporgli ci avrebbe guadagnato ampiamente
entrambi.
«Mi
aspetto una tua chiamata non appena riceverai i risultati degli esami
e li preferirei a busta chiusa, se non è un
problema.» si alzò in piedi considerando il
discorso chiuso, aveva sistemato quello che
andava sistemato e quindi era inutile dilungarsi troppo.
La
studiò ancora qualche istante poi la seguì
mettendosi in piedi
anche lui e prendendole la mano sfiorandola con le labbra in
un'imitazione di un delicato baciamano, anche se sembrava
più una
velata presa in giro dalla luce che brillò negli occhi blu
che non
staccò neanche un istante dai suoi.
«Ma
certo, è un piacere fare affari con te.» sorrise
lasciandole la
mano.
«Ne
sono consapevole, spero di poter dire lo stesso di te,» fece
un
sorrisetto forzato in risposta. «buona giornata.»
«Lo
sarà.» suonò come una promessa.. oppure
quasi una minaccia. Non
riuscì a classificarla e decise di non rimuginarci troppo
per non
avvelenarsi il cervello con riflessioni inutili.
«Buona
giornata a te.»
Si
voltò lasciandosi alle spalle quello strano uomo, prima che
la
decisione che l'aveva animata fino a quel momento potesse scemare in
quella strana sensazione che le metteva addosso quell'individuo anche
fin troppo strafottente. L'unica era sperare che fosse bravo a letto.
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Capitolo 2 *** #01 — THE FIRST TIME; Carne e Verità. ***
#O1
– THE FIRST TIME ;
Carne
e Verità.
When
you feel my heat, look into my eyes: it’s where my demons
hide;
don’t get too close, it’s dark inside:
it’s where my demons
hide.*
“Se
non esistesse il cuore dell'uomo, non ci sarebbe disperazione sulla
terra.”
─Romain
Gary
Il
campanello suonò
e si diresse con un passo misurato, indossava bella biancheria, era
depilata e ben vestita, con quei tacchi che facevano tic-tac
sul parquet e rimbombavano per la casa vuota. Era tutto quello che
voleva, ogni dettaglio era per soddisfare le sue aspettative, una
specie di regalo d'addio a Amy.
Non era emozionata,
nervosa o anche solo incuriosita. Le mani non erano sudate, ebbero
solo un leggero tremore al secondo giro di chiave.
«Buonasera.» le
sorrise Ian, splendido nella sua maglietta beige con una stampa
astratta di colore leggermente più scuro, sui cui aveva una
giacca
sportiva grigio scuro con delle toppe di cuoio sui gomiti.
«Buonasera.» lo
accolse con un tono quasi.. professionale, gelido.
«Un po' di vino?»
tirò fuori da dietro la schiena una bottiglia con attaccato
un
bigliettino con dello spago, come se niente fosse. Lei la prese e
l'osservò sospettosa facendosi da parte per farlo entrare.
Una breve occhiata
all'esterno le fece notare che cominciava a nevicare fitto e grosso,
tanto che gli alberi del giardino erano già quasi del tutto
imbiancati. Richiuse velocemente la porta distogliendo lo sguardo in
fretta. La neve era una di quelle cose belle che una volta la
facevano emozionare come una bambina, una di quelle piccole cose che
una volta le scaldavano il cuore. Ricordava ancora chiaramente tutte
le volte che aveva ballato sotto quei fiocchi con un sorriso sulle
labbra screpolate e le guance arrossate.
«Non devi
fingere.»disse lei duramente mentre lui si guardava attorno
assorto
senza aver notato la sua reazione.
«Non sto fingendo,
è semplice cortesia.» rispose distrattamente senza
guardarla.
Lei ignorò la sua
risposta e guardò il bigliettino, semplice, color avorio in
cui
all'interno c'era scritto “Felice
deflorazione” con una
una calligrafia un po' sghemba in inchiostro blu. Fece una smorfia di
disappunto ripiegandolo e si diresse verso la cucina.
«Aspettami nella
stanza alla tua destra, mettiti pure comodo.» si
voltò dirigendosi
in cucina, prendendo un cavatappi da un cassetto e due bicchieri a
stelo ben panciuti dalla credenza. Cosa stava facendo?
Perché voleva
uccidere così l'unica parte di lei rimasta allo sfacelo
della sua
anima?
Perché ormai
pesa troppo per conviverci ancora, è ora di troncare ogni
rapporto
con la tua umanità; si rispose duramente mentre
versava il vino
nei bicchieri e li portava a colui che l'avrebbe aiutata a spegnere
l'ultima scintilla che le rimaneva.
Ian era di spalle
quando entrò, sembrava parecchio preso nel guardare le foto
poggiate
sulla mensola del camino acceso; sua madre ne era stata così
entusiasta quando l'aveva vista. Era sempre stato il suo sogno, un
bel camino di pietra grezza a vista su cui disporre tante belle foto
degli attimi felici della sua vita, per esserlo ancora un po'
riguardandoli. C'erano le foto del matrimonio, con sua madre
raggiante nel suo abito bianco in pizzo e il suo neo marito che la
stringeva da dietro sovrastandola tanto era il dislivello di altezza
fra loro, alcuni scatti di famiglia, alcune in posa, altri fatti a
tradimento a discapito di qualcuno, una mandata da suo fratello
quando era stato a quel corso a Berlino, sorridente davanti a una
grande cattedrale di cui nemmeno ricordava il nome. Quelle di Amy,
invece, si fermavano a più di un anno prima, con la foto del
suo
sedicesimo compleanno, tutti attorno a una torta da supermercato alla
frutta, sorridenti e un po' sfatti, ma veri. Sembrava una persona
diversa, non per il trucco un po' colato e i capelli scombinati, ma
per l'espressione. C'era una tale vita nel suo sguardo, nel suo
sorriso che avrebbe travolto chiunque; quel viso, contrapposto a
quello del presente la faceva sembrare ancora più fredda,
quasi
inesistente.
«Ti avevo detto di
metterti comodo, a proposito, carino il bigliettino.. fa sempre parte
del servizio o è un'extra gentilmente offerto dalla
casa?» esordì
distogliendo in fretta lo sguardo dai ricordi che una volta le
facevano male e ora la lasciavano solo rumorosamente vuota.
Probabilmente sarebbe stato molto meglio organizzare la cosa in una
stanza d'albergo, farlo venire lì, oltre ad essere un
rischio per la
sua privacy, era anche un modo per permettergli inconsciamente di
tirare fuori vecchi fantasmi. Come il fatto di riposare lo sguardo su
quelle foto che ignorava sistematicamente ogni volta che entrava in
quella stanza, ma voleva che quell'ultimo sfregio a sé
stessa doveva
succedere in luogo che le avrebbe ricordato costantemente cos'aveva
deciso, cos'aveva scelto per sé stessa.
«Oh no, questo è
solo per te, sai, una circostanza inusuale merita qualcosa con cui
festeggiarla.» si voltò con nonchalance l'uomo.
«Dovrei sentirmi
onorata?» si accigliò leggermente sedendosi
comodamente sulla sua
poltrona preferita di fronte al fuoco, dove di solito si metteva a
leggere con una tuta sformata addosso, gli occhiali e i capelli
raccolti malamente. Probabilmente in qualche album c'era anche una
foto di lei in quella mise. Da quando suo fratello aveva scoperto la
sua passione per la fotografia non faceva che scattare “pieces
of life” come li chiama lui.
Era un bel
contrasto, ora, con un bel vestito, i tacchi vertiginosi e un
bicchiere di vino bianco in mano.
«Oh, credo che ci
voglia qualcosa di molto più–
eclatante.» ribatté lui
rigirandosi in mano il bicchiere che aveva preso quando lei glielo
avevo porto. Si sedette sul divano di fronte a lei poggiando con
nonchalance il braccio sullo schienale e accavallando le gambe in una
posa da seduttore consumato.
Chissà se aveva un
copione per quegli incontri, dimodoché ogni donna che
dovesse
servire fosse soddisfatta. Come un bravo cameriere.
Studiava le clienti,
ne indovinava i gusti e le inclinazioni per farle sentire amate,
desiderate.. ne conosceva e condivideva i peccati per legarle a
sé
indissolubilmente dimodochè non potessero più
sfuggirgli.
In fondo, un certo
Heinlein non aveva detto “Le puttane svolgono lo
stesso lavoro
dei preti ma molto più scrupolosamente.” ?
«Mhm, potrei
stupirti.» commentò lei, più per non
far cadere il discorso che
non per un vero interesse verso quella conversazione forzata. Di
rito.
Bevve tutto d'un
sorso il vino pentendosi amaramente di aver lasciato la bottiglia in
cucina.
«Oh, non ne
dubito.» ammiccò bevendo anche lui quasi tutto il
suo bicchiere.
Amelia rimase in
silenzio, sembravano arrivati ad un punto morto e lei non sapeva che
fare con lui che sembrava farle la radiografia. Doveva riprendere in
mano il controllo della situazione. Si alzò cercando di far
sembrare
il più naturale possibile quello scatto improvviso e gli si
avvicinò
lentamente, chinandosi per prendergli il bicchiere che teneva fra le
mani.
Le fermò il polso
con una presa delicata, ma decisa, tenendola ferma così, per
metà
chinata su di lui occhi negli occhi. Sentì la stretta calda
della
mano avvolgerle il polso sottile, quasi come una scossa. La
tirò a
sé leggermente, con delicatezza, facendo in modo che dovesse
essere
lei a volersi chinare sempre di più, altrimenti avrebbe
potuto
benissimo tirarsi indietro, ma non lo fece, anzi, lasciare che fosse
lui a condurre il gioco la rilassò, contro ogni sua
aspettativa e
mania di controllo. La attirò a lui lentamente, calibrando
ogni
millimetro con la flemma di chi sa che l'attesa spesso è
meglio del
bacio stesso. O del piacere, in quel caso.
Si sentiva il suo
respiro caldo e inebriante sulla pelle del viso, odorava di buono e
di vino. Qualche altro centimetro e sentì l'odore della sua
pelle,
che le solleticava persino il palato, quasi avesse un sapore
dolceamaro, forte e pungente. Odorava di nebbia, tabacco e qualcosa
che poteva ricollegare vagamente all'arancia, ma non era quello, era
molto più carnale, era l'odore della sua pelle.
Continuarono a
guardarsi negli occhi e nonostante fisicamente fosse lei a sovrastare
lui, sembrava il contrario. La forza di quegli occhi blu intenso che
l'avevano colpita fin dall'inizio —assieme ad un bel
fondoschiena e
la visione d'insieme decisamente non male— ma erano stati
quei
pezzi d'oceano a metterla al muro. A farla decidere.
Sembrava quasi un
bacio normale, senza quel contesto che sporcava tutta la poesia che
secondo la fantasia comune doveva esserci in una situazione del
genere. Le loro labbra ora quasi si sfioravano, ma nessuno dei due
accennava a voler distogliere lo sguardo, in quella muta sfida che
serpeggiava fra di loro. Un respiro un po' profondo di lui la fece
risvegliare da quella specie di ipnosi.
«Vado a portare giù
i bicchieri.. o vuoi altro vino?» chiese con un leggero
tremolio
della voce a metà della frase, in fondo era attratta da lui,
il suo
corpo non era morto assieme alla sua anima.
«No grazie, ma se
serve a te..» rispose lui con un tono caldo che le fece
venire un
brivido lungo la schiena. Aveva sempre pensato che una delle parti
più seducenti di un uomo era la voce, e a quanto pareva lo
sapeva
anche lui.
«Non ho mai avuto
bisogno di coraggio liquido.» ne ho già
abbastanza di mio,
rispose per poi rimettersi dritta e voltargli le spalle.
Si rintanò da vera
codarda in cucina, contraddicendosi da sola. Aprì la
lavastoviglie
distrattamente e vi mise dentro i bicchieri pensosa. Non aveva dubbi
o ripensamenti, era solo stranita da tutte quelle parole, quei giochi
di sguardi che facevano sembrare quella situazione come un semplice
gioco di seduzione mentre era tutto preconfezionato, fasullo. Era
tutto falso, com'era stata la sua vita troppe volte.
Lo sentì arrivarle
da dietro, ma non si voltò, lo lascio avvicinare facendo
finta di
niente, richiudendo la lavastoviglie e recuperando un tappo di
plastica da un cassetto su cui campeggiava un'apetta dondolante su
una molla. Richiuse la bottiglia e finalmente si voltò per
andare a
metterla in frigo, ritrovandoselo molto più vicino di quanto
aveva
previsto.
Di nuovo il suo
odore l'avvolse come una coperta fumosa, stuzzicandole i sensi.
«Pensavo fossi
scappata.» le disse a mezza voce.
«Questa è casa
mia.» ribatte con ovvietà senza riuscire a
muoversi di un
centimetro. Bloccata.
«Hai ragione.»
mormorò. Era bloccata contro il piano della cucina, un passo
indietro e ci avrebbe appoggiato la schiena e lui le toglieva ogni
via di fuga davanti. Ma perché pensava in termini di
prigionia? Non
l'aveva voluta lei quella situazione? Non si era forse prodigata lei
stessa per finire in quella situazione? E lui faceva solo il suo
lavoro, per cui era stato assoldato e pagato da lei stessa.
«Metto via questa e
sono subito da te.» fece un respiro profondo aggirandolo. Non
capiva
perché stesse giocando al gatto e al topo con lui quando non
ne
aveva bisogno, quando non si capiva nemmeno chi era il felino e chi
il roditore. Decisamente avrebbe preferito far parte della prima
specie, ma qualcosa le diceva che non era esattamente così
che
stavano le cose.
Mise la bottiglia
nel frigorifero nel maggior tempo possibile senza dar l'immagine di
voler rimandare, poi si voltò e lo vide. Esattamente nella
stessa
posizione di quando gli aveva voltato le spalle solo che adesso
l'osservava intento in chissà quale pensiero. Era bello, su
questo
non c'erano dubbi, sicuramente se non lo fosse stato non sarebbe
stato così gettonato.
Le si avvicinò con
lentezza, perfettamente naturale, eppure c'era sempre quella nota
stonata nell'aria che non riusciva ad identificare. Quando le fu
davanti le poggiò le mani sulla vita e lei dovette farsi
violenza
per non arretrare, per mantenere quella fredda visione di sé
che lui
aveva avuto fin dall'inizio. Per rimanere credibile anche a
sé
stessa.
Quando le fu così
vicino da invaderla col suo respiro caldo non riuscì
più a
trattenersi, gli immerse le mani nei capelli e riempì il
piccolo
spazio vuoto che c'era fra loro. E quello fu il loro primo bacio, e
in quel preciso momento, mentre sentiva già il suo sapore
sulle
labbra e la loro morbidezza che le sfiorava, un pensiero che
durò
solo un istante, fuggevole che dimenticò subito dopo, alla
presa con
questioni di ben altra importanza, fu che l'inizio della fine doveva
per forza essere così, avere il suo odore, il suo sapore, la
sua
bellezza ammaliatrice, macchiata di peccato mascherato dalle buone
maniere e dalle convenzioni.
Lo baciò, assaporò
e morse, non vi fu nulla di poetico né mistico. Furono
sospiri a
fior di labbra e mani che sfioravano e toccavano ciò che
potevano
raggiungere.
Contro quel frigo si
consumò il primo atto del suo lento e crudele addio al suo
cuore.
«Niente finzioni,
non voglio che sembri qualcosa che non è.» gli
sospirò a fior di
labbra inchiodandolo con lo sguardo, con una mano sul suo petto e
l'altra ancora stretta nei suoi capelli morbidi.
Per quanto inutile
sia anche un topolino può travestirsi da leone, bastava
crederci.
«Nessuna finzione.»
annuì senza sfuggire dal suo sguardo, e anche se in quel
momento
stava probabilmente recitando una parte rompendo la sua promessa nel
momento stesso in cui la pronunciava lui sembrava capirla, con quello
sguardo così blu reso ancora più liquido dal
desiderio e lei decise
di credervi. Di mentire a sé stessa.
«Seguimi.» mormorò
facendo scivolare la mano che fino ad un momento prima era sul suo
petto nella sua che era ancora posata sul suo fianco. In
realtà non
lo prese propriamente per mano, per amor della precisione gli
circondo il polso con la mano piccola che non riusciva nemmeno a
circondarlo del tutto. Si sfilò velocemente da quella
posizione
scomoda e lui si lasciò guidare su per le scale di legno
dopo un
ultimo sguardo. Entrarono nella stanza di lei, carina e accogliente
con un bel letto a una piazza e mezza con un copriletto su cui
troneggiava la bandiera inglese. Quando lui riprese il controllo
della situazione e la fece stendere sul letto per mettervisi sopra
affondarono nel materasso morbido. Aveva voluto la verità e
lui
gliela stava dando, comprese la rossa fra un bacio e l'altro. Lui
nelle questioni carnali era quello esperto e voleva comandare. Solo
che probabilmente non aveva considerato che per quanto inesperta,
sopra o sotto che fosse, Amelia non era una tipa da lasciarsi
sopraffare. Si era sfilata le scarpe mentre sentiva le mani di cui
correre lungo le sua gambe, sempre più su raggiungendo
sempre più
inesorabilmente il limite del vestitino corto che aveva indossato
quella sera, già di parecchio sollevato dalla foga dei
movimenti.
Fece correre la mano sotto la giacca di lui levandogliela senza tante
cerimonie, senza paura di sembrare goffa o troppo sfacciata, come
immaginava sarebbe stato se al posto di quell'uomo di cui conosceva
solo il nome –Ian– e il mestiere –puttana
d'alto bordo– ci
fosse stato qualcuno a cui teneva davvero; e questa cosa le piaceva
davvero, la entusiasmava e la faceva sentire forte e impudente. Anche
se non era così, in quel momento lei fu la predatrice e
–realizzò–
anche lui lo era. Due animali che lottavano per il territorio a suon
di baci, di morsi e carezze tutt'altro che tenere. La sospinse
più
verso la testata del letto, visto che a quella altezza le sue gambe
al di sotto del ginocchio penzolava oltre il bordo. Lei si
lasciò
spostare docilmente mentre aveva già le mani sotto la sua
maglietta,
desiderosa di sentire la sua pelle contro la propria e lui per si
stacco per un attimo dal suo collo che stava lentamente e allo stesso
tempo voracemente torturando per farsela sfilare.
Non c'era
sentimento, cuori che battevano all'unisono e amori sussurrati a
mezza voce perché troppo importanti per essere gridati.
C'era
passione, giochi di labbra, sguardi languidi che s'intrecciava e poi
lasciavano, visi arrossati e l'odore della loro pelle mischiato in un
profumo primordiale che spingeva i loro corpi a chiedere sempre di
più.
Le sfilò le
autoreggenti, non con delicatezza e reverenza come in ogni film,
mentale o hollywoodiano che fosse, ci si aspetta, ma quasi
strappandogliele, veloce come chi consumato dall'esperienza sapeva
cosa faceva, un gesto abituale macchiato dalla passione.
Era tutto confuso,
come eternamente bloccato su una linea di confine dondolando un po'
di qua dove giocava l'esperienza e la freddezza calcolatrice e un po'
di là dove regnava la passione e l'autocontrollo andava a
farsi
fottere, nel senso letterale del termine.
Decise di passare
all'attacco anche perché sentirlo mentre le mordicchiava il
collo e
la sfiorava soltanto e lei era ancora vestita la stava innervosendo.
Lo ribaltò senza troppa delicatezza per stendersi
praticamente sopra
di lui. Si mise a cavalcioni e lo baciò con
aggressività mentre lui
le metteva le mani sotto la gonna accarezzandole e stringendole i
glutei.
Lei gli accarezzava
il petto sodo, seguendo le linee sottili dei muscoli appena accennati
che guizzavano sotto le sue dita.
Lui la stava facendo
impazzire mentre risalendo pian piano con le mani le tirava su il
vestito fino ad obbligarla ad alzare le braccia per farselo sfilare.
Le sembrava di essere in un sogno, era tutto così surreale e
allo
stesso tempo di una realtà schiacciante, sentiva ogni nervo
in lei
che si risvegliava mentre le loro labbra erano strumenti per divorare
l'altro con quanta più foga e i loro bacini si sfioravano e
allontanavano. Fu tutto naturale, abbandonò ogni pensiero e
semplicemente dedicò ogni suo pensiero a spogliarlo per
sentire la
sua pelle contro la propria, l'istinto primordiale che sapeva
esattamente cosa fare si risvegliò in lei e la travolse, fra
i
sospiri e i gemiti e quando arrivò il momento si accorse che
voleva
guardarlo negli occhi, era stupido, da romanzetto rosa, ma un momento
prima che lui facesse ciò per cui era stato pagato gli
immerse le
mani nei capelli come aveva già fatto più e
più volte quella sera
e lui le piantò quelle iridi pazzesche nelle sue.
Forse stava per dire
qualcosa, ma lei in ogni caso l'anticipò scuotendo la testa
tempestivamente, voleva quel silenzio, voleva sentire ogni volta che
respirava, ogni piccolo spostamento d'aria, voleva che tutto quello,
che stava andando oltre le sue aspettative apocalittiche, non fosse
rovinato da qualche stupida frasucola di circostanza. La
guardò
intensamente per qualche istante, poi capì e la
baciò, la baciò e
cancellò l'ultima traccia di purezza che le rimaneva allo
stesso
tempo e non sapeva dire se fosse una cosa buona o brutta. Di colpo
ogni suo pensiero che aveva cercato di riaffiorare in quella nebbia
di annullamento totale venne definitivamente spazzato via da
quell'unica verità. Niente di poetico o moralmente alto,
semplicemente fu come se il suo corpo si fosse risvegliato dopo quasi
diciott'anni di sonno perpetuo in un misto di dolore e un'unica
scarica elettrica di piacere che diede inizio a tutto.
E così ebbe davvero
inizio la fine.
Aveva
sentito, tempo
addietro, che alcune ragazze dopo la loro prima volta piangevano,
ridevano incontrollate o che si erano sentite come se dopo mancasse
qualcosa. Per lei fu qualcosa di ancora diverso, si sentì
uguale e
allo stesso tempo svuotata. Non sentiva quella mancanza di cui le
avevano parlato, né si addormentò all'istante
completamente
appagata, semplicemente, con il corpo caldo di lui che ancora
l'avvolgeva come una coperta d'indolenza le sembrava che non fosse
assolutamente cambiato nulla anche se aveva appena scoperto cosa si
provava a sentire con l'intero corpo. Era tutto uguale, lo
guardò
ancora per qualche istante negli occhi e capì l'intento di
quell'ennesima pazzia senza senso che aveva fatto. Voleva sentire,
voleva risvegliare quello che era rimasto sopito in lei per troppo
tempo e non ce l'aveva fatta. Lui la guardava pacifico e rilassato,
ma continuò a non dire nulla, rimasero in quel silenzio
carico
dell'eco dei loro sospiri e gemiti. All'improvviso quella vicinanza
divenne soffocante e non desiderò altro che scostarsene.
Slegò le braccia
dal suo collo e le appoggiò sul suo petto dandogli una
leggera
spinta, lui capì all'istante spostandosi di lato e
mettendosi steso
di lato a fissarla mentre si metteva per metà seduta e
cercava nel
cassetto del comodino il suo posacenere e il pacchetto di sigarette
ancora chiuso che di solito teneva di scorta quando le finivano.
Merda, erano
nell'altro comodino e lei aveva bisogno di fumare.
«Puoi guardare nel
comodino accanto a te? Dovrebbero esserci un posacenere e un
pacchetto di Lucky.» parlare di nuovo, sentire il proprio
tono
neutro spezzare quel silenzio che fino a quel momento era stato solo
un velo caldo che l'aveva protetta dalla realtà fu come
sentirsi
improvvisamente nuda in mezzo ad una bufera.
Ian le diede la
schiena e si mise a frugare nel cassetto tirando fuori un posacenere
di metallo e il pacchetto ancora integro. Richiuse il cassetto con
uno schiocco secco che la fece sobbalzare uscendo dalle sue
elucubrazioni.
«Tieni.» le
sorrise tranquillo come se nulla potesse intaccare la sua pace. Lei,
dal canto suo, sentiva la contrapposizione con l'estremo rilassamento
del corpo con la sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente
storto nella sua testa.
Aprì pensosa il
pacchetto e stava per prendere una sigaretta quando lui la
bloccò
prendendole il pacchetto di mano sempre con un mezzo sorriso dipinto
sul volto.
«Aspetta.» le
disse semplicemente capovolgendo una sigaretta e rimettendola a posto
nel pacchetto.
«La sigaretta del
desiderio.» rispose al suo sguardo accigliato come se quella
frase
potesse spiegare tutto e lasciandola ancora più basita.
«La cosa?» chiese
confusa portandosi i capelli indietro passandoci dentro la mano ben
aperta.
«La fumi per ultima
esprimendo un desiderio quando la accendi.» le
spiegò porgendole il
pacchetto.
«È stupido.»
commentò riprendendolo e tirando fuori una sigaretta.
«È carino.» le
accese la sigaretta che si era portata alle labbra con un accendino
che evidentemente aveva preso dal cassetto anche se si era
dimenticata di chiederglielo.
«Mhm.. non penso.»
gli porse il pacchetto aperto. Lui lo prese e lo appoggiò
sul
comodino.
Rimase così, a
fissare il soffitto, mentre assaporava l'unica cosa che dai vari
racconti di adolescenti curiose era risultata veritiera: le sigarette
dopo il sesso erano ancor migliori dell'ultima della giornata.
«Perché hai scelto
di farlo in questo modo?» domandò all'improvviso
Ian rompendo una
delle clausole.
Fece un tiro dalla
sigaretta che teneva fra le dita, pensosa mantenendo lo sguardo fisso
sul soffitto verso cui si dirigevano le volute di fumo.
«L'ho messo in
chiaro all'inizio perché, semplicemente volevo gestirmela da
me la
mia prima volta, nessuno avrebbe fatto esattamente come volevo e
comunque mi sarei dovuta impegnare a conoscere dettagli inutili di
una vita che non mi interessava minimamente, quindi meglio
cosi.»
Un'alzata di spalle,
come se stesse parlando di una partita di calcetto.
La guardò
intensamente, chiedendosi come una persona, una donna, potesse
ridursi così, emotivamente nulla.
Sentendosi osservata
si voltò tirando un'altra boccata di fumo ricambiando lo
sguardo
profondo, dannatamente blu. Gli passò rapita una mano fra i
capelli
morbidi e neri. Con quel buon odore di pulito, mentre i loro sguardi
non accennavano a districarsi. Con lentezza le prese la sigaretta che
teneva fra le dita, allungandosi su di lei per spegnerla nel
posacenere sul comodino, mentre con l'altra mano già che le
teneva
il viso. Poi mentre si tirava indietro si fermo su di lei e la
baciò.
E si morsero, si baciarono e assaporarono ancora una volta,
perché
quella era la sua notte. La notte in cui tagliava l'ultimo legame
rimasto con la vecchia Amy e rimaneva solo Amelia, la persona che
aveva creato poco a poco chiunque avesse amato. Chiunque avesse amato
e poi perso.
Dopo la seconda
volta si sentiva stanca, ma la presenza estranea accanto a lei nel
suo letto non le permetteva di rilassarsi abbastanza da chiudere gli
occhi. Era così curiosamente ridicolo quanta fiducia ci
volesse nel
semplice atto del dormire accanto a una persona, mentre per farci
sesso non ci volesse nulla. Non aveva voglia di fumare ancora, non
aveva voglia di parlare. Non aveva voglia di voltarsi e vedere
quell'estraneo accanto a sé.
«Il bagno..?»
sentire la domanda venire dall'oggetto dei suoi pensieri la
infastidì
ancora di più, in quell'isola di estrema lucidità
in un mare di
sonnolenza che le intorpidiva il corpo, ma non la mente. Impedendole
di cedervi.
«La porta blu,
quella con la targhetta toilette.» rispose atona.
Sentì il
materasso alzarsi e i passi leggeri dei piedi nudi sul pavimento dopo
che aveva superato il tappeto ed era arrivato sul parquet. Una porta
aprirsi e chiudersi. Una chiave che girava nella toppa.
Sembrava tutto
scandito da quei rumori semplici, quasi non si accorse del respiro
liberatorio quando chiuse gli occhi portandosi una mano sul viso col
palmi rivolto verso il soffitto. La luce dei lampioni filtrava tenue
dalla finestra, ma dava lo stesso fastidio, forse perché
riverberata
dal biancore della neve che continuava a posarsi incurante
dell’assassinio dell'anima che stava accadendo in quella
casa. Non
sapeva più nemmeno lei perché l'aveva fatto, le
motivazioni che
aveva dato –che si era data– non valevano poi molto
a cose fatte.
Forse voleva di nuovo sentire qualcosa, forse voleva semplicemente
ferirsi pur di ricominciare a sentire. E invece niente,
le sue
manie di controllare ogni cosa le accadesse erano state soddisfatte,
la prima volta era stata anch'essa— soddisfacente.
Perché
quella parola stonava così tanto in quell'ambito?
Scacciò quel
pensiero molesto archiviandolo come stupido e autoimposto per
sentirsi normale, giusta. Una tiritera che era riuscita a debellare
da tempo e non intendeva riaccogliere nella sua testa solo
perché
aveva appena accolto qualcos'altro fra le gambe che non fossero le
sue mutande.
Si alzò a sedere un
po' troppo in fretta provocandole un leggero capogiro che la
costrinse ad appoggiarsi alla testata del letto allungando
tempestivamente il braccio prima di crollare. Doveva fare un respiro
profondo chiudendo gli occhi per riprendersi in fretta e raggiungere
il comò dove c'era una maglietta che avrebbe potuto mettere
perché
cominciava a sentire freddo e non se la sentiva ancora di mettersi
sotto le coperte. La sua ripresa divenne impellente quando
sentì il
rumore dello sciacquone attutito attraverso la porta chiusa e
capì
che a breve sarebbe uscito dal bagno e l'avrebbe trovata lì
nuda nel
corpo e nell'animo, e se alla prima neanche ci pensava la seconda non
era un'opzione. Non l'avrebbe vista debole.
Si fece forza per
alzarsi, ancora un po' stordita, ma determinata. Attraversò
la
stanza più in fretta che poté e si
aggrappò al comò fino a farsi
sbiancare le nocche. Aveva la vista appannata che le ricordò
che non
aveva mangiato dall'ora di pranzo quando si era fermata nel suo fast
food vegano preferito, l'unico in tutta la città a dire il
vero,
dopo delle commissioni. Era stata in giro anche praticamente tutto il
pomeriggio per poi ritrovarsi a dover preparare e sistemare ogni
cosa, compresa se stessa, usando anche il tempo che aveva
preventivato per un pasto precotto da infilare in microonde.
Aprì il primo
cassetto e prese una delle magliette a maniche corte troppo grandi
per lei che aveva rubato a suo fratello, che benché fosse
più
piccolo di lei d'età, la superava di almeno una ventina di
centimetri e forse anche di più in altezza. Se la
infilò in fretta
sentendo che la copriva fin quasi alle ginocchia.
Click. La
porta si aprì silenziosa dopo lo scatto leggero della
serratura, ma
non sentì i suoi passi sul parquet. Si voltò dopo
un ultimo respiro
profondo per calare su di sé la maschera di
intoccabilità che aveva
mantenuto fino a quel momento: Ian, così aveva detto di
chiamarlo
nessun cognome.
Lui non aveva detto.
Lei non aveva
chiesto.
La fissava
appoggiato allo stipite della porta incurante della sua
nudità; in
fondo con il lavoro che faceva sarebbe stato ridicolo se fosse stato
pudico.
«Così ti piacciono
i cartoni animati.» commentò divertito.
«Come?» gli lanciò
una breve occhiata perplessa non capendo da dove venisse quel
commento decisamente fuori luogo.
«Bhe, la tenda
della doccia di Spongebob e la maglia con sopra un– un
animaletto
strano verde col becco e il cappello..» parlò come
se stesse
parlando di api e di fiori a una bambina di cinque anni un
–bel–
po' ottusa. Si guardò la maglia che aveva indossato in tutta
fretta
e scoprì che aveva indossato la maglia con l'ornitorinco di
un
cartone animato estremamente stupido che il suo fratello estremamente
stupido, nonostante i sedic'anni compiuti, adorava. Di tutte le
maglie rubate –fra cui anche una più dignitosa dei
Pink Floyd,
tanto per dire– aveva pescato quella.
Scrollò le spalle
indifferente. «La tenda l'ho vista in un supermercato e l'ho
trovata
carina.» nessun commento sulla maglietta, nessuna
spiegazione. Non
avrebbe permesso nessuna infiltrazione nella sua vita, nel suo scarno
ambito affettivo.
Si era appoggiata
senza accorgersene al mobile con la schiena ed entrambe le mani,
probabilmente un'altra inconscia barriera che aveva eretto pur di non
mostrare debolezza, persino in quel momento, con quell'estraneo nel
suo territorio.
Aveva un'assurda
voglia di pasta aglio, olio e peperoncino, ma non era buona mossa
prepararsi qualcosa di potenzialmente letale se solo dopo avesse
respirato nel raggio di cinquecento metri dall'uomo che aveva pagato
per una notte di sesso. Profumatamente pagato.
Nonostante questi
discorsi mentali fossero parecchio convincenti di meno lo era la
consapevolezza che in frigo c'era ben poco dato che sua madre, che di
solito si occupava della spesa, era in vacanza in montagna con tutta
la famiglia. Meraviglioso! E lei continuava ad aver fame.
«Vado a farmi un
panino.» si voltò senza aspettare risposta. Non le
importava cosa
avrebbe potuto pensare di lei, di certo far colpo su di lui non era
fra le sue priorità.
Scese le scale
lasciando scivolare le mano sul corrimano di legno lucido e scuro,
accarezzò distrattamente la piccola sfera lucida e bianca di
marmo
alla fine girandoci intorno per raggiungere la cucina. Le sembrava
così surreale la casa vuota, un uomo lasciato solo, e
soprattutto
nudo, nella sua stanza mentre lei andava a farsi uno spuntino di
sotto. Passò dal soggiorno per prendere il cellulare,
controllandolo
distrattamente. Sua madre l'aveva chiamata circa un'ora prima,
probabilmente voleva sapere se un ladro,violentatore e assassino era
entrato in casa per rubarle la sua virtù —che
andava decisamente
svalutata dopo quella sera— pensando che comunque le avrebbe
permesso di interrompere il delitto e riferirle se aveva rimesso il
latte in frigo e svuotato la lavastoviglie. Forse voleva solo trovare
una scusa per tornare giù da quel cucuzzolo su cui si era
fatta
trascinare per amore nonostante fosse un'ostinata fan del mare e del
caldo.
Un altro paio di
messaggi privi d'importanza e uno di suo fratello che le aveva
mandato su Whatsapp una foto di lui e del suo amico Eric —con
cui
divideva il piccolo chalet accanto a quello di loro madre e del
marito— in un bar, o meglio una specie taverna in cui il
legno e la
birra facevano da padroni. Avevano i segni bianchicci degli
occhialoni in viso e dividevano il tavolo con alcune ragazze
decisamente promiscue e dedite alla socializzazione a giudicare dalle
facce soddisfatte dei due adolescenti il cui cervello si trovava
affogato dagli ormoni. Il messaggio era di poche parole:
“Sono
felice che tu non sia venuta, altrimenti avresti fatto paura alle mie
spasimanti! A Eric invece manchi.” più una serie
di faccine
allusive su cui preferì non indagare mentre poggiava il
telefono sul
piano della cucina e apriva il frigo pensierosa tirando fuori quello
che rimaneva del cinese che aveva ordinato la sera prima. Si
appoggiò
con la schiena al ripiano masticando pensierosa gli spaghetti di soia
freddi, probabilmente avrebbe dovuto metterli nel microonde, ma la
voglia di fare qualunque cosa che fosse fuori dallo stretto
necessario era pari a zero. Perlomeno erano ancora imbevuti di tutte
le salse in cui li immergeva ogni volta.
~*~
Era lì che mangiava
con quegli occhi così strani —nocciola quasi
gialli— fissi in un
punto imprecisato, masticava e guardava il vuoto con quella maglietta
extralarge che faceva solo intuire le forme al di sotto, i capelli
sconvolti che le incorniciavano il viso. Ed era bella, bella quando
abbassava la guardia e l'unica espressione che aveva sul viso non era
eccitazione, desiderio, sfida o calma glaciale, ma semplice e tiepida
tranquillità; eppure c'era qualcosa che non cambiava mai in
lei,
neanche in quei momenti di quieta solitudine. Era un rumore di
sottofondo appena udibile, lo si notava solo se si tendeva
l'orecchio, se si era disposti ad ascoltare.
Restò nascosto
nella penombra, lei scendendo non aveva acceso nessuna luce. Sembrava
che fosse la nota predominante nella sua vita, si crogiolava nella
penombra, né buio né luce, semplice e
indifferente penombra. Il
cellulare accanto a lei cominciò a vibrare e la vide
sobbalzare per
quella crepa nell'immobilità che regnava in quel momento.
Guardò il
cellulare accigliandosi poi, con uno sbuffo, lo prese in mano e
rispose.
«Dimmi Ma'.» un
tono neutro, appena macchiato da una nota di fastidio malcelata.
«Tutto bene qui.»
telegrafica, indifferente.. quindi non era così distante
solo con
gli estranei –con lui– ma anche con la madre e le
persone più
vicine a lei.
«Sì, mi ha scritto
stasera.» rimase nell'ombra rubandole quella piccola
parentesi di
vita quotidiana, per semplice curiosità. Di solito si faceva
le sue
idee su ogni cliente, probabilmente chiunque facesse il suo lavoro
avrebbe potuto benissimo fare lo psicologo, faceva parte del tutto,
capire le persone e cosa volevano, perché meglio si faceva,
più le
si accontentava e di conseguenza la probabilità che
diventasse
un'abituè diventava più alta e quindi
più soldi che da gente a
caso. Una specie di reddito fisso.
Lei era strana,
sembrava la classica ragazzetta ricca e viziata con una mania di
controllo al di sopra dei limiti umanamente possibili e i soldi di
papino a disposizione. Eppure c'era dell'altro, oltre alla saccenza e
alla freddezza che la rendeva uguale a molte altre ragazze e ragazzi
di quel quartiere, c'era quel distacco che la contraddistingueva, che
all'inizio aveva attribuito ai soldi che aveva in tasca e il ruolo
che giocava lui nella società, ma vedendola parlare con la
madre—
quella deduzione era stata scalzata da una sensazione che non si
poteva definire a parole, ma che era solo istintiva.
Nonostante questo
non riusciva ad inquadrarla, capirla e non era ancora pronto ad
abbandonare la sua prima impressione.
«No, Ma'.. nessun
ladro, stupratore e maniaco assassino di vergini.» la
sentì dire e
si accorse che aveva perso un pezzo di conversazione grazie alle sue
elucubrazioni su di lei. Sembrava la solita conversazione
madre-figlia a parole, però mancava quella scocciatura mista
all'affetto necessaria nel tono della ragazza, sembrava stesse
ordinando una pizza. Difettava di emozioni.
«Mnh, okay.» la
sentì dire mentre prendeva un'altra forchettata tenendo il
cellulare
fra la spalla e l'orecchio. Ascoltava in silenzio masticando, magari
una filippica sulla sicurezza di una ragazza sola in casa di notte,
non poteva capirlo né dalla faccia di lei né dal
mormorio di
sottofondo che veniva dal cellulare.
«Ho sistemato
tutto—» cominciò bloccandosi di colpo
con la bocca aperta come se
stesse per dire qualcos'altro. «Sì, anche quello,
se ho detto che
ho fatto tutto vuol dire che ho fatto tutto.»
La guardò osservare
lo scatolino e spostarsi dalla sua posizione per buttarlo mentre
ascoltava ancora sua madre che a quanto pareva era logorroica quanto
la figlia era silenziosa.
«Te l'ho detto, non
mi serve nulla, digli di non spaccarsi la testa per niente.»
borbottò mentre metteva la forchetta nella lavastoviglie e
la
richiudeva.
«No, no, no..»
bloccò sul nascere un altro discorso. «Sono
stanca, parlaci tu e
spiegaglielo.. diglielo che non ho nulla contro di lui. Okay. Okay.
Notte.» e chiuse la conversazione, sembrava esausta mentre
poggiava
il cellulare e si riavviava i capelli.
Lui, in quel lasso
di tempo, era rimasto nascosto lì sulla soglia, lo schermino
illuminato del microonde segnava le 00:23, lui era lì sin
dalla
prima serata anche se le ore trascorse gli sembrava che fossero state
compresse fino a prendere le sembianze di massimo una di esse.
«Mi spii?» la voce
di lei lo sorprese in fallo, facendolo sentire come un bambino
beccato a rubare dal borsellino dell'intransigente nonna.
«Affatto, pensavo
ti fossi soffocata mangiando e sono sceso a controllare, mi devi
ancora la mia commissione.» rispose indossando una maschera
di
tranquilla indolenza, con addosso solo i boxer che aveva raccattato
da terra prima di scendere.
«Mhm, hai ragione.»
gli dava ancora le spalle. Seguì una piccola pausa che lo
fece
sentire scomodo e fuori posto.
«Vuoi mangiare?»
domandò lei all'improvviso voltandosi di scatto.
«No, grazie.»
rispose tranquillo.
«Vuoi del vino?»
continuò imperterrita, come se stesse cercando qualcosa da
fare,
qualcosa che smuovesse quel silenzio melmoso che si era adagiato fra
loro.
«No, grazie.»
ripeté.
«Vuoi andartene?»
lo spiazzò mentre lo guardava dritto negli occhi, uno
sguardo
incolore che lasciava solo intendere che lo stava studiando.
«Devi essere tu a
volermi mandar via.» le spiegò serafico, senza
lasciarsi intaccare
troppo dalla cosa. Certo, lo incuriosiva come persona, ma non ci
avrebbe certo perso il sonno, bastava solo che avesse i suoi soldi.
«Già.. Allora cosa
vuoi?» continuò imperterrita senza scoprirsi,
rifiutandosi di
farlo.
«Non sono io a
dettare le regole.» le fece notare mentre si rendeva conto di
essersi mosso verso di lei lentamente e di starlo ancora facendo.
Passo dopo passo.
Lei storse la bocca
contrariata, ma non disse nulla, rimanendo impassibile a parte quel
piccolo segno di aver sentito qualcosa.
«Sei tu la cliente
pagante e si da il caso che tu abbia prenotato i miei servizi per
tutta la notte.» continuò, facendo un passo ad
ogni parola.
Avvicinandosi con circospezione, come se lei fosse un animale feroce,
che solo un movimento brusco avrebbe potuto farlo scattare ad
azzannargli la gola.
«La cliente pagante
ora vuole bere.» evase bruscamente dalla discussione
sgusciando
nell'ormai angusto spazio che era rimasto fra loro. Invece di andare
al frigorifero si diresse verso uno scaffale sopraelevato aprendo
l'anta mettendosi in punta di piedi. Era piena di bottiglie di ogni
tipo, soprattutto superalcolici, notò con un'occhiata veloce.
«Ti piace il rum?»
domandò voltandosi già con una mano tesa. Lui non
capiva, non
capiva quei modi di fare, gli sfuggiva come a frenare ogni suo
impeto. Era tutto così surreale, lei nel letto
e quella fuori
dal letto erano due persone diverse; non che facesse queste
grandi dimostrazioni e lui non le pretendeva di certo, ma di solito
le inquadrava subito le clienti, lo aiutava a gestirle. Lei gli
sfuggiva di continuo. A letto, nonostante fosse inesperta e si
vedesse da qualche timida incertezza, era allo stesso tempo decisa,
passionale, quasi travolgente. Quando l'aveva deflorata gliel'aveva
visto negli occhi il dolore, gliel'aveva sentito nelle unghie che gli
affondavano nelle spalle, la mano che gli aveva stretto i capelli, ma
la sua espressione facciale non era cambiata di una virgola, non un
mugolio o un sospiro, un lamento.. aveva sostenuto il suo sguardo,
sfidandolo a fermarsi, a darle della debole. Non ci aveva messo
sentimento, o almeno, non quello che ci si aspettava da una vergine
nel sesso; ci aveva messo tutto tranne i sentimenti giusti.
Non aveva letto in
quegl'occhi promesse d'amore eterno, paura, timorosa timidezza.
Allo stesso tempo
non aveva visto quel vuoto che sovrastava ogni altro sentimento di
solito.
C'era stato solo
istinto, forza, tanta forza da far quasi paura, travolgente,
passione, voglia.
C'era stata tanta
carne e nessun vezzo interno, nessuna parola, illusione.
Carne e Verità.
Dura e cruda realtà.
«Sì.» la
osservando attentamente, senza perdersi nessun suo movimento mentre
quasi si arrampicava sulla cucina per prendere una bottiglia troppo
in altro per la sua misera statura. L'osservò quando
andò a
prendere due bicchieri, uno normale e uno da shot, mettendogli
davanti sull'isola al centro della stanza quello più piccolo
e
prendendo per sé quello più capiente,
riempiendoli abbondantemente
entrambi.
«Prego.» gli
indicò con un gesto vago della mano lo sgabello di fronte al
suo
dopo esservici arrampicata sopra.
Lui vi si sedette
con tranquillità, entrambi mezzi nudi davanti ad un
bicchiere di rum
a testa.
La ragazza fece un
cenno alzando il bicchiere e con un gesto secco ne buttò
giù una
bella sorsata.
Lui fece lo stesso
col suo shot mentre lei veniva scossa da un brivido involontario per
il liquido caldo che aveva fatto bruciare la gola anche a lui.
«Ancora?» e senza
aspettare risposta gliene versò un altro bicchiere.
«Hai proprio
bisogno di bere?» chiese all'improvviso lui non riuscendo
più a
contenere la curiosità.
«Cosa intendi?» si
mise subito sulla difensiva rispondendo con un altro punto
interrogativo alla domanda.
«Sembra che tu
abbia una voglia irrefrenabile di bere, ma non ne capisco il
motivo.»
si sforzò di mantenere un tono vago e rilassato.
«Non ne ho bisogno,
semplicemente è bello bere in compagnia, se lo si fa da soli
si
scade nell’alcolismo.» assunse un tono e
un'espressione abbastanza
stizziti, come se ogni goccia d'alcol buttasse fuori un po' di
ghiaccio che sembrava regnarle dentro.
«E approfitti di
ogni occasione per farlo?»
Stavano parlando di
ogni quanto si faceva un bicchierino mentre lui era lì,
pagato, per
fare sesso con lei. Non che fosse una cosa troppo strana, molte donne
lo cercavano per crearsi l'illusione per una sera di avere una
relazione appagante in cui un giovane uomo le trovava attraenti,
l'avevano portato a cene, ad eventi di beneficenza. Le donne
utilizzavano i gigolò in modo molto più sottile
ed emotivo di
quanto facessero gli uomini con le prostitute. Certo, questo non
voleva dire che non ci fossero le vecchie porcone, ma in generale il
sesso non era sempre l'obbiettivo finale, c'era più un
appagamento
personale. A volte lo facevano solo per sentirsi meno sole.
Ma lei lo faceva per
solitudine? Non sembrava il tipo, sì, era sola, ma sembrava
più una
scelta personale che una condizione imposta. Però, forse,
nonostante
non sembrasse così, si sentiva sola e basta, ed era molto
più
semplice di come aveva intuito.
Probabilmente era
solo una ragazzina viziata, ricca e maniaca del controllo.
«Sarebbe meglio se
tu non giudicassi così facilmente le persone, potresti
rimanere
deluso un giorno.» si limitò a ribattere
seccamente re-indossando
la sua maschera di imperturbabilità. Però
lasciò il proprio
bicchiere ancora mezzo pieno allontanandolo di poco con gesti
distratti delle dita.
Lo inchiodò con lo
sguardo e lui decise che erano già state dette troppe
parole, che
non avrebbe ceduto alle sue provocazioni né tantomeno
avrebbe
sprecato la nottata a cercare di inquadrarla quando lei faceva di
tutto per sfuggire da ogni definizione. Aggirò il bancone
con
lentezza, studiandole il viso per captare ogni minima reazione
potesse attraversarlo. Preferiva fare sesso con lei piuttosto che
stare dietro ai suoi tentativi di conversazione sconclusionati.
Lei rimase immobile,
seguendolo con lo sguardo, in guardia, come se si sentisse un animale
che stava per essere braccato.
Le si mise davanti,
era alta quanto lui appollaiata su quello sgabello che compensava la
trentina di centimetri di differenza che c'erano fra loro.
Le mise una mano fra
i capelli scostandoglieli, molto lentamente, e avvicinò il
viso al
suo per poi abbassarlo lentamente e posarle le labbra sul collo
depositandovi leggeri baci partendo dalla spalla lasciata per
metà
scoperta dal collo largo della t-shirt e risalendo pian piano.
«È parte del mio
lavoro, inquadrare le persone..» era arrivato a
metà collo, la
sentiva tremare leggermente sotto le sue labbra «..per capire
cosa
vogliono..» ora percorreva delicatamente la mandibola. Arrivo
fino
all'orecchio e poi si scostò per guardarla negli occhi.
«..e dare
loro ciò che davvero desiderano.» concluse in un
soffio, con un
tono caldo e roco. Lei gl'infilò di scatto le mani nei
capelli
dietro la nuca e fece cozzare le sue labbra contro le sue, con forza
e irruenza, forse voleva solo farlo stare zitto, o semplicemente la
sua offensiva l'aveva smossa. Le mise una mano sotto la maglia,
impaziente mentre lei gli accarezzava ogni pezzo di pelle che
riusciva a raggiungere allargando le gambe per farlo mettere in mezzo
e sentirlo più vicino.
E la terza volta fu
forte, appassionata, impaziente , senza lasciarsi respiro e con i
boxer non del tutto sfilati che gli circondavano le caviglie.
~*~
Quando
ebbero finito
lei rimase qualche istante appoggiata alla sua spalla col respiro
corto, ancora seduta su quello sgabello, con le unghie che quasi gli
affondavano nelle spalle e probabilmente avevano lasciato segni
rossastri.
Aveva ragione,
l'aveva capita. Era stato passionale, era stato forte. Era stato
sesso, puro e semplice e a quella definizione si aggrappava
beandovisi; nessun pensiero controverso, nessuna emozione in cui
affondare, era stato splendidamente fisico. E le
piaceva, come
si sentiva libera, sfrontata, priva di ogni inibizione mentre mentre
riprendeva fiato e lo allontanava con delicatezza, completamente
nuda, ma senza vergogna alzandosi in piedi con un leggero salto per
colmare la distanza fra i suoi piedi e il parquet. Non le importava
che fosse il primo uomo che la vedeva completamente nuda e non solo a
pezzi, non le importava che fosse l'unico ad esserle entrato
dentro, in modo così splendidamente fisico, e
averla guardata
negli occhi mentre veniva travolta dalle sensazioni che ogni sua
terminazione nervosa aveva sentito all'unisono come mai prima
d'allora.
Aveva fatto bene a
scegliere un professionista, ci sapeva fare, a quota tre orgasmi
raggiunti nei modi più disparati –ossì,
pensò deliziata, ci
sapeva fare eccome– si sentiva indolenzita e piacevolmente
leggera.
In pace.
La faceva sentire in
pace non essere amata e non dover amare per provare quella gran
soddisfazione che in molti dipingevano come il coronamento di quel
sentimento che tanto la ripugnava, rifletté mentre
raccoglieva la
maglia da terra e se la infilava con lentezza, indolenza. Lui intanto
si era tirato su i boxer e si era seduto sullo sgabello di fronte a
quello su cui avevano appena consumato il loro terzo amplesso.
«Penso tu ti sia
meritato un extra.» abbandonò un po' di quella
rigidità che la
contraddistingueva mentre allungava le braccia per stiracchiarsi.
«Sempre al suo
servizio mylady.» commentò lui facendole
l'occhiolino sorridendo
malizioso.
«Vado a prendere
una sigaretta.» annunciò lei facendo per
andarsene, salvo poi
voltarsi verso di lui.
«Se vuoi puoi
dormire nella stanza degli ospiti, ma non mi darebbe fastidio se tu
volessi fermarti nel mio letto.»
Non c'era nessuna
inflessione particolare nella sua voce, aveva detto addio alla
speranzosa Amy quella sera, o forse anche troppo tempo addietro per
ricordarsi come fosse davvero sperare in qualcosa ardentemente, era
un invito come un altro. Una considerazione.
«Solo se fai mezza
con me della sigaretta che stai per fumare.» le rispose
scendendo a
sua volta dallo sgabello, sembrava aver rinunciato a capirla e a lei
andava più che bene. Sarebbe stato più semplice
così conviverci
fino al mattino dopo.
Una tregua.
Fra di loro.
Con sé stessa.
Solo fino al
mattino.
Senza doversi
difendere, semplicemente dividere una sigaretta e dormire, senza
nessuna promessa di fiducia o impegno da parte sua che non fosse il
pagamento del lavoro, davvero ben svolto per la sua modesta se non
nulla esperienza.
«Okay, sta bene,
pensavo chiedessi un extra quindi mi è andata più
che bene.»
rispose facendo una smorfia che somigliava ad un sorriso, senza
dubbio un effetto postcoito.
«Penso che con
l'ultimo extra che mi hai promesso le bollette si pagheranno
egregiamente.» ribatté malizioso affiancandola
mentre si dirigevano
verso le scale.
«Hai così tanta
fiducia in te stesso?» storse il naso.
«Sono solo
pienamente conscio delle mie capacità.» sorrise di
rimando il
ragazzo, che sembrava così giovane,
chissà com'era finito a
fare quel lavoro.. i guadagni erano indiscutibilmente alti, su questo
non aveva dubbi, ma non riusciva ad immaginare come fosse finito ad
accontentare vecchie signore per lavoro. «Badi a non
sottovalutarle
lei, miss.»
Sembrava una
minaccia piena di ogni ammiccamento che più le sarebbe
piaciuto
inserirvi. Lo osservò, o meglio, lo studiò
interessata come non
aveva fatto da molto tempo; perdere tempo con le persone, a cercare
di capirle non era più cosa che le interessava, preferiva
farsi i
fatti propri e ignorare ogni essere umano che le gravitava attorno.
Era più semplice, più sano.
«Non le
sottovaluto, fidati di me.» ribatté con
nonchalance mentre
raggiungevano la porta della sua camera e lui gliela apriva in un
buffo gesto di galanteria.
«Prego.»
continuava a sorridere, sembrava facesse parte del pacchetto,
chissà
come doveva essere sorridere per lavoro, di sicuro a fine giornata
dovevano fargli davvero male le guance.
«Ma che gentile.»
ironizzò con un piccolo cenno del capo che doveva somigliare
ad un
velato ringraziamento mentre entrava e senza accertarsi che la
seguisse si avvicinò al letto per prendere una sigaretta. Si
distese
sentendo il materasso affondare accanto a sé e il suo calore.
Fumarono in
silenzio, ognuno perso nei propri pensieri passandosela con
naturalezza, una volta arrivata alla fine lei si gustò
l'ultimo tiro
ben consapevole che quella era l'ultima della giornata e segnava il
giusto confine fra veglia e sonno. Si sistemò sotto le
coperte e
voltò le spalle con tranquillità a Ian di cui
sentiva il calore
lambirla anche attraverso la piccola distanza che c'era fra loro.
«Buona notte.» il
suo respiro sul collo la fece rabbrividire dalla sorpresa come
scoprire che aveva colmato in fretta lo spazio fra loro stringendola
a sé. Era bello sentire il calore umano di qualcuno
avvolgerla,
senza nessuna pretesa assurda di un futuro assieme. Un rapporto del
genere l'avrebbe potuto anche sopportare. Sesso, sigaretta, sesso,
sigaretta e qualche chiacchiera priva di significato, addormentarsi
in un letto caldo poi la mattina dopo salutarsi e non avere il peso
di un'altra anima sulle spalle.
«Sì— anche a
te.» mormorò sovrappensiero mentre il torpore che
le avvolgeva il
corpo non ne voleva sapere di raggiungere anche il cervello. Forse il
fatto che non si fidasse di lui influiva non poco sul suo istintivo
senso di sopravvivenza che le diceva a chiare lettere di non chiudere
gli occhi accanto al pericolo. La differenza fra uomo e donna
–la
colpì quella riflessione prima di convincere del tutto
sé stessa di
zittirsi e riposarsi– era che all'uomo bastava il mero sesso,
la
donna voleva anche una borsa dell'acqua calda, se così si
poteva
definire, che le scaldasse il letto fino al mattino dopo.
Fece un ultimo
respiro profondo e finalmente si arrese al sonno accogliendolo come
un vecchio amico. Senza sogni, pacifico.
*Quando
senti il
mio calore, guarda nei miei occhi: è dove i miei demoni si
nascondono; non avvicinarti troppo, dentro di me c'è il
buio: è
dove i miei demoni si nascondono.
—Imagine
Dragons, “Demons"
note
dell'autrice:
questa parte è per i lettori coraggiosi che sono arrivati
fino a qua. Questa è la mia prima originale e ho una fifa
blu, ma questo non toglie che ce la sto mettendo tutta. Proprio per
questo ho aspettato il primo capitolo per aggiungere questa noticina a
piè pagina per chiedervi un parere sincero su ciò
che ho scritto e ringraziare le persone che già la seguono.
Mi incoraggiate a continuare con questo piccolo esperimento, sperando
che possa essere qualcosa di più.
With
love. :)
|
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Capitolo 3 *** #02 — THE DAY AFTER; Linee di Confine. ***
#O2
- THE DAY AFTER ;
Linee
di Confine .
"Il
povero cuore, mosso quaggiù
da qualche tempesta,
non
trova la vera pace
che dove non batte più."
─
Johann Gaudenz Von Salis-Seewis
Si
svegliò con una sensazione di caldo soffocante che quasi le
mozzava
il respiro, c'era qualcosa di sbagliato in quel calore che
l'avvolgeva. Quando provò a muoversi sentì che
col naso stava
sfiorando qualcosa: di colpo prese coscienza del suo corpo con
estrema chiarezza. Era accoccolata fra le braccia di qualcuno, un
uomo per essere precisa, che la teneva stretta a sé in modo
abbastanza inquietante per una che era abituata a dormire da sola. La
sera prima era vividamente impressa nella mente, niente serie di
flashback che la risvegliavano dalla beata incoscienza. Solo duri e
crudi fatti, e fanculo alle storielle rosa che raccontavano di
risvegli pacifici dopo un sonno immediato post-coito da sogno, come
se un orgasmo fosse una nuova marca di sonniferi.
Cercò
di districarsi da quella posizione piuttosto scomoda da cui riusciva
solo a vedere il petto dell'uomo che aveva pagato per deflorarla.
Messa così non è che suonasse tanto bene, a dire
il vero.
Più
si spostava più lui la stringeva a sé, ma
soffriva di crisi di
abbandono? Poggiò i palmi sul petto e fece leva per riuscire
finalmente a scostarlo da sé e respirare. Scivolò
piuttosto
goffamente fuori dalle coperte e zampettò ancor
più goffamente fino
al bagno e vi si chiuse dentro per riassestarsi mentalmente e
fisicamente.
Quando
uscì dal bagno lo trovò disteso mollemente nel
suo letto con gli
occhi spalancati e brillanti, troppo svegli per i suoi gusti, tanto
che le venne il dubbio che poco prima l'avesse fatto apposta a
trattenerla solo per farle dispetto mentre lei si contorceva come un
lombrico.
«Buon
giorno.» sorrise del tutto a suo agio, mentre lei cercava di
sembrare meno spaesata e più sicura di sé. Non
importava che
indossasse una maglia di un cartone animato che quasi le arrivava
alle ginocchia e avesse un nido di rondine al posto dei capelli, non
era quello a destabilizzarla, lui non era nessuno di cui le
interessasse il giudizio, ma quello sguardo.. quello sguardo la
inquietava.
«Buon
giorno.» rispose ritornando ad essere sé stessa e
chiudendo fuori
quella parte di lei che verso la fine della serata si era messa quasi
a scherzare con semplicità, la tregua era finita.
Il
sole entrava tenue attraverso le tende, probabilmente era l'alba, le
sette di mattina. Gli diede le spalle per frugare nel cassetto del
comò, tirandone fuori una
busta
in cui aveva messo i soldi ritirati pochi giorni prima dal conto che
si era aperta da quando si era trovata il primo piccolo lavoretto
quasi due anni prima. Prese gli ottocento già concordati
prendendo
qualche altra banconota per l'extra che gli aveva promesso; era
stranita dal fatto di essersi dimenticata la sera prima di dargli
l'anticipo e perché lui per primo non glieli aveva chiesti?
Faceva
anche questo parte del suo lavoro, far sembrare un rapporto di lavoro
una serata normale per far felici le signore sole? Ma lei non cercava
questo, ma il potere che derivava dal fatto di essere il cliente
pagante e non "l'amante”. Il potere di poter decidere, il
potere di essere sé
stessa senza essere rifiutata, il potere di cacciarlo via e farsi una
buona colazione. Richiuse il cassetto e si voltò
avvicinandosi con
disinvoltura a lui che era ancora lì fermo a studiarla con
estrema
attenzione, si era sentita quelle pozze blu addosso mentre contava i
soldi come adesso che glieli porgeva con tranquillità, come
se lo
facesse tutti i giorni.
«Ecco
qua, c'è anche l'anticipo che avrei dovuto darti ieri
sera.» voce
ferma e tranquilla che avrebbe fatto invidia al miglior giocatore di
poker. Bene Amelia, non hai perso smalto.
«Non
fa niente, basta che ci siano tutti.» alzò un
sopracciglio mentre
scorreva velocemente le banconote di grosso taglio controllando,
probabilmente, quanto era effettivamente l'extra. Sembrava
pensieroso, forse non ci contava troppo sulla sua liquidità
considerandola una ragazzina. Questo pensiero le fece venire un moto
di stizza, un prurito fastidioso. Odiava essere sottovalutata per la
propria età, come se un numero contasse qualcosa. C'erano
cinquantenni teste di cazzo cento volte più di lei.
«Ovviamente,
compreso l'extra.» chiarì pragmatica rimanendo in
piedi accanto al
letto.
«Ho
visto.» annuì mentre si metteva seduto e
scostò le coperte per
alzarsi. Evidentemente l'antifona l'aveva colta.“Le
puttane non vengono pagate per fare sesso, ma per andarsene.”
«È
ora che vada.» disse, come per chiarire il concetto.
«Sì,
perfetto, quando hai finito qua mi trovi di sotto.» gli diede
le
spalle e uscì dalla stanza recependo un
“okay” in risposta
quando era già sulla porta. Non aveva nulla da dirgli e
trovava
inutile starsene lì a guardarlo rivestirsi, ormai quello che
avevano
da dirsi –e farsi– era stato esaurito col sorgere
del sole. Uno
dei punti non contrattabili era che se ne andasse senza domande la
mattina dopo, lei intanto avrebbe fatto colazione, dato che sentiva
lo stomaco brontolare.
Si
era già versata il latte sui cereali ai frutti di bosco
quando lui
spuntò sulla porta perfettamente vestito e i capelli neri
spettinati.
«Io
vado, so dov'è la porta.» il tono di voce che
usò non le piacque
per niente, c'era una strana sfumatura all'interno, che non riusciva
ad identificare.
«È
stato un piacere fare affari con te.» aggiunse sempre fermo
sulla
soglia della cucina.
«Anche
per me.» rispose e un lampo di malizia gli
attraversò lo sguardo.
Lei annuì e basta, congedandolo così.
«Ciao.»
«Ciao.»
Quando
sentì la chiave girare e la porta aprirsi e chiudersi rimase
a
fissare i cereali che stava rimestando pensosamente nella tazza.
Quasi non le sembrava vero che fosse tutto lì, finita la
nottata
tornava alla sua vita quotidiana. Ripensò ai baci, ai morsi,
alle
carezze chiedendosi cosa ci fosse davvero qualcosa di importante in
quel gesto attorno a cui girava il mondo. Il sesso
–sì,
fisicamente travolgente, bello, forte e indimenticabile– ma
non
così necessario da non poter vivere senza, le sembrava.
Forse quei
pensieri derivavano solo dal fatto che era reduce da una notte
davvero piacevole e soddisfacente quindi –forse–
per un po'
sarebbe stata in riserva, di sicuro aveva fatto bene a cercare un
esperto, perché se avesse fatto affidamento su uno qualunque
sarebbe
stata ad una probabile quota zero soddisfazione, stanchissima e
impegnata in un'imbarazzata conversazione del mattino dopo in cui
avrebbe dovuto far attenzione a non distruggere il fragile ego del
malcapitato.
Non
si sentiva diversa, non sarebbe cambiato molto dalla mattina prima se
non avesse avuto quello strano dolorino al basso ventre e le membra
indolenzite dall'attività fisica, chissà
perché ne parlavano così
tanto, di perdere la verginità, come se fosse una tappa
importante e
magica, forse quando lo si faceva con amore era diverso, forse era
solo questione di mentalità.
Finì
i cereali e prese il cellulare per controllare l'ora, erano le otto e
mezza circa e lei doveva procurarsi ancora le ultime cose da inviare
con un corriere a sua madre in montagna; in realtà avrebbe
dovuto
raggiungerli lì per la vigilia, ma non aveva proprio voglia
di
festeggiare, quindi avrebbe mandato i suoi regali più quelli
che le
aveva lasciato detto di comprare per conto loro visto che erano per
lo più videogiochi non ancora usciti quand'erano partiti e
un paio
di libri. In realtà oltre a quello c'erano anche altre cose,
ma sua
madre era fissata sul fatto che i regali dovessero essere una
sorpresa e dato che suo fratello imbastiva 'la caccia al regalo' da
quando aveva cominciato a camminare ed ora aveva trovato un complice
in Francesco era diventata un'impresa nasconderli, dunque la
soluzione si era presentata quando Amelia aveva deciso di rimanere a
casa. Proprio quel giorno c'era l'uscita dell'ultimo libro
dell'autore preferito di sua madre –uno tutto romanticismo e
seghe
mentali, per usare un francesismo– che lei aveva sempre
snobbato,
ma a quanto pareva in libreria per il lancio del libro ci sarebbe
stato anche il genio della letteratura moderna che aveva partorito
quelle stronz– idee geniali e avrebbe potuto fare una fila
interminabile con delle sognatrici attempate e mariti disperati che
avevano avuto la sua stessa idea per farsi autografare la propria
copia e fare un gradito regalo alle loro dolci metà e
figlie.
Perlomeno sperava che questo l'avrebbe rabbonita una volta che le
avrebbe detto che non li avrebbe raggiunti al bungalow e perlomeno
via telefono non avrebbe potuto ucciderla. Forse.
Era
stata una mattinata lunga, la libreria era stata proprio come se
l'era immaginata: tediosa ed esasperante. L'autore era un bell'uomo
sulla quarantina che ammiccava ad ogni donna che gli si avvicinava
con occhi adoranti. Dov'erano finiti i poeti brutti e gobbi, belli
solo e solamente dentro? Probabilmente in uno scantinato buio e umido
a scrivere poesie deprimenti.
In
più l'aveva chiamata una sua compagna di classe che l'aveva
infastidita per più di mezz'ora con chiacchiere vuote su
quanto si
sarebbe divertita con loro quella sera in discoteca e che ci sarebbe
stato anche suo fratello maggiore con un paio di amici che facevano i
modelli di una linea di vestiario piuttosto famosa, difatti era stato
grazie a loro che erano stati invitati a quell'evento. Un po' per
noia, un po' per levarsela di torno aveva accettato frettolosamente
tagliando corto accampando una scusa; più le trattava male
più le
ronzavano intorno, era una cosa che non riusciva a comprendere, come
le persone potessero umiliarsi da sole in quel modo per persone a cui
non importava niente come lei. Dal canto suo si sarebbe già
mandata
a quel paese da sola.
Appena
rientrata era andata a dormire sentendosi letteralmente a pezzi, il
letto odorava ancora di sesso e c'era una piccola macchia di sangue
sulle lenzuola che lei aveva guardato perplessa per qualche istante
riflettendo sul fatto che l'unica prova che la notte prima era stata
reale era quello oltre al leggero dolore che persisteva nel basso
ventre. Così aveva tirato su le coperte ripromettendosi di
cambiare
il lenzuolo più tardi e crollando sul copriletto. Si era
svegliata
alle otto di sera, e ora aspettava in cucina mangiando una banana,
visto che era a digiuno dalla mattina e aveva intenzione di bere. Il
cellulare vibrò sul bancone, si alzò con calma,
buttò la buccia e
prese una chewingum dalla borsa, poi uscì chiudendosi la
porta alle
spalle. Ormai sembrava routine, uscire con gente per cui non provava
nessun interesse, ben vestita e truccata solo per interrompere la
noia. C'era un SUV nero esageratamente vistoso ad aspettarla davanti
al cancelletto con la musica talmente alta che la sentiva dall'altra
parte del vialetto di porfido, i vetri oscurati le impedivano di
vedere gli occupanti dell'auto, ma immaginava ci fossero i
fantomatici modelli, Elisa e suo fratello di cui dimenticava sempre
il nome. Mentre chiudeva il cancelletto dando la schiena al mostro
succhia benzina la portiera si aprì mostrandole un giovane
latino
sorridente.
«Sera
bellezza, la carrozza è qua che la aspetta.» le
disse senza nemmeno
scendere dall'auto guardandole il culo senza alcuna vergogna, in
tutta risposta Amelia lo studiò qualche istante in cui
decise che il
fisico poteva compensare la nocciolina che aveva al posto del
cervello.
«Spero
tu non sia il principe azzurro o rimarrei parecchio delusa.»
rispose
stampandosi in faccia il solito sorrisetto strafottente che
utilizzava spesso. Si sentirono delle risatine soffocate dall'interno
dell'auto.
«Piacere,
io sono Gabriel.» le tese la mano con un gran sorriso.
«Piacere.»
rimase sulle sue.
«Oh,
Amy, non puoi capire quanti fighi ci saranno questa sera!» la
investi con la sua voce acuta e ridacchiante Elisa non appena prese
posto sul sedile posteriore, mentre l'altra stava seduta davanti
assieme al fratello che dal posto di guida alzò gli occhi al
cielo
verso i passeggeri attraverso lo specchietto.
«Ciao
anche a te.. Oh, immagino.» commentò restia a
farsi coinvolgere in
quella conversazione inutile.
«Tu
vedi di controllarti stasera, va!» le intimò il
fratello tirando
fuori lo stereotipo del fratellone iperprotettivo che in assenza del
padre si sente in dovere di fare le sue veci. Sarebbe stato un arduo
compito considerando che la forza di gravità che esercitava
il buco
nero che aveva fra le gambe quella ragazza, attirava più
uccelli che
mutande, pensò senza curarsi di celare l'espressione
scettica; ma in
fondo chi era lei per giudicare, che solo quella mattina aveva pagato
un uomo per scoparla?
Intanto
il discorso era degenerato in uno scambio di battute di cui il succo
era che Elisa aveva diritto a farsi qualunque essere che respirasse
nel raggio di trecento metri, magari non detto così a chiare
lettere. Intanto i due ragazzi accanto a lei si intromettevano qua e
là a darle man forte, probabilmente per mero interesse
personale, in
fondo era bella e quasi sicuramente entro la fine della serata uno
dei due o entrambi sarebbero finiti nel bagno della discoteca con
lei. Amelia si estraniò dal discorso che non la interessava
minimamente e che sarebbe finito in battutine sessiste squallide e
frecciatine prendendo il cellulare: suo fratello le aveva scritto per
chiederle quando avrebbe detto alla madre che lei non li avrebbe
raggiunti per la Vigilia perché lo stava pressando fino al
limite
dell'esasperazione. Inarcò un sopracciglio e
passò oltre
controllando pigramente il resto. Niente di interessante, come al
solito. Non era timida, non lo era mai stata, si notava dalla postura
che assumeva seduta comodamente sui sedili posteriori circondata
dalle chiacchiere. Appariva come la classica snob che non pensava il
discorso potesse essere di un livello accettabile per lei.. il che in
parte era vero.
«Comunque
stasera ci divertiremo, vero Amy?» chiuse secca il discorso
Elisa
rivolgendosi a lei.
«Ma
certo, il fattore discoteca piena di modelli non è da
sottovalutare.» rispose accomodante infilandosi il cellulare
nella
tasca del giubbotto.
«Esatto,
poi il dj è quello bravissimo e fighissimo della festa delle
donne
dell'anno scorso.» le diede man forte la ragazza pensando di
aver
trovato un'alleata.
«Mhm,
sinceramente non è che fosse un
granché.» storse il naso pensando
alla corte esagerata che le aveva fatto facendole passare la voglia
di dargli anche solo una chance: sembrava il classico tipo colla, uno
di quelli che ti seguiva come un cagnolino fino a sfinirti e
togliendoti il tuo spazio vitale. E neanche un cane troppo fedele
dato che dopo il suo ennesimo secco rifiuto era andato a strofinarsi
contro la gamba di un'altra ragazza del loro gruppo, altrettanto
disgustata.
«Ma
cosa dici? Era meraviglioso, gli sbavavano dietro tutte!»
ribatté
concitata la ragazza con una vocetta acuta.
«Solo
perché una cosa piace non vuol dire che sia bella,
è più probabile
che la maggior parte della gente abbia cattivo gusto, basta vedere il
successo di certi fenomeni letterali.» rispose con estrema
calma
alzando le spalle.
«Spenta
Eli, nulla da fare.» ridacchiò il fratello mentre
la ragazza
arricciava le labbra infastidita.
«Hey,
non mi avevi detto che era così forte questa tua
amica.» commentò
il ragazzo ispanico.. di cui già aveva già
scordato il nome.
Elisa
incrociò le braccia e sbuffò. «Twilight
è una storia d'amore
meravigliosa e senza tempo.. e di solito non si dice che non
è bello
ciò che è bello, ma è bello
ciò che piace?»
Evidentemente
aveva colto subito l’allusione a quella saga con cui aveva
continuato a tormentarla in classe finché non era sbottata
dicendo
che non trovava nulla di romantico o addirittura attraente in uno
stalker possessivo fino all’ossessione e brillantinato.
Amelia
alzò gli occhi al cielo. «Solo che
“ciò che piace" nove
volte su dieci è dettato da gente senza gusto.»
«Ah,
ci rinuncio!» alzò le braccia la ragazza
infastidita più che mai,
in quel momento ebbe la netta sensazione di essersela inimicata. I
ragazzi sghignazzarono divertiti dal dibattito.
«Oggi
Amy ha il dente avvelenato, attenzione.» commentò
bonario il
guidatore mentre si immetteva in un parcheggio stracolmo di ragazzi
pompati e ragazze in tacchi alti e vestitini che lasciavano ben poco
all'immaginazione. Decisamente una festa di gran classe.
Okay,
forse un po' di malumore lo era.
«Madames
et Monsieurs, eccoci arrivati!» annunciò il
ragazzo.
«Luigi
fa poco il figo.» commentò uno dei suoi amici.
Luigi, ecco come si
chiamava!
Scesero
tutti dal macchinone e si godette quell'attimo di pace dalla musica
spacca timpani prima di entrare nel locale, il chiacchiericcio e le
risate della gente l'avvolsero assieme al freddo pungente che la fece
scuotere da un brivido involontario rendendola cosciente di ogni
centimetro di pelle scoperta delle sue gambe che erano proprio
troppi.
Elisa
si aggrappò al braccio del tipo che le aveva aperto la
portiera
sorridendo a trentadue denti pensando di aver fatto la genialata del
secolo ed infastidirla.
«È
strano che tu e mia sorella siate amiche, sembra che veniate da due
pianeti opposti.» la voce di Luigi che spuntò al
suo fianco quasi
la prese di sorpresa.
Amelia
distolse lo sguardo dalla ragazza e gli sorrise, con quel sorriso che
aveva imparato a fare per sembrare in pace con sé stessa, ma
che non
raggiungeva mai gli occhi.
«Siamo
più che altro delle conoscenti che però sono
finite in classe
assieme.. ed eccoci qua.»
«E
lei lo sa?» le chiese amichevole, come se non stessero
parlando di
sua sorella.
«Immagino
di sì, non sono esattamente quella che si dice una tipa
espansiva.»
rispose rilassata stringendosi nella giacca, cominciava a sentire
davvero freddo.
«Mhm..»
commentò lui pensieroso e raggiunsero gli altri.
Dopo
qualche chiacchiera inutile col buttafuori e altre ancor più
inutili
con i due modelli avevano finalmente raggiunto il loro tavolo ―anche
se chiamarlo così le sembrava un’esagerazione,
dato che nello
spazio angusto era poco più di un tavolinetto da
caffè― Amy era
sgusciata via buttando giù due shot di tequila e lanciandosi
immediatamente in pista, le dava noia starsene seduta costretta a
urlare per parlare di cose insulse. Era davvero acida quella sera,
pensò facendosi un'autoanalisi veloce, tutta la pace
post-coito era
svanita lasciando posto all'insoddisfazione e la stizza per ogni cosa
che provasse ad avvicinarsi. Forse era per questo che tutti tendevano
a scopare come conigli. La pista era invasa da gente con troppi
soldi, anoressiche e modelli pompatissimi, decisamente non era mai
stato il suo ambiente, considerando che aveva un fisico formoso e che
la palestra la vedeva una volta al mese quando aveva voglia di
sfogare il nervoso.
Si
limitò a trovarsi uno spazio e iniziare a ballare dopo aver
ingoiato
altri tre shots al bar, aveva bisogno di distrarsi.
Dopo
un po' di tempo sentì delle mani che le si poggiavano sui
fianchi e
qualcuno che le ballava alle spalle, continuò a muoversi
ignorandolo, quando sentì che il tizio le faceva leggermente
pressione per voltarsi verso di lui, fece una giravolta aggraziata
per quanto le permettessero i tacchi e si trovò davanti un
bel
ragazzo biondo con un sorriso bianco e dritto all'americana per
quanto le luci intermittenti le permettessero di notare. Gli
appoggiò
le mani al petto ballando vicinissimi, poi lui le si
avvicinò
all'orecchio per urlarle con un forte accento. «Hey bellezza,
sei
qua tutta sola?»
Classico,
aprivano bocca e perdevano ogni fascino.
Lei
gli sorrise poggiandogli le mani sulle labbra morbide facendogli
segno di no con la testa, meglio che stesse zitto se avesse voluto
arrivare al sodo. Lui sembrò apprezzare l'approccio tanto
che le si
appiccicò ancora di più addosso se mai fosse
stato possibile.
Era
tutto confuso, la musica, le luci e l'alcol stavano facendo il loro
corso, ma dell'ultimo ce n'era troppo poco in circolo per permetterle
di non pensare, evadere. Fece segno al bell'imbusto che voleva andare
al bar e dopo lottato non poco per districarsi da quelle braccia
nerborute si inoltrò fra la folla riconquistando il bancone
che
essendo sopraelevato le dava una buona visuale sia della pista che
dei tavoli. Elisa era sparita fra la folla e al loro erano rimasti i
ragazzi, che sui divanetti accanto a loro avevano portato due
ragazze, mentre uno di loro, da lì non distingueva quale,
stava
parlando con un ragazzo muovendosi un po' per fingere di ballare con
un bicchiere in mano.
Prese
il suo Mojito con pochi frutti di bosco e triplo rum e fece il giro
per raggiungere i ragazzi attraverso le scale rivestite di moquette
verde, scelta interessante, forse serviva per mascherare il vomito di
chi aveva alzato tropo il gomito.
«Hey
Amy, dov'eri scomparsa?» le urlò nell'orecchio
abbracciandola di
slancio il fratello di Elisa lasciandola interdetta. Era piuttosto
alticcio e aveva lasciato la ragazza con cui stava parlando sul
divanetto di sasso.
«A
ballare, di solito è questo che si fa in una
discoteca.» gli urlò
di rimando dandogli qualche colpetto sulla schiena non sapendo come
comportarsi.
«Noo,
sbagliato. Si beve e si rimorchia!» ridacchiò
divertito della sua
stessa battuta.. o almeno, probabilmente lui l'aveva intesa
così. La
rossa lanciò uno sguardo al ragazzo che le aveva aperto la
portiera
a inizio serata in cerca di aiuto.
Per
fortuna capì la situazione e urlando qualche
“amico andiamo a
sederci” e “sì ti voglio bene
anch'io” glielo scollò di dosso
piazzandolo sul divanetto di nuovo accanto alla ragazza tutt'altro
che acqua e sapone con cui parlava prima, rivolgendole di nuovo tutte
le sue attenzioni.
Lei
si guardò intorno e prese posto sul divanetto a debita
distanza
dalle coppiette bevendo il suo cocktail e riposando i piedi.
Non
era arrivata nemmeno a metà del bicchiere e già
sentiva più alcol
che sangue scorrerle nelle vene. Forse una banana era troppo poco per
essere considerata un pasto.
Quando
si alzò in piedi si ritrovò con piacere a
barcollare leggermente e
la testa svuotata.
«Andiamo
a ballare principessa?» uno degli amici del fratello di Elisa
–quello con cui non aveva nemmeno scambiato le
generalità base–
l'aveva sorretta, con un sorriso lei annuì. Era tutto
sbagliato ma
andava bene così.
Lo
seguì fra la calca, la mano grande che le avvolgeva il polso
sottile
e si lasciò guidare fino a che non trovarono abbastanza
spazio per
muoversi. Sentiva tutto ovattato dentro di sé, in netto
contrasto
con la musica e il corpo forte di lui che le si strusciava contro.
Gli aveva poggiato un braccio sulle spalle, passandogli ogni tanto le
mani fra i capelli sudati. Baciarsi con persone sconosciute in mezzo
ad altrettanti sconosciuti era una sensazione che l'aveva sempre
aiutata a fuggire da sé stessa, lasciarsi usare pur di non
dover
affrontare il fatto di avere paura di non essere abbastanza era
diventato persino facile, fino a che era diventata lei quella che
usava gli altri, per dimenticare, senza curarsi troppo di chi
fossero.
Qualche
discussione confusa e qualche canzone dopo erano finiti nel bagno, in
un cubicolo in cui lei che aveva avvolto le gambe attorno alla vita
del ragazzo schiacciata contro il muro.
Non
pensava, ma agiva e poi realizzava cosa stava facendo, le mani
correvano ovunque, carezzando qualunque cosa fosse a portata di mano.
Alla
ricerca di sempre di più, anche se non capiva se fosse
l'alcol a
volerlo o lei. Ad un tratto, troppo tardi, quando lei era
già seduta
sul ripiano del lavandino e lui aveva già infilato il
preservativo
si accorse che lei, per quanto si volesse convincere di sì,
non
voleva quello. La consapevolezza la colpì come un pugno allo
stomaco
mentre lui entrava dentro di lei senza tanti complimenti e le sbavava
sul collo. Come bloccata in un limbo, sentiva il proprio corpo
muoversi contro la propria volontà e seguire i movimenti del
ragazzo
resi goffi dall'alcol.
Era
così presa a voler dimostrare a sé stessa che lei
poteva vivere una
vita del genere da non riuscire a fermarsi a chiedersi se la volesse
davvero.
Non
era come voleva lei, lui era troppo affrettato, quel posto puzzava e
la musica rimbombava aldilà della porta. Era tutto
tremendamente
sbagliato e la sua testa non voleva saperne di sbloccarsi mentre
assisteva ai movimenti automatici del suo stesso corpo senza
intervenire. Durò tutto lo spazio di un attimo, lui
finì e si
accasciò su di lei tanto che il fastidio ebbe la meglio
portandola a
spostarselo di dosso.
Scese
con passo traballante e si sistemò meglio che
poté davanti allo
specchio mentre il tizio sembrava sul punto di collassare. Lei voleva
solo andarsene, mentre una parte di lei si chiedeva cosa ci fosse
sbagliato in quello che aveva appena fatto e l'altra cosa ci fosse di
sbagliato in lei e basta. Uscì dal bagno e si confuse fra la
folla,
desiderosa solo di aria. Lasciò distrattamente che le
timbrassero
l'interno del polso e uscì prendendo una lunga boccata
d'aria
gelida. Aveva lasciato la giacca nel guardaroba e si gelava, ma in
quel momento non le importava, mentre si spostava i capelli dalla
nuca sudata.
Prese
le sigarette dalla pochette, allontanandosi il più possibile
dai
gruppetti di ragazzi appena fuori dalla porta e se ne accese una, poi
prese il cellulare e ne illuminò lo schermo senza nemmeno
vederlo.
Si sentiva la testa annebbiata dall'alcol, divisa fra istanti di
lucidità e confusione. Doveva tornare a casa, rimanere
lì avrebbe
peggiorato solamente la sua sbornia portandola a risultati ben
peggiori di una sveltina malriuscita nel bagno. Chiamò un
taxi e
spense la sigaretta rientrando, per prendere la giacca.
Arrivata
a casa buttò i tacchi in un angolo dell'entrata e si diresse
veloce
al letto, spogliandosi dal vestitino corto. Quando appoggiò
la testa
sul cuscino sentì avvolgerla un profumo estraneo e un paio
di occhi
blu le apparvero dietro le palpebre chiuse mentre tutto girava.
Quanto tempo deve passare prima che una presenza sparisca dal tuo
letto? E dalla tua vita? C'è forse un tempo base che bisogna
sopportare prima di poter dimenticare? Pensieri da ubriaca che non
l'avrebbero portata da nessuna parte– Però forse
il gigolò poteva
rendersi utile per risolvere uno dei suoi problemi.
Se
lui era l'unico modo per soddisfare le sua smania di controllo
–rifletté mentre il sonno calava su di
lei– poteva essere una
valida alternativa all'esito disastroso di quella serata.
Si
alzò di scatto ancora barcollante e decise che doveva
cambiare le
federe, le lenzuola, tutto; cacciare via quei pensieri molesti e il
suo odore, tutti gli odori che le erano rimasti attaccati alla pelle.
Goffamente tirò le coperte fino a lasciare solo il
materasso,
buttando cuscini lenzuola e coperte in un ammasso confuso per terra.
Poi si spogliò del tutto per buttarsi dritta in doccia,
incurante
del fatto che fosse ancora truccata e che il mondo girasse davvero
troppo velocemente intorno a lei. Quando si sentì abbastanza
pulita
uscì avvolgendosi in un asciugamano e un breve sguardo al
casino che
c'era per terra e al materasso le fecero capire che non avrebbe avuto
la forza di rifare il letto per bene. Quindi raccolse un cuscino e il
plaid da terra e si buttò sul letto. Il profumo di Ian, quel
profumo
di nebbia e agrumi ancora persisteva e l 'avvolse mentre finalmente
si lasciava andare.
Come
ogni volta che beveva la mattina dopo si svegliò presto e
con un mal
di testa lancinante che le trapassava le tempie. I ricordi non
abbastanza confusi della sera prima vennero presto scacciati mentre,
dopo essersi messa una maglia e delle mutande, si trascinava
giù
dalle scale per andare a prendere un antidolorifico e un
caffè. Dopo
aver buttato giù il medicinale prese il cellulare,
controllando i
messaggi distrattamente mentre accendeva la macchinetta del
caffè.
Ovviamente Elisa le aveva scritto chiedendole dove fosse finita,
l'avevano anche chiamata un paio di volte, notò. Si affretto
a
rispondere dicendo che era troppo ubriaca e aveva preso un taxi,
sicura che comunque l'avrebbe letto nel tardo pomeriggio svegliandosi
in una condizione peggiore della sua. Poggiò con un sospiro
l'apparecchio sul ripiano della cucina per farsi il caffè,
cercando
di non pensare a niente.
In
realtà il suo cervello continuava imperterrito a riportarla
senza
pietà sui ragionamenti della notte prima, l'unica cosa a cui
non
voleva pensare. Si accorse che ancora prima di potersi fermare si era
ritrovata a paragonare il ragazzo della sera prima con Ian, senza
poterci fare nulla. E non capiva.
Forse,
anzi sicuramente, era per il solo fatto che se il primo era stato
“bravo” il secondo aveva fatto schifo. Solo per
quello. Non c'era
stata chimica. Si appoggiò all'isola della cucina con la
tazza
fumante fra le mani fissando il liquido nero.
La
verità era che aveva perso il controllo e quello l'aveva
bloccata.
Semplicemente non era riuscita ad accontentarsi e ogni cosa che aveva
fatto quel ragazzo le era sembrata terribilmente sbagliata
perché
non era lei a tenere le redini del gioco.
La
dura verità era che lei aveva bisogno di avere il controllo
di ogni
minima cosa le si avvicinasse, perché non poteva permettersi
di
perderlo. Lei aveva bisogno di qualcosa di certo, di un punto fermo.
Lei
aveva bisogno di certezze e nessun rapporto occasionale glie
l'avrebbe date. Non erano le certezze che ogni ragazza cercava, lei
non voleva avere la certezza che ci sarebbe stato qualcuno con lei,
lei non voleva la certezza di essere amata. No, lei voleva la
certezza che poi quella persona se ne sarebbe andata, che come lei
non si sarebbe affezionata a lui anch'esso avrebbe fatto lo stesso.
Lei voleva delle linee di confine che nessuno avrebbe osato valicare.
Aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse costantemente chi era.
Un'anima morta, un cuore vuoto.
Aveva
bisogno di qualcuno che non invadesse la sua solitudine, ma che la
soddisfacesse.
L'idea
della notte prima tornò a balenarle in mente.
Lasciò la tazza
ancora intatta e andò a riprendere il cellulare, scorrendo
veloce la
rubrica, decise per un messaggio dato l'orario e con un leggero
tremore della mano lo inviò.
“Devo farti una proposta.”
Un
trillo la fece sobbalzare, possibile che fosse già sveglio a
quell'ora? Che avesse già risposto?
“Scommetto
che sarà interessante come la prima. Colazione?”
note: duuuunque,
voi non avete idea di quanto mi abbia resa felice veder crescere la
gente che segue questa storia, sul serio. You make me smile.
La storia con questo capitolo comincia a prendere piede, insomma,
è una cosa molto sperimentale e spero che la trama non sia
troppo strana per voi e che si capisca cosa voglio trasmettere. Grazie
mille a chi segue, recensisce e preferisce.
Alla prossima.
With love. :)
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Capitolo 4 *** #03 — DEAL WITH IT ; Calore e Neve. ***
#03
– DEAL WITH IT ;
Calore
e Neve.
“Esiste
un solo modo di essere felice grazie al cuore: non averlo.”
─
Paul
Bourget
Era
arrivata da poco vicino al bar concordato —che era un luogo
completamente diverso da quello del loro primo incontro, niente di
esoso, un semplice baretto come puoi trovarne a milioni per le
strade— eppure ora era bloccata, poco distante dalla vetrina
dimodochè se lui fosse già arrivato almeno non
l'avrebbe vista.
Mentre si dava una sistemata e si vestiva non ci aveva pensato poi
molto e nemmeno durante il viaggio in autobus che l'aveva portata fin
lì. Ecco qual'era il problema: non aveva pensato. Aveva
semplicemente agito d'istinto, come d'istinto ancor prima aveva
mandato quello stupido messaggio seguendo quell'idea strampalata che
le era balzata in testa.
La
cosa che davvero la teneva bloccate i suoi stivali imbottiti alla
neve che ricopriva il marciapiede era il fatto che se una volta
qualunque decisione l'aveva presa così, su due piedi, senza
pensarci
troppo e seguendo l'istinto ora lei non era più
così, non aveva più
quei lampi di genio che spesso la portavano a stravolgersi la vita
dal nulla. Era cambiata, era diventata più indifferente,
ferma.
Eppure
era lì, ormai da cinque minuti buoni, a fissare la porta del
bar. E
doveva decidere in fretta perché sia che lui fosse arrivato
prima di
lei che decidesse che non valeva più la pena aspettarla o
che stesse
arrivando in quel momento l'avrebbe trovata lì impalata come
una
cogliona.
Fu
un attimo e di nuovo l'istinto prese il sopravvento su di lei, fece
un passo dopo l'altro e aprì la porta immergendosi
nell'ambiente
caldo che profumava di caffè e brioche mentre una voce
rassicurante
nella sua testa le diceva che in fondo aveva lei il controllo e si
sarebbe potuta tirare indietro in qualsiasi momento.
Si
guardò per un attimo intorno, cercandolo con lo sguardo
finché non
lo vide che parlava con la barista con un sorriso birichino e i
capelli spettinati ad un tavolino all'angolo. Si prese un attimo per
studiarlo approfittando del fatto che non l'avesse ancora notata.
Sotto la luce tenue di quella mattinata nuvolosa assumeva dei colori
totalmente diversi, ma rimaneva comunque bello, nel modo di muoversi,
come piegava la testa leggermente di lato mentre sorrideva alla
ragazza che sembrava parecchio lusingata dalle sue attenzioni.
Indossava un maglione morbido e piuttosto largo in una fantasia
improponibile alla Bill Cosby e riusciva comunque a farlo sembrare
bello, dannazione.
Probabilmente
nemmeno l'avrebbe riconosciuta, in quella mise, avvolta in un
maglione larghissimo di lana doppia, coperto da un chiodo
più grande
di qualche taglia, il viso affondato in una sciarpa enorme arrotolata
più volte intorno al collo, dei jeans scoloriti e gli hug
lunghi
fino al ginocchio. Il confronto con le altre due volte in cui si
erano visti —lei vestita bene, con i tacchi che non la
facevano
sembrare così irrimediabilmente bassa come in
realtà era e i bei
vestiti attillati— era d'obbligo. In fondo l'aveva vista
anche
nuda, quindi il problema non si poneva in realtà.
Prima
che potesse notarla lì impalata —di nuovo, ma che
le prendeva?—
si diresse verso di lui, proprio in quel momento la vide e le rivolse
un sorriso smagliante.
«Eccoti
finalmente.»
«Era
lei che aspettavi allora?» gli chiese la ragazza mentre le
lanciava
un'occhiata per studiarla. Non sembrava per niente infastidita dal
fatto che li avesse interrotti.
«Esatto,
è lei.» confermò con
semplicità Ian senza fare una piega mentre
Amelia si sedeva di fronte a lui e poggiava la borsa sulla sedia
accanto.
«Allora
sai già cosa vuoi?» le rivolse un sorriso
smagliante la bionda.
Come faceva la gente ad essere così di buon'umore a
quell'ora del
mattino? Beh, forse non era reduce da una sbronza.
«Mhm,
sì.» annui mentre tirava giù la zip
della giacca di pelle
imbottita. «Un cappuccino e una brioche alla marmellata,
grazie.»
La
barista non sembrò infastidita dal suo tono ermetico e
nemmeno dal
fatto che sembrava l'unica a rendersi conto che a quell'ora di
mattina non era umanamente possibile essere così sorridenti
senza
farsi venire una paresi facciale.
«Brutta
nottata?» le chiese il ragazzo non appena la bionda non si fu
allontanata.
«Movimentata.»
borbotto mentre si sfilava il cappellino di lana e cercava di
riavviarsi i capelli impossibili che si era ritrovata al risveglio,
monito del perché non si dovrebbe mai andare a letto con i
capelli
bagnati e annodati. Dopo qualche tentativo di pettinarli quella
mattina si era arresa e si era semplicemente fatta una treccia che
ora le ricadeva sulla spalla.
«Ti
offendi se ti dico che si vede?» sorrise lui poggiando i
gomiti sul
tavolo e intrecciando le mani sotto il mento, mentre la fissava
allegramente.
«Evidentemente
tu hai avuto una nottata più felice della mia.»
decise di
soprassedere buttando il discorso su di lui, nonostante non fosse poi
così sicura di voler sapere cosa
esattamente avesse fatto.
«A
giudicare dalla tua faccia non credo che ci voglia poi molto, ma in
ogni caso sì, è stata una serata decisamente.. soddisfacente.»
la famigliarità con cui le parlava la lasciò un
po' interdetta o
forse era solo il suo evidente buon'umore mischiato ai doppi sensi
che non cercava di velare minimante. Si ritrovò a pensare di
nuovo
che fosse senza pudore o vergogna di alcun tipo. In quel momento
arrivò la ragazza portando le loro ordinazioni, salvandola
dal dover
rispondere.
«Ecco
qua, mi stupisco sempre di come tu faccia a mangiare tutta questa
roba e rimanere in forma.» sorrise la bionda poggiando sul
tavolo
tre brioche, una ciambella e due cappuccini.
«Attività
fisica Beth, suppongo.» evidentemente era
un'abituè di quel posto
notò mentre osservava silenziosa il loro scambio di battute.
Era
vero che non voleva sapere troppo di lui, ma allo stesso tempo voleva
studiarlo e in parte capirlo. Comprendere con che persona avrebbe
avuto a che fare, se “l'affare” fosse andato in
porto
La
ragazza si allontanò mentre Amelia toglieva i lati esterni
della
brioche. Ricordava come le sue amiche quando facevano colazione
assieme la prendessero in giro perché la sezionava
così e le sembrò
un tempo così remoto da stordirla.
«Allora,
devo ammettere che il messaggio di questa mattina mi ha
incuriosito.»
interruppe le sue elucubrazioni facendole alzare lo sguardo per
incontrare quegli occhi blu che la studiavano quanto lei studiava
lui. Stavano entrambi prendendo le misure dell'altro, cercando di
capire cos'avesse in mente, di carpirne le intenzioni, i pensieri.
A
dire il vero aveva sorpreso anche lei, ma quello non poteva dirlo,
era ancora restia a scoprirsi con lui, quindi decise di prenderla
alla larga.
«Mi
dispiace deluderti, ma quando ti spiegherò che cosa intendo
proporti
non la troverai così strana.»
«Anche
solo il fatto che tu mi abbia cercato ancora lo è, non ti
facevo una
tipa da bis.» disse con semplicità mentre
intingeva la prima
brioche nel cappuccino. Ad un secondo sguardo notò che erano
entrambe al cioccolato.
«Forse
è vero, ma credo che non lo troverai un patto
svantaggioso.» fece
un'alzata di spalle mentre dava un morso alla propria brioche attenta
a non far cadere la marmellata bollente. Dovette mordersi la lingua
per non imprecare mentre si sentiva il palato ustionato. Lui
probabilmente lo intuì lo stesso dalla smorfia che fece e
non poté
trattenersi dal fare quella che risultò una risatina
trattenuta, una
specie di singhiozzo attutito anche dal fatto che aveva la bocca
piena.
«Attenta,
sono appena uscite dal forno.»
«Comunque,»
lo fulminò con un'occhiataccia che si discostava un po'
troppo dal
suo carattere ormai indolente pulendosi la bocca con un fazzolettino.
«comunque la proposta è questa: quando ho
bisogno— dei tuoi
servizi ti
chiamo, tu
rispondi e poi te ne vai. Niente domande o intromissioni nella mia
vita privata. In pratica stessi termini dell'altra volta, solamente
che non devi rimanere per la notte.»
Lui
si prese del tempo per finire quel che rimaneva della prima brioche
al cioccolato in silenzio, senza staccarle gli occhi di dosso.
«Ti
sbagliavi, è interessante.»
«Va
bene e quindi?» tagliò corto sbrigativa,
cominciava ad averne
abbastanza di quel suo atteggiamento. Sembrava quasi che volesse non
troppo velatamente prenderla in giro con qualunque parola uscisse da
quelle labbra.
«E
quindi accetto, ma non posso garantire la mia reperibilità
sempre,
non avrei solo te come cliente.» prese la seconda brioche
mentre lei
aveva avvolto le mani fredde attorno alla tazza bollente e ne beveva
un sorso.
«Comprensibile,
io ti ho semplicemente esposto, per così dire, le linee
guida.»
fece un altro sorso sentendo la schiuma del latte che le sporcava il
naso. Poggiò la tazza sotto lo sguardo vigile del suo
interlocutore
e si ripulì in fretta prima che lui potesse fare ulteriori
battutine. «E va anche pattuito un prezzo.»
«Ovviamente.»
fece una smorfia come se quella fosse una questione di minima
importanza, se gestiva così i suoi affari si stupiva del
fatto che
potesse anche solo permettersi quella colazione. «Ma
piuttosto—»
lasciò la frase in sospeso facendole inarcare un
sopracciglio come
un silenzioso interrogativo.
«Piuttosto?»
si ritrovò ad incalzarlo quando capì che non
voleva smetterla di
masticare con tutta calma e continuare la frase.
«Piuttosto..
perché questa, come dire, scelta?»
domandò mentre con il
cucchiaino prendeva quel che rimaneva della schiuma del latte nella
sua tazza e la mangiava, probabilmente per non sporcarsi come aveva
fatto lei poco prima.
«In
che senso?» finse di non capire dove voleva andare a parare.
Seppur
minima, quella intromissione nella sua vita e nelle sue motivazioni
la infastidiva, aveva fatto quella scelta proprio per non dover dare
spiegazioni superflue. Per mantenere il controllo, per poter
tracciare le sue linee di confine certa che l'altra parte le avrebbe
rispettate.
«Bhe,
non mi sembri una ragazza che non riesce a trovare neanche uno
straccio di esemplare dell'altro sesso disposto a fare sesso con lei.
Se poi è senza conseguenze..» fece un'alzata di
spalle.
«Preferisco
fare a modo mio, le persone sono impegnative. Tutto qua.»
rispose
dura per poi riprovare a dare un morso alla sua brioche che nel
frattempo si era raffreddata.
«Tutto
qui?» insistette.
«Tutto
qui.» se voleva sentirsi fare dei complimenti oppure la
tragica
storia della sua vita aveva sbagliato persona.
Calò
il silenzio mentre lei finiva la sua colazione e lui rigirava
pigramente il cucchiaino nella tazza di fronte a lui, osservandola.
La fissava di continuo, aveva il brutto vizio di non distogliere lo
sguardo neanche per un istante, come se fosse capace di leggerle i
pensieri che le frullavano nella testa. Quegli occhi blu
così
profondi erano la cosa che l'aveva davvero colpita, risvegliando uno
strano fastidio alla bocca dello stomaco, come una stretta. Ricordava
molto il panico.
«Va
bene.» spezzò il silenzio riappoggiando la tazza
vuota sul piattino
con un leggero tintinnio.
«Va
bene?» domandò un po' interdetta con la propria di
tazza a
mezz'aria, visto che l'aveva colta nell'atto di bere quello che
rimaneva del suo caffè.
«Ci
sto, per i prezzi decideremo in seguito.» le sorrise
tranquillo e
lei si accorse in quel momento che aveva tenuto le spalle in tensione
per tutto il colloquio, quando finalmente riuscì a rilassare
i
muscoli indolenziti.
«Perfetto.»
appoggiò anche lei la tazza senza distogliere lo sguardo, in
quella
lotta non intendeva perdere. «I patti sono chiari, solo
sesso,
niente fronzoli, moine o finzioni. Io faccio la mia vita e tu la tua
e nessuno dei due dovrà fingere di interessarsi a quella
dell'altro.»
«Mi
sembra giusto, mi faciliti il lavoro così.» annui
tranquillo mentre
tirava fuori il portafogli e appoggiava una banconota sul tavolo,
annunciando che il colloquio era terminato e così la loro colazione
di lavoro. Le sembrava un buon inizio, pensò,
tirando fuori
anche lei una banconota da cinque euro e poggiando la sua parte su
quella di lui. Poi si alzò per prima, infilandosi la giacca
con la
cuffia di lana in una mano e la borsa appesa al gomito.
«Arrivederci.»
salutò senza tanti preamboli mentre lui rimaneva ancora
seduto
prendendosela con calma.
«Alla
prossima, allora, donna di ghiaccio.»
Lei
ignorò quell'ultima affermazione e uscì come se
niente fosse. In
fondo anche se era fastidioso il suo lavoro lo sapeva fare e si
sarebbe assicurata che i loro dialoghi d'ora in avanti si sarebbero
limitati allo stretto necessario.
~*~
Ian
osservò vagamente divertito la sua schiena sparire dalla sua
visuale, pensando a quanto quella ragazza fosse strana comincio a
mangiare la ciambella. Non era una di quelle sentimentali che dopo
una scopata di dichiarano amore eterno, quello l'aveva capito subito,
eppure era tornata. Per qualche arcano motivo aveva deciso che la
loro collaborazione lavorativa sarebbe diventata una specie di
contratto a chiamata. Sorrise tra sé e sé per
l'analogia.
«Hey,
che hai da sorridere?» Beth si era seduta al posto che poco
prima
aveva occupato la rossa e ora lo osservava attenta, con quel suo
sguardo sempre solare e aperto.
«Niente,
riflettevo su quanto le persone siano strane.»
allargò il sorriso a
suo beneficio.
«Non
dirmi che ora frequenti quello stoccafisso, era così rigida
che
sembrava un ciocco di legno.» lo prese in giro bonariamente.
«Hai
proprio ragione.» rise sommessamente, senza perdere
quell'aria
pensosa.
«Deve
averti proprio colpito se ti corrucci così.»
«È
sicuramente una persona interessante, quello sì, ma non
preoccuparti, io ti aspetterò per sempre.» riprese
la sua aria
giocosa scacciando la strana ragazza dal cuore di ghiaccio dai suoi
pensieri.
«Se
continui a dirlo potrei prenderti sul serio.» gli fece
l'occhiolino
mentre entrambi si alzavano e lui cominciava a coprirsi per
affrontare il gelo esterno. La città era quasi del tutto
ricoperta
di neve, un po' sporcata dai passanti e dalle macchine un po' bianca
e intoccata sulle aiuole e sui tetti.
«Io
ci spero sempre, ma tu non mi credi.»
«Dovresti
smetterla di dire così perché se non
inizierò io a prenderti sul
serio lo farà di sicuro Mike.» lo
ammonì bonariamente la ragazza
tornando dietro al bancone.
«Allora
mi batterò per la tua mano.» assunse un'aria
semi-seria che la fece
scoppiare a ridere.
«E
moriresti nel giro di cinque secondi.»
«Probabile.»
si unì alla sua risata stranendo gli altri clienti del bar,
i pochi
mattinieri che avevano sfidato il freddo.
~*~
«Mamma
insomma, te lo ripeto, non è successo nulla, sto bene, solo
non mi
va di fare un viaggio per festeggiare una festa di cui non
m'interessa.»
Quella
conversazione ormai andava avanti da dieci minuti buoni ripetendo
sempre le solite tre frasi, quella tiritera cominciava a stancarla.
Alla fine suo fratello –quello smidollato – aveva
ceduto
spifferando a loro madre che non li avrebbe raggiunti per la Vigilia
come aveva promesso. E lei che aveva sperato di poter chiamare
all'ultimo momento così nessuno avrebbe potuto farci nulla,
magari
usando la neve come scusa.
Ora
sua madre straparlava dall'altra parte della cornetta e nonostante il
segnale fosse disturbato riusciva a capire perfettamente le parole
"famiglia, feste, i miei figli, cuore, madre" etcetera,
etcetera...
Insomma,
cercava di farla sentire in colpa sperando in un ripensamento.
«Non
sarei comunque di compagnia e poi sai che la montagna non mi
è mai
piaciuta particolarmente.»
«Ma
amore questo che c'entra? Io ti voglio qui anche se dovessi tenere il
broncio per tutto il tempo.» la voce di sua madre in questi
casi
assumeva sempre un'inflessione infantile, tanto che sembrava facesse
solo i capricci. In realtà lei capiva i suoi sentimenti, ma
non
poteva fare a meno di isolarsi, soprattutto durante le feste in cui
si supponeva avrebbe dovuto essere gioiosa.
«Lo
so mamma, lo so.» sospirò lasciandosi cadere sul
divano e
passandosi una mano fra i capelli in cui cominciava a spuntare la
ricrescita castana.
«E
allora perché non ci raggiungi? Sei ancora in tempo
sai?» la voce
si era fatta terribilmente triste. Sentì una di quelle rare
fitte
allo stomaco che la lasciavano solo più spossata e vuota del
solito.
«No
mamma, mi dispiace.» il sospiro dall'altra parte fece intuire
che
anche quella battaglia era vinta.
«Sai
che non mi piace che siamo divisi.. ma almeno parla con Francesco e
spiegalo anche a lui che non è colpa sua.»
«Si
prende troppe responsabilità, passamelo.»
«Okay,
ciao tesoro–» un breve silenzio dall'altra parte
del telefono poi
di nuovo la voce di sua madre dopo quella breve esitazione.
«Ti
voglio bene.»
«Sì.»
Non
è che non volesse essere una figlia migliore, che non
volesse
renderla felice, ma proprio non ci riusciva. Quei momenti di
intimità
famigliare la bloccavano come un cane randagio messo alle strette e
finiva sempre per dire qualcosa di spiacevole, oppure, come in quella
situazione, semplicemente bloccarsi e non riuscire a partire. Avrebbe
voluto davvero renderla felice, il problema era che non le importava
abbastanza.
Passò
qualche altro minuto per convincere il compagno della madre che la
sua assenza non era nulla di grave e che non aveva niente a che fare
con la nuova situazione famigliare. Anche dopo tutto quel tempo lui
si sentiva ancora un intruso e si preoccupava dei suoi sentimenti
molto più di quanto suo padre avesse mai fatto. Era un
brav'uomo.
Dopo
essere riuscita a calmare gli animi si era semplicemente stesa sul
divano nel soggiorno su cui ormai era calato il buio senza riuscire a
pensare a nulla. Non aveva sonno, era stanca in un altro modo. Si
coprì con la coperta di lana e si voltò verso la
finestra, le cui
pesanti tende erano rimaste aperte. Nonostante il riscaldamento fosse
acceso sentiva tanto freddo da tremare. Forse non veniva da fuori
dopotutto, il freddo, quali erano state le parole di commiato di
quello strano uomo?
“Arrivederci,
donna di ghiaccio.”
Già,
forse aveva ragione, forse dopotutto il freddo veniva da dentro.
Continuò ad osservare vacuamente lo scorcio di paesaggio
attraverso
la finestra, mentre pian piano prendeva sonno.
Aveva
ricominciato a nevicare.
Si
risvegliò in piena notte, con ancora il cellulare stretto
fra le
mani e ci mise un po' per rendersi conto di dove si trovasse. La neve
cadeva fitta ricoprendo qualunque cosa in un biancore che rifletteva
la luce dei lampione in modo irreale. Guardò l'ora con gli
occhi
ancora appannati dal sonno mentre si metteva seduta e la coperta di
lana scivolava per terra. Si ritrovò a pensare se fosse
troppo tardi
per chiamare il suo nuovo “impiegato" oppure addirittura
troppo presto. Era stanca, ma non sarebbe più riuscita a
riaddormentarsi, mentre il freddo ricominciava a tormentarla
facendole venire i brividi.
Optò
per un messaggio, se fosse stato ancora sveglio le avrebbe risposto,
altrimenti avrebbe fatto a meno di lui per quella sera. Non
è che ne
sentisse proprio il bisogno, solo che doveva riempire
quell'infinità
di tempo in qualche modo e lui era stata la prima distrazione a cui
aveva pensato.
Il
cellulare le vibrò fra le mani.
“Posso
essere lì fra un'oretta."
Rispose
con un semplice okay, poi si alzò lasciando l'apparecchio
sul divano
per accendere il fuoco. Forse un po' di freddo così se ne
sarebbe
andato, pensò, mentre accendeva i ciocchi.
Se
ne stava per terra accoccolata vicino al caminetto, avvolta nella
coperta di lana, quando il campanello finalmente suonò.
Controvoglia
si alzò, chiedendosi se fosse stata davvero una buona idea
chiamarlo.
«Al
suo servizio Milady, lei chiama, io accorro.» la
salutò troppo
allegramente il ragazzo, lei in tutta risposta si limitò a
farlo
entrare in fretta chiudendogli la porta alle spalle.
«Immagino
che di solito funzioni così. » ribatté
atona.
«Circa.»
si spettino i capelli distrattamente in cui i fiocchi di neve
cominciavano a sciogliersi. «Fa un caldo d'inferno qua
dentro.»
«Allora
spogliati.» le uscì dalle labbra in tutta
risposta, senza pensarci
troppo. Era stanca di parlare, stanca di tutto. Aveva solo bisogno di
una pausa da tutto quel rumore.
«Come
siamo frettolose stasera.» la studiò attentamente
con quelle pozze
d'oceano mentre si toglieva la giacca e l'appoggiava
all'attaccapanni. Quegli occhi le davano quasi più fastidio
di tutte
le parole messe assieme, la facevano sentire una cavia da
laboratorio.
Lo
afferrò per il collo del maglione e lo attirò a
sé per baciarlo,
doveva farlo smettere. Tutto quel freddo, quel rumore, i sensi di
colpa che non ne volevano sapere di arrivare e che la tormentavano
con la loro assenza sotto forma dell'eco delle voci dei suoi
famigliari. Nonostante Amy non ci fosse più, la sua eco
continuava a
tormentarla, come un'ombra.
Lui
rispose al suo bacio ubbidiente stringendola a sé dopo un
breve
istante di attonita sorpresa.
Le
sue labbra erano calde, nonostante fosse appena arrivato
dall'esterno. Così le sue mani che erano scivolate in fretta
sotto
il maglione di lana mentre indietreggiavano goffamente verso il
soggiorno. Prima ancora che avessero raggiunto il divano lei gli
aveva sfilato velocemente il maglione, lasciandosi spogliare con la
stessa fretta. Desiderava rubargli tutto quel calore, sentirselo
addosso su ogni centimetro della pelle, fino a che non le fosse
entrato dentro, fino alle ossa. Voleva un po' di quel calore per
sé,
per fermare quei tremiti, quel freddo che la faceva sentire come una
marionetta nelle mani capricciose della vita.
Che
enorme sciocca era stata, pensò prima di lasciarsi andare
del tutto,
a pensare di poter colmare la sua distanza dalla realtà con
la
vicinanza fisica. In fondo con lei non aveva mai funzionato.
Ma
per un po' di calore, solo per un'altra volta, forse poteva mentire
un'ultima volta a sé stessa. Solo per quell'ultima volta.
Fu
tutto tanto travolgente tanto catastroficamente breve. Si
ritrovò
senza fiato, fra le braccia di quell'uomo –mentre cercava di
evitarne lo sguardo tenendo gli occhi ben chiusi– a chiedersi
quanto ci avrebbe messo il gelo a tornare.
Sentì
la pelle del divano scricchiolare mentre lui si spostava. E il freddo
puntualmente ricominciò a strisciarle addosso alla pelle
imperlata
di sudore, nelle vene dove un cuore che non conosceva disgelo lo
pompava inesorabile. In silenzio riaprì gli occhi e sempre
evitando
di guardarlo mentre recuperò della carta e la coperta di
lana e ci
si avvolse dentro, scossa da un brivido involontario mentre sentiva
la lana ruvida sulla pelle.
«Hai
freddo?» la sua voce ora un po' più roca la
raggiunse come se
provenisse da un altro mondo.
«Sì.»
rispose senza nessuna inflessione nella voce continuando a dargli le
spalle, in piedi vicino al fuoco che scoppiettava allegramente.
«È
per questo che la casa sembra una sauna?» anche se non lo
vedeva in
faccia percepì con un certo distacco l'inflessione della
voce che
denotava pura e semplice curiosità.
Scrollò
le spalle senza aggiungere altro, mentre continuava a fissare le
fiamme.
Lo
sentì muoversi alle sue spalle, mentre i suoi passi felpati
lasciavano la stanza. Era quasi divertente quanto poco le importasse
che un estraneo girasse per casa sua come se niente fosse.
Quando
tornò sentì la sua presenza ingombrante alle sue
spalle, se solo si
fosse chinato un po' più in avanti avrebbe potuto sfiorarla.
«Sigaretta?»
si spostò al suo fianco facendole finalmente sollevare la
testa per
incontrare il suo sguardo. Sembrava estremamente tranquillo,
pacifico.
Annuì
e lui ne tirò fuori una dal pacchetto di Lucky Strike che
teneva fra
le mani e gliela infilò gentilmente fra le labbra secche e
spaccate.
Poi glie l'accese con uno Zippo che si rimise in tasca. Solo in quel
momento notò che si era rimesso i pantaloni e ora se ne
stava a
piedi nudi a accanto a lei.
«Sono
le mie?» si stupì di quanto sembrasse priva di
ogni tonalità la
sua voce, come quella semplice frase le graffiasse la gola come carta
vetrata.
«Mi
ricordavo dove tenevi le tue scorte.» scrollò con
semplicità le
spalle facendola annuire di nuovo. Le sfilò dalle labbra la
sigaretta e fece un tiro lungo, per poi scrollare la cenere nel
caminetto. Poi gliela rimise fra le labbra, come se fosse la cosa
più
normale del mondo, quella strana intimità ovattata che si
era creata
fra di loro.
«Quanto
ti devo?» distolse finalmente lo sguardo facendo uscire una
mano dal
bozzolo in cui era avvolta per prendere fra le dita la Lucky dopo
aver fatto un lungo tiro.
«Non
mi aspettavo di risentirti così presto.»
ribatté lui spostandosi
per appoggiarsi al muro accanto al caminetto, osservandola con le
braccia incrociate sul petto nudo.
«Avevi
altri programmi per stasera?» chiese guardandolo senza
vederlo
davvero, quella era davvero una serata strana, la portava troppo
indietro per poterla gestire.
«No
davvero, lo dicevo solo perché mi hai sorpreso.»
fece un mezzo
sorriso che lei notò appena.
«Bene
allora, quanto ti devo?» voleva solo che se ne andasse e la
lasciasse sola, potersi riaddormentare.
«Ti
manderò un messaggio con i dettagli domani, ora non ho
voglia di
fare i conti.» si scostò dalla parete con un
piccolo scatto andando
a raccattare i suoi vestiti sparsi per la stanza.
«Se
a te va bene così.» si sedette sul divano, sempre
avvolta nella
coperta, facendo cadere la cenere in un vaso lì accanto.
Continuava
ad osservarlo senza vederlo davvero, mentre come un fantasma si
muoveva per il suo soggiorno silenziosamente e si rivestiva. La neve
fuori continuava a cadere inesorabile, sotto un lampione vide un'auto
che prima non c'era parcheggiata vicino al suo cancelletto.
Probabilmente era quella di Ian.
«Bene,
io vado.» la riscosse a voce alta. Spense la sigaretta
spingendo il
mozzicone nella terra del vaso e si alzò anche lei.
«Ti
accompagno alla porta.» si sentiva intontita, come se stesse
galleggiando in un mondo fatto di fiocchi di neve che la
raggiungevano ovunque sciogliendosi in mille gocce fredde
scivolandole su ogni centimetro del suo corpo. Si chiese a cosa fosse
servito chiamarlo solo per mostrarsi in quello stato quando non aveva
che agito come palliativo per qualche istante.
Quando
aprirono la porta l'aria gelida dell'esterno la investì con
violenza, mentre il sapore dell'aria invernale le invadeva la bocca
ad ogni respiro.
«Buona
notte.» le lanciò un'occhiata strana fermo sulla
soglia. Amelia si
limitò ad annuire rispondendo con un “Anche a te"
distratto,
per poi chiudere la porta ancora prima che lui le avesse voltato le
spalle. Ora tremava più di prima, sentiva il sudore freddo
scivolarle lungo la schiena mentre raccoglieva da terra le mutande e
il maglione e li indossava.
Si
accovacciò di nuovo accanto al fuoco in posizione fetale
mentre la
testa cominciava a vorticarle pericolosamente facendo sembrare
persino il terreno instabile.
Si
risvegliò con la testa pesante come dopo una brutta sbornia
con una
musichetta fastidiosa le trapanava le meningi.
Mugugnò
infastidita mettendosi seduta a fatica, sentiva ogni muscolo dolerle,
forse perché si era addormentata per terra. Finalmente
quella
suoneria fastidiosa smise dandole un po' di pace, si
stropicciò gli
occhi mentre apriva e chiudeva la bocca impastata. Stava giusto
pensando che doveva farsi forza e raggiungere la cucina per bere
quando quel rumore infernale ricominciò. Si
guardò intorno confusa
rendendosi conto che era la suoneria del suo cellulare, quindi si
trascinò fino al divano per prendere quell'apparecchio e
rispondere
senza nemmeno guardare il chiamante. Solo sua madre poteva essere
così insistente.
«Ma’
stavo dormendo, sono ancora viva, quindi ti prego, sii
breve.»
borbottò con voce impastata appoggiandosi coi gomiti e il
mento alla
seduta del divano.
«Sei
sicura di essere ancora viva? La tua voce sembra venire
dall'oltretomba.»
La
voce dall'altra parte della cornetta la lasciò spiazzata,
tanto che
spostò dall'orecchio il telefono per guardare lo schermo
attonita.
«Hey,
sei morta davvero?» la voce maschile uscì dalla
cornetta
ricordandole che lui era ancora in linea. Senza pensarci due volte
chiuse la chiamata con decisione, irritata. Come faceva ad essere
sveglio a quell'ora? E perché la chiamava all'alba, non
aveva niente
di meglio da fare?
Da
fuori veniva una luce tenue che illuminava a malapena il soggiorno,
la neve aveva smesso di cadere, ma non prima di aver ricoperto con
uno spesso strato tutto.
Si
alzò a fatica e nonostante l'avesse fatto con calma ci
mancò poco
che non barcollasse per un calo di pressione che le annebbiò
la
vista per qualche istante. Era messa peggio di quello che credeva,
pensò rabbrividendo mentre ancora avvolta nella coperta si
avviava
verso la cucina.
Poggiò
il cellulare finalmente silenzioso sul ripiano e si versò un
bicchiere d'acqua fresca di frigo poi si mise a rovistare nei
cassetti. Sua madre aveva la pessima abitudine di mettere le cose in
un ordine tutto suo, infatti, se non ricordava male, il termometro
doveva essere assieme a penne e graffette da qualche parte in un
cassetto della cucina.
Mentre
aspettava che il termometro emettesse la sua sentenza in parte
già
ovvia si ritrovò a scivolare per terra, con solo uno strato
di lana
fra lei e il pavimento gelido. Il suo bip elettronico e ripetuto si
sovrappose alla suoneria del telefono che continuava a tormentarla.
Faticosamente si rimise in piedi e rispose a quell'uomo
fastidiosamente insistente, mentre con la mano che teneva la coperta
stringeva anche il termometro.
«Capisco
che tu ci tenga ad essere pagato, ma sappi che non ho in programma di
scappare in Uruguai all'alba solo per non pagare un debito, quindi
potresti evitare di essere così insistente?» era
sempre stata una
pessima malata, ed era rimasta sorprendentemente una delle poche cose
che non era affatto cambiata.
«Alba?»
domandò Ian dall'altro capo del telefono, probabilmente
attonito
dall'aggressione verbale.
«Sì
e sappi che chiamare le tue clienti prima ancora che i galli si
sveglino non è una buona strategia di marketing.»
ribatté acida
gettando un'occhiata al display del termometro: 38.5.
«Merda.»
borbottò contrariata fra sé e sé
sperando di averla perlomeno
attaccata a quello scassapalle.
«E
da quando il sole sorge alle cinque di sera scusa?» sembrava
stesse
trattenendo una risata e nemmeno tanto bene, il che la fece
innervosire ancora di più.
«Da
mai.»
«Per
l'appunto, hai dormito fino ad adesso?» le domandò
sempre più
divertito. Lanciò un'occhiata al microonde dove in effetti
l'orologio segnava le 17:14.
«Sì,
allora che volevi?» cambiò discorso in fretta
infastidita dal fatto
di non poterla avere vinta contro quell'idiota che si divertiva a
spese del suo malumore. «Se vuoi i soldi dimmi la cifra e ti
faccio
un versamento sul tuo conto adesso.»
«Preferirei
averli in contanti, in ogni caso non avevo chiamato per questo, non
ho dubbi sulla tua liquidità e poi so dove abiti.»
l'ultima parte
della frase doveva essere una sorta di battuta a giudicare dal suo
tono spensierato, ma non la fece ridere, anzi.
«Parli
come uno strozzino.»
«Ci
siamo svegliati con la luna storta, eh?»
«Come
mi sono svegliata è affar mio, che volevi allora?»
tagliò corto
mentre si trascinava di nuovo sul divano con una bottiglia d'acqua
sotto il braccio.
«Niente
è che ieri notte–» il suo tono da
giocoso si fece improvvisamente
serio. «ieri notte non sembravi star bene.»
«Sto
da Dio, tranquillo, il tuo reddito fisso è salvo.»
rispose brusca
mentre il suo corpo si ribellava a quella affermazione provocandole
qualche colpo di tosse.
«Hai
la tosse di un ottantenne asmatico, fumi troppo.» quel tono
serio,
quella preoccupazione la lasciarono basita.
«Sto
benissimo grazie.» si trattenne dal mandarlo a fanculo
infondendo
più veleno possibile in quelle tre parole. Non sapeva
nemmeno perché
si tratteneva a dire il vero, come se importasse cosa ne pensava di
lei. «Se ora abbiamo finito con la chiacchierata cuore
a—»
trattenne un altro di colpo a stento. «cuore
io—» Ma
evidentemente il suo corpo non la pensava come lei sulla questione
dignità. Così scoppiò in un eccesso di
tosse tanto che l'unica
cosa che poté fare fu allontanare il telefono
finché non riprese
respiro.
«Sì,
hai ragione, stai proprio una favola.» lo sentì
dire in tono di
rimprovero una volta riavvicinato l'apparecchio all'orecchio.
«Esatto,
quindi ciao.» chiuse la chiamata per poi accovacciarsi scossa
dai
brividi in un angolo del divano poggiando una guancia contro la
bottiglia gelata sperando che l'inferno la inghiottisse presto.
Almeno
si spiegavano le riflessioni deliranti della sera prima e il suo
comportamento strano. E con questo pensiero si consolò
riaddormentandosi senza nemmeno accorgersene.
note
dell'autrice: che è molto contrita, lo giuro.
So che è passato molto tempo da quando pubblicai questa
storia e molte cose sono cambiate, ma la mia voglia di scrivere no. E
quindi eccomi qua, dopo aver superato insidie e pc rotti, rieccomi
all'attacco con questo capitolo che in realtà è
stato scritto molto tempo fa, come molti altri che seguiranno presto.
Il discorso è il solito, qualunque parere, seppur educato,
sarebbe una manna dal cielo. Devo crescere ed imparare ancora molto,
quindi mi affido a voi.
Grazie a chi leggerà, anche dopo così tanto e ai
nuovi arrivati. :)
|
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Capitolo 5 *** #04 – NIGHT THOUGHTS ; Consciamente ed Inconsciamente. ***
#04
– NIGHT THOUGHTS ;
Consciamente
ed Inconsciamente.
“L'amore
e il denaro sono come quelle persone che fingono di non conoscersi e
che si incontrano di continuo ad appuntamenti segreti.”
─
Abel
Bonnard
Quando
si svegliò per la secondo a volta era ancora più
confusa della
volta precedente, le era parso di sentir chiamare il proprio nome
nonostante fosse sola in casa.
Si
tirò su stancamente, sentendo che la testa pesante le
intimava di
tornarsene a dormire. Stava riflettendo di obbedirle quando
sentì
bussare alla porta e poi aprirsi. Merda, si era dimenticata di
chiuderla a chiave quando quell'uomo era andato via e ora era
arrivato un ladro a finire quello che l'influenza aveva iniziato. Si
buttò precipitosamente a terra facendo cadere la bottiglia
di
plastica e trascinando con se la coperta per affermare l'attizzatoio
appoggiato vicino al focolare.
Così
la trovò Ian, con le gambe ancora per metà
intrappolate dalla lana
arrotolata seduta in mezzo al soggiorno che gli puntava contro non
troppo minacciosamente l'attizzatoio. Gli scappò una risata
mentre
lei lo fissava stralunata.
«Non
pensavo che mi sarei divertito tanto con te.»
l'apostrofò gioviale
accennando qualche passo verso di lei, ma fermandosi immediatamente
quando lei agitò l'attizzatoio a mo' di avvertimento.
«Che
cazzo ci fai qua?!» ringhiò mentre lui inarcava un
sopracciglio
stupito.
«Al
telefono sembravi in fin di vita e devi esserlo se ti sei dimenticata
di chiudere a chiave una casa come questa.» fece un ampio
gesto del
braccio. «Ora potresti mettere giù quel
coso?» aggiunse in tono
gentile, quasi condiscendente.
«Non
hai ancora spiegato che ci fai a casa mia nel mezzo della
notte.»
non accenno a cedere nemmeno di un millimetro, se lui aveva come
hobby il furto con scasso e aveva individuato in lei una preda facile
si era sbagliato. Per quanto in quel momento, ne era cosciente, non
rappresentava una reale minaccia.
«Sono
qua per empatia, sai quel sentimento che gli esseri umani provano
ogni tanto?» il suo sarcasmo non l'aiutava a fidarsi di
sicuro.
«Oh
quindi ti dispiace per la ragazzina ricca e sola che ne sta a casa
con la febbre? Perché non vai a fare volontariato alla
Caritas
piuttosto?» cominciava a sentire le forze abbandonarle il
braccio
che tendeva l'asta di ferro, tanto che cominciò quasi a
tremare. O
forse era per il freddo.
«Va
bene, dopo ci andrò, ora devo fare volontariato ad una
cocciuta
ragazzina che sembra uno zombie.» le rispose in tono morbido
avvicinandosi lentamente. Se non fosse stata così debole
avrebbe
resistito di più, non sentiva il bisogno di essere accudita
e tanto
meno si fidava di quell'individuo, ma le mancavano le forze. Quindi
optò per affrontare la morte a testa alta.
«Sappi
che non mi fido di te.» borbottò mentre le sfilava
di mano
l'attizzatoio e lo rimetteva al suo posto dietro di lei.
«Ci
mancherebbe.» sorrise lui accovacciato di fronte a lei.
«Ora ce la
fai a tornare sul divano mentre vado a vedere se in cucina hai
qualcosa di commestibile da farti mangiare?»
«Non
sono un'invalida.» lo fulminò con lo sguardo
facendolo solo
ridacchiare mentre si rialzava e se ne andava nella stanza accanto.
Lo seguì con lo sguardo fino a che non sparì
oltre la soglia per
poi strisciare miseramente di nuovo al suo angolo sul divano che
aveva occupato e scaldato fino a poco prima.
Prese
le sigarette che miracolosamente erano rimaste appoggiate sull'altro
lato del sofà, ma si rese conto solamente quando ne aveva
già una
fra le labbra che non aveva l'accendino. Un mugolio di disappunto le
uscì istintivamente dalle labbra perdendo quel poco di
orgoglio che
le era rimasto dopo aver strisciato per tutto il pavimento del
salotto. E lui arrivò puntualmente sulla soglia a
ricordarglielo.
«Che
succede?» aveva la fronte corrugata, gli occhi blu sembravano
più
scuri del solito forse grazie al maglione blu scuro quasi dello
stesso colore che indossava quella sera.
«Niente.»
mugugnò con ancora la sigaretta fra le labbra. Non voleva il
suo
aiuto, ma un accendino. Lui invece di andarsene dopo quella risposta
rimase ad osservarla e poi scoppio a ridere.
«Ho
capito, ho capito.» le si avvicinò tirando fuori
qualcosa dalla
tasca, per un attimo lei si irrigidì pensando che fosse un
coltellino o qualcosa del genere e che stesse per ucciderla non
appena aveva abbassato la guardia.
Invece
tirò fuori lo stesso zippo della sera prima e lo fece
scattare
accendendoglielo davanti.
«Ecco
e non fare quella faccia, sembra che ti aspetti che stia per
ucciderti da un momento all'altro.»
«Appunto.»
tirò ha boccata mentre lui poggiava l'accendino accanto a
lei.
«Te
lo lascio, ma non dovresti fumare troppo.» scosse la testa
sorvolando sul suo ultimo commento mentre lei scoppiava in un eccesso
di tosse. «Appunto.» le fece il verso, per poi
sparire di nuovo
chissà dove per la casa.
Incupita
lei se ne rimase a tossire e fumare come un ottantenne testardo
mentre guardava fuori dalla finestra. Quando il divano
cominciò a
vibrare sobbalzo tanto che della cenere cadde per terra. Maledicendo
la tecnologia e la batteria del suo cellulare che durava davvero
troppo per essere di ultima generazione.
Vedere
che era suo fratello a chiamarla migliorò un po' il suo
malumore.
«Hey.»
salutò tirando su con il naso, decisamente non era il modo
migliore
per sembrare in salute.
«Sera
splendore, sapevo che eri ancora sveglia, raffreddore
natalizio?» di
sottofondo alla voce del fratello sentiva della musica, forse dei
Pink Floyd e qualche voce che chiacchierava e rideva.
«Come
al solito, tu che combini?» rispose passandosi una mano fra i
capelli annodati.
«Che
resti fra noi, ma abbiamo invitato due ragazze al bungalow stasera,
quindi tutto alla grande.» la frase era stata pronunciata in
un
sussurro cospiratore.
«Aha,
cerca solo di non farti beccare da mamma, sai come la pensa sul
rapporto fra il sesso e i suoi figli. Sarebbe meglio che ti beccasse
con una bong alta quanto te.» lo ammonì fra un
colpo di tosse e
l'altro mentre spegneva la sigaretta nel vaso accanto a lei. Sua
madre non sarebbe stata contenta nemmeno di questo.
«Oh
non preoccuparti.» dalla risata sonora che seguì
quella frase intuì
che con molta probabilità se non la bong, l'erba c'era di
sicuro. Si
strinse la base del naso fra l'indice e il pollice chiudendo gli
occhi mentre le tempie cominciavano a pulsare.
«No,
figurati.» mormorò tranquilla.
«Perchè mi avevi chiamata,
comunque?»
«Ah,
vero! Ecco io—»
«Possibile
che nella tua cucina l'unica cosa che si possa trovare sono solo
tisane e cibi precotti dalla dubbia provenienza?» Ian aveva
davvero
un'aria scandalizzata, affacciato sulla soglia del soggiorno, aveva
rimboccato le maniche del maglione fino ai gomiti e teneva in mano
una barattolo di tisana alle alghe o qualcosa di simile e nell'altra
del dado liofilizzato.
«Ma
chi c'è lì con te?» Amelia non fece in
tempo a reagire che già
stava ridendo farneticando di relazioni e altre stronzate che si
confondevano in uno schiamazzare di galline. Alzò la mano
col palmo
rivolto verso l'uomo che ne stava ancora sulla soglia osservandola,
sembrava divertirsi a spiarla mentre parlava al telefono con la sua
famiglia. Prima con sua madre, poi con suo fratello.
«Non
è nessuno, sto guardando la TV. Sono malata, te lo
ricordi?» questo
non lo calmò, anzi si smise a schiamazzare più di
prima. Lo salutò
velocemente mentre farneticava di infermierini o cose del genere,
mettendo fine a quella tortura e si assicurò di spegnere
quell'aggeggio infernale. Stava davvero diventando un ottantenne
inacidito.
«Dicevamo?»
si voltò verso Ian che si era appoggiato allo stipite con le
braccia
incrociate.
«Di
quanto è vuota della tua dispensa.» sembrava
divertito dalla balla
che aveva raccontato al telefono, probabilmente pensava che fosse una
ragazzina. E in fondo, per certi sensi lo era.
«Non
faccio io la spesa.» scrollò le spalle.
«E se fossi in te lascerei
stare quella tisana, fa schifo.»
Era
stato uno dei tanti esperimenti falliti di sua madre, che adorava
provare a cucinare cose strane ed esotiche di cui un buon terzo
venivano bocciate al primo assaggio e messe in fondo alla dispensa
nella speranza che venissero in qualche modo inglobate da essa
sparendo per sempre dalla faccia della terra. Ovviamente ciò
non
accadeva mai, quindi il risultato era che quando mancava da troppo
tempo loro si ritrovavano con la dispensa dolorosamente piena di
schifezze immangiabili.
«La
colf si è licenziata?» la punzecchiò.
«Una
cosa del genere.» si rifiutava di parlare della sua famiglia
con
lui, aveva già oltrepassato ampiamente i limiti anche solo
essendo
lì senza essere stato chiamato, non l'avrebbe fatto scavare
nel suo
scarno ambito affettivo più del necessario.
«Capisco,
quindi dovremmo arrangiarci con quello che c'è.»
sorrise mentre
apriva il barattolo che teneva ancora in mano annusandone il
contenuto con aria sospettosa. «E buttare questa cosa prima
che ti
aggredisca nel sonno.»
«Senti,»
cominciò cercando di mettersi dritta in modo abbastanza
fluido, la
testa che pulsava e ora aveva ricominciato a girare non aiutava.
«io
apprezzo davvero quello che stai facendo–»
«No,
non è vero, lo odi, ma sei sola in questa enorme casa con un
febbrone da cavallo e io sono un gentiluomo.» la interruppe
rapidamente facendola sbuffare. E lei che aveva cercato di essere
diplomatica!
«È
vero, mi da fastidio quindi tu e il tuo galateo contorto siete
pregati di uscire da casa mia.» buttò alle ortiche
i buoni
propositi mentre con una mano si appoggiava al bracciolo del divano
cercando di rimanere in piedi senza barcollare come una moribonda.
«Mi
dispiace, ma non lo farò, mia madre non ne sarebbe per
niente
contenta se non dessi sfoggio della mia ottima educazione.»
appoggiò
quello che teneva in mano sulla poltrona accanto a lei e senza
lasciarle il tempo di protestare la rimise a sedere. Era invadente,
troppo. «Quindi ora tu te ne stai qua seduta e io ti faccio
un bel
brodino.»
«Mi
chiedo cosa ne penserebbe tua madre del mestiere che fai.»
gli
rispose acidamente mentre inerme veniva imbacuccata di nuovo nella
coperta di lana.
«Oh,
ne sarebbe assolutamente disgustata, ora sta buona e assumi tanti
liquidi.» continuò a sorridere chinato su di lei
dopo averla
sistemata, con quegli occhi blu allucinanti che scintillavano di
divertimento. Rimase per un attimo confusa a ricambiare lo sguardo,
poi –facendole provare un notevole disappunto che ricondusse
alla
febbre– scostò per primo lo sguardo posandolo sul
vaso accanto a
lei aggrottando la fronte. «E smettila di uccidere quella
povera
pianta, ti porto un posacenere.»
Dopodiché
si rimise dritto e si diresse verso la cucina senza che lei riuscisse
a proferir parola. Come diavolo ci era finita con la febbre e tutto
il corpo dolorante a farsi fare da balia dall'uomo che pagava per
fare sesso per non avere nessun rapporto umano? C'era qualcosa che
suonava completamente sbagliato.
Correva
veloce, voleva urlargli di fermarsi, ma non aveva più fiato.
Alzò
una mano per raggiungerlo—
«Amelia?»
sentì una voce calda chiamarla salvandola dall'incubo che
cominciava
già svanire, si ricordava a malapena che stava rincorrendo
qualcuno,
l'unico strascico era il fiato corto e il braccio teso coi muscoli in
tensione, come se fosse stato pronto a scattare.
«Amelia.»
questa volta il tono era più deciso, meno titubante, ma
aveva sempre
una sfumatura così— non avrebbe saputo come
definirla se non
calda, sembrava sciogliere i sudori freddi che le correvano lungo la
schiena facendola rabbrividire. Aprì piano gli occhi gonfi,
la luce
glieli fece bruciare.
«Quanto
ho dormito?» domando con voce impastata mentre se li sfregava
e
sentiva quel che rimaneva del trucco del giorno prima sbavarsi ancor
più di prima. Doveva sembrare un panda che aveva fatto a
botte con
un rinoceronte.
«Un'oretta,
tranquilla.» quando ricominciò a mettere a fuoco
vide il viso di
Ian vicinissimo al suo.
«E
tu che ci fai ancora qui?» nonostante la frase in
sé sarebbe potuta
sembrare brusca, ma il filo di voce sfinita con cui la
pronunciò la
addolcì, era talmente a pezzi che non aveva la forza di
prendersela
con nessuno.
Lui
alzò semplicemente gli occhi al cielo e mormorò:
«Ti ho fatto il
brodo, ma credo di averci messo un po' troppa pastina.»
Sembrava
vagamente imbarazzo mentre le si sedeva accanto con un vassoio che
aveva trovato chissà dove sulla gambe.
«Va
bene così, mi piace.» sussurrò quasi
senza voce, poi prese lo
scottex che aveva appoggiato accanto al piatto e si soffio il naso
dandogli la schiena.
«Sembri
peggiorare ogni minuto di più, ho guardato un po' in giro,
ma non
hai nessun medicinale che vada bene.» si sistemò
meglio
avvicinandosele e poggiandole con delicatezza il vassoio sulle gambe
mentre lei tirava fuori a fatica le braccia dalla bozzolo in cui
l'aveva avvolta prima.
«Non
ne abbiamo.» prese la prima cucchiaiata con la mano tremante
facendo
attenzione a non rovesciare nulla.
«Almeno
hai provato la febbre?» corrugò la fronte senza
indagare oltre,
ormai aveva smesso di rimproverare le sue esigue scorte, a quanto
pareva.
«Sì.»
ingoiare era una tortura, sentiva a malapena i sapori. Esagerava
sempre quando era malata, se ne rendeva conto anche lei quando
guariva, ma quando era in quello stato si sentiva in punto di morte
dal primo starnuto.
«Quando?»
la esortò quando si rese conto che non avrebbe detto altro.
«Quando
eravamo al telefono credo.»
«Dovresti
riprovarla.»
Il
suo tono di rimprovero, la sua presenza accanto a lei, il suo calore
che sentiva assurdamente anche attraverso i vestiti la facevano
sentire a disagio. Appoggiò il cucchiaio nel piatto
lentamente e
alzò lo sguardo verso di lui.
«Ora
che hai soddisfatto le aspettative di tua madre puoi
andartene.»
doveva suonare come una domanda, ma sembrò più un
invito a levarsi
brevemente fuori dalle palle e lei non si corresse.
«Eh?»
domandò stupito inclinando leggermente la testa di lato
mentre
sbatteva e ciglia scure un paio di volte.
«Ora
che mi aiutato soddisfacendo il tuo ego col ruolo di cavaliere dalla
scintillante armatura, non sarebbe ora di tornartene alla tua
vita?»
provò a spiegarsi rimanendo sempre più sulle sue.
«Se
pensi questo, ti sbagli di grosso.» si alzò in
piedi innervosito.
Lei
non disse nulla e semplicemente lo fissò con quella che
sperava
sembrasse indifferenza e non solo uno sguardo vacuo di una bambola di
porcellana rotta.
«Sei
davvero la ragazzina più impossibile con cui abbia mai avuto
a che
fare.» si arrese per primo e prese la porta sotto lo sguardo
vigile
della ragazza. Non un saluto o una parola in più da parte di
nessuno
dei due. Sentì la porta richiudersi e dopo qualche altra
cucchiaiata
si arrese poggiando il vassoio per terra accanto a sé e
sdraiandosi
priva di forze per riaffondare nei suoi incubi senza nessuna speranza
di poter essere di nuovo salvata.
Quando
si svegliò di nuovo si accorse che si era agitata tanto nel
sonno
che la coperta a malapena le copriva le gambe. Abbassò il
braccio
teso, ultimo rimasuglio dell'incubo e si mise a sedere mentre il
caldo la soffocava. La febbre doveva essere scesa, perché
man mano
che si diradava la nebbia nella sua testa dovuta alla sonnolenza
tornava più lucida di prima di addormentarsi.
Gli
occhi vagarono per la stanza che odorava di chiuso e si soffermarono
sul tavolino, vicino alla pianta dal cui vaso erano stati tolti i
mozziconi di sigarette e messi nel posacenere preso dalla sua camera.
C'era ancora il vassoio col piatto di minestra ormai fredda ai piedi
del divano. Tutte tracce del suo passaggio in quella casa e del fatto
che si era preso cura di lei.
Si
alzò di malavoglia per andare ad abbassare il riscaldamento
trascinando per terra distrattamente la coperta da cui caddero degli
oggetti con un tonfo attutito dal tappeto spesso.
Abbassò
lo sguardo titubante, indecisa se abbassarsi rischiando un calo di
pressione o lasciare tutto lì per terra quando lo vide
proprio ai
suoi piedi: il suo accendino. Si chinò lentamente per
raccoglierlo,
assieme alle sigarette e il cellulare trovandosi a fissarlo
stolidamente.
Troppe
tracce di lui, come impronte sulla neve fresca che le ricordavano
quei momenti confusi. Lui si era preso cura di lei e la cosa la
disgustava.
Che
fosse stato per autocompiacimento, pietà o pura e semplice empatia,
come aveva dichiarato lui, non le importava, la sola idea di essere
sembrata vulnerabile davanti a qualcuno era qualcosa di
inaccettabile. Anche perché nessuno faceva niente per niente.
Una
volta abbassata la temperatura della casa mise in carica il cellulare
e si fece una doccia, quando tornò a controllarlo
trovò vari
messaggi e un paio di chiamate perse. Era stata in quello stato
catatonico per tre giorni e il tempo era passato in nonnulla a forza
di passare fra sonno e veglia.
Si
decise a mangiare la minestrina dato che ormai era stata fatta e dopo
averla scaldata al microonde la finì lentamente.
La
febbre era scesa notevolmente, questo la fece decidere a fare due
passi per prendere una boccata d'aria intanto che anche la casa lo
faceva, dato che aveva chiuso le imposte e spalancato le finestre.
Magari sarebbe potuta passare da una drogheria a prendere qualche
bene di prima necessità.
Si
coprì per bene e dopo essersi infilata soldi, sigarette e
–dopo
qualche esitazione – anche il suo Zippo in tasca
uscì chiudendosi
la la porta alle sue
spalle.
La
neve scricchiolava sotto gli stivali imbottiti ed era abbastanza alta
da separarla dallo strato di ghiaccio che si era formato sicuramente
sotto di essa.
Le
mani affondate nelle tasche della giacca imbottita toccarono
l'accendino riportandola a pensare inevitabilmente di nuovo a Ian.
Per quanto volesse sforzarsi di classificarlo come approfittatore
data la sua indole diffidente non poteva fare a meno di pensare che
nulla in casa era sparito, alla sua voce gentile mentre la
risvegliava da quell'incubo ricorrente di cui una volta sveglia non
ricordava nulla, come se per autodifesa semplicemente la sua testa
cancellasse qualunque cosa potesse fare male.
La
verità era che conosceva quel ragazzo da meno di una
settimana, ma
era riuscito a scuoterla tanto da farle provare piccoli barlumi di
emozioni. La famigliare stretta allo stomaco tornò a farsi
sentire,
come se il panico volesse per forza uscire allo scoperto, facendole
stringere i pugni nelle tasche.
Si
accese una sigaretta e continuò a camminare, tenendo stretto
quell'accendino il cui metallo era diventato caldo a forza di essere
stretto inconsciamente.
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Capitolo 6 *** #05 — BALLAST ; Routine. ***
#O5
– BALLAST* ;
Routine.
“A
volte è più facile confidarsi con un estraneo.
Chissà perché.
Forse perché un estraneo ci vede come siamo realmente, e non
come
vogliamo far credere di essere.”
—Carlos
Ruiz Zafon
Si
era svegliata da circa mezz'ora e stava riflettendo pigramente cosa
prepararsi per pranzo dato che erano le due passate quando il
campanello suonò.
Ancora
in pigiama e con i capelli scompigliati andò ad aprire,
trovandoselo
davanti, splendido come sempre.
«Non
ti aspettavo così presto.» disse a mo' di saluto
spostandosi dalla
soglia per farlo entrare.
«Hai
una strana concezione della parola “presto" tu.»
non sembrava
irritato con lei per il suo comportamento del giorno prima, anzi, era
fin troppo calmo. «Comunque ero già in giro e ho
pensato di passare
di qua già che c'ero.»
«Okay,
vado a prenderti i soldi.» dandogli le spalle salì
al secondo
piano. Ci aveva pensato su, chiedendosi se non dovesse addirittura
offrirgli dei soldi per il fatto che si era preso cura di lei,
così
da delineare di nuovo i confini che le sembravano terribilmente
labili in quel momento. Oppure non farne parola come se fosse stato
tutto un brutto sogno.
Quando
tornò giù non lo vide nell'atrio, quindi
proseguì per la cucina
seguendo l'istinto: infatti lo trovò che con sguardo critico
studiava la busta della sua spesa della sera prima abbandonata
sull'isola che consisteva in schifezze e cibi precotti.
«Mangi
mai qualcosa di salutare?» si voltò verso di lei
quando sentì i
suoi passi.
«In
frigo ho dell'insalata.» scrollò le spalle
indifferente. Chissà se
criticava le abitudini alimentari di tutte le sue clienti o riservava
quell'onore solo a lei. «Ecco qua, la cifra è
quella che mi hai
inviato per messaggio.»
Lui
osservò la mazzetta per qualche istante poi la mise in tasca
senza
nemmeno prendersi il disturbo di controllare se ci fossero tutti.
«Bene,
l'accendino era lì vicino alle tue sigarette e l'ho
già preso.
Siamo a posto.» storse le labbra come se vi fosse qualcosa
che lo
irritava profondamente.
«Bene.»
rispose telegrafica seguendolo mentre si dirigevano all'entrata.
A
dire il vero era irritata anche lei e non sapeva come far passare
quel prurito fastidioso. Il fatto di essere in debito con lui la
infastidiva enormemente anche se il fatto di dire semplicemente
grazie era fuori questione. Lui di sicuro non si era preso cura di
lei per semplice buon cuore, ma nonostante ne fosse cosciente, quel
fastidioso punto in sospeso non la lasciava in pace.
«Alla
prossima.» lo salutò sulla porta.
Lui
fece un sorriso mesto e la inchiodò con lo sguardo per
qualche
istante prima di voltarsi e procedere sul vialetto.
«Alla
prossima.» rispose in ritardo già di spalle
alzando una mano.
I
giorni passavano tutto uguali, da quando lo vide declinò gli
inviti
ad uscire delle compagne di classe e se ne rimase a casa a guardare
qualche film al caldo e fare i compiti assegnatile per le vacanze di
Natale. Siccome frequentava una scuola privata avevano iniziato prima
le vacanze, quindi aveva molto più tempo da perdere di un
normale
studente delle superiori, nonostante questo Natale incombeva sempre
più vicino e con esso una festa di beneficenza proprio alla
Viglia
con cui sua madre si era presa la rivincita sulla sua scelta di non
raggiungerli per festeggiare. In pratica le aveva intimato di andare
a nome loro dato che, parafrasandola, non aveva nulla di meglio da
fare. Certe volte si atteggiava davvero da snob, cosa ridicola visto
che lei e i suoi figli erano praticamente nuovi di quell'ambiente e
solo grazie al matrimonio con Francesco. Senza contare che quelle
feste le odiava più di lei e approfittava della freddezza
della
figlia per avere un rappresentante come si deve di quella famiglia,
non tanto perché le importava cosa pensassero di lei, ma per
il
marito che facendo il notaio e doveva tenerseli buoni come clienti,
nonostante fosse comunque di buona famiglia.
Non
aveva chiamato nemmeno Ian per far passare il tempo perché
ogni
volta che vedeva il suo nome nella rubrica il fastidioso prurito
tornava a farsi sentire e rifiutava l'idea di doversi sentire in
debito con lui.
In
ogni caso avrebbe passato volentieri tutte le vacanze a casa in
solitudine, non chiedeva altro che silenzio e pace. Di solito usciva
per spezzare la routine e per non far preoccupare sua madre, un conto
era che sospettasse e basta che non aveva relazioni umane degne di
questo nome, un conto era vederlo.
Così
arrivò la Vigilia con la chiamata di sua madre di prima
mattina che
le ricordava che a quella festa “ci doveva proprio andare"
dato che aveva già chiamato per confermare la sua presenza,
il resto
della conversazione passò da Francesco che le chiedeva scusa
per
obbligarla a sobbarcarsi quell'impegno al posto suo e suo fratello
che le augurava scherzosamente buona fortuna.
La
serata, che era dedicata ai senzatetto e i bambini abbandonati, fu
noiosa come previsto, fra chiacchiere vuote in cui le chiedevano dove
fossero o come stessero i suoi genitori e del suo percorso di studi.
Solo quando salì sul taxi che l'avrebbe riportata a casa si
rese
conto con suo grande orrore che aveva passato gran parte della serata
a cercare distrattamente un paio di occhi blu.
Quella
notte dormì un sonno agitato e pieno di figure sfuggenti,
svegliandosi all'alba sudata fradicia con una mano tesa verso il
soffitto come in procinto di afferrare qualcosa.
La
lasciò cadere con un tonfo sul piumone voltando la testa
verso il
comodino dove la radiosveglia segnava la data tanto temuta.
«E
così anche quest'anno è arrivato.»
sospirò atona.
Camminare
nella città vuota e luminosa grazie a tutte le decorazioni
allo
scopo di spegnere quell'inquietudine l'aveva portata in quel posto,
ancora una volta non era riuscita a sfuggire a quella ricorrenza che
la ossessionava da anni.
Era
ferma, nemmeno lei sapeva da quanto, dall'altra parte della strada a
fissare quei cancelli senza il coraggio di attraversarli, con in mano
un mazzo di margherite che aveva comprato lungo la strada da un
fioraio miracolosamente aperto.
Alla
fine finiva sempre lì a fissare con uno sguardo vuoto lo
squarcio di
cimitero che poteva scorgere chiedendosi vagamente quale potesse
essere la sua fra
tutte
quelle lapidi.
Le
poche persone mattiniere in giro a quell'ora, forse per la messa o
per le commissioni dell'ultimo minuto le passavano accanto
silenziose, come se fosse invisibile.
«Cosa
diavolo ci faccio qui?» mormorò a sé
stessa lasciando perdere per
l'ennesima volta e buttando il mazzo di fiori in un cestino mentre a
passo svelto prendeva la via di casa senza notare lo sguardo intenso
che la seguiva dall'interno di un bar.
~*~
Era
lei. Era sicuramente lei, anche se quel comportamento non si addiceva
con la figura rigida che si era creato nella sua testa.
L'aveva
notata voltando lo sguardo verso l'esterno, mentre faceva colazione
con suo fratello e la sua fidanzata. Dovevano aspettare gran parte
della famiglia che era andata a messa come ogni anno, preferendo
quella mattutina a quella di mezzanotte, sua madre non li obbligava
ad entrare in chiesa, anche se aveva fissato la regola che si
svegliassero presto e li portassero in macchina fino alla funzione
come penitenza. Sua madre odiava i lavativi.
Mentre
assonnato rifletteva su quella ingiustizia l'aveva notata, era
assurdo, ma l'aveva riconosciuta subito. Anche se era tutto
sbagliato.
Le
spalle basse, le braccia abbandonate lungo i fianchi, se ne stava
immobile come una bambina spaventata a fissare qualcosa davanti a
sé.
In mano aveva un mazzo di margherite che prendevano inerti.
Se
ne stava semplicemente ferma dandogli le spalle, come se fosse
incosciente di tutto. In un primo momento pensò e forse
stava
aspettando qualcuno, ma escluse quell'ipotesi quasi subito.
Semplicemente sembrava che se ne stesse lì a fissare il
cimitero
davanti a lei, ma non sembrava intenzionata ad entrarci, come se
stesse prendendo coraggio.
Non
poteva dirlo con certezza, ma le mani parevano tremare, prima di
stringere più forte il mazzo di fiori già
sgualcito e raddrizzare
la schiena di colpo. Con un gesto secco la vide lanciarli nel cestino
e allontanarsi di fretta.
«Oi,
che fai?» la voce di suo fratello lo riportò alla
realtà
facendogli realizzare che si era alzato in piedi senza nemmeno
accorgersene.
«Cosa?
Ah.. scusa.» borbottò riportando lo sguardo su
Beth e Mike che lo
fissavano straniti.
«Ma
che ti preso tutto d'un tratto?» gli domandò
aggrottando le
sopracciglia mentre Ian si rimetteva a sedere chiedendoselo anche
lui.
«Niente,
mi sembrava di aver visto una persona che conosco.»
borbottò
pensieroso.
«Scommetto
che era una donna, Casanova dei miei stivali.» gli sorrise
furbescamente Beth.
«In
un certo senso..»
~*~
«Grazie
per gli obbiettivi, ti adoro! Anche se il libro per mamma potevi
evitartelo, sembrava una quattordicenne quando ha visto l'autografo,
uno spettacolo orrendo!
I
regali da te sono già arrivati?»
«Non
ancora, il corriere ripassa oggi pomeriggio visto che stamattina non
mi ha trovata.»
«Anche
quest'anno ci sei stata vero?»
«Sì.»
«Dovresti
smetterla Amy. Lo dico per te, essere così legata al passato
non ti
fa bene...»
«Infatti
non lo sono.»
«Amy..!»
«È
la verità, ora goditi il Natale e non preoccuparti per me.»
«Come
se fosse facile.»
«Sono
io la sorella maggiore, quello è un mio compito, fa il bravo
e non
dirlo a mamma.»
«Come
sempre..»
Lasciò
il cellulare accanto a sé sul divano mentre fissava con uno
sguardo
spento il soffitto, certe volte suo fratello era davvero troppo
intuitivo per essere dell'altro sesso.
Quando
suonarono il campanello era ancora lì immobile in stato
catatonico.
Si alzò svogliata ed andò ad aprire senza nemmeno
controllare chi
fosse. Quando aprì la porta rimase congelata sul posto,
aldilà del
cancelletto due occhi verdi la fissavano.
«Buon
Natale piccola.» la sua voce era sempre la stessa, il volto
aveva
qualche ruga in più e si era stempiato, ma lo avrebbe
riconosciuto
ovunque. Pensava di averlo dimenticato, ma non era possibile, anche
dopo tutti quegli anni. Richiuse velocemente la porta senza dire una
parola girando la chiave a doppia mandata. Come diavolo l'aveva
trovata?
Si
passò una mano fra i capelli quasi strappandoseli dalla foga
mentre
il campanello ricominciava a suonare.
«Vattene,
non ho nulla da dirti.» quasi strappò il filo del
citofono nella
foga di rispondere prima che attirasse l'attenzione dei vicini.
«Andiamo,
è Natale, dovresti essere più educata con tuo
padre.» la voce
gracchiante dall'altra parte della cornetta la fece rabbrividire dal
disgusto.
«Quando
lo trovi fammelo sapere e ora vattene prima che chiami la
polizia.»
gli intimò fermamente, neanche un accenno di debolezza nella
voce
dura.
«Non
c'è bisogno di essere così dura, sono qui per
farti gli auguri. »
«Non
sono credente, ora vattene.»
«Tanto
ci rivedremo.» concluse lui prima che potesse riattaccare,
con la
telecamera puntata sul cancello controllo che se ne fosse davvero
andato rendendosi conto forse era più sconvolta di quanto
pensasse
quando prese il cellulare e scrisse febbrilmente un messaggio. Aveva
bisogno di una distrazione, il più presto possibile.
Un'ora
più tardi, quando controllò il cellulare dopo
aver appoggiato i
pacchi in salotto che il corriere aveva finalmente consegnato,
arrivò
la risposta.
“No
Miss Ghiacciolo, per me non ci sono festivi. Posso passare per le
23:00, va bene?"
Digitò
una riposta telegrafica per poi mettersi a scartare i regali giusto
per fare qualcosa e non pensare che, nonostante avesse spento
qualunque emozione, quell'unico legame col passato che non riusciva a
recidere l'aveva messa in una situazione davvero scomoda.
~*~
Quando
arrivò davanti alla casa della ragazza calata la notte da
parecchie
ore, era un po' in ritardo perché sua madre l'aveva
trattenuto più
del necessario per sapere chi era quell'amico che doveva andare
trovare così a tarda sera. Se n'era uscito con una mezza
verità
dicendo che era solo a casa dato che i parenti erano lontani e lui
andava a fargli compagnia. Ed ora si ritrovava con un vassoio di
avanzi poggiato sul posto del passeggero che avrebbe potuto sfamare
una famiglia di tre persone per due giorni. Sul sedile posteriore
c'era il suo ugualmente grande, quindi era fuori discussione che si
portasse a casa tutta quella roba. In fondo l'avrebbe fatta mangiare
un po' di cibo vero e basta.
Era
una nottata particolarmente gelida, quando finalmente scese dalla
macchina venne aggredito dal freddo, facendolo rabbrividire. Si
avvicinò al campanello per suonare quando sentì
uno scricchiolio
sotto la scarpa.
Abbassando
lo sguardo rimase perplesso dal notare che era un mazzo di margherite
molto simile se non lo stesso che Amelia aveva buttato quella
mattina.
Quando
lo fece entrare sentì su di sé il suo sguardo
indagatore.
«E
quello cos'è?» saltò la parte dei
saluti come al solito.
«Cibo
vero Mylady, sempre che non la offendano gli avanzi di un Cenone
Natalizio da popolani.» rispose con un sorriso per nascondere
il
disagio. Forse avrebbe fatto meglio a lasciarli in macchina e
attirarsi le maledizioni di tutti i bambini affamati in giro per il
mondo buttandoli piuttosto che darglieli.
«E
perché li porti a me?» inarcò un
sopracciglio. Con lei non
riusciva mai a capire davvero cosa pensasse, anche se avesse dovuto
usare l'istinto avrebbe detto che sembrava solo stupita, non
infastidita.
«Perchè
ne ho troppi e sarebbe uno spreco se andassero buttati, come quel bel
mazzo fiori qua fuori.» se c'era una cosa che aveva capito di
lei,
però, che un ottimo modo per portare la conversazione ad un
punto
morto era menzionare le sue questioni personali.
«Quale
mazzo di fiori?» la vide sbattere le palpebre più
veloce del
normale mentre il suo corpo si metteva automaticamente sulla
difensiva facendo mezzo passo indietro.
«Quando
sono arrivato l'ho visto proprio sotto al tuo campanello.»
piegò la
testa leggermente di lato, non si aspettava una reazione
così
esagerata.
«Che
fiori erano?» sembrava che la cosa la mettesse davvero a
disagio,
forse erano davvero i fiori che le aveva visto in mano quella
mattina.
«Margherite.»
non riuscì ad aggiungere nient'altro mentre la guardava
ricomporsi.
«Capisco.»
si rimise definitivamente la maschera di imperturbabilità
lasciandolo un po' interdetto da quei continui repentini cambiamenti.
«Dammelo, lo appoggio in cucina.»
Prese
il vassoio e lo lasciò a togliersi la giacca mentre spariva
dietro
la soglia.
Quando
la raggiunse la vide che fissava assente fuori dalla finestra, non
poté pensare ad altro che distrarla. Sembrava—
come dire? Persa.
La
prese per le spalle e la fece voltare gentilmente cominciando a
baciarla con delicatezza, facendo scivolare le mani sotto il maglione
di lana pesante. Quasi subito la sentì lasciarsi andare e
ricambiare. Sembrava che cercasse di evadere dalle preoccupazioni e
da fantasmi più grandi di lei, non sapeva come facesse a
intuirlo,
ma ogni volta che chiudeva gli occhi la rivedeva di spalle, mentre se
ne stava immobile in mezzo al marciapiede a fissare delle tombe.
Non
capiva cosa fosse tutta quella preoccupazione per lei mentre la
circondava il polso sottile e la guidava verso il piano di sopra,
fermandosi ogni due gradini per baciarsi e spogliarsi a vicenda.
Era
diversa solo per il fatto che era molto più vicina alla sua
età
delle sue clienti e le loro somiglianze finivano lì.
Lui
faceva quel lavoro per guadagnarsi da vivere, sfruttando la paura
della solitudine degli esseri umani, mentre lei sembrava quasi
cercarla come se fosse l'unica salvezza.
Lui
passava le feste con la sua famiglia e lei davanti ad un cimitero.
Lei
sembrava un pezzo di ghiaccio, ma una delle nozioni che ti insegnano
fin da bambini è che quando qualcosa è troppo
freddo si può finire
ustionati lo stesso. Mentre si buttavano sul suo letto e lei si
ostinava a non spostare lo sguardo si sentiva sommerso da quelle due
iridi nocciola che lo divoravano sotto le ciglia scure. Sembrava di
cadere in un buco nero, attratto inevitabilmente dalla sua forza di
gravità.
Non
riusciva a spiegarselo, come non riusciva a darsi una motivazione
logica sul perché si fosse preoccupato per lei tanto da
presentarsi
a casa sua qualche giorno prima.
Forse
voleva credere che non fosse solo quella ragazzina viziata che
sembrava, forse desiderava che non fosse solo una pozzanghera sporca
in cui non riusciva a vedersi riflesso, ma un abisso da esplorare.
~*~
«Tu
hai mai amato?» le chiese all'improvviso, steso accanto a
lei,
probabilmente sfruttava la stanchezza per scucirle informazioni.
Nonostante la prima regola che aveva imposto era che lui sarebbe
dovuto rimanere fuori dalla sua vita privata, inspiegabilmente,
rispose.
«Forse.»
disse seccamente mentre buttava fuori il fumo.
«Mhm.»
mugugnò assorto mettendole addosso una strana sensazione.
Fastidio,
disagio.. angoscia?
Rimase
silenziosa con lo sguardo fisso davanti a sé, fin troppo
cosciente
della sua presenza accanto a lei, desiderosa di non approfondire
l'argomento più del necessario. Che se ne stesse zitto, lo
pagava
per fare sesso, non per psicoanalizzarla.
«E
perché ora non lo fai più?»
domandò infine lui voltandosi verso
di lei e rubandole la sigaretta dalle mani, per attirarne
l'attenzione. Lei si voltò verso di lui con un espressione a
cavallo
fra sorpresa e l’infastidita, incontrandone così
lo sguardo
curioso.
«Che
vuoi dire?» domandò.
«Lo
sai benissimo.» sorrise piegando leggermente le labbra
furbescamente.
«No,
non lo so.» lo guardò storto mentre lui si fumava
quello che
rimaneva della sua sigaretta.
«Perché
ti rifiuti di amare ancora?» sembrava non avesse paura di
parlare
d'amore, proprio lui che faceva quel lavoro. Lui che fingeva l'amore
per donne tristi e sole.
Lei
ci rifletté qualche istante, pensosa.
«Ho
smesso di farlo tanto tempo fa, non lo trovo necessario.. o forse
semplicemente non ne sono più capace.» rispose fin
troppo sincera.
Forse lo era stata perché la giornata l'aveva provata
più di quanto
pensasse. Forse si era illusa di poter chiudere col passato
–con la
vecchia sé stessa– ma quando il passato si era
letteralmente
presentato alla sua porta non aveva potuto fare a meno di sentir
scricchiolare pericolosamente l'armatura che si era creata per
rimanere intoccata dal mondo esterno e dai suoi stessi ricordi.
Rimasero
in silenzio, poi la sigaretta finì, lei lo pagò e
lui se ne andò,
il suo dovere l'aveva fatto, l'aveva distratta. E anche se era
cosciente che usava il sesso –usava lui– per non
pensare non poté
fare a meno di chiedersi che male ci fosse. Anche solo il suo profumo
che rimaneva leggero intriso nelle lenzuola la rilassava
Mentre
mangiava gli avanzi che gli aveva portato si disse che in fondo era
il modo migliore, non faceva del male a nessuno ed entrambi ci
guadagnavano.
Se
per qualche istante poteva sentirsi viva anche lei era forse
sbagliato usarlo quanto più poteva? Alla fine era
un'abitudine –non
avrebbe mai parlato di “dipendenza" come un ubriaco con
l'ennesima bottiglia in mano– molto meno lesiva di molte
altre.
Nei
giorni seguenti lo chiamò quasi tutti i giorni, a volte si
ritrovava
a chiedersi dove trovasse tutto quel tempo libero. Certo, si
presentava da lei sempre a tarda notte e se ne andava dopo nemmeno
due ore, ma non aveva altre clienti? Ogni volta che lo chiamava lui
arrivava. Era uscita una sola volta per andare a ballare con le sue
campagne di classe, ma a parte quell'episodio si ritrovava a
rifiutare qualunque proposta. Usciva lo stretto necessario per
comprare le sigarette o buttare la spazzatura. Viveva in un mondo
surreale in cui i suoi contatti con l'esterno si riducevano a Ian. E
dopo aver fatto sesso c'erano sempre quei dieci minuti in cui lei
fumava e lui provava ad estorcerle qualche informazione.
«Come
mai non sei con la tua famiglia?»
«Non
mi piace la montagna.»
«Ma
tu hai degli amici, Miss Ghiacciolo?»
«Conoscenti
perlopiù.»
«Perchè?»
«Non
mi piacciono le persone.»
«Questa
sì che è buona!» una risata sommessa.
«Mhm..»
«Amelia.»
«...»
«Amelia..?»
«...»
«..Mel?»
«Mel?»
«Pensavo
ti fossi addormentata.»
«No,
ma— ”Mel"?»
«Chiamarti
per nome è troppo lungo quando devi ripeterlo trenta volte
per farti
considerare. »
«Come
ti pare. Comunque che volevi?»
«Come
mai odi le persone?»
«Non
ho mai detto che le odio, solo non mi piacciono.»
«E
non è la stessa cosa in sostanza?»
«No,
per odiare qualcuno prima devi averlo amato.»
«Ne
sei sicura?»
«Sì,
lo sono.»
«...»
«...»
«..forse
hai ragione.»
Capodanno
era arrivato e passato. Lei era stata ad una festa in una villa dei
tanti ragazzi ricchi che l'avevano organizzata, si era ubriacata ed
era finita in una stanza con un tizio di cui ricordava a malapena il
nome. Anche quella volta era stato insoddisfacente, non capiva
perché, ma nessuno sapeva trasmetterle quel calore che Ian
riusciva
a infonderle anche solo sfiorandola facendo sparire qualunque cosa
anche solo per poco. Se n'era andata all'alba con un taxi e la sera
lo aveva chiamato.
Non
sopportava l'idea di esserne così dipendente,
ma allo stesso tempo non riusciva a farne a meno.
Lui
si era presentato sorridente come al solito a mezzanotte passata ed
era rimasto quasi fino al sorgere del sole.
Due
giorni dopo l'aveva richiamato e mentre lo aspettava aveva deciso di
andare a prendersi le sigarette al distributore dietro l'angolo visto
che le stava finendo, quando tornò lo trovò
già davanti al
cancelletto, appoggiato alla macchina parcheggiata proprio
lì
davanti.
«Eccoti
finalmente.» l'accolse mettendosi dritto.
«Ero
andata a prendere le sigarette.» scrollò le spalle
oltrepassandolo
per aprire il cancelletto. Aveva già infilato le chiavi
nella toppa
quando una busta nella cassetta delle lettere la distrasse dal
blaterare di lui sul fatto che fumava troppo.
La
tirò fuori rigirandosela fra le mani mentre attraversava il
vialetto: non aveva francobollo ed era completamente bianca, qualcuno
doveva averla consegnata a mano poco prima, dato che era infilata
nella cassetta solo per metà e quando era uscita non l'aveva
notata.
«Hai
visto chi l'ha lasciata?» chiese al suo accompagnatore alle
sue
spalle mentre infilava le chiavi nella porta d'ingresso.
«Cosa?»
«Questa
busta.» gliela mostrò una volta entrati.
«No,
era già lì quando sono arrivato.»
«Okay,
fai quello che vuoi, io arrivo subito.» dopodiché
senza nemmeno
togliersi la giacca andò in cucina per aprirla. Aveva un
brutto
presentimento.
Strappò
la carta senza troppa delicatezza: dentro c'era un foglio bianco
ripiegato in quattro con sopra il suo nome scritto in biro blu.
Lo
aprì rimanendo impassibile mentre leggeva le poche righe
scritte con
una grafia spigolosa e quasi illeggibile.
«Brutte
notizie?» Ian apparve sulla soglia con uno sguardo
corrucciato. Lei
scosse la testa cominciando a fare a pezzi il foglio.
«No,
solo pubblicità.» buttò i pezzetti nel
cestino assieme alla busta
e poi lo superò svelta andando verso le scale.
«Allora?
Non vieni?» gli chiese con un piede già sul primo
gradino.
«Spero
proprio di sì.» sorrise da solo a quella battutina
da tredicenne
demente facendole alzare gli occhi al cielo.
Nel
letto si aggrappò a lui graffiandolo, mordendolo, tenendo
gli occhi
serrati perché era sicura che se l'avesse guardata
attentamente
avrebbe notato che c'era qualcosa che davvero non andava. Per niente.
Lui
rispondeva al suo corpo, ai suoi bisogni, avvolgendola in quel calore
in cui si crogiolava per quei pochi istanti di distrazione senza
conseguenze.
Dopo
rimasero ancora qualche istante stretti, come se avesse capito che ne
aveva bisogno, che aveva bisogno di qualcosa che la facesse sentire
viva e non solamente vuota e stanca, soprattutto quella sera. Quando
si spostò senti un gran freddo raggiungerle le ossa.
Riaprì gli
occhi lentamente vedendolo mentre frugava fra i vestiti ammucchiati
ai piedi del letto per poi tornare al suo fianco.
Aveva
preso l'abitudine di aprirle tutti i pacchetti per capovolgerne una.
Lei lo lasciava fare.
«Bagno.»
gli comunicò quando le rivolse uno sguardo interrogativo
vedendola
alzarsi.
«Io
intanto l'accendo.»
«Puoi
prenderne una per te se vuoi, eh.»
Non
sentì la risposta perché passando davanti alla
finestra le era
parso di vedere un'ombra sotto il lampione, lasciandola impietrita a
fissare la strada vuota. Probabilmente era stata la stanchezza,
però—
«Mel?»
la sua voce la riscosse e senza guardarlo girò intorno al
letto e si
chiuse in bagno.
Quando
tornò a letto lui la osservò attentamente
passandole la sigaretta
già accesa. Quella fu la prima sera in cui non disse nulla,
ma si
sentiva il suo sguardo trapanarle il cranio.
Quando
spense il mozzicone nel posacenere si alzò come al solito,
ma invece
che rivestirsi subito, sparì in bagno anche lui.
Si
accoccolò sotto le coperte calde rivolta verso la porta
chiusa
aspettando che uscisse dargli i soldi e vederlo andar via.
*equilibrio
/ zavorra / zavorrare
|
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Capitolo 7 *** #06 — AFTERMATH ; Passato e Presente. ***
#06
– AFTERMATH ;
Passato
e Presente.
“C'è
una storia dietro ogni persona. C'è una ragione per cui loro
sono
quel che sono. Loro non sono così perché lo
vogliono.
Qualcosa
nel passato li ha resi tali e, alcune volte, è impossibile
cambiarli."
—Sigmund
Freud
La
suoneria di un cellulare si introdusse nel suo sonno agitato
facendole spalancare gli occhi di colpo. Si srotolò dalle
coperte
per sporgersi dal bordo del letto frugando nel mucchio di vestiti ai
suoi piedi.
«Pronto?»
biascicò mentre strisciava sulla pancia per tornare sul
letto.
«Ti
ho svegliata tesoro?»
«Mhn,
no—» si fermò a fissare perplessa il
mucchio di vestiti per terra
notando un paio di jeans e una maglietta più in
là. «cioè, sì,
ma tranquilla.»
«Ti
godi le vacanze dormendo fino a tardi, e i compiti?» la voce
di sua
madre sembrava divertita nonostante il rimprovero.
«Mi
hai chiamata di prima mattina per chiedermi se ho fatto i
compiti?»
non riuscì ad ammorbidire il tono critico.
«Non
rivolgerti così a tua madre.» la sentì
distintamente trattenere un
sorriso, come se ce l'avesse davanti. «Comunque ti ho
chiamata per
dirti che anticipiamo il rientro a dopodomani, a quanto pare ci
sarà
una tempesta di neve o una bufera.. Non so nemmeno se sono la stessa
cosa, so solo che mi rifiuto di rimanere quassù bloccata
anche se
Francesco e tuo fratello sembrano trovarlo divertente.»
«Immagino..»
borbottò sommersa dal fiume di parole.
«Ti
mando la lista della spesa, tanto immagino che non ci sia niente in
casa.»
«Okay,
okay, tanto domani Carla dovrebbe tornare dalle vacanze, la faccio
fare a lei.» rispose distrattamente mentre, dirigendosi verso
il
bagno, studiava i vestiti non suoi sparsi per il pavimento.
«Forse
è meglio visto che non hai la macchina.. La chiamo io dai,
lascia
stare.»
«Okay.»
La
chiamata durò il tempo necessario per andare al bagno,
mettersi
qualcosa addosso e rassicurare sua madre sul suo stato di salute, la
salutò in cima alle scale, chiedendosi se fosse davvero
preparata a
scoprire cosa c’era al pian terreno.
Lo
trovò in cucina, che –in boxer–
curiosava nel suo frigo come se
nulla fosse.
«Buongiorno.»
lo vide sobbalzare quando la sentì.
«Oh,
buongiorno.» le sorrise spuntando con tutti i capelli
arruffati da
dietro l’anta. «Non hai proprio nulla da mangiare
per colazione,
ma la fai mai una spesa decente?»
«Diciamo
che non è nel mio ambito di competenza.» gli si
avvicinò
allungando un braccio per prendere la bottiglia d’acqua.
«Come mai
sei ancora qui?»
«Ieri
sera sono crollato, come te d'altronde, quando sono uscito dal bagno
eri già nel mondo dei sogni e sembravano piuttosto
agitati.»
«Non
importa, basta che non pretendi di farti pagare la notte
intera.» si
allontanò per appoggiarsi con la schiena all’isola
e bere. La
notte prima, grazie alla lettera che aveva ricevuto, era stata
tormentata dallo stesso incubo che spuntava ogni volta che era
vulnerabile.
«Non
sarei mai così meschino.» chiuse il frigo e le
sorrise radioso,
quel buon’umore mattiniero la infastidiva. Come si fa ad
essere
così allegri quando si è appena scesi dal letto?
«Ora vestiti
però, andiamo a fare colazione fuori.»
«Perché?»
inclinò la testa leggermente da un lato perplessa.
«Perché
io ho fame e tu devi fare una colazione decente, tranquilla, ognuno
paga per sé.» la verità era che non
sapeva perché avrebbe dovuto
dire di no. Cioè, lo sapeva, ma non trovava una motivazione
valida
per cui una colazione avrebbe distrutto quell’equilibrio
precario
che avevano creato. In fondo sarebbe uscita lo stesso a fare
colazione perché nel frigo non aveva più latte
né nulla da
mangiare. Quindi perché no?
«Ci
mancherebbe solo che ti offra la colazione con quello che ti
pago.»
«È
un sì?» sembrava sorpreso, come se non si
aspettasse che lei
sarebbe effettivamente venuta. Sembrava piacevolmente sorpreso.
«Ho
fame e come tu mi hai fatto gentilmente notare il frigo è
vuoto.»
scrollò le spalle uscendo dalla cucina, chiedendosi se si
fosse
dovuta sorprendere anche lei di aver accettato senza indugi.
Dopo
essersi preparati alla bell’e meglio ed essersi coperti per
bene
dato il cielo scuro che minacciava pioggia a catinelle salirono nella
macchina di Ian diretti al bar più vicino.
«Mi
aspettavo un’auto più vistosa da parte tua,
comunque.» disse
Amelia allacciandosi la cintura di sicurezza. Non che ci capisse
molto di auto, distingueva a malapena una Smart da un SUV, ma
insomma, ad occhio poteva dire quali fossero le auto che gli uomini
prendevano per compiacere e spargere il proprio testosterone e quali
per utilità.
«Come
mai?» sorrise lui mettendo in moto.
«Beh,
non è che tu non ti possa permettere
una—» rifletté un secondo
su quali fossero le auto che aveva visto più spesso nel
girone dei
dannati che era l’alta società. «Porche,
per esempio.»
«Sono
scomode e troppo basse, se voglio correre lo faccio in moto.»
era un
guidatore attento, nonostante chiacchierasse con nonchalance con lei
non si lasciava sfuggire nulla della strada. «Senza contare
che mia
madre si chiederebbe come fa uno che salta da un lavoro a tempo
determinato all’altro a permettersi un auto che vale
più della sua
stessa casa.»
«Mi
sembrano entrambe buone motivazioni.. quindi hai una moto?»
parlare
con lui di quelle piccole cose mentre attraversavano la
città
nebbiosa su cui cominciava a piovigginare le sembrava quasi la cosa
più normale del mondo. Forse era perché lo
pagava, forse perché
lui era davvero bravo in ciò che faceva, ma la faceva
sentire a suo
agio, come se avesse il controllo della situazione e potesse
finalmente lasciarsi un po’ andare.
«Sì,
mi sarebbe piaciuta una Harley, ma sai com’è,
credo che non
riuscirei nemmeno a tenerla in piedi senza contare che non ho un
garage dove metterla.»
«Capisco.
Nonostante mi sia sempre piaciuto andare in moto preferisco di gran
lunga essere il passeggero di qualcuno di cui mi fido che il
guidatore, sono troppo veloci e instabili per me.» lo disse
come se
stesse quasi parlando con sé stessa, con lo sguardo perso
fuori dal
finestrino appannato veniva assalita dai ricordi, le vecchie
abitudini. Lei che apriva le braccia e con la testa
all’indietro
urlava sul retro di un motorino, il suo amico che guidava che rideva
a crepapelle, il sole sopra di loro che li abbagliava, il brivido
della libertà.
«In
poche parole non salirai mai su una moto in vita tua.» questa
frase
la fece voltare verso di lui e lui distolse lo sguardo che aveva
posato su di lei per qualche istante.
Lo
fissò intensamente mentre i ricordi sbiadivano tornando al
loro
posto, rinchiusi da qualche parte in cui non sarebbe andata a scavare
di nuovo.
«No,
ora no, ma una volta sì. Era divertente.»
mormorò assorta
fissandolo intensamente. Lui s’immise in un parcheggio
davanti al
bar dove avevano fatto colazione anche quella mattina in cui gli
aveva proposto il secondo accordo.
«Quindi
una volta avevi degli amici, Miss?» rispose al suo sguardo
quando
ebbe sfilato la chiave. Quelle pozze blu così tranquille
avevano un
potere magnetico su di lei, forse si stava abituando troppo in fretta
alla sua presenza.
«Immagino
che si possa dire così.» scrollò le
spalle slacciandosi la cintura
e distogliendo lo sguardo, desiderosa di poter evitare il discorso il
più possibile. Non aveva lottato per diventare quella che
era ora
solo per tornare la nostalgica ragazzina troppo sensibile da essere
spezzata da una parola sbagliata da parte della persona giusta, da un
ricordo al momento sbagliato. Ian scese veloce e fece il giro della
macchina per aprirle la portiera.
«Uh,
quindi una volta eri un comune essere mortale come tutti noi, buono a
sapersi.» le sorrise da sotto la pioggerella fitta e sottile
che gli
inumidiva e scompigliava ancora di più i capelli corvini.
«Buono
a sapersi..?» lo guardò perplessa scendendo
dall’auto a sua
volta, passandosi una mano fra i capelli distrattamente. Ian
schiacciò il bottone sulle chiavi facendo chiudere le
portiere e le
si piazzò davanti con un espressione serafica che le faceva
sempre
temere di scoprire cosa pensasse davvero quel ragazzo.
«Sì,
vuol dire che sei un essere umano.» sorrise con
semplicità a pochi
centimetri dal suo viso mettendola curiosamente a disagio, come se
tutta quella situazione fosse estremamente sbagliata. Come se ci
fosse una nota stonata quanto delle unghie che sfregano su una
lavagna.
«Solo
perché non mi comporto come secondo te dovrebbe fare una
ragazza
della mia età non vuol dire che non sia umana.»
inarcò un
sopracciglio infastidita da quelle battutine più di quanto
avrebbe
dovuto.
«Io
non ho la più pallida idea di quanti anni tu abbia, a dire
il vero,
ma so che non è tutto come sembra con te.» quella
risposta la
lasciò basita ferma vicino all’auto mentre lui con
tutta la
tranquillità del mondo si dirigeva verso la porta del bar e
la
teneva aperta per lei, aspettandola.
Lo
guardò per qualche istante sospettosa, come un animale
selvatico che
valuta quante probabilità ci sono che gli stiano tendendo
una
trappola, poi i suoi piedi si mossero da soli e con lo sguardo fisso
davanti a sé lo superò, sicura che le sarebbe
stato dietro.
«Allora,
che cosa prendi?» le domandò appoggiando la giacca
di pelle alla
sedia di fronte a quella che aveva occupato lei.
«Cappuccio
e brioche.» stette bene attenta a non incrociare il suo
sguardo.
«Okay,
alla marmellata giusto?» accidenti a lui. Con quella domanda
la
sorprese facendola scattare verso di lui, come faceva a sapere?
Giusto, la colazione che avevano fatto quasi un mese prima, ma.. come
faceva a ricordarsi un dettaglio così insignificante?
«Sì.»
quell’unica sillaba le sfuggì dalle labbra
spaccate sotto forma di
un ringhio indispettito, facendole guadagnare un’occhiata
divertita
da parte dell’uomo che sembrava aver capito cosa la
infastidiva
tanto.
«Arrivo
subito.» detto questo andò al bancone a parlare
con la ragazza
bionda della volta precedente lasciandola a guardarsi attorno
distrattamente. C’erano più avventori della volta
precedente,
forse perché erano quasi le undici e non presto come
l’altra
volta. Si ritrovò attratta come una calamita ad osservare di
nascosto Ian che chiacchierava e rideva con la ragazza, inducendola
ad interrogarsi su quale rapporto avessero quei due, se lei sapesse
che lavoro faceva davvero quell’uomo così
affascinante. Se lei
sapesse chi era lui davvero.
In
fondo lei stessa lo sapeva? Certo, non si conoscevano intimamente nel
senso tradizionale eppure sentiva che quel legame puramente fisico
che avevano costruito era qualcosa di diverso, di talmente diverso da
non infastidirla. Non c’era amore, sentimenti, non era legata
a lui
se non per il sesso ed anche se ne aveva bisogno forse il fatto di
essere lei stessa a condurre il gioco riusciva a calmarla. Con molta
probabilità, anche se il rapporto includeva il fatto che i
due si
usassero reciprocamente, proprio perché entrambi erano a
conoscenza
di ciò rendeva quella situazione assolutamente gestibile e
accettabile. Giusta.
Non
ci sarebbe mai stato niente di più e per questo poteva
permettersi
di starsene lì a fare colazione con quel ragazzo senza
temere nulla,
senza temere tutto.
«Ora
arriva tutto.» la riscosse dai suoi pensieri Ian sedendosi
davanti a
lei con un sorriso smagliante. Sentì una strana stretta alla
bocca
dello stomaco, doveva essere davvero molto più affamata di
quanto
pensasse.
«Va
bene.» rispose distrattamente tirando fuori il cellulare per
controllare i messaggi.
«Tutto
bene?» lui era uno dei pochi che riusciva a sorprenderla
intuendo i
suoi stati d’animo, non capiva bene come facesse. Si
ritrovò ad
alzare di nuovo lo sguardo incontrando il suo concentrato su di lei.
«Perché?»
«Una
sensazione.» scrollò le spalle mantenendo il
contatto visivo.
«Capisco.»
«Allora?»
«Cosa?»
poggiò il cellulare di fronte a lei, sul tavolino,
sentendosi
studiata ad ogni minima mossa.
«Allora
va tutto bene?»
«Non
ti arrendi mai, vero?» si passò una mano fra i
capelli lanciandogli
un’occhiataccia.
«Mai.»
sorrise con semplicità facendole chiedere da quale girone
dell’inferno l’avessero mandato per tormentarla.
«Peccato.»
La
bionda le risparmiò di rispondere arrivando con un vassoio
carico
delle loro ordinazioni. Poggiò due brioche con delle gocce
di
cioccolato sopra davanti a lui, i cappuccini e un croissant davanti a
lei.
«Ecco
a voi, dovresti seriamente mangiare di meno.» sorrise la
ragazza
fissando Ian, fingendo un tono di rimprovero.
«Perché
mai se non ingrasso?»
«Fottiti.»
quella risposta diretta fece sorridere sotto i baffi Amelia ancora
prima di rendersene conto. Nonostante si ricompose in fretta
quell’espressione non sfuggi all’uomo di fronte a
lei che le
sorrise a sua volta complice.
«Allora
non sai fare solo smorfie disgustate!» commentò
allegramente
avvicinando a sé la tazza e il piattino con sopra la sua
colazione.
«Sono
completamente d’accordo su quello che ti ha detto la tua
amica.»
«Che
dovrei mangiare di meno?»
«No,
che dovresti andare a farti fottere.» questa risposta detta
con un
tono assolutamente calmo e diplomatico lo fece scoppiare a ridere
attirando diversi sguardi.
Amelia
sbuffò e addentò la sua colazione chiedendosi
ancora una volta
perché fosse lì.
“Wanderwall"
degli Oasis cominciò a risuonare dalla giacca del ragazzo
che
estrasse velocemente il cellulare dalla tasca e rispose senza nemmeno
guardare chi lo stava chiamando.
Senza
farci nemmeno tanto caso, la ragazza si ritrovò ad ascoltare
la
conversazione mangiando la sua colazione.
«Sono
qua da Beth con un’amica adesso.. Beh sì, ma
dopo.. Okay, okay..
Tranquillo, non ho intenzione di assalire la tua promessa
sposa..»
una risata sommessa, il caffè che si raffreddava e lei smise
di
ascoltare disinteressata guardandosi intorno.
C’era
una coppia di anziani che discuteva animatamente dall’altra
parte
del bar, un ragazzo che sembrava pendere da un cellulare che rimaneva
spento appoggiato vicino ad una tazzina vuota e una brioche
intoccata, due ragazzine che potevano avere al massimo quindici anni
che ridevano allegramente e un signore anziano che leggeva la
Gazzetta dello Sport. Erano tutti lì, con le loro vite, il
loro
passato, tutti intrecciati da un destino comune che li portava in
quel bar, senza nemmeno notarsi a vicenda perché troppo
occupati dai
problemi di tutti i giorni. Tanto tempo prima si divertiva ad
immaginare quale potesse essere la storia di ogni persona che
incrociava per strada, le loro esperienze, i loro pensieri. Era una
persona curiosa che fin da piccola voleva sapere tutto per pura
curiosità.
Contrapporre
quell’immagine di sé stessa a quella del presente
faceva male per
la distanza che si era creata fra quelle due persone, diametralmente
opposte. La differenza fra lei e quella ragazzina che ad un certo
punto era arrivata ad un punto in cui non sapeva più nemmeno
lei
dove arrivava la finzione, sospesa fra ciò che gli altri
vedevano e
il nulla che era dentro. E rideva, senza farlo mai davvero, parlava
fino a non sentirsi più lei stessa.
Tutto,
tutto per non sentire il silenzio che urlava sordo dentro di lei.
«Mel?»
come succedeva spesso in quei giorni fu Ian a richiamarla alla
realtà, la cui frequentazione aiutava a lenire i ricordi che
cercavano di risalire a galla.
«Sì?»
riportò lo sguardo su di lui che aveva terminato la chiamata
e
appoggiato il cellulare sul tavolino.
«Mi
sbaglierò, ma c’è un uomo seduto fuori
che continua a fissarti.»
Non
fece in tempo a finire la frase che la sua testa scattò,
sapeva già
che cosa avrebbe visto, chi avrebbe trovato, ma sperava fino
all’ultimo che non fosse vero. Eccolo lì, con un
bicchiere davanti
che la osservava da uno dei tavolini esterni con un sorrisetto
sfrontato, quegli occhi verde bottiglia che la scorticavano come
carta vetrata sulla pelle.
«Lo
conosci?»
«No,
sarà solo un ubriacone a cui piacciono le ragazze
giovani.» scrollò
le spalle mantenendo il controllo sulla propria voce, tutta la
leggerezza di poco prima era sparita.
«Vuoi
che gli dica di smettere?» la fissò con uno
sguardo indecifrabile,
facendola scoppiare suo malgrado in una risatina che suonava falsa
persino alle sue orecchie.
«Ora
anche il ruolo di cavaliere senza macchia fa parte del
pacchetto?»
«Come
ti pare.» sembrava irritato da quel rifiuto così
netto, ma non se
ne curò più di tanto, sentendosi osservata come
una cavia da
laboratorio.
«Vado.»
dopo qualche istante di silenziò finì di bere il
proprio cappuccino
lasciando pressoché intoccata la brioche e si
alzò di scatto,
poggiando i soldi sul tavolo.
«Okay.»
la guardò stranito il ragazzo, capendo che non lo voleva con
sé.
Si
infilò la giacca e uscì in fretta, sperando che
non la seguisse,
non disse un’altra parola ad Ian e lui nemmeno, anche se lo
sentì
mentre la seguiva con lo sguardo. Oppure era solo una sua ossessione
quella di sentirsi osservata?
Camminava
veloce, con le mani in tasca, diretta al supermercato più
vicino per
prendere qualcosa da mangiare e trovare un luogo neutro per
affrontare l’uomo che la seguiva a passo svelto facendo
rumore
quando finiva in una pozzanghera formatasi sul marciapiedi sconnesso.
Una
volta nel parcheggio del discount superò con passo sicuro un
angolo
più nascosto dietro a dove tenevano i carrelli e si accese
una
sigaretta appoggiata al muro, aspettando che la raggiungesse.
«Pensavo
che non ti saresti fermata più.» infatti eccolo,
con quella sua
voce strascicata che tanto odiava.
«Io
non scappo, cosa vuoi?» lo fulminò con lo sguardo
mentre se ne
stava anche lui con le mani in tasca sotto la pioggerellina leggera
che aveva iniziato a cadere, a fissarla.
«Mi
sembra di averlo messo nero su bianco, oppure non hai ricevuto la mia
lettera?»
«Quella
in cui mi chiedi di darti più soldi di quanti
possieda?» inarcò un
sopracciglio mantenendo una calma glaciale. La verità era
che in
quel momento una parte di lei avrebbe voluto urlare, gridare e
dimenarsi, piangere a dirotto. Avere dei sentimenti da riversare
sopra quell’essere che l’aveva fatta a pezzi,
invece rimaneva lì,
bloccata in un limbo in cui si era rifugiata una volta in cui aveva
fatto troppo male per respirare e non ne era più uscita. Non
avrebbe
più mostrato debolezza, né rabbia, né
odio, perché non aveva più
nulla. Solo quel vuoto in cui poteva distintamente sentire
l’eco
del suo battito cardiaco regolare.
«Andiamo,
ho visto in che bella casa vivete, sono sicuro che i soldi li hai, lo
sai che mi servono.» le si avvicinò di un passo.
Anche se era
ancora troppo lontano per sentire il suo odore riusciva ad
immaginarselo, le era rimasto impresso nella mente quel misto di
dopobarba alla menta troppo forte, alcool, sudore e fumo. Tutto
ciò
che aveva amato di suo padre era soffocato in quell’odore
nauseante, sporco.
«Anche
se li avessi non te li darei e in ogni caso non hai nessun diritto di
chiedermeli, saresti tu a dovermi dare gli alimenti.»
cercò di
imprimere il disgusto in ogni singola parola che sputò
fuori. Lui si
accigliò, come se avesse appena detto la stronzata del
secolo.
«È
stata tua madre a cacciarmi di casa, se vuoi lamentarti con qualcuno
fallo con lei.» sputò fuori pieno di risentimento.
«E
io l’ho aiutata, questo non ti da il diritto di venire a
chiederci
di saldare i tuoi debiti.»
«Tu
sei mia figlia, hai il dovere di aiutare tuo padre, ho dato tutto per
te.» si avvicinò ancora di un passo e lei dovette
farsi forza per
non indietreggiare disgustata.
«Mio
padre è morto.» ringhiò raddrizzandosi,
la sigaretta che ormai
fradicia si era spenta da tempo fra le sue dita. «Sono stata
ad
ascoltarti per dirti solo questo: osa ancora avvicinarti a casa mia,
alla mia famiglia e finirai molto peggio di come ti conceranno gli
strozzini con cui sei andato ad impantanarti quando tornerai da loro
a mani vuote.»
Dritta
davanti a lui gli arrivava a malapena alle spalle, aveva preso
l’altezza dalla madre come quasi tutti i suoi tratti e li
portava
orgogliosamente davanti a quell’uomo che aveva tentato di
distruggerli per anni.
«Non
osare parlare così a me ragazzina, sei uguale a quella
stronza di
tua madre.» ormai riusciva a sentire il suo odore per quanto
si era
avvicinato ed era come lo ricordava, notò con una smorfia di
disgusto. Quell’uomo era ciò che rimaneva
dell’uomo affogato nei
vizi che una volta era suo padre. «Tua madre mi deve quei
soldi e se
non me li darai tu, me li darà lei.»
«Io
ti ho avvertito, stalle lontano o ti ammazzo.» rispose
glaciale per
poi superarlo a passo svelto, buttando la sigaretta per terra. Non
riuscì a fare nemmeno un passo che sì senti
stringere con forza il
braccio.
«Dove
credi di andare?» la strattonò riportandola
indietro con uno sbalzo
che quasi la fece cadere. Poteva fare la dura quanto voleva, ma era
alta un metro e un tappo e pesava poco più di 50 chili, per
quanto
lui fosse magro e malmesso era sempre più forte di lei.
«Lasciami
andare.» la sua voce calma sembrava quasi surreale in quel
contesto,
la pioggia aveva smesso di cadere, ma il cielo continuava ad essere
plumbeo nascondendo la luce del sole.
«Altrimenti
cosa fai? Mi ammazzi?» scoppiò a ridere duramente
l’uomo.
Sembrava delirante.
«Mel!»
sentì urlare il proprio nome e in un attimo
l’immobilità si
spezzò, come se non fosse nemmeno lei a muovere il proprio
corpo
sfilò il braccio dalla sua presa che si era allentata quando
aveva
sentito la voce alle proprie spalle e gli sferrò un pugno
dritto sul
naso. Lui cadde come un sasso sull’asfalto alle sue spalle
visto il
suo equilibrio reso instabile dall’alcol con una mano davanti
al
viso sporca di sangue.
«Mel,
stai bene?» vide Ian correre verso di lei da dietro
l’angolo con
un’espressione sconvolta mentre sentiva la propria mano
pulsare
dolorosamente.
«Cosa
cazzo ci fai qui?» lo aggredì non appena fu al suo
fianco.
«Beth
mi ha detto che l’ha visto seguirti e sono venuto, sai
per—»
sembrava confuso, di sicuro quella non era la reazione che si era
aspettato da parte di un’ideale donzella in pericolo.
«E
hai pensato bene di venire in mio soccorso sul tuo cavallo bianco?
Spiacente, so cavarmela da sola.» ringhiò nella
sua direzione
interrompendolo. Lanciò un’ultima occhiata
all’uomo che cercava
di alzarsi da terra barcollando mentre inveiva contro di lei e poi si
allontanò a passo svelto ignorandolo, con Ian alle calcagna.
La
seguì ad un passo di distanza silenziosamente, non
protestò per la
sua accoglienza poco calorosa o le chiese spiegazioni. Semplicemente
la seguì e doveva ammettere con sé stessa che in
qualche modo la
sua presenza la tranquillizzava e irritava al tempo stesso.
Entrò
nella prima farmacia che trovò sulla strada, sempre con la
sua
scorta alle spalle e prese del ghiaccio istantaneo da uno scaffale
per poi continuare verso la cassa.
Vide
l’uomo affiancarla mettendosi in fila per quella vicina con
qualcosa in mano, forse avevano fatto solo la stessa strada e non
l’aveva seguita dopotutto. Non capiva se doveva sentirsi
delusa o
sollevata da quella conclusione.
Pagò
e uscì senza aspettarlo, dirigendosi verso casa, si sarebbe
fermata
dal primo droghiere per prendere qualcosa per il pranzo, il discount
era fuori questione.
Quando
uscì dal negozio se lo trovò lì
davanti, con una busta della
farmacia che gli pendeva dalla mano la aspettava silenziosamente. Gli
lanciò un’occhiata impenetrabile e poi
continuò per la propria
strada. Arrivata al cancellino le fu chiaro che non avrebbe mollato.
Sempre
senza dire una parola aprì il cancellino e poi la porta
dell’ingresso facendolo abbastanza lentamente da lasciargli
il
tempo di seguirla, forse voleva solo i soldi della sera prima e poi
se ne sarebbe andato.
Poggiò
la busta della spesa in cucina e si sedette su uno sgabello vicino
all’isola, lui restò immobile sulla soglia della
stanza,
fissandola silenzioso.
Nonostante
avesse voluto chiedergli dei soldi e mandarlo via le parole le si
fermarono in gola, aprì le labbra una volta e le richiuse
senza
emettere un fiato. Distolse in fretta lo sguardo e si
applicò con la
mano dolorante ad aprire la confezione che aveva preso in farmacia,
ignorandolo.
~*~
La
osservò silenziosamente mentre lo ignorava con
testardaggine. Dal
momento in cui l’aveva aggredito quando era corso in suo
soccorso
aveva capito di aver superato inavvertitamente uno delle tante linee
di confine che lei aveva tracciato.
“La
proposta è questa: quando ho bisogno— dei
tuoi servizi ti chiamo, tu rispondi e poi te ne vai.
Niente domande o
intromissioni nella mia vita privata.”
Quelle
erano state le esatte parole che aveva detto, non si atteggiava da
dura, non era una finzione perché da lui voleva che
abbattesse
quelle barriere. Quando l’aveva incontrata la prima volta
aveva
pensato che fosse pazza, completamente pazza e machiavellica. Pagare
un uomo per perdere la verginità come e quando voleva lei.
Una
maniaca del controllo calda come un ghiacciolo e anaffettiva come
solo Crudelia Demon poteva essere. E quando quella sera si era
presentato alla sua porta per compiere il suo dovere lei non aveva
fatto nulla per fargli cambiare idea.
Eppure
c’era qualcosa di più. Non poteva fare a
meno di continuare a
ripetersi quella frase nella sua testa, spuntava sempre nei momenti
più inopportuni.
Quella
convinzione forse l’aveva spinto ad andare a prendersi cura
di lei
quando era malata e chiederle di lei quando abbassava di poco la
guardia dopo il sesso. Piccole briciole, indizi su chi era davvero
eppure non la capiva ancora. Non riusciva a trovare una motivazione
perché lei si comportasse così, perché
aveva allontanato così la
propria umanità. Non poteva comportarsi così
freddamente solo con
lui, nonostante avesse notato che si era sciolta un po’
bastava un
battito di ciglia, una parola sbagliata e tornava a rifugiarsi dietro
quel muro d’acciaio che si era creata.
Quello
che aveva visto quella mattina forse spiegava qualcosa di quel suo
comportamento e lo legava ancora più strettamente a quella
ragazza
che lo usava per dimenticare, per fuggire da sé stessa.
Quello
che nascondeva con le parole e con i gesti veniva fuori mentre
facevano sesso, nel sonno agitato che la sera prima lo aveva spinto a
fermarsi a dormire e stringerla mentre tremava come una bambina,
inconsapevole.
Quello
che l’aveva spinto a seguirla a piedi lasciando
l’auto quasi
dall’altra parte della città, solo
perché pensava che potesse
avere bisogno di aiuto.
Sapeva
che lei non lo voleva lì, ma non poteva lasciarla andare.
«Lascia.»
fu la prima parola dopo un’ora di silenzio, le si
avvicinò e
poggiò la busta della farmacia che aveva ancora con
sé lì accanto,
poi le sfilò la scatola di cartone contro cui stava lottando
senza
successo. L’aprì e spaccò il ghiaccio
sintetico contro il banco
dell’isola, agitandolo e poi porgendoglielo.
Lei
incontrò il suo sguardo per un attimo e poi lo prese,
poggiandolo
sulla mano le cui nocche erano sbucciate e stavano assumendo un
colore violaceo.
«Non
devi rimanere qui.» mormorò assorta mentre si
guardava le mani. Era
interpretabile come un “Non ho bisogno di te, non ho bisogno
della
tua pietà". Nonostante questo lui scosse la testa serio.
«Non
ho nulla da fare.»
«Non
serve.» insistette alzando lo sguardo, aveva
un’espressione che
era definibile solo come vuota, sembrava
completamente
svuotata dall’astio con cui aveva affrontato
quell’uomo.
«Lo
so, ma resto comunque, mi piace darti fastidio.»
«L’avevo
notato.»
Restarono
ancora qualche istante a guardarsi negli occhi e poi lei
abbassò di
nuovo lo sguardo, persa di nuovo nei suoi pensieri. Era come se nella
sua forza sembrasse estremamente fragile. L’aveva raggiunta
di
corsa, appena in tempo per sentire le ultime frasi da dietro
l’angolo, lei sembrava cavarsela bene con quello che a quanto
pareva era suo padre e aveva deciso di rimanere lì e non
intervenire
se non in caso di bisogno. Era preoccupato per quella ragazzina alta
quanto un nano da giardino che sembrava incurante del rischio che
correva, era assurdo, ma era preoccupato.
Quando
aveva sentito la situazione degenerare non aveva potuto fare altro
che provare ad aiutarla, solo per vederla stendere lo stronzo con un
pugno.
Lo
sguardo che aveva lo aveva bloccato, sembrava come se non ci fosse
altro che odio dentro di lei. In quel momento ci aveva creduto
davvero a quella minaccia che aveva fatto all’uomo a terra,
era
perfettamente plausibile, che l’avrebbe potuto ammazzare
senza
provare nulla. Nell’istante in cui l’aveva pensato
si era dato
dell’idiota, ma quel dubbio strisciante rimaneva.
Era
finita così perché l’odio aveva
consumato tutto il resto? Era
davvero così semplice?
Rimasero
in silenzio, lei con lo sguardo basso persa nei suoi pensieri e lui
che la guardava. Sfilò dalla busta di plastica la pomata e
la garza
che aveva preso e con delicatezza le tolse il ghiaccio dalla mano.
Lei
incontrò il suo sguardo senza dire una parola e lo
lasciò fare
mentre teneva la sua mano piccola e fredda fra le sue, le applicava
l’antinfiammatorio e la fasciava.
«Non
è un po’ esagerato per un paio di
sbucciature?» aveva la voce
rauca, forse dovuta ai capelli bagnati e al lungo silenzio.
«Forse,
ma è sempre meglio esagerare che non fare
abbastanza.» scrollò le
spalle senza dire altro, continuando a tenere la sua mano fra le sue.
«Mhm.»
non disse altro, scendendo dallo sgabello lentamente e avvicinandosi
a lui mantenendo il contatto visivo e fra le mani.
Cominciò
a baciarlo e sospingerlo dolcemente verso il soggiorno, dove sapeva
che avrebbe trovato il divano e lui non poté fare a meno di
darle
ciò di cui aveva bisogno, anche se sapeva lui per primo che
non era
che un altro modo per scappare dai problemi, dalle domande, dalle
spiegazioni. Un modo per riempire il vuoto che sembrava circondarla.
Non
voleva salvarla, non sapeva nemmeno come si faceva, ed era convinto
che se una persona non vuole essere salvata non c’era nulla
da
fare, ma allo stesso tempo non poteva mollare la presa. Anche se non
se ne rendeva conto lei lo attraeva come una forza magnetica che gli
impediva di lasciarla sola a sé stessa.
Note
dell’autrice:
eccomi con un
nuovo capitolo, cerco
di
andare più alla svelta possibile con gli aggiornamento
impegni
permettendo.
Mi
farebbe davvero piacere sentire la vostra opinione a riguardo, per
come sta andando, se vi sta piacendo, se c’è
qualcosa che non
quadra o che non va secondo voi, le critiche sono sempre ben accette.
Vorrei
ringraziare chi sta leggendo fin’ora, anche silenziosamente,
per il
tempo che state dando alla mia storia e chiunque stia seguendo,
preferendo o ricordando.
With
love. :)
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Capitolo 8 *** #07 — POWDER ; Fantasmi e Orme. ***
#07
– POWDER ;
Fantasmi
e Orme.
“Questa
è la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio
non
soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia."
—John
Ruskin, “Sesamo e gigli"
Avevano
fatto sesso fino a tarda notte, con lei che gli affondava le unghie
nella schiena, lo mordeva, lo stringeva. Aveva tenuto gli occhi
chiusi per quasi tutto il tempo o aveva trovato altri modi per non
incrociare il suo sguardo che in quei rari momenti la guardava come
se potesse carpirle ogni più oscuro segreto.
L'aveva
pagato e se n'era andato senza quasi aprire bocca, era la prima volta
da che lei ricordasse in cui lui non le aveva domandato nulla. Non
che la cosa la infastidisse, quella sera l'ultima cosa che le serviva
era parlare si sé stessa.
Il
giorno dopo, l'arrivo della governante con la spesa le
ricordò
quanto fosse imminente il ritorno della sua famiglia e, di
conseguenza, la perdita di un luogo comodo per poter vedere Ian.
Di
Hotel ―che fossero a ore o costosi― non se ne parlava nemmeno,
giravano troppi coniugi infedeli della cerchia dei suoi genitori
perché non la riconoscessero, in più lei era
ancora minorenne
avrebbe rischiato in ogni caso che qualcosa andasse storto. Mentre
rifletteva sul da farsi la soluzione le si presentò davanti
agli
occhi, appesa ad un chiodo vicino allo specchio sopra il suo
comò.
Ora
non le restava che preparasi al fatto che di lì a poche ore
la casa
non sarebbe stata più vuota e silenziosa.
~*~
“Domani
sera, alle 23:30, a questo indirizzo."
Quando
gli arrivò il messaggio della ragazza per un momento
pensò che
avesse sbagliato a dargli la via, per quando ne sapeva quel quartiere
–per quanto fosse vicino al centro storico della
città in cui un
monolocale costava una fortuna– era abitato
perlopiù da immigrati
e gente con pochi mezzi. La loro città era il classico
esempio di
contrasto fra ricchezza e povertà, quei due quartieri in cui
il
panorama cambiava svoltando un angolo ancor prima che te ne
accorgersi ne era la prova.
Nonostante
questo la sera dopo si presento puntuale e suonò il
campanello che
gli era stato detto, che era l'unico con la targhetta bianca.
«Mel?»
«Ultimo
piano, l'ascensore non funziona.» gli rispose la sua voce
distorta
dal vecchio citofono gracchiante.
Era
un palazzo di quattro piani, scoprì arrivando ad un
pianerottolo che
dava su un'unica porta lasciata socchiusa
Entrò
senza bussare e la trovò seduta sul davanzale di una
finestra,
aspettava rivolta verso la porta, con le ante aperte alle spalle da
cui entrava l'aria fredda della notte.
«Non
mi sarei mai aspettato un posto del genere da te.»
esordì
chiudendosi la porta alle spalle a cui era attaccato un mazzo che
conteneva tre chiavi.
«Perchè?»
inarcò un sopracciglio la ragazza dondolando leggermente i
piedi.
«Bhe
non sembra proprio il tuo stile dopo aver visto casa tua.»
scrollò
le spalle mentre la sua voce rimbombava nella stanza vuota. C'era
solo un angolo cottura spoglio contro il muro alle sue spalle e
parecchia polvere.
«Anche
questa è casa mia.» il tono in cui lo disse, con
semplicità
disarmante uguale a quella di un bambino che pronuncia
un'ovvietà
che gli adulti si ostinano a negare lo lasciò ammutolito per
qualche
istante.
Lei
scese dal davanzale con un piccolo balzo che rimbombò fra le
mura
vuote e si diresse verso il piccolo corridoio separato da quella
stanza solo da una vecchia tenda di perline di legno
«Vieni,
non abbiamo tutto il tempo del mondo.» lui la
seguì fino a quella
che sembrava una camera da letto che sembrava l'unica stanza abitata
della casa, con un letto da una piazza e mezza rivestito con delle
lenzuola evidentemente nuove di zecca. Le buste vuote che le avevano
contenute spuntavano da un sacco nero in un angolo.
«Ci
vieni spesso qua?» non si poté trattenere da
chiederle
«No,
sono venuta qua un po' prima per sistemare.» rispose
distrattamente
mentre si sedeva sul letto un po' scricchiolante. «Ora basta
parlare.»
Con
quella frase gli fece capire che altre domande non sarebbero state
ben accette. Le si avvicinò mentre altri tasselli di lei,
nuove
sfumature gli turbinavano davanti agli occhi.
Se
all'inizio si era presentata come una ragazzina ricca e viziata ogni
cosa che scopriva di lei tendeva a cambiare quella versione
così
superficiale.
Capì
che quello che intuiva mentre facevano sesso erano solo l'eco di una
persona completamente diversa da quella che era ora, una ragazza
viva.
Che
lei era esattamente quella casa spogliata da ogni avere sulle cui
pareti rimanevano indelebili le tracce dove una volta c'erano mobili
e quadri. Tracce su cui nessuno si era dato la pena di passare una
mano di vernice nuova, come se quel l'involucro vuoto non contasse
più niente, come se, dopo tutto, andasse bene
così.
Quando
lei si accese una sigaretta guardando il soffitto silenziosa non
poté
frenarsi.
«Così
questa casa è tua?»
«In
realtà è di mia madre.» ermetica come
sempre.
«Però
ci hai vissuto anche tu?» insistette testardo come sempre.
«Sì.»
«A
vederti non sembrerebbe proprio.» gli sfilò la
sigaretta dalle mani
tentando di velare sotto il tono leggero la malinconia che percepiva.
«Vero?»
non capiva bene a cosa doveva quella nube di tristezza che lo aveva
assalito tutto d'un tratto, pensando al passato di quella ragazza che
con un'unica parola era riuscita a comunicare sentimenti
contrastanti. Quel tono stanco con cui l'aveva detto, a cavallo fra
l'ironico e il nostalgico.
~*~
Aveva
dovuto vederlo anche quella sera, anche se per poco, perché
quella
casa la soffocava, così piena di voci e rumori da essere
assordante.
Rientrando riuscì quasi a sentire il respiro della sua
famiglia
attraverso le pareti, il peso di altre vite in quella casa.
Per
sua fortuna erano arrivati sul tardo pomeriggio, devastati dal
viaggio e poco reattivi. In poco tempo la casa era tornata
silenziosa, non senza aver sentito prima i commenti di sua madre sul
fatto che la vedeva deperita e che sperava avesse fatto ciò
che
doveva dato che la scuola era vicina.
Suo
fratello era stato il primo a rinchiudersi in camera sua,
probabilmente a riguardare e sistemare le foto al computer con le
cuffie nelle orecchie.
Dopo
un'oretta si erano dileguati anche sua madre e Francesco, dopo che
avevano rischiato di addormentarsi più volte sul divano.
La
loro sola presenza sonnacchiosa sul quel divano la disturbava, si era
talmente abituata ad avere i propri spazi che ora impazziva a
dividerli con le uniche persone per cui provava ancora qualcosa di
più della pura indifferenza. Eppure era andata
all'appuntamento con
Ian, non aveva potuto fare a meno di dividere uno spazio ancora
più
angusto e intimo con lui per dimenticarsi di sé stessa per
qualche
istante in più.
Aveva
riaperto la porta a vecchi fantasmi senza ripensamenti.
Non
aveva degnato di uno sguardo le tacche sullo stipite della cameretta
in cui rimaneva spoglio lo scheletro di un letto a castello dell'IKEA
a cui era rimasto appeso un acchiappasogni spelacchiato e pieno di
polvere preso ad un Tutto a un € 1,00 anni prima. Si era
diretta
veloce alla camera da letto che una volta era dei suoi genitori, il
letto aveva le gambe tagliate perché da piccola lei aveva la
brutta
abitudine di lanciarsi per terra di faccia. Aveva sbattuto il vecchio
materasso, facendogli prendere aria e poi rivestirlo con lenzuola
nuove di zecca.
Alla
fine non le restava che aspettare, seduta sul davanzale di quella che
una volta era stata cucina, sala da pranzo e salotto senza poter fare
a meno di paragonare quell'appartamento dalle mura spoglie a
sé
stessa. Quando Ian aveva suonato aveva tentennato, quasi per paura
che fosse qualcuno delle sue vecchie conoscenze ad aver suonato
vedendola entrare. Ma se c'era una cosa in cui era brava era tagliate
i ponti senza guardarsi indietro, facendo in modo di farsi terra
bruciata dietro di sé.
Ora
che era di nuovo nel suo letto non poteva fare a meno di pensare che
forse era stata anche fin troppo brava.
Il
tempo passò anche troppo velocemente e le vacanze natalizie
finirono, con il conseguente ritorno alla normale vita scolastica per
rivedere le solite facce, alcune abbronzate nello stesso identico
modo di suo fratello a causa della neve, altre perché erano
state in
qualche isola esotica. Ognuno aveva qualcosa da raccontare, qualcosa
da dire di troppo importante per poterselo tenere per sé. In
un
attimo si ritrovò infastidita nella solita routine,
circondata dalla
solita gente.
La
prima settimana passò senza che chiamasse Ian, troppo presa
a
riprendere il ritmo sia a scuola sia a casa. Doveva riabituarsi ai
rapporti con la sua famiglia, con i compagni di classe.
Quando
arrivò il week-end non poté fare a meno di uscire
con Elisa che le
aveva chiesto se avrebbe raggiunto lei, altre sue amiche ed il
fratello ad un bar di universitari in centro. Non poteva farne a meno
perché la sua vacanza in solitudine aveva messo in allarme
la madre
che stava sempre sull'attenti, pronta a cogliere ogni segno di
malessere della figlia.
Così
si era ritrovata in un bar in cui si stava svolgendo un torneo di
birra-pong nella sala più grande, mentre nell'altra la
musica era
sparata a mille manco fosse stata una discoteca. Un miscuglio mal
riuscito fra un locale fighetto e baretto di quartiere.
Era
stata ventilata l'idea di andare ballare più tardi e si era
ritrovata a sperare ardentemente che succedesse, piuttosto che
rimanere lì con un drink in mano senza
possibilità di allontanarsi
facendo finta di capire cosa le stessero dicendo.
Il
non fare sesso da una settimana forse l'aveva inacidita più
del
dovuto, pensò mentre si defilava fuori per fumare l'ennesima
sigaretta. O forse era semplicemente il contatto umano non richiesto
a cui si sottoponeva, torturandosi da sola per amor delle apparenze.
Appoggiata
al muro, con il secondo o terzo drink annacquato in mano e i piedi
che cominciavano a protestare costretti nelle scarpe alte si mise ad
osservare i gruppi più disparati che passavano da quelle
parti. Il
centro era pieno di ragazzi: dai classici metallari, ai fattoni a
quelli che giravano abbracciati già ubriachi a
metà serata con una
bottiglia in mano cantando in coro. Quelli erano tutti di passaggio
da quella zona che costava troppo piena di figli di papà,
che la
circondavano. Lei era una di loro, anche se una volta aveva fatto
parte di quelle compagnie di sbandati ora era in un giro diverso. Uno
in cui all'erba si sostituiva la cocaina, ai jeans strappati vestiti
firmati, ai cori le chiacchiere su qualcosa di costoso appena uscito
che sarebbe stata presto loro. Quel mondo era così
perfettamente
vuoto e scintillante che sembrava esserle stato cucito addosso su
misura, rifletté schiacciando la sigaretta e rientrando,
decidendo
che sarebbe andata a fare un po' il tifo per Luigi e i suoi amici ad
uno dei tavoli.
Erano
tutti già piuttosto ubriachi, Luigi aveva una cravatta
legata
attorno alla fronte che non aveva idea da dove fosse spuntata fuori e
si preparava ad un lancio, concentrato al massimo delle sue
capacità.
Quando
centrò per miracolo il bicchiere degli avversari era
più incredulo
lui dei suoi amici che gli saltarono addosso esaltati.
«Hey
Amelia, sei te che mi hai portato fortuna?» le si
lanciò incontro
appena la vide, mettendole un braccio attorno alle spalle.
«Non
sei il primo a dirmelo.» fece un mezzo sorriso.
«Bene,
allora prenditi una sedia e resta qua, o mia dea della
fortuna!»
fece un piccolo inchino dimostrandosi molto più sobrio di
quanto
sembrasse.
Prese una sedia che le era stata passata da un altro ragazzo e si
sedette vicino a loro. Solo in quel momento posò lo sguardo
sugli
sfidanti trovandosi davanti quegli occhi blu che sfavillavano
divertiti. Si bloccò all'istante, senza avere né
il coraggio né la
voglia di spezzare il contatto visivo. Non aveva nemmeno guardato con
chi era, cosa stava facendo, era semplicemente stata pietrificata da
quello sguardo blu così fuori luogo quando lei era in quelle
vesti e
lui nella sua vita normale. Lui ammiccò nella sua direzione
con un
sorrisino poi venne distratto da un ragazzo poco più alto di
lui e
con molta massa muscolare che gli posò una mano sulla spalla
facendolo voltare dopo aver indugiato ancora una frazione di secondo
nella sua direzione
La
perdita di contatto visivo la fece riavere e cercò di
lasciarsi
coinvolgere quanto possibile dalla conversazione dei ragazzi,
lanciando qualche occhiata ogni tanto dall'altro capo del tavolo
quando pensava di non essere vista.
Non
l'avrebbe mai ammesso, ma era curiosa. Curiosa di come trascorresse
le sue serate quando non lavorava, chi frequentasse, chi fosse lui.
Rideva
e scherzava allegramente con i suoi coetanei, beveva quando gli
toccava. Era normale, un normale ragazzo in un normale sabato sera.
Non capiva perché, ma quella cosa la infastidiva parecchio.
Era come
se la sottile connessione che non sapeva nemmeno di sentire con lui
si fosse spezzata.
Si
alzò di colpo e senza dire nulla a nessuno uscì
di nuovo a fumare.
La porta si aprì e si richiuse poco dopo che lei aveva
acceso la
Lucky Strike.
«Sai
che se continui a fumare così tanto morirai a
trent'anni?» la sua
voce familiare era così fuori contesto.
«Amen.»
rispose dura lanciandogli un'occhiata scocciata.
«Guarda
che non ti sto stalkerando, il torneo di birra-pong attira parecchia
gente.» le si parò davanti con disinvoltura. I
vestiti erano gli
stessi, i capelli spettinati, il viso, gli occhi brillanti—
ma
tutti nel contesto sbagliato. Non aveva mai notato quanta vita
sgorgasse fuori da lui, quanta luce. Era lo stesso di sempre, ma era
come se lo vedesse per la prima volta. Così diverso da lei
da
irritarla
«Infatti
non l'ho pensato nemmeno per un istante.» non
riuscì a nascondere
l'irritazione.
«Mhm,
sarà.. » inarcò un sopracciglio mentre
la studiava per qualche
istante. «Allora anche tu hai degli amici, se me l'avessero
detto
non ci avrei mai creduto.»
«E
infatti avresti fatto bene, sono solo dei conoscenti.» fece
un lungo
tiro dalla sigaretta fissandolo di rimando.
«Allora
sei fredda ed insensibile indiscriminatamente. Poveri loro, sono
sicuro che pensino di aver creato un legame.» sorrise
divertito.
«Io
sono sempre io e nessuno gli ha detto di pensarlo.
«Mi
correggo, stasera sei più gelida del solito.»
«Non
so di che parli.»
«Invece
io penso di sì» continuava a sorridere come se
niente fosse,
guardandola come se capisse tutto di lei. Gettò la sigaretta
fumata
per metà per terra con un po' troppa energia fulminandolo
con lo
sguardo.
«Tu
pensi un po' troppo.» e con questo rientrò con
passo deciso nel
locale.
Lui
la seguì come se niente fosse e raggiunse i suoi amici, un
tizio
muscoloso lo avvicinò dopo averle lanciato un'occhiata
interessata e
si mise a discutere con lui. Vide Ian scuotere la testa con un mezzo
sorriso che sembrava un po' mesto.
Quando
raggiunse Luigi e i suoi amici ne vide uno quasi collassato su una
sedia.
«Ne
avete perso uno vedo.» commentò non appena fu
abbastanza vicina da
essere sentita.
«Amy,
dov'eri sparita?» le buttò un braccio attorno alle
spalle Luigi
vistosamente brillo. «Comunque sì, credo che Gio
sia
definitivamente KO. »
«A
fumare.» indicò con il pollice l’uscita
alle sue spalle. Lanciò
un'occhiata all'altro capo del tavolo dove i ragazzi ridevano e Ian
le lanciava qualche occhiata sottecchi studiandola. «Vi serve
un
cambio?» la proposta le scivolò fuori dalle labbra
in un attimo,
mentre non staccava gli occhi dal moro.
«Davvero?
Non ti facevo una tipa da giochi!» le sorrise il ragazzo.
«Non
lo sono infatti, arrivo subito.» rispose facendo una smorfia
per poi
scrollarselo di dosso ed andare a convincere l'arbitro che la sua
entrata poco lecita in realtà lo era eccome.
Un
attimo dopo aveva tirato su le maniche della giacca di pelle e si era
appropriata di una pallina.
Si
alzò qualche protesta dal gruppo di Ian quando la videro
pronta a
lanciare.
«Andiamo,
se la principessina vuole giocare perché
impedirglielo?» intervenne
Ian lanciandole una strana occhiata.
«Perchè
devi distruggere i miei sogni per farti bello?»
protestò il
ragazzone.
«Non
l'ho detto per fare colpo, non ne ho bisogno. E poi il tuo sogno
è
davvero una fornitura di birra per un anno?»
Amelia
si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo spazientita. Certo
che non
doveva fare colpo, lo pagava già per farci sesso.
«Non
faresti colpo comunque, ora possiamo iniziare?»
sentì i ragazzi
alle sue spalle ridacchiare e Luigi esclamare sonoramente un
apprezzamento che ignorò bellamente, intenta a fissare il
moro con
sfida.
«Se
hai tanta fretta di perdere..» lasciò in sospeso
la frase l'amico
di Ian che non degnò nemmeno di una risposta lanciando con
quanta
più sicurezza potesse ostentare. Non aveva mai avuto una
particolare
mira, quindi era tutta una questione di culo e del tasso alcolico nel
suo sangue decisamente più basso degli altri partecipanti.
No, okay,
era solo questione di culo, pensò quando vide la pallina di
plastica
centrare il bicchiere. Si sentì pervadere dalla
soddisfazione mentre
Ian non distoglieva lo sguardo da lei bevendo.
Luigi
la prese da dietro abbracciandola e sollevandola esuberante facendola
irrigidire come un pezzo di legno. Non aveva il permesso di toccarla,
non doveva, non poteva. Si vide quasi specchiata negli occhi blu
nella penombra che la osservavano infastiditi. In un attimo riprese
il controllo di sé e con qualche colpetto alle braccia
abbronzate
che le circondavano la vita e un sorrisetto falsissimo lo
incitò a
metterla giù.
Continuarono
fino a mezzanotte e mezza, quando la partita si concluse a favore
degli avversari. Chi non era crollato era piacevolmente ubriaco o
brillo, ma era impossibile trovarne uno sano. Le ragazze erano venute
a fare il tifo poco dopo che lei aveva iniziato e ora si mettevano
d'accordo coi ragazzi su quale discoteca sarebbe stata la loro
successiva destinazione.
In
quanto a lei era più occupata a lanciarsi occhiate con Ian,
come
avevano fatto per tutto il tempo, studiandosi, sfidandosi in
continuazione. La tensione sessuale era palpabile e lei era
abbastanza brilla per accettarlo.
Si
allontanò di poco e scrisse un breve messaggio, poi
sollevò lo
sguardo dallo schermo trovando il suo, accompagnato da un ghignetto
mentre tirava fuori il cellulare dalla tasca il cellulare, sbloccava
lo schermo e poi lo sollevava sventolandolo come una prova che la
inchiodava. Poi annuì e basta.
Quello
bastò per farla ritornare alla sua compagnia e avvertire che
sarebbe
tornata con un taxi a casa prima. Quando uscì facendo finta
di
chiamarlo lui la raggiunse.
«Andiamo
assieme, la mia macchina è di qua.»
l'affiancò poggiandole una
mano sulla schiena senza nemmeno fermarsi. Lei si lasciò
guidare,
comprendeva la sua fretta, era meglio che non li vedessero lasciare
il bar assieme, un conto era che lo immaginassero, un conto era che
li vedessero. Non sapeva quanto del suo lavoro sapessero i suoi amici
e un po' era curiosa, a dire il vero, di che cosa dicesse in giro.
Cosa sapessero di quel lato di lui che conosceva così bene.
Anche
se, a dire il vero, agli occhi degli spettatori di quella sera
sarebbero sembrati semplicemente due ragazzi che si erano incontrati
in un bar e dopo qualche birra lo avevano lasciato assieme.
Due
ragazzi normali, che facevano qualcosa di assolutamente normale.
Dopo
pochi minuti in assoluto silenzio arrivarono alla macchina. Vide le
luci dei fari sfarfallare stava per aprire la portiera quando si
sentì prendere e spingere contro l'auto. Gli occhi blu
sembravano
quasi neri nella luce opaca dei lampioni, le pupille così
dilatate
da sembrare un gatto.
Rimase
a qualche centimetro dalle sue labbra per una frazione di secondo,
per poi attaccarle con violenza, mordendola mentre con le mani
scorreva lungo i suoi fianchi alzandole il vestito di velluto corto
che la fasciava. Di rimando lei non si accorse nemmeno di come fosse
finita ad alzare la gamba destra per incastrarla con la sua. Quella
passione che era scoppiata tutto d'un tratto la travolse scuotendo
ogni sua terminazione nervosa, l'approccio di lui, i brividi non
più
dovuti alla fredda notte di Gennaio, ma al suo calore che la
soffocava mentre lasciava una scia di baci e morsi umidi sulla sua
giugulare.
«Fermati.»
gli sospirò in un orecchio affondandogli le unghie nella
spalla per
recuperare la concentrazione.
«Cosa?»
il tono perplesso la fece sorridere, sembrava la desiderasse davvero,
a prescindere dai soldi, da tutto.
«La
casa―» riprese fiato, « è qua dietro, ci
arriviamo a piedi.» si
spiegò guardandolo finalmente di nuovo negli occhi.
«Oh,
vero.»
«Andiamo.»
lo spostò con delicatezza sistemandosi il vestito e
cominciando a
camminare. Nonostante da lì la strada sarebbe stata
brevissima, loro
la allungarono di parecchio, perché si fermavano quasi ad
ogni
parete incapaci di trattenersi. Probabilmente era la settimana di
astinenza per lei, l'alcol per lui, ma quando arrivarono finalmente
alla casa consumarono il primo amplesso contro la porta d'entrata che
avevano sbattuto con violenza dietro di loro. Sembravano divorati da
una febbre incontenibile, mentre ancora per metà vestiti
riprendevano fiato l'uno contro l'altro.
Sul
letto si presero il loro tempo, assaporando ogni istante, ma
spogliandosi con frenesia.
Solo
quando sentiva la sua pelle contro la propria, le sue mani che la
veneravano in una danza che uomini e donne fin dalla notte dei tempi,
smetteva di sentirsi un ammasso di effetti collaterali e macerie, ma
solo una ragazza. Anzi, una donna.
Smetteva
di fingere, fingere che le importasse di qualcosa
La
paura di essere feriti lentamente si era trasformata nel terrore di
poter fare altrettanto male a chi provava ad amarla. E,
così,
lentamente era rimasta sempre più sola a lottare contro i
suoi
demoni. A guardare sé stessa, distruggersi pezzo dopo pezzo
senza
intervenire, come se fosse stata solo una spettatrice disinteressata.
Impotente.
E
in realtà lo era, perché non le importava,
perché sapeva che
quello era l'unico modo, l'unico per smettere di soffrire. Smettere
di esistere era la strada più facile e lei l'aveva percorsa
senza
indugi.
Sola.
Indifferente.
Con
lui poteva non preoccuparsi dei suoi cari, di ciò che doveva
dire e
fare per sembrare una normale liceale. Che poi, chi
aveva
scritto i parametri di quella normalità che tutti cercavano
e che i
pochi che la provavano disprezzavano?
«A
cosa pensi?»
Il
fumo della sigaretta lentamente saliva formando una colonna
traslucida.
«Alla
normalità.»
«Tu?»
«Strano
vero?»
«...»
«...»
«Penso
che la normalità sia sopravvalutata.»
«Sai—
anche io.»
Dissero
la volpi all'uva.
note dell'autrice hey!
Lo so che sono passati mesi (?), ma sono successe molte cose
che hanno ritardato la stesura della storia, anche se questo capitolo
in realtà era pronto da un bel po'.
La storia in realtà è in continua
evoluzione e revisione, quindi ogni critica è ben accetta,
anzi, quasi necessaria per rendere possibile la sua crescita e
formazione.
Sono sempre stata una scrittrice incostante quindi vedere che certe
persone anche da delle mie vecchie storie ricapitano qui mi fa
enormemente piacere.
with love. :)
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